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In questa home-page sono presenti oltre
all'ultimo aggiornamento, che inizia appena
qui sotto, anche i seguenti aggiornamenti
pregressi:
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AGGIORNAMENTO AL 30.04.2022 (ore 23,59) |
Procedimenti amministrativi:
sull'incompatibilità del funzionario istruttore e sul dovere, o
meno, di astensione. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
Consiglio di Stato disegna il profilo del funzionario in «conflitto
d'interessi».
Nel quadro normativo del nostro Paese non esiste una definizione univoca di
conflitto d'interessi del pubblico funzionario. I profili di tale condizione
si trovano per così dire allo "stato diffuso" in varie leggi e disposizioni
di settore; e ciò determina non di rado l'insorgenza di zone d'ombra,
incertezze operative, e persino irrazionali rallentamenti dei procedimenti
amministrativi.
Con la
sentenza 22.03.2022 n. 2069, il Consiglio di Stato -Sez. VI- ha
declinato questa definizione generale. E lo ha fatto rievocando le norme
operative di riferimento più calzanti. Per il massimo giudice amministrativo
tale anomalia si verifica quando lo svolgimento di una attività sia
assegnata a chi affidatario della cura dell'interesse generale sia titolare
nella vicenda anche di interessi personali, con conseguente "riduzione"
del soddisfacimento dell'interesse pubblico. In tale evenienza il
funzionario deve astenersi da pratiche e incartamenti, e informare al più
presto della situazione i propri superiori gerarchici.
La legge sul procedimento amministrativo del '90 prevede che il responsabile
del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri,
le valutazioni tecniche, gli atti e il provvedimento finale devono astenersi
in caso di conflitto di interessi anche se solo potenziale. Questa regola è
espressione del principio costituzionale di imparzialità della Pa il quale
impone che le scelte adottate dall'organo vanno compiute nel rispetto della
regola della "equidistanza" da tutti coloro che vengano a contatto
con il potere pubblico.
Ulteriori lineamenti del divieto in parola sono contenuti nel Codice di
comportamento dei dipendenti pubblici del 2013 secondo il quale il
dipendente deve astenersi dal partecipare alla adozione di decisioni o
attività che possano coinvolgere interessi propri, di suoi parenti, del
coniuge ovvero di soggetti con cui sia in una situazione di «grave
inimicizia».
Alla medesima esigenza di equidistanza si ispira la disciplina relativa alle
incompatibilità presente nel Testo unico del 2001 sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche; nonché quella del
2013 in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico.
Altra importante disciplina di settore è contenuta nel Codice del 2016 in
materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici.
Secondo il massimo giudice amministrativo, dalla lettura d'insieme della
richiamata normativa va dedotto univocamente che la mancata astensione del
funzionario pubblico in condizioni di conflitto d'interessi comporta una
illegittimità procedimentale che ricade sulla stessa validità dell'atto
finale della pubblica amministrazione. Ciò a meno che non venga
scrupolosamente dimostrato che la situazione d'incompatibilità del
funzionario non ha in alcun modo influenzato il contenuto del provvedimento
deviandolo dalla sua meta: l'interesse pubblico
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.04.2022).
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SENTENZA
5.‒ Il motivo di appello incentrato sulla situazione di asserita
incompatibilità, nella quale avrebbe operato la dottoressa Ma.Gi., è
destituito di fondamento.
5.1.‒ L’art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «il
responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad
adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi,
segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
Tale regola è espressione del principio generale di imparzialità di cui
all’art. 97 Cost., il quale impone che «le scelte adottate dall’organo
devono essere compiute nel rispetto della regola dell’equidistanza da tutti
coloro che vengano a contatto con il potere pubblico» (cfr. Consiglio di
Stato, comm. spec., n. 667 del 2019, sullo schema di Linee guida ANAC in
materia di conflitti di interesse nell'affidamento dei contratti pubblici).
Una declinazione del principio è contenuta anche nell’art. 7 del decreto del
Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 (Regolamento recante codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165), il quale prevede che: «il dipendente si
astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano
coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il
secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali
abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od
organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave
inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti
od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero
di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o
stabilimenti di cui sia amministratore o gerente».
Alla medesima esigenza si ispira la disciplina relativa alle incompatibilità
nell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche
(art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché il
d.lgs. n. 39 del 2013, in
materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico).
Una specifica disciplina è prevista, in materia di procedure di affidamento
dei contratti pubblici, dall’art. 42 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Per quanto non esista, all’interno del quadro normativo appena richiamato,
una definizione univoca che preveda analiticamente tutte le ipotesi e gli
elementi costitutivi di tale fattispecie, il conflitto di interessi può
definirsi quella condizione giuridica che si verifica quando, all’interno di
una pubblica amministrazione, lo svolgimento di una determinata attività sia
affidato ad un funzionario che ha contestualmente titolare di interessi
personali o di terzi, la cui eventuale soddisfazione implichi
necessariamente una riduzione del soddisfacimento dell’interesse
funzionalizzato. Operare in conflitto di interessi significa agire
nonostante sussista una situazione del genere e, quindi, sorge l’obbligo del
dipendente di informare l'Amministrazione e di astenersi.
La mancata astensione del funzionario comporta una illegittimità
procedimentale che refluisce sulla validità dell’atto finale, a meno che non
venga rigorosamente dimostrato (dall’Amministrazione procedente) che la
situazione d’incompatibilità del funzionario non ha in alcun modo
influenzato il contenuto del provvedimento facendolo divergere con il fine
di interesse pubblico.
5.2.‒ Nel caso in esame, non è emerso che la dottoressa Gi. fosse portatrice
di un interesse personale confliggente con quello all’imparziale
finanziamento delle iniziative culturali sul territorio.
In primo luogo, dalla carica di membro del Comitato culturale
dell’Associazione Te.Cr., la dottoressa si è dimessa in data 13.06.2019,
prima quindi della presentazione in data 27.09.2019 delle due domande di
contributo straordinario oggetto del presente ricorso.
Il Comitato culturale di cui si parla, peraltro, è un organo meramente
consultivo del Consiglio Direttivo dell’Associazione Te.Cr. che fornisce
pareri in merito alla qualità della proposta artistica e dove i componenti
non percepiscono nessuna indennità o emolumento di altro genere.
Sotto altro profilo, dalla documentazione prodotta in giudizio si ricava che
la dottoressa Gi. non era il titolare dell’organo competente a decidere
sull’ammissione dei contributi, spettando tale attribuzione al Direttore di
Ripartizione provinciale Cultura italiana (la dottoressa Ma.Gi. rilasciava
invece il visto, ai sensi dell’art. 13 della legge della Provincia di
Bolzano n. 17 del 1993, sulla responsabilità tecnica, amministrativa e
contabile).
Va pure rimarcato che, in ordine ad analoghe accuse sollevate in sede
penale, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bolzano, con
provvedimento del 15.03.2021, ha accolto la richiesta di archiviazione
avanzata dal pubblico ministero.
L’ulteriore affermazione, secondo cui la dottoressa Gi. avrebbe ricevuto
negli anni abbonamenti gratuiti a tutta la programmazione del Te.Cr., è
rimasta poi sfornita di qualsivoglia riscontro. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: L’art.
6-bis l. 241/1990 (peraltro ratione temporis
inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal 28.12.2012) impone al
responsabile del procedimento ed ai titolari degli uffici competenti ad
adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale, il dovere di astensione nel caso di conflitto di
interessi.
La predetta situazione di conflitto di interessi viene intesa dalla
giurisprudenza come coincidente con le ipotesi di incompatibilità di cui
all’art.
51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla
Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 11.01.1999, n.
8).
Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in capo al
preposto all’organo il dovere di astensione, l’art.
51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”: sennonché,
per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave inimicizia”,
rilevante ai sensi dell’art.
51 c.p.c., presuppone la reciprocità, inoltre deve trovare fondamento
solo in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità.
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o
di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale
possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”,
dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali; né la
presentazione di una denuncia è idonea a creare una situazione di causa
pendente, attesa la natura oggettiva della giurisdizione penale.
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8.4. In merito, poi, alla pretesa che il menzionato Comandante
interregionale si astenesse, in quanto in situazione di conflitto di
interessi e difetto di terzietà, perché sottoposto a due procedimenti penali
avviati su impulso dell’odierno appellato, osserva il Collegio che la
censura non trova conforto negli atti di causa.
8.4.1. L’art.
6-bis l. 241/1990 (peraltro
ratione temporis inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal
28.12.2012) impone al responsabile del procedimento ed ai titolari degli
uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti
endoprocedimentali e il provvedimento finale, il dovere di astensione nel
caso di conflitto di interessi. La predetta situazione di conflitto di
interessi viene intesa dalla giurisprudenza (cfr. TAR Calabria, Catanzaro,
Sez. II, 09.06.2021, n. 1152) come coincidente con le ipotesi di
incompatibilità di cui all’art.
51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla
Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI,
11.01.1999, n. 8).
8.4.2. Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in
capo al preposto all’organo il dovere di astensione, l’art.
51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”:
sennonché, per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave
inimicizia”, rilevante ai sensi dell’art.
51 c.p.c., presuppone la reciprocità (cfr., ex multis, Cass. civ.,
Sez. II, 31.10.2018, n. 27923; C.d.S., Sez. V, 20.12.2018, n. 7170; Sez. III,
02.04.2014, n. 1577), inoltre deve trovare fondamento solo in rapporti
personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di
conflittualità (v. C.d.S., Sez. V, n. 7170/2018, cit., e Sez. III, n.
1577/2014, cit.).
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o
di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale
possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”,
dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cass. civ., Sez.
III, 13.04.2005, n. 7683); né la presentazione di una denuncia è idonea a
creare una situazione di causa pendente, attesa la natura oggettiva della
giurisdizione penale (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, n. 1152/2021, cit.) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 31.01.2022 n. 667 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Osserva
il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica natura
tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove non
ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore.
Nel caso di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale
difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti
pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata
dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che
consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di
avviso dedotto.
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Nel caso di specie, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave
inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici.
Pur prescindendo
dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di
incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali”
e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte
istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti
pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie
giurisdizionali”.
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H. Sull’incompatibilità dei funzionari (primo motivo del
ricorso introduttivo).
15. Prendendo l’abbrivo dal primo motivo si rammenta che, con esso, i
ricorrenti deducono l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in ragione
della pendenza di un giudizio avanti il Tribunale civile di Pavia tra la
società Es. e taluni amministratori e funzionari comunali, tra cui anche il
responsabile del procedimento e il dirigente dell’ufficio tecnico comunale.
Tale giudizio ha ad oggetto una domanda di risarcimento del danno
personalmente diretta ai funzionari e agli amministratori per il diniego di
approvazione di una precedente istanza di piano attuativo proposta dalla
società Es. sulle medesime aree oggetto del presente giudizio. Gli atti
impugnati sarebbero, quindi, emessi in violazione degli obblighi di
astensione gravanti sui funzionari pubblici.
15.1. Osserva il Collegio che il giudizio al quale fanno riferimento i
ricorrenti termina in data anteriore alla presentazione dell’istanza. La
sentenza del Tribunale ordinario di Pavia n. 860/2019 è pubblicata in data
16.05.2019 e notificata nella stessa data (doc. n. 24 dell’Amministrazione
comunale). La sentenza transita in rem iudicatam in data 15.06.2019,
e, quindi, prima della presentazione dell’istanza di piano attuativo di
Es., depositata in data 08.07.2019. Pertanto, al momento di approvazione
del Piano la causa di incompatibilità consistente nella pendenza di una lite
non sussiste.
15.2. I ricorrenti evidenziano, tuttavia, come i due funzionari comunali
coinvolti nel giudizio civile redigano un parere preliminare in data
21.12.2018 e che tale parere abbia contenuto difforme dalla posizione
assunta nel 2013 e nel 2014 (f. 24 della memoria di merito dei ricorrenti).
15.3. Osserva il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica
natura tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove
non ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore. Nel caso
di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale
difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti
pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata
dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che
consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di
avviso dedotto.
15.4. Inoltre, il parere del 21.12.2018 ha effettivamente carattere
preliminare e, come tale, non solo non impegna l’Ente ma neppure costituisce
il punto di riferimento istruttorio dei provvedimenti adottati. Infatti, il
parere è reso in relazione alla “documentazione presentata in data
24.09.2018, prot. 44078”, e, quindi, su una rappresentazione ancora
astratta dell’ipotesi progettuale che si sostanzia nella successiva istanza.
15.4.1. Lo confermano le risposte ai vari quesiti all’attenzione
dell’Ufficio.
15.4.2. In relazione al tema della realizzazione delle strutture di vendita
il parere conclude: “la proposta di realizzare 13 medie strutture di
vendita è ammissibile, sempre che la stessa trovi fondamento, circostanza da
dimostrare nel corso del procedimento di approvazione del piano sia con
elaborati grafici che descrittivi, nell’attuazione dell’obiettivo affidato
all’ambito di trasformazione, quello cioè di realizzare una città mista,
attraverso uno sviluppo rispettoso dei principi di tutela e di
valorizzazione della salute e dell’ambiente”. Il parere ha, quindi, un
esito istruttorio rinviando alle evidenze da acquisire nel procedimento di
approvazione del Piano.
15.4.3. In relazione al tema della “autonomia realizzativa e gestionale
delle medesime medie strutture di vendita” il parere conclude: “il
progetto di piano attuativo che sarà sviluppato dovrà dare piena e concreta
dimostrazione di quanto rappresentato nella documentazione in esame, anche
per la dimostrazione degli indici e grandezze urbanistiche, nonché
dell’indipendenza delle superfici fondiarie e permeabili”. Anche in tal
caso vi è, quindi, un rinvio alla necessità di una piena e concreta
dimostrazione di quanto rappresentato nell’ambito dello specifico
procedimento di approvazione del Piano.
15.4.4. In relazione al tema del “rispetto del principio di contestualità
dei procedimenti urbanistico, edilizi e commerciali” il parere chiarisce che
“l’istruttoria della richiesta di autorizzazione commerciale verrà sospesa
sino alla conclusione del procedimento di adozione/approvazione del piano attuativo, il rilascio dell’autorizzazione potrà avvenire successivamente
all’approvazione e/o stipula della convenzione urbanistica”. Il parere ha,
quindi, contenuto meramente esplicativo della normativa di riferimento.
15.4.5. In relazione al tema del “rilascio di autorizzazioni commerciali
intestate a Es. srl in qualità di proprietario degli immobili o suo
eventuale avente titolo” il parere, dopo aver chiarito la normativa di
riferimento, espone alcuni aspetti di carattere propriamente urbanistico da
approfondire nell’apposito procedimento.
15.5. E’, inoltre, indimostrata la tesi secondo la quale il parere
definirebbe la fase istruttoria atteso che il provvedimento impugnato fa
espresso riferimento non a tale parere ma alla diversa “relazione”
redatta dall’Ufficio e, quindi, ad un atto istruttorio formatosi nel
procedimento e in relazione allo specifico progetto concretamente presentato
dopo il parere preliminare. Né tale conclusione è suscettibile di smentita
in quanto “il parere 21.12.2018 del resto già indica il contenuto del Pa
quanto a dimostrazione delle superfici, dell’autonomia e via dicendo”
(f. 25 della memoria difensiva dei ricorrenti). Infatti, il parere non è,
comunque, sostitutivo dell’istruttoria ed è espresso su uno scenario
progettuale la cui conferma nell’apposita istanza non è circostanza che muta
la natura preliminare del parere.
15.6. In ultimo, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave
inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici. Pur prescindendo
dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di
incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali” (Cassazione civile, Sez. II, 31.10.2018 n. 27923)
e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte
istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti
pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie
giurisdizionali” (Consiglio di Stato, Sez. V, 20.12.2018, n. 7170).
15.7. In definitiva il primo motivo di ricorso è infondato e deve,
pertanto, respingersi (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 19.11.2021 n. 2570 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La
giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della configurabilità
dell'obbligo di astensione (art.
51, n. 3, c.p.c.) in sede disciplinare per "grave inimicizia” richiede,
oltre la reciprocità, la riferibilità a ragioni private di rancore o di
avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali.
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6.- Non miglior sorte merita il terzo motivo di gravame.
A prescindere da ogni altra considerazione il semplice alterco intervenuto
tra il ricorrente ed il Comandante di Stazione non appare sufficiente a
giustificare la sussistenza a carico di quest’ultimo di un obbligo di
astensione, essendo pressoché fisiologica all’interno di ogni ambiente
lavorativo l’insorgenza di contrasti verbali tra il personale in merito
all’organizzazione ed all’adempimento degli obblighi lavorativi, senza che
ciò comporti una “grave inimicizia” tale ai sensi dell’art.
51, n. 3, c.p.c. da imporre
l’astensione del superiore gerarchico.
Infatti la giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della
configurabilità del predetto obbligo di astensione (art.
51, n. 3, c.p.c.) in sede
disciplinare per "grave inimicizia” richiede, oltre la reciprocità,
la riferibilità a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cassazione civile
sez. II, 31.10.2018, n. 27923; id. n. 7683/2005) circostanza non rinvenibile
nel caso di specie (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 19.11.2021 n. 948 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La
presentazione di denunce, come anche le pubbliche accuse di scorretta
amministrazione dell’urbanistica comunale, non possono essere considerate
motivo di astensione obbligatoria del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai
sensi dell’art.
6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art.
51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di
conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa
di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa
pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave
inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in
rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità.
---------------
(III) Con il terzo motivo, i ricorrenti hanno dedotto che il
responsabile del procedimento avrebbe dovuto astenersi per incompatibilità
(art. 6-bis l. 241/1990), in quanto destinatario –assieme ad altri
funzionari del Comune– di una serie di denunce penali presentate da Il.Ma.
nel 2020 nonché di pubbliche lamentele effettuate da quest’ultimo in ordine
all’illegittimità di alcune lottizzazioni.
...
6. Nel merito, deve essere dapprima analizzato il terzo motivo di
ricorso, stante la riconducibilità dell’incompatibilità del funzionario al
vizio d’incompetenza. La fondatezza di tale motivo inibirebbe la valutazione
delle restanti censure sostanziali, essendo impedito al giudice di
pronunciarsi su poteri non ancora esercitati (art. 34, comma 2, cod. proc.
amm.), tali dovendosi considerare le valutazioni di spettanza dell’organo
competente cui il procedimento dovrebbe essere assegnato in caso di
annullamento dell’atto per incompetenza (per tutte, Cons. Stato, Ad. Plen.,
27.04.2015, n. 5).
La relativa doglianza è infondata, giacché la presentazione di denunce, come
anche le pubbliche accuse di scorretta amministrazione dell’urbanistica
comunale, non possono essere considerate motivo di astensione obbligatoria
del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai
sensi dell’art.
6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art.
51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di
conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa
di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa
pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave
inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in
rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 02.04.2014, n.
1577; TAR Ancona, Sez. I, 26.03.2019, n. 175) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 09.06.2021 n. 1152 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Nella
specie non è configurabile l’ipotesi della «grave inimicizia» dei due
componenti del collegio giudicante nei confronti del menzionato difensore,
dovendo questa essere reciproca sicché non è sufficiente ad integrarla la
mera presentazione di una denuncia o, comunque, di un atto di impulso idoneo
a dare inizio ad un procedimento giudiziale o disciplinare, ma la grave
inimicizia deve ricondursi a ragioni private di rancore o di avversione
sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali e alla
realtà processuale, con l’indicazione di correlativi fatti circostanziati,
concreti e specifici.
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Ebbene, premesso che s’intendono qui richiamate, per ragioni di sinteticità
imposte dall’art. 3 cod. proc. amm., le esposizioni in fatto contenute a pp.
3-9 nella menzionata ordinanza n. 245/2019 del TRGA, reiettiva dell’istanza
di ricusazione, si rileva che il TRGA, nel respingere l’istanza –fondata
sulle ipotesi di «causa pendente» e di «grave inimicizia» tra
due dei magistrati componenti il collegio e uno dei difensori dei
ricorrenti, ai sensi degli artt. 18, comma 1, cod. proc., amm. e 51, comma
1, numero 3), cod. proc. civ.–, ha fatto corretta applicazione dei principi
giurisprudenziali elaborati da questo Consiglio di Stato in tema di
ricusazione, in quanto:
- l’ipotesi della «causa pendente», con riferimento al
processo penale, in applicazione del criterio interpretativo restrittivo e
tassativo sopra enunciato, deve ritenersi integrata soltanto con l’esercizio
dell’azione penale ai sensi degli artt. 60 e 405 cod. proc. pen.;
- infatti, la pendenza del giudizio penale presuppone la richiesta
del pubblico ministero di rinvio a giudizio a norma dell’art. 416 cod. proc.
pen. e con gli altri atti con i quali si chiede al giudice di decidere sulla
pretesa punitiva (v., ex plurimis –seppur con riferimento ed
fattispecie diverse dalla ricusazione–, Cons. Stato, Sez. VI, 13.03.2019, n.
1666; Cons. Stato, Sez. III, 22.01.2016, n. 206);
- nel caso di specie il procedimento penale iscritto sub R.G.N.R.
n. 813/2018 dinanzi al Tribunale di Bolzano, Sezione penale, a carico del
difensore degli originari ricorrenti su denuncia dei giudici ricusati
–peraltro, per ragioni che trovano la loro origine in un precedente processo
svoltosi dinanzi allo stesso TRGA, e quindi attinenti all’esercizio di
attività istituzionali–, non può essere considerato alla stregua di «causa
pendente» ai fini di cui al citato art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc.
civ., poiché tale procedimento all’epoca della decisione di primo grado si
trovava nella fase di opposizione alla richiesta di archiviazione ai sensi
dell’art. 409 e ss. cod. proc. pen., formulata dai due magistrati ricusati,
e l’azione penale non risultava ancora esercitata dal pubblico ministero ai
sensi degli artt. 50 e 60 cod. proc. pen. (v., sul punto, Cons. Stato, Sez.
IV, 19.06.2003, n. 3658, secondo cui l’opposizione al decreto che abbia
disposto l’archiviazione dell’esposto penale, ai sensi del combinato
disposto degli artt. 50, comma 1, 405, comma 1, e 409, comma 5, cod. proc.
pen., non integra l’avvenuto esercizio dell’azione penale ed inibisce, di
conseguenza, che si configuri il presupposto della «causa pendente»
ex art. 51 cod. proc. civ., da intendere in senso tecnico-giuridico);
- anticipare la ‘soglia’ dei procedimenti penali, ai fini di
cui all’art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc. civ., alla fase anteriore
all’esercizio dell’azione penale, comporterebbe, per un verso, il
pericolo di impedire e/o aggravare l’esercizio, da parte dell’organo
giudicante e/o dei suoi componenti, dei doveri istituzionali di presentare
rapporti o esposti ai competenti organi sia giurisdizionali (quali le
Procure presso i Tribunali o la Corte dei conti) sia disciplinari (quali i
Consigli degli ordini professionali), e, per altro verso, il rischio
di una possibile strumentalizzazione delle denunzie o degli esposti ad opera
delle parti private in funzione della creazione di situazioni di
incompatibilità per eludere il principio della precostituzione del giudice
naturale sancito dall’art. 25 Cost.;
- né nella specie è configurabile l’ipotesi della «grave
inimicizia» dei due componenti del collegio giudicante nei confronti del
menzionato difensore, dovendo questa essere reciproca sicché non è
sufficiente ad integrarla la mera presentazione di una denuncia o, comunque,
di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale o
disciplinare, ma la grave inimicizia deve ricondursi a ragioni private di
rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti
istituzionali e alla realtà processuale, con l’indicazione di correlativi
fatti circostanziati, concreti e specifici (v. in tal senso, ex plurimis,
Cass. civ., 31.10.2018, n. 27923; Cass. civ., ord. 24.09.2015, n. 18976; id.,
ord. 24.11.2014), nella specie né allegati né tanto meno provati.
Conclusivamente, il motivo all’esame deve essere disatteso (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.05.2021 n. 3556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: L’obbligo
di astensione sancito dall’art.
51 c.p.c. sussiste solo allorché la grave inimicizia sia reciproca,
trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivi da vicende
estranee allo svolgimento delle funzioni e si estrinsechi in dati di fatto
concreti, precisi e documentati; la grave inimicizia non equivale alla mera
presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare
inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di principio,
originare dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni
comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali.
Sul carattere tassativo delle cause di incompatibilità di cui al richiamato
articolo 51 c.p.c. si è ripetutamente espressa la giurisprudenza che ha
chiarito come esse sfuggano “ad ogni tentativo di manipolazione analogica
all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza dell'azione
amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni
giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o interventi
esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello dell'omessa
astensione di chi versi in patente conflitto d'interessi, a determinare,
mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una composizione gradita
o intimorita dell'organo giudicante”.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che tali precisazioni sono
ancora più necessarie “sol che si pensi alla regola evincibile dall'art.
51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il
commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi "...se egli stesso... ha
causa pendente... con una delle parti...". In altre parole, la norma, come
s'è visto applicabile per analogia nell'esercizio del pubblico potere,
individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di
ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il
Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza
necessità di verifica di elementi ulteriori. Ebbene, nella specie si trattò
d'un esposto che l'appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta
Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s'avvede
anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede
penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia,
del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione
perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente
(per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia”.
---------------
7. Parimenti infondato è il motivo di ricorso con cui il ricorrente deduce
la illegittimità della delibera impugnata per violazione del principio di
imparzialità, in ragione del fatto che il Commissario Straordinario che ha
adottato il provvedimento impugnato (dott. In.) versava in una situazione di
incompatibilità nei confronti del Me., che aveva proposto contro di lui più
esposti e denunce “nell’adempimento di preciso obbligo di rapporto”
(pag. 5 del ricorso).
Anche tale rilievo è del tutto destituito di fondamento alla luce del
consolidato orientamento secondo il quale l’obbligo di astensione sancito
dall’art.
51 c.p.c. sussiste solo allorché la grave inimicizia sia reciproca,
trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivi da vicende
estranee allo svolgimento delle funzioni e si estrinsechi in dati di fatto
concreti, precisi e documentati (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n.
7170/2018); la grave inimicizia non equivale alla mera presentazione di una
denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un
procedimento giudiziale, né può, in linea di principio, originare
dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni comunque
inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni private di
rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti
istituzionali (Cassazione, sez. II, sentenza n. 27923/2018).
Sul carattere tassativo delle cause di incompatibilità di cui al richiamato
articolo 51 c.p.c. si è ripetutamente espressa la giurisprudenza che ha
chiarito come esse sfuggano “ad ogni tentativo di manipolazione analogica
(arg. ex Cons. St., VI, 03.03.2007 n. 1011; id., 26.01.2009 n. 354; id.,
19.03.2013 n. 1606) all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza
dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle
commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o
interventi esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello
dell'omessa astensione di chi versi in patente conflitto d'interessi, a
determinare, mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una
composizione gradita o intimorita dell'organo giudicante” (Consiglio di
Stato, sez. III, sentenza n. 1577/2014).
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che tali precisazioni sono
ancora più necessarie “sol che si pensi alla regola evincibile dall'art.
51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il
commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi "...se egli stesso... ha
causa pendente... con una delle parti...". In altre parole, la norma, come
s'è visto applicabile per analogia nell'esercizio del pubblico potere,
individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di
ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il
Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza
necessità di verifica di elementi ulteriori. Ebbene, nella specie si trattò
d'un esposto che l'appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta
Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s'avvede
anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede
penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia,
del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione
perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente
(per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia (cfr.
Cons. St., IV, 02.04.2012 n. 1958)” (Consiglio di Stato, sez. III,
sentenza n. 1577/2014).
Il Collegio non ravvisa, nel caso di specie, la sussistenza dei presupposti,
così come individuati dalla giurisprudenza sopra richiamata, necessari per
poter configurare la contestata causa di incompatibilità. Il ricorrente,
invero, fa riferimento ad esposti e denunce che, oltre ad attenere al
rapporto lavorativo tra i due soggetti e non a rapporti personali, non sono
idonei a dimostrare la reciprocità dell’assunta inimicizia. Si osserva,
peraltro, che non risulta neanche dimostrato che dalle suddette denunce
siano derivati condanne o procedimenti penali a carico del dott. In. (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 04.03.2019 n. 416 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Non
ricorre, nella fattispecie in esame, alcuna delle condizioni tassativamente
previste dall’art.
51 c.p.c. e dall’articolo
42 del dlgs n. 50/2016 in presenza delle quali sussiste l’obbligo di
astensione dalle funzioni di commissario né un potenziale conflitto di
interessi per l’esistenza di grave ragioni di convenienza, di una causa
pendente tra le parti o di una grave inimicizia tra le medesime (che,
peraltro, per essere rilevante ai fini che qui interessano deve essere
reciproca, trovare fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivare
da vicende estranee allo svolgimento delle funzioni ed estrinsecarsi in dati
di fatto concreti, precisi e documentati).
Né è idonea ad invalidare la determinazione di nomina della Commissione
ovvero l’intera procedura di gara (con conseguente necessità di una sua
riedizione) la circostanza che il soggetto, designato Presidente della
Commissione, non abbia compiutamente e preventivamente rappresentato alla
Stazione appaltante l’esistenza di una situazione di potenziale conflitto di
interessi: quel che rileva è, infatti, che le Amministrazioni appellate
abbiano, nel corso del procedimento, correttamente valutato l’inesistenza di
ipotesi tali da determinare la ricorrenza effettiva e concreta di una
situazione di incompatibilità del componente la Commissione, tale da
renderne doverosa l’astensione, senza che possa perciò assumere alcuna
valenza dirimente, ai fini dell’illegittimità dell’esclusione, il fatto che
l’Amministrazione non ne sia stata previamente informata dal commissario
versante, secondo le altre imprese partecipanti alla gara, in potenziale
conflitto, bensì dalla concorrente che di quel conflitto assume l’esistenza.
Ed infatti, una volta accertata –per le ragioni dinanzi esaminate– l’assenza
in capo all’avv. Cu. di una situazione di conflitto (anche solo potenziale)
di interesse con l’odierna appellante, è evidente che nessun obbligo di
preventiva dichiarazione sussistesse in capo a lui e che, conseguentemente,
nessuna conseguenza possa essere connessa alla mancata dichiarazione.
---------------
4.1. In primo luogo, la Sezione qui rileva come devono essere respinte le
censure con cui l’appellante ha dedotto l’esistenza, nel caso di specie, di
una situazione di conflitto di interessi, quanto meno potenziale, in cui
verserebbe l’avv. Cu., membro esterno e Dirigente del Comune di Ardea,
designato quale Presidente della Commissione di gara.
Tale situazione, che conseguirebbe all’adozione nel corso degli anni, da
parte del predetto dirigente, di molteplici provvedimenti pregiudizievoli
nei confronti della sua socia di maggioranza, tali da determinare
l’insorgere di diverse controversie giurisdizionali tra l’appellante e il
Comune di Ardea (di cui una tuttora pendente dinanzi alla Corte di Appello
di Roma e non definita bonariamente proprio per l’assenza della
sottoscrizione dell’avv. Cu. sull’accordo transattivo intervenuto tra le
parti) e comportanti, perfino, una segnalazione (pur senza irrogazione di
sanzioni) all’ANAC per l’asserita falsa dichiarazione da parte degli organi
societari in ordine ai requisiti generali, avrebbe dunque, ad avviso
dell’appellante, imposto l’astensione del predetto dalla funzione di
Presidente della Commissione esaminatrice o, perlomeno, richiesto una
segnalazione dell’incompatibilità alla Stazione appaltante mediante apposita
dichiarazione, sì da consentire alla CUC l’opportuna valutazione circa il
ricorrere delle ipotesi di astensione obbligatoria da parte dei commissari.
4.2. La Sezione qui rileva come le vicende e gli elementi addotti
dall’appellante a sostegno della sua tesi non siano in alcun modo idonei a
ledere o ad esporre a pericolo i principi di imparzialità e buon andamento
dell’azione amministrativa, non consentendo di ravvisare un’effettiva
situazione di conflitto di interesse o di incompatibilità, nemmeno
potenziale, nella posizione dell’avv. Cu.: ciò non tanto a ragione della
risalenza nel tempo dei provvedimenti controversi adottati nei confronti
dell’appellante (la quale ha evidenziato come di questi taluni sono stati,
invece, adottati in epoca piuttosto recente) ovvero della loro assunzione
nei confronti di società diversa da quella appellante (posto che la prima è,
in effetti, socia di maggioranza della seconda al 99 per cento), quanto
piuttosto in considerazione del fatto che detti provvedimenti, benché
abbiano inciso negativamente sulla sfera giuridica della destinataria
(comportando l’esclusione da una procedura gara o la decadenza
dall’affidamento del servizi), sono stati assunti dall’avv. Cu. unicamente
nell’esplicazione delle funzioni dirigenziali, in qualità di RUP o di
dirigente del Servizio competente, presso altro Comune, e sono stati anche
dichiarati legittimi all’esito dei contenziosi instaurati dall’odierna
appellante (si vedano sentenze del Tar per il Lazio n. 11876/2010 e
4719/2015 di reiezione dei ricorsi introduttivi proposti dall’Al.Fo.).
Del resto, quest’ultima non ha dimostrato l’esistenza di una condotta
addebitabile al detto dirigente circa la mancata sottoscrizione dell’accordo
transattivo del 2014 (che avrebbe impedito il componimento bonario della
lite, tuttora pendente, tra il Comune e la Al.Fo.) e anche la mancata
aggiudicazione da parte dell’appellante rispetto a gare in cui il Cu. era
nella Commissione (come pure il diverso esito ottenuto in competizioni in
cui ciò non si è verificato) non costituisce di per sé elemento idoneo a far
insorgere un sospetto consistente di violazione dei principi di
imparzialità, di trasparenza e di parità di trattamento: non è dato,
infatti, comprendere in cosa consisterebbe il presunto interesse
finanziario, economico o personale costituente una possibile minaccia
all’imparzialità o indipendenza nel contesto della procedura de qua sì da
far ritenere fondato e ragionevole il dubbio circa l’esistenza di una
situazione di parziarietà, ostilità o pregiudizio tale da inficiare la
valutazione espressa dall’avv. Cu. nei confronti dell’offerta della società
appellante o, addirittura, da condizionare, visto il ruolo in concreto
rivestito, anche il giudizio formulato dagli altri commissari (sì da
determinare, di fatto, l’ingiustizia del punteggio attribuito e del mancato
superamento della soglia stabilita dal disciplinare ai fini dell’ammissione
della concorrente alle successive fasi di gara).
In tutti i casi evidenziati, invero, l’avv. Cu. si è limitato allo
svolgimento dei propri compiti istituzionali mediante l’adozione di
provvedimenti che, nei casi di esiti contenziosi, sono stati riconosciuti
legittimi in giudizio e riferibili solo all’Ente di appartenenza (come pure
le controversie giurisdizionali che ne sono poi conseguite), senza che in
ciò possano ravvisarsi gli estremi di “oggettivi e innegabili trascorsi
conflittuali” cui fa riferimento l’appellante.
Non ricorre, dunque, nella fattispecie in esame alcuna delle condizioni
tassativamente previste dall’art.
51 c.p.c. e dall’articolo
42 del decreto legislativo n. 50 del 2016 in presenza delle quali
sussiste l’obbligo di astensione dalle funzioni di commissario né un
potenziale conflitto di interessi per l’esistenza di grave ragioni di
convenienza, di una causa pendente tra le parti o di una grave inimicizia
tra le medesime (che, peraltro, per essere rilevante ai fini che qui
interessano deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in
rapporti personali, derivare da vicende estranee allo svolgimento delle
funzioni ed estrinsecarsi in dati di fatto concreti, precisi e documentati).
4.3. Né è idonea ad invalidare la determinazione di nomina della Commissione
ovvero l’intera procedura di gara (con conseguente necessità di una sua
riedizione) la circostanza che il soggetto, designato Presidente della
Commissione, non abbia compiutamente e preventivamente rappresentato alla
Stazione appaltante l’esistenza di una situazione di potenziale conflitto di
interessi: quel che rileva è, infatti, che le Amministrazioni appellate
abbiano, nel corso del procedimento, correttamente valutato l’inesistenza di
ipotesi tali da determinare la ricorrenza effettiva e concreta di una
situazione di incompatibilità del componente la Commissione, tale da
renderne doverosa l’astensione, senza che possa perciò assumere alcuna
valenza dirimente, ai fini dell’illegittimità dell’esclusione, il fatto che
l’Amministrazione non ne sia stata previamente informata dal commissario
versante, secondo le altre imprese partecipanti alla gara, in potenziale
conflitto, bensì dalla concorrente che di quel conflitto assume l’esistenza.
Ed infatti, una volta accertata –per le ragioni dinanzi esaminate– l’assenza
in capo all’avv. Cu. di una situazione di conflitto (anche solo potenziale)
di interesse con l’odierna appellante, è evidente che nessun obbligo di
preventiva dichiarazione sussistesse in capo a lui e che, conseguentemente,
nessuna conseguenza possa essere connessa alla mancata dichiarazione (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 20.12.2018 n. 7170 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Ai
sensi dell'art.
51, numero 3, c.p.c. la "grave inimicizia" del componente del consiglio
dell'ordine nei confronti dell'incolpato deve essere reciproca, non equivale
alla mera presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso
idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di
principio, originare dall'attività consiliare del componente il collegio per
questioni comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a
ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti
estranei ai compiti istituzionali.
---------------
II.1. II secondo motivo di ricorso del dottor Ma.Po.Ma.Mi. è
infondato.
Ai sensi dell'art. 64 del d.P.R. 05.04.1950, n. 221 (contenente il
regolamento di esecuzione del d.lgs. 13.09.1946, n. 233 sull'esercizio delle
professioni sanitarie), i componenti del consiglio dell'ordine professionale
dei medici, collegio disciplinare, possono essere ricusati per i motivi
stabiliti dal codice di procedura civile e, quindi, anche allorché esistano
rapporti di grave inimicizia con l'incolpato.
Ora, l'oggettiva mancanza di motivazione, da parte della Commissione
centrale, con riferimento al secondo motivo di ricorso per cui
dall'incolpato era stato domandato l'annullamento della sanzione
disciplinare (valendo come motivazione apparente l'argomento che "dalle
evidenze documentali non emergono evidenze probatorie idonee ad attestare
una situazione di conflittualità o di pregiudizio da parte dei componenti
dell'Ordine..."), non si traduce, automaticamente, in un vizio di
omissione di pronuncia, con conseguente annullamento con rinvio della
decisione, quando, come appare nel caso in esame, il motivo di annullamento
avrebbe dovuto essere rigettato, non essendo i fatti allegati dal deducente
di per sé idonei in diritto a sorreggere l'accoglimento dell'impugnazione, e
perciò potendo all'uopo provvedere questa Corte attraverso l'impiego del
potere di correzione della motivazione ai sensi dell'art. 384, comma 4,
c.p.c. (così Cass. Sez. 3, 23/01/2002, n. 743; più in generale, Cass. Sez.
U, 02/02/2017, n. 2731).
Ed allora, per quanto il ricorrente riporta del contenuto della ricusazione
presentata nella memoria depositata per l'udienza disciplinare del
29.09.2014, l'infondatezza della stessa deriva dalla considerazione
dell'interpretazione, offerta da questa Corte, secondo cui la ricusazione
dei componenti del consiglio dell'ordine professionale, ai sensi dell'art.
64 del d.P.R. 05.04.1950, n. 221, non può essere rivolta, come invece
pretende il Mi., nei confronti dell'organo collegiale nel suo complesso, in
quanto il richiamato art. 51 c.p.c. prevede l'astensione e la ricusazione
solo per cause riferibili direttamente o indirettamente al giudice come
persona fisica (Cass. Sez. 3, 02/03/2006, n. 4657).
D'altro canto, ai sensi dell'art.
51, numero 3, c.p.c. la "grave inimicizia" del componente del
consiglio dell'ordine nei confronti dell'incolpato deve essere reciproca,
non equivale alla mera presentazione di una denuncia o comunque di un atto
di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in
linea di principio, originare dall'attività consiliare del componente il
collegio per questioni comunque inerenti all'esercizio professionale, ma
deve riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (cfr. Cass. Sez.
3, 13/04/2005, n. 7683) (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 31.10.2018 n. 27923). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Non
è qui in discussione il principio secondo cui l’obbligo di astensione, per
incompatibilità, dei componenti un organo collegiale si verifica per il sol
fatto che questi siano portatori di interessi personali atti ad inverare una
posizione di conflittualità o anche di divergenza rispetto a quello,
generale, affidato alle cure della P.A., indipendentemente dalla circostanza
che, nel corso del procedimento, che l’organo abbia proceduto in modo
imparziale, o che non via sia prova di condizionamento per effetto del
potenziale conflitto d’interessi.
Non è allora chi non veda, proprio per evitare l’uso strumentale
dell’obbligo d’astensione e della correlata ricusazione, la necessità d’una
lettura assai stringente delle norme ex
art. 51 c.p.c., sia in generale, sia con riguardo alla specifica
fattispecie di conflitto d’interessi, nel caso in esame individuata nella
pendenza di lite.
In termini generali, occorre rammentare che le cause di incompatibilità di
cui al ripetuto
art. 51, com’è noto estensibili a tutti i campi dell'azione
amministrativa quale applicazione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità
—maxime alla materia concorsuale—, rivestono un carattere tassativo. Esse
sfuggono quindi ad ogni tentativo di manipolazione analogica all’evidente
scopo di tutelare l’esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la
stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici. Tanto
soprattutto per evitare interferenze o interventi esterni, preordinati, con
effetto parimenti abusivo a quello dell’omessa astensione di chi versi in
patente conflitto d’interessi, a determinare, mediante usi forzati o
infondati di detti obblighi, una composizione gradita o intimorita
dell’organo giudicante.
Queste precisazioni s’appalesano, agli occhi del Collegio, tanto più
necessarie, sol che si pensi alla regola evincibile dall’art.
51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il
commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi «…se egli stesso... ha
causa pendente... con una delle parti...». In altre parole, la norma, come
s’è visto applicabile per analogia nell’esercizio del pubblico potere,
individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di
ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il
Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza
necessità di verifica di elementi ulteriori.
Ebbene, nella specie si trattò d’un esposto che l’appellato indirizzò a vari
soggetti tra cui la predetta Procura in relazione a certi fatti anteriori,
ma il TAR non s’avvede anzitutto che già l'asserita (o attuata)
presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei
confronti del Giudice (o, per analogia, del commissario di concorso) non
costituisce causa di legittima ricusazione perché essa non è di per sé
idonea a creare una situazione di causa pendente (per la natura oggettiva
della giurisdizione penale) o di grave inimicizia. Tanto non volendo
considerare quanto già detto prima, cioè che l’abuso della denuncia sarebbe
uno strumento per evitare una composizione della Commissione non gradita al
candidato.
Né basta: rettamente l’appellante rende noto il fatto che del predetto
esposto l’ufficio giudiziario adito non poté fornire riscontro, donde
l’assenza d’ogni seria prova, a tutto concedere, sia della “pendenza” della
lite, sia della conoscenza di questa da parte del dott. Pu.. Del pari,
siffatta pendenza non si verifica nella controversia instaurata
dall’appellato innanzi al TAR Milano, giacché di essa o dei suoi estremi non
v’è traccia, né riscontro nell’impugnazione di primo grado. Pare solo che su
di essa penda tuttora un ricorso in appello, proposto dallo stesso dott. La.
innanzi a questo Consiglio, ma non ancora esitato.
È solo da precisare, ai fini dell’esatto inquadramento del concetto di
«grave inimicizia», che esso descrive non già un sentimento di mera
antipatia o di acrimonia, bensì una situazione oggettiva ed articolata
(originata da fatti e circostanze complete, significative ed estranee al
processo) di ostilità talmente radicata e tenace, da far presumere che il
Giudice (o, per analogia, il commissario di concorso) decida,
aprioristicamente, in senso contrario al suo avversario.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Lombardia–Milano, sez. IV, n.
1230/2011, resa tra le parti e concernente gli atti della selezione interna
per la progressione verticale nel profilo collaboratore amministrativo;
...
L’ASL della Provincia di Varese, che aveva indetto una procedura selettiva
per la progressione verticale nel profilo professionale Collaboratore
amministrativo —cui, senza esito, partecipò l’appellato (dott. Ma.La.)—,
impugna la sentenza con cui il TAR accolse il ricorso di questi sotto il
solo profilo della mancata astensione del presidente della relativa
Commissione giudicatrice (dott. Lu.Pu.), che versava in pretesa situazione
d’inimicizia nei suoi riguardi.
Si può prescindere da ogni considerazione sull’ammissibilità del ricorso di
primo grado, in quanto l’appello è meritevole d’accoglimento nel merito, per
le ragioni di cui appresso.
Al riguardo, il TAR ha accolto, di tutti i svariati motivi del gravame
dell’odierno appellato, soltanto quello dell’inimicizia con il dott. Pu., in
base ai documenti allegati dal n. 8) al n. 11) della produzione di primo
grado.
In particolare, il TAR rende nota anzitutto la segnalazione, da parte
dell’appellato stesso ed in più occasioni precedenti allo svolgimento di tal
procedura, di «… presunte e gravi anomalie legate alla posizione
lavorativa, nell’ambito dell’Azienda sanitaria..., di una stretta congiunta
del predetto dott. Pu.…». Inoltre, l’appellato aveva a suo tempo
prodotto un esposto, nei confronti del medesimo dott. Pu., alla Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio, pur dando lealmente
atto che, alla data di decisione del ricorso di primo grado, il relativo
procedimento penale fosse stato già archiviato.
Ebbene, lo deduce espressamente l’ASL appellante, i documenti, su cui il TAR
ha formato il suo convincimento circa l’illegittima omessa astensione del
dott. Pu., riguardano:
A) – il n. 8) la missiva rivolta, tra gli altri, a detta Procura
della Repubblica, relativamente ad irregolarità accadute in un pregresso
concorso cui partecipò l’appellato;
B) – i nn. 9) e 10) le corrispondenti istanze di accesso a
documenti amministrativi, rivolte non all’ASL, ma al Commissario
straordinario della soppressa USSL n. 2 di Gallarate;
C) – il n. 11), la risposta fornita da quest’ultimo all’appellato,
in una con il disposto accesso agli atti.
Reputa sul punto il Collegio, in disparte ogni questione sulla risalenza
delle vicende descritte in tali documenti, nonché sulla circostanza che l’ASL
o il dott. Pu. ne avessero, o no, avuto contezza anteriore, che il loro
contenuto non integri i rigorosi presupposti affinché si determini
l’astensione ex
art. 51 c.p.c., neppure con lo specifico riguardo alla pendenza di lite
tra i soggetti coinvolti.
Non è qui in discussione il principio, pur rammentato dal TAR e da cui il
Collegio non ha motivo di discostarsi, secondo cui l’obbligo di astensione,
per incompatibilità, dei componenti un organo collegiale si verifica per il
sol fatto che questi siano portatori di interessi personali atti ad inverare
una posizione di conflittualità o anche di divergenza rispetto a quello,
generale, affidato alle cure della P.A., indipendentemente dalla circostanza
che, nel corso del procedimento, che l’organo abbia proceduto in modo
imparziale, o che non via sia prova di condizionamento per effetto del
potenziale conflitto d’interessi.
Non è allora chi non veda, proprio per evitare l’uso strumentale
dell’obbligo d’astensione e della correlata ricusazione, la necessità d’una
lettura assai stringente delle norme ex
art. 51 c.p.c., sia in generale, sia con riguardo alla specifica
fattispecie di conflitto d’interessi, nel caso in esame individuata nella
pendenza di lite.
In termini generali, occorre rammentare che le cause di incompatibilità di
cui al ripetuto
art. 51, com’è noto (cfr., per tutti, Cons. St., III, 24.01.2013 n. 477)
estensibili a tutti i campi dell'azione amministrativa quale applicazione
dell’obbligo costituzionale d’imparzialità —maxime alla materia
concorsuale—, rivestono un carattere tassativo. Esse sfuggono quindi ad ogni
tentativo di manipolazione analogica (arg. ex Cons. St., VI, 03.03.2007 n.
1011; id., 26.01.2009 n. 354; id., 19.03.2013 n. 1606) all’evidente scopo di
tutelare l’esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la stabilità
della composizione delle commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per
evitare interferenze o interventi esterni, preordinati, con effetto
parimenti abusivo a quello dell’omessa astensione di chi versi in patente
conflitto d’interessi, a determinare, mediante usi forzati o infondati di
detti obblighi, una composizione gradita o intimorita dell’organo
giudicante.
Queste precisazioni s’appalesano, agli occhi del Collegio, tanto più
necessarie, sol che si pensi alla regola evincibile dall’art.
51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il
commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi «…se egli stesso... ha
causa pendente... con una delle parti...». In altre parole, la norma,
come s’è visto applicabile per analogia nell’esercizio del pubblico potere,
individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di
ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il
Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza
necessità di verifica di elementi ulteriori.
Ebbene, nella specie si trattò d’un esposto che l’appellato indirizzò a vari
soggetti tra cui la predetta Procura in relazione a certi fatti anteriori,
ma il TAR non s’avvede anzitutto che già l'asserita (o attuata)
presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei
confronti del Giudice (o, per analogia, del commissario di concorso) non
costituisce causa di legittima ricusazione perché essa non è di per sé
idonea a creare una situazione di causa pendente (per la natura oggettiva
della giurisdizione penale) o di grave inimicizia (cfr. Cons. St., IV,
02.04.2012 n. 1958). Tanto non volendo considerare quanto già detto prima,
cioè che l’abuso della denuncia sarebbe uno strumento per evitare una
composizione della Commissione non gradita al candidato.
Né basta: rettamente l’appellante rende noto, lo si legge bene in sentenza,
il fatto che del predetto esposto l’ufficio giudiziario adito non poté
fornire riscontro, donde l’assenza d’ogni seria prova, a tutto concedere,
sia della “pendenza” della lite, sia della conoscenza di questa da
parte del dott. Pu.. Del pari, siffatta pendenza, come giustamente precisa
l’appellante, non si verifica nella controversia instaurata dall’appellato
innanzi al TAR Milano, giacché di essa o dei suoi estremi non v’è traccia,
né riscontro nell’impugnazione di primo grado (cfr. pag. 18 del relativo
ricorso). Pare solo che su di essa penda tuttora un ricorso in appello,
proposto dallo stesso dott. La. innanzi a questo Consiglio, ma non ancora
esitato.
È solo da precisare, ai fini dell’esatto inquadramento del concetto di «grave
inimicizia», che esso descrive non già un sentimento di mera antipatia o
di acrimonia, bensì una situazione oggettiva ed articolata (originata da
fatti e circostanze complete, significative ed estranee al processo) di
ostilità talmente radicata e tenace, da far presumere che il Giudice (o, per
analogia, il commissario di concorso) decida, aprioristicamente, in senso
contrario al suo avversario.
In questi termini, l’appello va accolto, ma giusti motivi suggeriscono la
non ripetibilità delle spese del presente giudizio nei confronti
dell’appellato (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 02.04.2014 n. 1577 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' QUOTIDIANA
(sempre in primo piano...) |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 07.04.2018 n. 81 "Approvazione del glossario contenente l’elenco non
esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività
edilizia libera, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo
25.11.2016, n. 222" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 02.03.2018).
---------------
Al riguardo, si legga anche:
●
l'aggiornata (al
30.04.2022)
tabella degli artt. 6 e 3 del DPR n. 380/2001 integrati con l'elencazione
delle n. 58 opere di cui al DM 02.03.2018 ("Approvazione del
glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie
realizzabili in regime di attività edilizia libera, ai sensi dell’articolo
1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222"). |
|
EDILIZIA PRIVATA -
URBANISTICA:
G.U. 16.11.2016 n. 268 "Intesa, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della
legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni concernente
l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma
1-sexies, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Rep.
Atti n. 125/CU)" (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Conferenza
Unificata,
intesa 20.10.2016).
---------------
Al riguardo, si legga anche (per la Lombardia):
●
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n.
44 del 31.10.2018, "Recepimento dell’intesa tra il governo, le regioni e
le autonomie locali, concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di
cui all’articolo 4, comma 1-sexies, del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380" (deliberazione
G.R. 24.10.2018 n. 695). |
|
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 3 del DPR 06.06.2001 n. 380 (Definizioni degli interventi
edilizi) nel testo pubblicato in G.U. ma scomposto (aggiornato al
30.04.2022) per una migliore intelligibilità. |
|
ATTI AMMINISTRATIVI:
G.U. 03.05.2001 n. 101, suppl. ord., "Guida alla redazione dei testi
normativi" (Presidenza Consiglio dei Ministri,
circolare 02.05.2001 n. 1/1.1.26/10888/9.92.). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G.U. 27.04.2001 n. 97 "Regole e raccomandazioni per la formulazione
tecnica dei testi legislativi" (Presidenza Consiglio dei Ministri,
circolare 20.04.2001 n. 1.1.26/10888/9.92.). |
PRINCIPI DI DIRITTO
(da ricordare...) |
EDILIZIA PRIVATA -
PUBBLICO IMPIEGO:
La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al
reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001,
commesso mediante esecuzione di lavori sulla base di permesso di costruire
illegittimo, ha precisato che la "macroscopica illegittimità" dello stesso
titolo, da un lato, rappresenta un significativo indice sintomatico
della sussistenza dell'elemento soggettivo dell'illecito, e, dall'altro,
non costituisce nemmeno una condizione essenziale per l'oggettiva
configurabilità del reato.
---------------
E' configurabile il concorso
nel reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 a carico del
funzionario comunale nominato responsabile del procedimento che, procedendo
ad istruire la pratica edilizia, abbia colposamente espresso parere
favorevole al rilascio di un titolo abilitativo illegittimo, in tal modo
apportando un contributo causale rilevante ai fini della determinazione
dell'evento illecito (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2021 n. 22832). |
|
EDILIZIA PRIVATA: Condono
edilizio e oneri concessori: devono essere determinati secondo le tabelle
vigenti al momento del rilascio del titolo in sanatoria.
La tesi secondo cui gli oneri concessori vanno
determinati secondo le tabelle vigenti al momento del rilascio del titolo in
sanatoria, e non della presentazione della domanda, trova fondamento, in
primo luogo, nell’applicazione del canone tempus regit actum, perché è
soltanto con l’adozione del provvedimento di sanatoria che il manufatto
diviene legittimo e, quindi, concorre alla formazione del carico urbanistico
che costituisce il presupposto sostanziale del pagamento del contributo e,
in secondo luogo, su considerazioni di ordine teleologico, in quanto
consente di meglio tutelare l’interesse pubblico all’adeguatezza della
contribuzione rispetto ai costi reali da sostenere.
Sicché, per “misura stabilita dalla disciplina vigente”, ai sensi dell’art.
6, comma 3, della legge regionale n. 10/2004, doveva, quindi, intendersi
quella stabilita dalle tabelle che erano in vigore al momento della
definizione del procedimento di sanatoria
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 27.04.2020 n. 2680 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il principio “tempus regit actum”, la
valutazione della legittimità del provvedimento impugnato (ordinanza di
demolizione) va condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di diritto
esistente al momento della sua adozione”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.02.2018 n. 1063 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
EDILIZIA PRIVATA: Effetti
della presentazione di una istanza di accertamento di conformità su un
procedimento sanzionatorio già avviato e sul processo.
---------------
●
Edilizia – Abusi - Accertamento di
conformità - Ingiunzione a demolire – Condono - Procedimento sanzionatorio.
●
Edilizia – Sanatoria – Silenzio-rifiuto – Successivo provvedimento –
Possibilità.
●
L’avvenuta presentazione di
un’istanza di accertamento di conformità, quando sia già stato instaurato un
procedimento sanzionatorio, concretizzatosi nell’adozione di un’ingiunzione
a demolire, fa sì che questa perda efficacia solo temporaneamente, ossia per
il tempo strettamente necessario alla definizione, anche solo tacita, del
procedimento di sanatoria ordinaria, con la conseguenza che, ove questa non
venga accolta, il procedimento sanzionatorio riacquista efficacia senza la
necessità, per l’amministrazione, di riadottare il provvedimento.
Tale mancato accoglimento non impone, peraltro, la successiva riadozione
dell’atto demolitorio, con ciò attribuendo al privato, destinatario dello
stesso, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento,
intrinseco nella mera presentazione di una domanda, finanche pretestuosa,
quel medesimo provvedimento (1)
●
Il regime di
silenzio-rifiuto previsto in materia di sanatoria ordinaria di abusi edilizi
non preclude un provvedimento tardivo di diniego espresso, che può essere
impugnato anche con atto di motivi aggiunti (2).
---------------
(1) La Sezione ha affrontato il problema degli effetti dell’avvenuta
presentazione di una domanda di sanatoria sul procedimento sanzionatorio;
sul punto rileva l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in punto di
diritto, seppure con differenti sfumature argomentative: a fronte di un
indirizzo per cui la presentazione della domanda implica ex se
l’inefficacia tout court dell’ordine di demolizione (e degli atti che
ne conseguono), con obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi nuovamente
sull’illecito edilizio sottostante (cfr. ex multis Cons. Stato,
sez. VI, 03.03.2020, n. 1540; id.
sez. II, 10.08.2020, n. 4982; id.
20.12.2019, n. 8637; C.g.a.
15.05.2018, n. 271), vi è infatti un’altra corrente
giurisprudenziale favorevole al riconoscimento della inefficacia solo
temporanea dell’atto, con sua conseguente “riespansione” all’esito
della definizione del procedimento di sanatoria, ovvero di maturazione del
termine legalmente stabilito per la sua definizione (in tal senso, fra le
molte, Cons. Stato,
sez. II, 19.02.2020, n. 1260; id.
13.06.2019, n. 3954; id.,
sez. VI, 01.03.2019, n. 1435; id.
11.10.2018, n. 1171).
Sul piano processuale, la prima opzione si risolve nella necessaria
declaratoria di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnativa
dell’ordinanza a demolire, a seconda che la richiesta di sanatoria sia
intervenuta prima o dopo la proposizione della stessa, laddove la seconda
implica la possibilità di scrutinare l’atto nel merito.
La Sezione pone a base della propria soluzione conciliativa la ricostruzione
delle differenze, di regime giuridico e sostanziali, tra tipi di sanatoria.
L’accertamento di conformità “determina soltanto un arresto
dell’efficacia dell’ordine di demolizione, che opera in termini di mera
sospensione dello stesso. In caso di rigetto dell’istanza, che peraltro
sopravviene in caso di inerzia del Comune dopo soli 60 giorni, l’ordine di
demolizione riacquista la sua piena efficacia” (Cons.
Stato, sez. VI, 28.09.2020, n. 5669).
La soluzione opposta opera invece in caso di condono, sia perché le leggi di
riferimento sono chiare in tal senso, sia perché all’Amministrazione è
richiesto un controllo più penetrante attinente, appunto, la “condonabilità”
di un abuso “sostanziale”, ovvero contrastante con la disciplina
urbanistica.
(2) L’art. 36, comma 3, del T.U.E. fissa in 60 giorni il termine entro il
quale il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve
pronunciarsi con adeguata motivazione su un’istanza di accertamento di
conformità, decorsi il quale la richiesta si intende rifiutata. Secondo un
diffuso orientamento giurisprudenziale, cui il Collegio ritiene di aderire,
tale silenzio ha un valore legale tipico di rigetto e cioè costituisce una
ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di
un provvedimento esplicito di diniego (Cons. Stato, sez. IV,
01.02.2017, n. 410; id.
06.06.2008, n. 2691).
La norma, al pari della sua omologa del 1985, non prevede il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria oltre tale termine di 60 giorni, “ma
non dispone espressamente che il decorso del termine ivi indicato
rappresenti, sul piano procedimentale, la chiusura del procedimento e
specularmente determini, sul piano sostanziale, la definitiva consumazione
del potere, con conseguente cristallizzazione della natura abusiva delle
opere” (Cons.
Stato, sez. IV, 02.10.2017, n. 4574).
In mancanza, tuttavia, di un’esplicita prescrizione di decadenza, la
decorrenza del termine di sessanta giorni non consuma il potere
dell’Amministrazione di provvedere sull’istanza. In subiecta materia
l’ipotesi di silenzio-significativo è stata dettata infatti nell’interesse
precipuo del privato, cui è stata in tal modo consentita una sollecita
tutela giurisdizionale. Il successivo, eventuale atto espresso di diniego,
impugnabile con motivi aggiunti, non è inutiliter datum, posto che il
relativo (e doveroso) corredo motivazionale individua le ragioni della
decisione amministrativa e consente di meglio calibrare le difese
dell’istante che ritenga frustrato il proprio interesse alla
regolarizzazione ex post di quanto ex ante realizzato sì
sine titulo, ma comunque, come più volte ricordato, nel rispetto della
disciplina urbanistica.
Di converso, il terzo (a qualunque titolo) controinteressato non è leso dal
fatto che, dopo un iniziale contegno inerte, l’Amministrazione in seguito
provveda all’accoglimento dell’istanza con atto espresso: a prescindere dal
fatto che, maturato il silenzio-rigetto, il terzo che ne abbia interesse può
compulsare il Comune affinché adotti i conseguenti provvedimenti
sanzionatori, contro l’eventuale accoglimento espresso sopravvenuto il terzo
può insorgere in via giustiziale o giurisdizionale e lamentare non un
inesistente vizio di tardività, ma eventuali illegittimità sostanziali
ostative al positivo riscontro dell’istanza, il cui accoglimento, in
presenza dei presupposti di legge, ha natura vincolata (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 06.05.2021 n. 3545
- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
- la giurisprudenza che ha riconosciuto l'obbligo di
riadottare un provvedimento sanzionatorio dopo il rigetto della istanza di
sanatoria si è formata in tema di condono edilizio, ossia in presenza di una
richiesta che trova il suo fondamento in una disposizione di carattere
legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a
determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria
degli abusi commessi: ma quei principi non possono trovare applicazione
quando sia stata formulata una istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. n.
380 del 2001, ossia sulla base di una disposizione che, prevedendo quella
che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione
dell'opera sulla base di una disciplina preesistente;
- sostenere che, nell'ipotesi di presentazione della istanza di
accertamento di conformità, e di rigetto, esplicito o implicito, della
istanza stessa, l'Amministrazione debba riadottare l'ordinanza di
demolizione, e questo perché la presentazione della istanza ex art. 36 cit.
ha avuto un effetto caducante sull’ingiunzione a demolire, equivarrebbe a
riconoscere in capo a un soggetto privato, “ad libitum” del destinatario del
provvedimento repressivo, il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento sanzionatorio della
pubblica autorità, il che non può ammettersi;
- posto che la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non
risultano compromesse dalla presentazione della istanza di accertamento di
conformità ex art. 36 del menzionato d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza
medesima comporta piuttosto un arresto dell’efficacia della misura
ripristinatoria, che rimane soltanto sospesa, determinandosi uno stato di
temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, nel caso di
accoglimento della istanza (o, si può aggiungere, nel caso di accoglimento
del ricorso contro il diniego di accertamento di conformità ex art. 36 cit.),
la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o in difformità
dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica
vigente: sicché
●
qualora sia accolta la
domanda di sanatoria (o se viene accolto, in sede giurisdizionale, il
ricorso contro il “diniego ex art. 36”), l’ordine di demolizione decade per
il venire meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo
dell’opera realizzata, in ragione delle conformità dell’intervento,
verificata in via amministrativa, o anche in sede giurisdizionale, alla
disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della realizzazione
dell’intervento e sia al momento della presentazione della domanda;
●
mentre, nel caso di
rigetto della istanza, tacito o esplicito, divenuto inoppugnabile, la misura
repressiva adottata a suo tempo riacquista la sua efficacia, che non era
definitivamente cessata, ma soltanto sospesa, in attesa della conclusione
del nuovo iter procedimentale, con la sola specificazione che il termine
concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in
cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, il quale non può
rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà prevista dalla legge
e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per
adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla
mancata esecuzione dello stesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.02.2018 n. 1063 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
URBANISTICA: Convenzioni
accessive ai Piani insediamenti produttivi.
---------------
●
Urbanistica - Piani insediamenti produttivi – Attuazione - Convenzioni
accessive – Finalità.
●
Urbanistica - Piani insediamenti produttivi – Attuazione - Convenzioni
accessive - Possibilità di inserire sanzioni – Operatività della decadenza
dalla proprietà.
●
I Piani per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) costituiscono uno dei primi
esempi codificati di strumento urbanistico la cui attuazione è rimessa in
larga parte allo strumento convenzionale accessivo; attraverso gli stessi,
previsti dall’art. 27, l. n. 865 del 1971, i Comuni dotati di piano
regolatore o di programma di fabbricazione, oltre ad imprimere un regime
giuridico lato sensu “produttivo” ad una determinata zona, garantiscono
l’accesso alle aree ivi comprese ad operatori economici che le devono
utilizzare in funzione dello stesso, prevedendo che all’atto della
concessione dei lotti, in proprietà o in superficie, nella percentuale
normativamente data, venga siglata una convenzione finalizzata allo scopo
(1).
●
L’inadempimento agli obblighi assunti con la convenzione,
riconducibile al modello della concessione-contratto, può comportare il
ricorso ai normali rimedi civilistici, giusta il rinvio contenuto al
riguardo nell’art. 11, comma 2, della l. n. 241 del 1990, laddove si afferma
che «si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice
civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili».
E’ altresì possibile che ne consegua l’irrogazione di sanzioni, per lo più
di natura pecuniaria. La decadenza, espressamente prevista quale sanzione
con riferimento alle convenzioni accessive ai Piani per l’edilizia economica
e popolare (P.E.E.P., di cui all’art. 35 della l.n. 865 del 1971), in quanto
tuttavia riferita al diritto di superficie, non alla proprietà, in ragione
della sua particolare afflittività può essere irrigata solo se prevista nel
modello di convenzione approvato dal Consiglio comunale unitamente all’atto
di pianificazione, e per quegli obblighi che siano individuati come
strettamente funzionali all’obiettivo di politica, anche economica, sotteso
all’atto di governo del territorio (2).
---------------
1) I Piani per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) costituiscono
uno dei primi esempi “codificati” di quella che è stata poi qualificata
genericamente come “edilizia convenzionata”, di fatto estendendo per utilità
linguistica la definizione all’epoca contenuta nella rubrica dell’art. 7
della legge 28.02.1977, n. 10, che in verità faceva esclusivo
riferimento agli accordi siglati con il richiedente un titolo edilizio con
finalità residenziale per calmierare preventivamente i futuri canoni di
locazione o prezzi di vendita degli immobili relativi.
La loro peculiarità
risiede nella necessità per attuarli di operare un trasferimento di
proprietà da soggetti privati a soggetti imprenditori, che vengono
“privilegiati” rispetto ai primi nella misura in cui compartecipano alla
finalità di riordino, ma anche di sviluppo in termini di attrattività
economica del territorio (per la classificazione dei P.I.P. innanzi tutto
quale strumento di politica economica, cfr., inter alia, Cons. Stato, sez.
IV,
11.06.2015, n. 2878; id.,
05.03.2015, n. 1125;
13.02.2020 n.
1158; sez. V,
15.01.2020 n. 377; sez. II,
15.07.2019 n. 4961;
nonché Cass. civ., sez. un., 26.03.2019, n. 8415).
Il beneficio
collettivo che deriva da tali scelte di politica economica, prima e oltre
che urbanistica, diviene la cartina di tornasole della corretta comparazione
tra interessi in gioco, tutti egualmente garantiti. L’assegnazione dei lotti
in proprietà o la concessione in uso a prezzi inferiori a quelli di mercato
costituisce dunque uno strumento di promozione mediante abbattimento di
costi, con effetto economicamente equivalente ad un incentivo finanziario
per la realizzazione di stabilimenti produttivi.
In tal modo l’ordinamento
realizza «un razionale e soddisfacente punto di equilibrio tra la tutela del
diritto della proprietà privata e il sostegno alle produzioni economiche che
creano posti di lavoro, redditi e ricchezza, non allo scopo di discriminare
il proprietario terriero rispetto all’imprenditore, né di impoverire i
bilanci degli enti locali, bensì all’unica finalità di conformare in senso
sociale e redistributivo le ricchezze, consentendo il fruttuoso utilizzo di
fondi altrimenti inutilizzati o utilizzati per scopi non produttivi o,
comunque, per scopi non idonei ad assicurare l’incremento di ricchezza del
territorio in generale» (Cons. Stato, sez. IV,
04.03.2021, n. 1864).
(2) Il doppio limite all’applicabilità delle disposizioni
civilistiche contenuto nell’art. 11, comma 2, l. n. 241 del 1990, ne implica
l’operatività non solo ove non sia diversamente previsto, ma anche avuto
riguardo a disposizioni comunque compatibili con la disciplina degli
accordi.
La causa della convenzione urbanistica accessiva ad un P.I.P., e
cioè l’interesse che l’operazione contrattuale è diretta a soddisfare, in
particolare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma
con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale della convenzione, in
cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato
sia quelli della pubblica amministrazione.
L’unico modo per individuare il
giusto punto di equilibrio tra esigenze di effettività del procedimento di
pianificazione e modalità negoziale di regolamentazione dei rapporti può
essere individuato nella stretta compenetrazione dell’una nelle altre,
presidiando -e quindi di fatto perseguendo- con maggior rigore solo quei
comportamenti che minano alla radice la fattibilità dell’intervento, perché
inerti, tardivi, ovvero, appunto, “sviati” dalla causa. L’inerzia o il
ritardo nell’attivarsi da parte di un’impresa assegnataria va contro alla
ratio della pianificazione, da svilupparsi nella tempistica stabilita per le
varie iniziative, al fine di realizzare concretamente le finalità pubbliche
ad essa sottese.
Egualmente non può non essere escluso in radice (e quindi
“sanzionato”), alla luce dei plurimi interessi collettivi che sottendono
l’assegnazione dei lotti di cui si compone il P.I.P., qualsiasi intento
speculativo, di carattere eminentemente privato, che le imprese stesse
intendano eventualmente perseguire in assenza della realizzazione degli
obiettivi pubblicistici per i quali l’assegnazione in loro favore è stata
disposta.
Vuoi che si introduca una specifica sanzione (la decadenza,
appunto), vuoi che si utilizzi il rimedio civilistico della risoluzione per
inadempimento, spetta comunque all’amministrazione procedente indicare
espressamente nella convenzione-tipo i comportamenti “devianti” con
riferimento ai quali non è sufficiente l’irrogazione di una sanzione
pecuniaria, comunque ricondotta alla violazione di singoli obblighi.
L’inserimento di “sanzioni”, infatti, che la legge (art. 27 della l. n. 865
del 1971) sembra limitare a quelle di natura pecuniaria, trova nella legge
primaria la sua fonte di legittimazione, seppure il contenuto specifico
delle condotte illecite venga demandato, mediante un meccanismo di rinvio
che richiama, mutatis mutandis, quello delle norme penali in bianco, al
livello sinallagmatico. Da qui la portata determinante, ai fini della
legittimità della sanzione stessa, della regolamentazione generale
dell’operazione, non a caso comprensiva dell’approvazione dello schema del
successivo contratto.
Tra le violazioni rilevanti ai fini della risoluzione
per inadempimento o della irrogazione della decadenza, di regola non può
rientrare il mancato pagamento degli oneri concessori, stante che
«quand’anche risultino trasfuse in apposita convenzione urbanistica, le
prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del
privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica. […] infatti, l’amministrazione è tenuta ad eseguire le opere
di urbanizzazione ed a dotare degli indispensabili standard il comparto ove
viene allocato il nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale
pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia
ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento del
contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di
urbanizzazione» (ancora
A.P.,
n. 24 del 2016)
(Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 19.04.2022 n. 2953 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
9. Le vicende di cui è causa -delle quali la seconda costituisce mero
sviluppo della prima– traggono origine dagli atti negoziali accessivi al
Piano per gli insediamenti industriali (P.I.P.) che il Comune di Eboli ha
approvato con delibera consiliare n. 11 del 03.03.1999 e dalla conseguente
interpretazione degli stessi posta a base dell’impugnata decadenza.
9.1. Come la Sezione ha già avuto modo di ricordare con riferimento ad altre
tipologie di atti urbanistici attuativi, la reductio ad unum della vasta
pletora di strumenti pattizi ad essi connessi si è avuta con l’entrata in
vigore dell’art. 11 della l. n. 241 del 1990, al quale si riconducono ormai
tutte le astratte possibilità di accordo cui la pubblica amministrazione può
addivenire con i privati, superando le letture “timide” delle singole
pregresse norme di settore, ispirate quasi sempre dalla preoccupazione di
difendere la preponderanza del profilo pubblicistico, quasi che l’attingere
a strumenti e ambiti privatistici ne comportasse la messa in pericolo o il
depotenziamento (ex ceteris, Cons. Stato, sez. II, 19.01.2021, n. 579).
Con tale norma di sistema si è definitivamente positivizzata la capacità
negoziale delle amministrazioni pubbliche, individuando nel procedimento il
“luogo” tipico nel quale potestà e autonomia negoziale possono trovare un
giusto momento di sintesi, sì da asservire la seconda, in quanto modalità
ritenuta più conveniente in relazione al singolo caso di specie, al
perseguimento dell’interesse pubblico che connota la prima. Laddove, cioè,
il responsabile del procedimento valuti che il modulo della negoziazione
costituisce lo strumento più idoneo per la composizione degli interessi
coinvolti nell’azione amministrativa, può addivenire alla stipula di un
contratto cui l’ordinamento giuridico ricollega determinati effetti,
ciascuno dei quali a sua volta conseguibile anche con provvedimenti.
La
significatività dell’istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare aspetti
necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente
autoritativi. Si realizza così un’efficace sintesi -rectius, la miglior
sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico agente- tra
l’interesse pubblico sotteso all’intervento, complessivamente inteso, quale
metodologia per il suo perseguimento e il necessario incontro tra le
volontà. L’esercizio della potestà pubblicistica non va a detrimento della
capacità privatistica, ma si somma ad essa: vi è un concorso e non un’alternatività
di poteri, salva, ovviamente, l’impossibilità di conseguire due volte lo
stesso risultato.
10. Le convenzioni o atti unilaterali d’obbligo accessivi a piani
urbanistici attuativi, pur appartenendo al più ampio genus degli atti
dispositivi coi quali il privato assume obbligazioni, in quanto per lo più
orientate al rilascio del titolo edilizio in cui sono destinate a confluire,
non rivestono un’autonoma efficacia negoziale, ma incidono tramite la stessa
sul provvedimento cui sono intimamente collegate, tanto da divenirne un
elemento qualificato, mutuando la terminologia di cui alla nota sistematica
civilistica che distingue tra essentialia e accidentalia negotii, come
“accidentale” (cfr. sul punto Cons. Stato, sez. IV, 26.11.2013, n.
5628; Cass., Sez. Un., 11.07.1994, n. 6527; id., 20.04.2007, n.
9360).
Si è perciò affermato, ad esempio, che la convenzione stipulata tra un
Comune e un privato costruttore, con la quale questi, al fine di conseguire
il rilascio di un titolo edilizio, si obbliga ad un facere o a determinati
adempimenti nei confronti dell’ente pubblico (quale, ad esempio, la
destinazione di un’area ad uno specifico uso, cedendola), non costituisce un
contratto di diritto privato, ma neppure ha specifica autonomia e natura di
fonte negoziale del regolamento dei contrapposti interessi delle parti
stipulanti, configurandosi come atto intermedio del procedimento
amministrativo volto al conseguimento del provvedimento finale, dal quale
promanano poteri autoritativi della pubblica amministrazione.
11. La legge 22.10.1971, n. 865 già conteneva due esempi “tipizzati” di
ciò che nel tempo è stato sussunto nell’ampia e per certi versi impropria
dizione di “edilizia convenzionata”, di fatto estendendo per utilità
linguistica la definizione all’epoca contenuta nella rubrica dell’art. 7
della legge 28.02.1977, n. 10, che in verità faceva esclusivo
riferimento agli accordi siglati con il richiedente un titolo edilizio con
finalità residenziale per calmierare preventivamente i futuri canoni di
locazione o prezzi di vendita degli immobili relativi.
In particolare, l’art. 27, per quanto qui di specifico interesse, nel
consentire ai Comuni dotati di piano regolatore o di programma di
fabbricazione, di imprimere un regime giuridico lato sensu “produttivo” ad
una determinata zona, nel contempo garantendo l’accesso alle aree ivi
comprese ad operatori economici che ne garantiscano l’utilizzo in funzione
dello stesso, prevede che all’atto della concessione dei lotti, in proprietà
o in superficie, nella percentuale normativamente data, venga siglata una
convenzione che individui anche «gli oneri posti a carico del concessionario
o dell’acquirente e le sanzioni per la loro inosservanza» (ultimo comma).
Nell’ambito dell’edilizia residenziale l’art. 35 disciplina invece i c.d.
Piani per l’edilizia economica e popolare (P.E.E.P.), che egualmente si
completano con gli accordi tra privati superficiari e pubblica
amministrazione, cristallizzati in una convenzione-tipo che può prevedere,
tra le sanzioni per l’inosservanza degli obblighi ivi stabiliti, anche la
decadenza, quale “punizione” per i casi ritenuti di maggiore gravità.
12. L’inserimento di “sanzioni”, riferito per lo più a quelle di natura
pecuniaria, trova nella legge primaria la sua fonte di legittimazione,
seppure il contenuto specifico delle condotte illecite venga demandato,
mediante un meccanismo di rinvio che richiama, mutatis mutandis, quello
delle norme penali in bianco, al livello sinallagmatico. Da qui la portata
determinante, ai fini della legittimità della sanzione stessa, della
regolamentazione generale dell’operazione, non a caso comprensiva
dell’approvazione dello schema del successivo contratto.
13. Lo strumento di pianificazione attuativa e lo schema di convenzione ad
esso allegato costituiscono in effetti atti distinti, ma giuridicamente
connessi. Ovviamente, mentre, come chiarito, piano urbanistico attuativo e
schema di convenzione formano oggetto di un unico atto di approvazione, la
convenzione propriamente detta (cioè il contratto ad oggetto pubblico
successivamente stipulato) costituisce certamente un atto negoziale autonomo
(nel senso di essere giuridicamente distinto dal provvedimento – atto
unilaterale di approvazione), purché ad esso conforme.
A ciò consegue che il
contenuto dell’atto negoziale in concreto può essere anche variegato e
atipico, ma la parte di esso strumentale all’attuazione del Piano è
necessariamente tipica. Siccome, cioè, l’attuazione dei P.I.P. dipende in
larga misura dal rispetto degli accordi sottoscritti tra le parti,
l’assegnazione dei lotti è soltanto un mezzo per raggiungere lo scopo ad
essi sotteso.
Essi, proprio in quanto qualificabili “convenzioni” di
cessione delle aree, da ricondursi all’ambito degli accordi tra privati e
pubblica amministrazione di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990, in
ragione della loro inerenza all’esercizio di poteri pubblici e a finalità
pubblicistiche, implicano il mantenimento in capo all’amministrazione di una
posizione di supremazia in funzione del raggiungimento dell’interesse
pubblico connesso alla realizzazione di un impianto produttivo che si
estrinseca mediante l’utilizzo di istituti mutuati dal codice civile.
14. D’altro canto non può non darsi rilievo alla diversità terminologica
utilizzata dal legislatore, nel contesto peraltro del medesimo testo
normativo (l. n. 865/1971), con riferimento alle sanzioni previste dagli
accordi connessi ai P.E.E.P. rispetto a quelle riconducibili ai P.I.P.: solo
per i primi, infatti, con riferimento ai casi più gravi è richiamata la
decadenza, che incide sul diritto di superficie, non essendo contemplata in
tale ambito l’originaria concessione in proprietà.
15. Giova al riguardo ricordare quanto affermato dall’Adunanza plenaria di
questo Consiglio di Stato (cfr. A.P. 11.09.2020, n. 18) che, con
riferimento alla decadenza quale misura sanzionatoria, ha ricordato la
necessità, ai fini dell’integrazione dei presupposti, dell’elemento
soggettivo del dolo o della colpa, nonché il limite dell’effetto ablatorio
prodotto, che può coincidere al massimo con l’utilità innanzi concessa
attraverso il pregresso atto ampliativo sul quale essa incide. Tali tratti
consentono peraltro di distinguerla dalla omonima, ma ben diversa vicenda
pubblicistica estintiva, ex tunc o in alcuni casi ex nunc, di una posizione
giuridica di vantaggio (c.d. “beneficio”).
16. Tali questioni consentono di mettere in luce un ulteriore profilo
problematico posto dall’art. 11, comma 2, della l. n. 241 del 1990, laddove
si afferma che «si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del
codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili».
Ciò implica che lo stesso effetto della decadenza può essere ottenuto
facendo ricorso ai normali istituti civilistici di scioglimento del
contratto, comunque “punitivi” del comportamento inadempiente di una parte a
fronte del pieno adempimento della controparte. La giurisprudenza si è da
tempo pronunciata sulla applicabilità, ad esempio, dell’art. 1453, in
materia di risoluzione per inadempimento (Cons. Stato, sez. IV, 09.11.2004, n. 7245), ovvero della clausola penale (Cons. Stato, sez. IV,
03.12.2015, n. 5510), così come sono stati ritenuti compatibili con la
materia i rimedi di cui all’art. 1463 c.c., sulla impossibilità
sopravvenuta, ovvero 1467 c.c., sulla eccessiva onerosità sopravvenuta.
16.1. L’utilizzo dell’uno o dell’altro strumento non è affatto neutro da un
punto di vista giuridico, stante che l’irrogazione della sanzione rientra
tra i poteri autoritativi del soggetto pubblico che ne ha la competenza, in
posizione sovraordinata rispetto al privato trasgressore, che nel caso di
specie è anche contraente, mentre la risoluzione presuppone la previa
condivisione pattizia della ripartizione degli obblighi e delle conseguenze
che si intendono riconnettere alla loro violazione.
17. Può affermarsi che l’inadempimento agli obblighi strettamente funzionali
all’esercizio del potere di governo del territorio fa venire meno la
causa/giustificazione pubblicistica della concessione del diritto di
proprietà, rendendone addirittura doverosa la revoca, sub specie di
decadenza dal diritto preventivamente accordato, ovvero, più correttamente,
di risoluzione della concessione-contratto (sul punto, v. Cons. Stato, sez.
IV, 04.03.2021, n. 1864). Per tale via, la risoluzione dell’accordo di
cessione finisce per comportare una “sostanziale” decadenza e
conseguentemente implica effetti estintivi –recte, retrocessivi- della
proprietà.
18. Proprio enfatizzando la finalità economico-sociale sottesa all’adozione
dei P.I.P. la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha anche di
recente ritenuto legittimo l’inserimento della decadenza dalla proprietà
nelle clausole convenzionali, nonché necessitata e doverosa la sua
applicazione a fronte dell’inerzia protratta nel tempo della parte
beneficiaria di una proprietà teleologicamente orientata ad uno scopo
pubblico.
La peculiarità dello strumento urbanistico di cui oggi è causa
risiede infatti nella necessità che la sua concreta attuazione passi
attraverso un trasferimento di proprietà da soggetti privati a soggetti
imprenditori, che vengono “privilegiati” rispetto ai primi nella misura in
cui compartecipano alla finalità di riordino, ma anche di sviluppo in
termini di attrattività economica del territorio (per la classificazione dei
P.I.P. innanzi tutto quale strumento di politica economica, cfr., inter alia,
Cons. Stato, sez. IV, 11.06.2015, n. 2878; id., 05.03.2015, n. 1125;
13 febbraio 2020 n. 1158; sez. V, 15.01.2020 n. 377; sez. II, 15.07.2019 n. 4961; nonché Cass. civ., sez. un., 26.03.2019, n. 8415).
Il beneficio collettivo che deriva da tali scelte di politica economica,
prima e oltre che urbanistica, diviene la cartina di tornasole della scelta
comparativa tra interessi in gioco, tutti egualmente garantiti. Il P.I.P non
ha in definitiva solo la finalità di assicurare l’assetto urbanistico voluto
all’area ove si vanno a collocare i nuovi complessi produttivi, ovvero
convergono, a seguito di delocalizzazione, quelli già attivi sul territorio;
esso mira anche ad offrire alle imprese –ad un prezzo calmierato e previa
espropriazione ed urbanizzazione– le aree medesime in quanto occorrenti per
l’insediamento o la prosecuzione della loro attività.
L’assegnazione dei lotti in proprietà o la concessione in uso a prezzi
inferiori a quelli di mercato costituisce pertanto uno strumento di
promozione mediante abbattimento di costi, con effetto economicamente
equivalente ad un incentivo finanziario per la realizzazione di stabilimenti
produttivi.
In tal modo l’ordinamento realizza «un razionale e soddisfacente
punto di equilibrio tra la tutela del diritto della proprietà privata e il
sostegno alle produzioni economiche che creano posti di lavoro, redditi e
ricchezza, non allo scopo di discriminare il proprietario terriero rispetto
all’imprenditore, né di impoverire i bilanci degli enti locali, bensì
all’unica finalità di conformare in senso sociale e redistributivo le
ricchezze, consentendo il fruttuoso utilizzo di fondi altrimenti
inutilizzati o utilizzati per scopi non produttivi o, comunque, per scopi
non idonei ad assicurare l’incremento di ricchezza del territorio in
generale» (cfr., inter alia, Cons. Stato, sez. IV, 11.06.2015, n.
2878; id., 05.03.2015, n. 1125; 13.02.2020, n. 1158; sez. V, 15.01.2020, n. 377; sez. II, 15.07.2019 n. 4961; nonché Cass. civ.,
sez. un., 26.03.2019, n. 8415).
Il «privato beneficiato da questo grave sacrificio individuale» si trova
investito finanche «di una posizione giuridica fonte di responsabilità
sociale, rispetto agli oneri e ai costi giuridici, economici e organizzativi
sostenuti dall’Amministrazione pubblica per consentire la realizzazione del
programma, ad un tempo urbanistico e di politica economica» (sul punto, v.
ancora Cons. Stato, n. 1864/2021, cit. supra).
18.1. In sintesi, anche a non voler enfatizzare la funzione redistributiva
della ricchezza del P.I.P., ne è innegabile la finalità (anche)
socio-economica, che trasmoda necessariamente nell’accordo con il quale il
privato si impegna a realizzare l’opera nello specifico contesto di
riferimento. Da qui la possibilità di “recuperare” lo sviamento dalla causa
pubblicistica utilizzando l’effetto risolutivo dell’inadempimento,
addivenendo al medesimo risultato della decadenza sanzionatoria.
19. Che la questione sia di soluzione tutt’altro che agevole è tuttavia
dimostrato dalla presenza nell’ordinamento di previsioni normative di
settore che escludono la retrocessione della proprietà in mano pubblica
quale effetto conseguenziale della decadenza del privato assegnatario
inadempiente.
L’art. 63 della l. 23.12.1998, n. 448, recante «Misure di finanza
pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo», con riferimento
all’attuazione dei P.I.P. per il tramite dei consorzi di sviluppo
industriale di cui all’art. 36 della l. 05.10.1991, n. 317, ovvero enti
pubblici economici costituiti ai sensi della vigente legislazione nazionale
e regionale con la finalità di promuovere «le condizioni necessarie per la
creazione e lo sviluppo di attività produttive nei settori dell’industria e
dei servizi», sotto la significativa rubrica «Provvedimenti per favorire lo
sviluppo industriale», prevede espressamente la decadenza dalla proprietà
dell’assegnatario in caso di inadempienza all’obbligo di costruzione del
manufatto a vocazione produttiva in funzione della realizzazione del quale
essa gli è stata assegnata.
I consorzi dunque hanno la facoltà di “riacquistare” la proprietà delle aree
cedute per iniziative industriali o artigianali nell’ipotesi in cui il
cessionario non realizzi lo stabilimento nel termine di cinque anni dalla
cessione, nonché finanche, unitamente alle stesse, gli stabilimenti
industriali o artigianali ivi realizzati nell’ipotesi in cui sia cessata
l’attività industriale o artigianale da più di tre anni.
E’ stata più volte
riconosciuta natura espropriativa al procedimento disciplinato dall’art. 63
della l. 23.12.1998, n. 448, che di fatto attribuisce al consorzio il
potere autoritativo di disporre la risoluzione del contratto ed il
riacquisto dei beni venduti al privato per mancata realizzazione del
programma industriale.
Essa configura cioè un vero e proprio diritto potestativo pubblico, che si
esplica in un’azione di recupero del bene per ripristinarne la destinazione
istituzionale a mezzo di un atto che ha natura lato sensu espropriativa in
quanto incide sul diritto di proprietà del titolare dello stesso, seppure
funzionalizzato e soggetto ad immanente vincolo di destinazione (Cons.
Stato, sez. VI, 07.02.2012, n. 664; sez. IV, 09.11.2021, n. 7436; id., 29.10.2021, n. 7251).
20. Ciò posto l’unico modo per individuare il giusto punto di equilibrio tra
esigenze di effettività del procedimento di pianificazione e modalità
negoziale di regolamentazione dei rapporti può essere individuato nella
stretta compenetrazione dell’una nelle altre, presidiando -e quindi di fatto
perseguendo- con maggior rigore solo quei comportamenti che minano alla
radice la fattibilità dell’intervento, perché inerti, tardivi, ovvero,
appunto, “sviati” dalla causa. L’inerzia o il ritardo nell’attivarsi da
parte di un’impresa assegnataria va contro alla ratio della pianificazione,
da svilupparsi nella tempistica stabilita per le varie iniziative, al fine
di realizzare concretamente le finalità pubbliche ad essa sottese.
Egualmente non può non essere escluso in radice (e quindi “sanzionato”),
alla luce dei plurimi interessi collettivi che sottendono l’assegnazione dei
lotti di cui si compone il P.I.P., qualsiasi intento speculativo, di
carattere eminentemente privato, che le imprese stesse intendano
eventualmente perseguire in assenza della realizzazione degli obiettivi
pubblicistici per i quali l’assegnazione in loro favore è stata disposta.
Spetta tuttavia all’amministrazione procedente indicare espressamente nella
convenzione tipo i comportanti “devianti” con riferimento ai quali non è
sufficiente l’irrogazione di una sanzione, comunque ricondotta alla
violazione di singoli “oneri”.
21. Nel caso in esame l’inadempimento ascritto alla Società si sarebbe
concretizzato nell’omesso pagamento degli oneri concessori al Consorzio che
peraltro, malgrado l’esplicita previsione in tal senso contenuta nel
Regolamento sulle modalità di assegnazione dei lotti, non risulta essersi
dotato del richiesto atto generale che ne avrebbe dovuto chiarire
preventivamente le modalità.
21.1. Secondo l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria (A.P., 07.12.2016,
n. 24; conforme la giurisprudenza successiva, ex multis, Cons. Stato, sez.
IV, 31.08.2017, n. 4123) un’amministrazione comunale ha il pieno potere
di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la
sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di
omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione.
Il
contributo per il rilascio del permesso di costruire ha natura di
prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, generale, che
prescinde totalmente delle singole opere di urbanizzazione che devono in
concreto eseguirsi, venendo determinato indipendentemente sia dall’utilità
che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese
effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
In ragione di tanto, per la loro esecuzione, che consegue al fatto
edificatorio in sé considerato, l’amministrazione comunale attinge
normalmente alla fiscalità generale, senza necessariamente attendere il
pagamento del contributo da parte dell’obbligato, e quindi a prescindere dal
suo puntuale adempimento. Ciò implica tuttavia che «quand’anche risultino
trasfuse in apposita convenzione urbanistica, le prestazioni da adempiere da
parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo
edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica.
Come si è detto, infatti, l’amministrazione è tenuta ad eseguire le opere di
urbanizzazione ed a dotare degli indispensabili standard il comparto ove
viene allocato il nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale
pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia
ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento del
contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di
urbanizzazione» (ancora A.P., n. 24 del 2016).
Per tale ragione il mancato pagamento degli oneri legittima
l’amministrazione comunale ad esercitare il suo potere di applicare sanzioni
pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo (art. 42 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla
riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme in materia di
riscossione coattiva delle entrate (Consiglio di Stato, sez. IV, 07.11.2017, n. 5133), ma non ne viene intaccata la validità del titolo, sicché men
che meno se ne può ipotizzare un impatto sulla proprietà.
21.2. La prospettiva non cambia laddove oggetto della convenzione
urbanistica sia non l’ammontare degli oneri, ma l’accollo della
realizzazione delle opere a scomputo delle stesse. In tali casi, infatti,
premesso che il termine finale per l’adempimento viene ricondotto a quello
di efficacia del piano urbanistico, tale termine costituisce anche il
dies a quo per le azioni civilistiche finalizzate all’adempimento o al
risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, non
potendosi ritenere, ex art. 2935 c.c., che, in costanza di termine per
adempiere, possa correre la prescrizione (Cons. Stato, sez. IV, 15.10.2019, n. 7008; id., 14.05.2019, n. 3127; 13.11.2020, n. 7024).
Questione tuttavia estranea al perimetro dell’odierna controversia, stante
che non risulta in atti, né è stato chiarito ex post dal Comune di Eboli,
l’accordo tra quest’ultimo e il Consorzio in ordine alla ripartizione degli
oneri, prevedendosi solo che nell’eventualità che l’amministrazione non
intenda realizzare le opere di urbanizzazione direttamente, l’imprenditore
contribuisca ai costi «nella misura e con le modalità stabilite dalla
Società consortile mista p.a.» (art. 2 della Convenzione preliminare di
cessione del lotto).
In sintesi, manca a monte, o comunque non è stato documentato, l’atto, anche
pattizio, in forza del quale è stata ripartita la realizzazione delle opere
di urbanizzazione, eventualmente a scomputo, tra il Comune di Eboli e il
Consorzio, nonché, a cascata, tra quest’ultimo e i suoi soci. Da qui
l’impossibilità di ricondurre all’inadempimento di un obbligo imprecisato
nei suoi contorni effettivi una conseguenza così grave quale la perdita
della proprietà.
22. D’altra parte l’inadempimento di cui si discute, peraltro solo parziale,
riguarda gli obblighi assunti nei confronti del Consorzio, non
dell’amministrazione, seppure quest’ultima se ne sia fatta in qualche modo
garante, come meglio chiarito nel prosieguo, in sede di analisi del
contenuto in concreto degli atti convenzionali.
Lo schema seguito dal Comune
di Eboli evoca ragionevolmente quello di cui all’art. 63 della l. n. 444 del
1998, richiamato al § 17, ma se ne diversifica ampiamente in quanto il
soggetto attuatore è sì un Consorzio fra imprenditori, ma non preesistente e
già finalizzato alla tutela delle ragioni di categoria, bensì creato ad
hoc, attingendo al modello della società a partecipazione pubblica.
Per
il suo tramite, almeno in fase di prima attuazione, si ottiene altresì
l’effetto di affidare direttamente la gestione dell’operazione, ritenendo
accertata -in verità, in modo tutt’affatto chiaro- quella «comprovata
valenza» e quegli «oggettivi elementi di forte innovazione e/o
cospicuo valore economico ed occupazionale» che, ai sensi dell’art. 17
del più volte richiamato Regolamento, consentono di agire in deroga alle
regole sull’evidenza pubblica.
22.1. Anche sotto tale profilo la prassi ha conosciuto e conosce varie
soluzioni operative, con forme e contenuti diversi ed articolati, che spesso
prevedono da parte dei lottizzanti -recte, nel caso di specie, assegnatari-
l’impegno a conferire tutte le aree rientranti nell’ambito della
lottizzazione a un Consorzio costituito all’uopo “mettendo in comunione” tra
i consorziati le aree stesse o -magari- i soli beni funzionali alle opere
di urbanizzazione con lo scopo ulteriore di addivenire alla redistribuzione
delle aree residue (c.d. consorzio “di urbanizzazione”, istituto di
elaborazione dottrinaria la cui sussunzione all’uno o all’altro dei sodalizi
civilistici da cui attinge elementi è ad oggi fonte di acceso dibattito).
22.2. La soluzione scelta dal Comune di Eboli, di progressivo rafforzamento
del ruolo del Consorzio misto nello sviluppo del procedimento, l’adesione al
quale solo in un secondo momento è stata statuita “a pena di decadenza”,
impone una cautela ancora maggiore nella perimetrazione degli inadempimenti
che possono integrare lo sviamento dalla finalità pubblicistica,
distinguendoli da quelli che attengono ai rapporti tra le parti private,
indici caso mai dell’incapacità gestionale del referente unico che
l’amministrazione ha inteso darsi nel procedimento (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 19.04.2022 n. 2953 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Secondo
consolidato insegnamento giurisprudenziale, i principi del codice civile in
materia di obbligazioni e contratti sono certamente applicabili alle
convenzioni urbanistiche, quali accordi tra privati e Amministrazione,
ai sensi dell'art. 11 della legge n. 241 del 1990, sottoposti alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo (art. 133, comma 1, lettera a, n. 2, e
lett. f, cod. proc. amm.).
Sulla base dei suddetti criteri,
le clausole di una Convenzione urbanistica vanno interpretate in maniera
logico-sistematica e considerandole complessivamente, poiché "ai fini della
ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale
strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle
espressioni utilizzate" e "il
rilievo da assegnare alla formulazione letterale va invero verificato alla
luce dell'intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere
considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento
ai sensi dell'art. 1363 c.c., giacché per senso letterale delle parole va
intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in
ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte
soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più
clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole
al fine di chiarirne il significato".
---------------
Ai fini della ricerca della comune volontà delle parti va considerato che
costituisce ius receptum in giurisprudenza il principio secondo il quale, se
è vero che l'ammissione allo scomputo costituisce oggetto di una valutazione
ampiamente discrezionale da parte dell'Amministrazione (che ben può optare
per soluzioni diverse, senza alcun obbligo di specifica motivazione), un
vero e proprio diritto sorge in capo al privato proponente allorché, a
fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione, ovvero
dell'impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di "accettazione"
consensuale da parte della stessa Amministrazione.
La giurisprudenza richiede, inoltre, che l’accettazione emerga da una
convenzione “completa”, da cui risulti la consapevole e chiara volontà
dell’ente di accordare lo scomputo e delle modalità con cui esso debba
essere operato, dovendo potersi desumere dal contesto convenzionale anche
l’avvenuta stima del costo delle opere e, dunque, il calcolo dell’importo al
quale il Comune ha deciso consapevolmente di rinunciare (<<è [...]
necessaria la previa stipulazione di una convenzione "completa", vale a dire
includente anche la dettagliata stima del costo delle opere di diretta
realizzazione: evidente la ratio, volta a consentire al Comune la
valutazione sulla convenienza dell'operazione e la congruità della spesa
[...]>>.
---------------
La controversia verte intorno all’interpretazione delle clausole
della convenzione urbanistica accessiva al piano di lottizzazione approvato
dal Comune resistente relative allo scomputo del contributo di costruzione
dal valore delle opere di urbanizzazione realizzate dai lottizzanti.
Giova richiamare il contenuto degli articoli della convenzione richiamati
dalle parti a sostegno delle proprie ragioni.
L’art. 11 della convenzione, che disciplina lo “Scomputo della quota di
contributo per oneri di urbanizzazione”, prevede che “Ai sensi e per gli
effetti del combinato disposto dell’art. 63, punto 2, e dell’art. 66 della L. 22/06/1985, n. 61, al momento del rilascio dei singoli permessi di
costruire, la ditta concessionaria avrà diritto allo scomputo delle spese
sostenute dal lottizzante, successori o aventi causa per la realizzazione
delle opere di urbanizzazione.
Lo scomputo avverrà sulla base del Computo Metrico Estimativo allegato, nel
quale sono evidenziati i lavori relativi alle opere di urbanizzazione
primaria per un importo di Euro 1.060.000,00 (…) e quelli relativi alle
opere di urbanizzazione secondaria per un importo di Euro 740.000,00 (…),
con tali valori verrà determinata l’incidenza a mc di volume edificabile
sulla lottizzazione delle spese sostenute per la realizzazione delle opere
di urbanizzazione primarie e secondarie che dovranno essere rendicontate dal
collaudatore alla completa ultimazione dei lavori”.
Lo scomputo totale o parziale è ammesso solo tra opere di urbanizzazione
della stessa categoria come previsto dall’ultimo periodo del 1° comma
dell’art. 86 della L.R. 27/06/1985, n. 61, salvo diverse disposizioni di
legge.
Se la quota di contributo è uguale o inferiore ai costi, nulla è dovuto; se
la quota di contributo è superiore, il richiedente il permesso di costruire
paga la differenza.
Nel caso gli importi accertati dalla contabilità finale dei lavori e/o delle
opere ed approvati dal collaudatore risultassero inferiori a quelli
tabellari dovuti per il rilascio dei permessi di costruire, la ditta dovrà
versare i relativi importi a conguaglio prima della dichiarazione di fine
lavori”.
L’articolo 6 (rubricato “ultimazione e collaudo delle opere di
urbanizzazione”, all’ultimo comma prevede: “Il collaudo sarà sia tecnico che
amministrativo e approverà anche la contabilità finale dei lavori e/o delle
opere al fine di certificare le somme effettivamente [s]computabili dagli
oneri di urbanizzazione tabellari con le modalità di cui all’art. 15
(quindici) [rectius 11 (undici)] “Scomputo oneri di urbanizzazione.”.
Secondo consolidato insegnamento giurisprudenziale, i principi del codice
civile in materia di obbligazioni e contratti sono certamente applicabili
alle convenzioni urbanistiche (Consiglio di Stato, IV, 07.03.2018, n.
1475; TAR Lombardia, Milano, II, 05.03.2021, n. 610; 23.06.2020, n.
1166; 03.04.2014, n. 879), quali accordi tra privati e Amministrazione,
ai sensi dell'art. 11 della legge n. 241 del 1990 (ex multis, Cass., SS.UU.,
09.03.2012, n. 3689; Cass., I, 28.01.2015, n. 1615; TAR Lombardia,
Milano, II, 26.07.2016, n. 1507), sottoposti alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo (art. 133, comma 1, lettera a, n. 2, e
lett. f, cod. proc. amm.; Corte costituzionale, sentenza 15.07.216, n.
179; Cass., SS.UU., 05.10.2016, n. 19914; Consiglio di Stato, IV, 07.05.2015, n. 2313).
Sulla base dei suddetti criteri (da ultimo, TAR Milano, (Lombardia) sez. II, 15/09/2021, n. 2000 TAR Lombardia, Milano, II,
05.03.2021, n. 610),
le clausole di una Convenzione urbanistica vanno interpretate in maniera
logico-sistematica e considerandole complessivamente, poiché "ai fini della
ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale
strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle
espressioni utilizzate" (Cass. civ., III, 19.03.2018, n. 6675) e "il
rilievo da assegnare alla formulazione letterale va invero verificato alla
luce dell'intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere
considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento
ai sensi dell'art. 1363 c.c., giacché per senso letterale delle parole va
intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in
ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte
soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più
clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole
al fine di chiarirne il significato" (Cass. civ., III, 16.01.2007, n.
828; I, 22.12.2005, n. 284).
Alla luce dei ridetti criteri, pertanto, la pretesa dei ricorrenti deve
ritenersi fondata.
Ai fini della ricerca della comune volontà delle parti va considerato che
costituisce ius receptum in giurisprudenza il principio secondo il quale, se
è vero che l'ammissione allo scomputo costituisce oggetto di una valutazione
ampiamente discrezionale da parte dell'Amministrazione (che ben può optare
per soluzioni diverse, senza alcun obbligo di specifica motivazione), un
vero e proprio diritto sorge in capo al privato proponente allorché, a
fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione, ovvero
dell'impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di "accettazione"
consensuale da parte della stessa Amministrazione (cfr. TAR Marche, sez.
I, 01.10.2018, n. 631; TAR Campania, Salerno, sez. I, 15.12.2016, n. 2653; TAR Liguria, sez. I, 29.09.2016, n. 955 (TAR
Venezia, (Veneto) sez. II, 15/07/2019, n. 835).
La giurisprudenza richiede, inoltre, che l’accettazione emerga da una
convenzione “completa”, da cui risulti la consapevole e chiara volontà
dell’ente di accordare lo scomputo e delle modalità con cui esso debba
essere operato, dovendo potersi desumere dal contesto convenzionale anche
l’avvenuta stima del costo delle opere e, dunque, il calcolo dell’importo al
quale il Comune ha deciso consapevolmente di rinunciare (<<è [...]
necessaria la previa stipulazione di una convenzione "completa", vale a dire
includente anche la dettagliata stima del costo delle opere di diretta
realizzazione: evidente la ratio, volta a consentire al Comune la
valutazione sulla convenienza dell'operazione e la congruità della spesa
[...]>> cfr. TAR Veneto, sez. II, 28.05.2008, n. 1626).
Nell’indagine sulla volontà delle parti intervenuta nel caso di specie, due
criteri, quello letterale-sistematico e quello teleologico, convergono verso
uno stesso risultato interpretativo, ossia che le parti abbiano inteso
consentire lo scomputo tra le medesime categorie di opere per come esse sono
state individuate e ripartite nel computo metrico estimativo (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 31.03.2022 n. 517 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le convenzioni di
lottizzazione, in quanto assimilabili ai piani particolareggiati, sono
assoggettate al termine massimo decennale di efficacia stabilito dall’art.
16, comma 5, l. 1150/1942 che non è suscettibile di alcuna ultrattività
temporale, essendo fissato per assicurare l’effettività e l’attualità alle
previsioni urbanistiche.
Risulta dunque irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza
del termine decennale di efficacia, la circostanza che l’impossibilità della
mancata attuazione della convenzione sia dovuta alla pubblica
amministrazione o al privato lottizzante, quest’ultimo peraltro potendo
chiederne una proroga prima che il termine sia decorso.
Successivamente alla scadenza, le previsioni della convenzione rimaste
inattuate divengono automaticamente inefficaci e non possono essere più
portate a esecuzione, mentre l’amministrazione riacquista il potere di
pianificazione dell’area interessata, pianificazione che può avvenire anche
per il tramite di una nuova convenzione urbanistica o il “recupero” parziale
o integrale della convenzione scaduta per le parti non attuate e
nell’inserzione di nuove previsioni relative al compendio.
---------------
9.5. La richiesta di presentare un
progetto di verde pubblico non è stata specificamente contestata dalla
ricorrente, che anzi in fase procedimentale si è dimostrata disponibile a
provvedervi.
9.6. Del pari non si ravvisa uno sviamento di potere rispetto alla
prospettata necessità di concludere una nuova convenzione urbanistica, in
sostituzione di quella del 06.11.2000.
Le convenzioni di lottizzazione, in quanto assimilabili ai piani
particolareggiati, sono assoggettate al termine massimo decennale di
efficacia stabilito dall’art. 16, comma 5, l. 1150/1942 (ex multis,
Cons. Stato, Sez. II, 01.07.2019, n. 4479; Id. 02.03.2020, n. 1485; TAR
Brescia, Sez. I, 29.04.2020, n. 306) che non è suscettibile di alcuna
ultrattività temporale, essendo fissato per assicurare l’effettività e
l’attualità alle previsioni urbanistiche (Cons. Stato, Sez. IV, 13.04.2005,
n. 1543; Id., 29.11.2010, n. 8384).
Risulta dunque irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza
del termine decennale di efficacia, la circostanza che l’impossibilità della
mancata attuazione della convenzione sia dovuta alla pubblica
amministrazione o al privato lottizzante (Cons. Stato, Sez. IV, 10.08.2011,
n. 4761; TAR Cagliari, Sez. II, 18.01.2018, n. 24; TAR Milano, Sez. II,
12.11.2019, n. 2392; Id., Sez. IV, 29.03.2021, n. 819), quest’ultimo
peraltro potendo chiederne una proroga prima che il termine sia decorso.
Successivamente alla scadenza, le previsioni della convenzione rimaste
inattuate divengono automaticamente inefficaci e non possono essere più
portate a esecuzione, mentre l’amministrazione riacquista il potere di
pianificazione dell’area interessata, pianificazione che può avvenire anche
per il tramite di una nuova convenzione urbanistica o il “recupero”
parziale o integrale della convenzione scaduta per le parti non attuate e
nell’inserzione di nuove previsioni relative al compendio (TAR Milano, Sez.
II, 14.12.2020, n. 2491).
Posta, dunque, l’impossibilità di portare a esecuzione la convenzione del
06.11.2000, in quanto scaduta, è legittima la richiesta del Comune di
addivenire a una nuova convenzione che recepisca le previsioni della
precedente, salve le modifiche discendenti dalle variazioni auspicate dalla
società (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 22.04.2021 n. 851 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’efficacia
del piano di lottizzazione è “subordinata alla stipula di una convenzione” che preveda, fra
l’altro, “i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere
ultimata l’esecuzione delle opere” di urbanizzazione primaria e secondaria
previste dal piano di lottizzazione medesimo (così art. 28, comma 5, n. 3,
della legge n. 1150/1942).
Il termine decennale di durata massima dell’efficacia del piano di
lottizzazione, previsto dall’art. 28 della legge n. 1150/1942, è chiara
espressione del carattere necessariamente limitato nel tempo del periodo di
efficacia dei piani attuativi –ricavabile, in via generale, dall’art. 17
della medesima legge–, la cui ratio risiede nell’inderogabile esigenza che
le specifiche scelte di governo del territorio effettuate in un determinato
periodo storico, cui tali tipologie di piano danno attuazione, siano
suscettibili di una nuova considerazione da parte dell’Ente in funzione di
adeguamento alle rinnovate esigenze e/o valutazioni degli interessi
urbanistici di una determinata area, qualora il piano attuativo non abbia
avuto esecuzione nell’arco del periodo di efficacia loro assegnato e
ritenuto congruo dall’ordinamento.
Pertanto, ancorché il termine di durata massima di efficacia del
piano di lottizzazione decorra dalla data di perfezionamento (recte: di
stipula) della convenzione urbanistica prevista dalla legge, quale atto
negoziale che accede allo strumento pianificatorio in esame, non può
ammettersi che mediante l’adozione di successive integrazioni della medesima
convenzione, o, addirittura, mediante la stipulazione di “nuove”
convenzioni, attuative del medesimo p.d.l., sia consentito superare –o
addirittura eludere– per via pattizia il termine legale di efficacia
massima dello specifico piano attuativo considerato.
Infatti,
alla “convenzione” che accede al p.d.l. non può essere riconosciuta alcuna
natura o funzione di atto di disciplina urbanistica del territorio, ma
esclusivamente quella di atto negoziale avente ad oggetto il complesso delle
obbligazioni discendenti dall’approvazione dell’atto di pianificazione cui
accede. Conseguentemente, ad essa può riconoscersi esclusivamente natura
accessoria e funzionale all’attuazione delle previsioni urbanistiche dettate
dallo strumento attuativo.
Ne deriva che i termini di efficacia del piano di
lottizzazione sono modulabili solo nel limite massimo decennale previsto
dalla legge, di talché, decorso infruttuosamente tale termine, lo strumento attuativo perde automaticamente efficacia.
---------------
.4.2. Al fine di ricostruire il regime giuridico impresso all’area
ricompresa nel piano di lottizzazione ad iniziativa privata “Colle Formello”,
così come modificato dalle due varianti approvate, rispettivamente, nel 2005
e nel 2009, occorre premettere che lo strumento pianificatorio utilizzato
per l’intervento edilizio in esame è assimilabile, nella gerarchia degli
strumenti pianificatori urbanistici, ad un piano attuativo e/o
particolareggiato del P.R.G.
L’art. 28 della legge n. 1150/1942 ne subordina, infatti, la possibilità di
adozione alla previa “approvazione del piano regolatore generale o del
programma di fabbricazione di cui all’art. 34 della” legge medesima, e “fino
a quando non sia stato approvato il piano particolareggiato di esecuzione”.
7.4.3. Coerentemente con detto inquadramento, l’efficacia di tale strumento
attuativo è “subordinata alla stipula di una convenzione” che preveda, fra
l’altro, “i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere
ultimata l’esecuzione delle opere” di urbanizzazione primaria e secondaria
previste dal piano di lottizzazione medesimo (così art. 28, comma 5, n. 3,
della legge n. 1150/1942).
7.4.4. Il termine decennale di durata massima dell’efficacia del piano di
lottizzazione, previsto dall’art. 28 della legge n. 1150/1942, è chiara
espressione del carattere necessariamente limitato nel tempo del periodo di
efficacia dei piani attuativi –ricavabile, in via generale, dall’art. 17
della medesima legge–, la cui ratio risiede nell’inderogabile esigenza che
le specifiche scelte di governo del territorio effettuate in un determinato
periodo storico, cui tali tipologie di piano danno attuazione, siano
suscettibili di una nuova considerazione da parte dell’Ente in funzione di
adeguamento alle rinnovate esigenze e/o valutazioni degli interessi
urbanistici di una determinata area, qualora il piano attuativo non abbia
avuto esecuzione nell’arco del periodo di efficacia loro assegnato e
ritenuto congruo dall’ordinamento.
7.4.5. Pertanto, ancorché il termine di durata massima di efficacia del
piano di lottizzazione decorra dalla data di perfezionamento (recte: di
stipula) della convenzione urbanistica prevista dalla legge, quale atto
negoziale che accede allo strumento pianificatorio in esame, non può
ammettersi che mediante l’adozione di successive integrazioni della medesima
convenzione, o, addirittura, mediante la stipulazione di “nuove”
convenzioni, attuative del medesimo p.d.l., sia consentito superare –o
addirittura eludere– per via pattizia il termine legale di efficacia
massima dello specifico piano attuativo considerato.
7.4.6. Infatti, come condivisibilmente affermato dalla stessa resistente,
alla “convenzione” che accede al p.d.l. non può essere riconosciuta alcuna
natura o funzione di atto di disciplina urbanistica del territorio, ma
esclusivamente quella di atto negoziale avente ad oggetto il complesso delle
obbligazioni discendenti dall’approvazione dell’atto di pianificazione cui
accede. Conseguentemente, ad essa può riconoscersi esclusivamente natura
accessoria e funzionale all’attuazione delle previsioni urbanistiche dettate
dallo strumento attuativo.
Ne deriva che i termini di efficacia del piano di
lottizzazione sono modulabili solo nel limite massimo decennale previsto
dalla legge, di talché, decorso infruttuosamente tale termine, lo strumento attuativo perde automaticamente efficacia (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-quater,
sentenza 26.05.2020 n. 5556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: L’Adunanza
plenaria individua i soggetti ai quali può essere escussa la garanzia ex
art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Garanzia – Escussione –
Concorrente proposto per l’aggiudicazione – Esclusione.
Il comma 6 dell’art. 93, d.lgs. n. 50 del 2016 –nel
prevedere che la “garanzia provvisoria” a corredo dell’offerta “copre la
mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni
fatto riconducibile all’affidatario (…)”– delinea un sistema di garanzie che
si riferisce al solo periodo compreso tra l’aggiudicazione ed il contratto e
non anche al periodo compreso tra la “proposta di aggiudicazione” e
l’aggiudicazione (1).
---------------
(1) La questione è stata rimessa dalla sez. IV con
sentenza parziale 04.01.2022, n. 26.
Ha chiarito l’Alto consesso, in relazione alla natura e alla funzione della
“garanzia provvisoria”, che nella vigenza del Codice del 2006,
l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa distingueva la
“garanzia provvisoria” escussa nei confronti dei concorrenti di cui
all’art. 48, comma 1, e la “garanzia provvisoria” escussa nei
confronti dell’aggiudicatario di cui all’art. 75, comma 1 (Cons. Stato, Ad.
plen., 04.10.2005, n. 8; Cons. Stato, Ad. plen.,
10.12.2014, n. 34; Cons. Stato, sez. V, ord.
26.04.2021, n. 3299).
Alla prima tipologia di garanzia si assegnava natura sanzionatoria, con
funzione punitiva, in quanto l’amministrazione poteva escutere la garanzia,
incamerando la somma predeterminata, nei confronti di tutti gli offerenti
sorteggiati che non fossero in possesso dei requisiti di partecipazione, con
conseguenze economiche sovra-compensative. Ne conseguiva la necessità –in
conformità con le regole convenzionali (art. 7 Cedu)– di assicurare il
rispetto del principio di legalità e dei suoi corollari della prevedibilità,
accessibilità e limiti di applicabilità delle norme nel tempo.
Alla seconda tipologia di garanzia si assegnava natura non sanzionatoria,
qualificando la “cauzione” quale garanzia avente una valenza analoga
a quella della caparra confirmatoria e la “fideiussione” quale
contratto di garanzia personale, con funzione di evidenziare «la serietà ed
affidabilità dell’offerta» (Cons. Stato, Ad. plen.,
n. 34 del 2014, cit.), nonché con funzione compensativa dei danni subiti
dalla stazione appaltante.
Nella vigenza del Codice del 2016, l’orientamento prevalente della
giurisprudenza amministrativa, essendo stata eliminata la prima forma di
garanzia, ha attribuito alla “garanzia provvisoria” natura
esclusivamente non sanzionatoria.
L’Adunanza Plenaria ritiene che entrambi gli istituti in esame hanno natura
non sanzionatoria, con differente qualificazione giuridica a seconda che
venga in rilievo la “cauzione” o la “fideiussione”.
La “cauzione” è una obbligazione di garanzia di fonte legale imposta ai fini
della partecipazione alla gara, che deve essere eseguita dallo stesso
debitore. Nella fase fisiologica, la “cauzione” assolve alla funzione di
evidenziare la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo
dell’amministrazione di restituire la prestazione al momento della
sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “cauzione” ha natura
di rimedio di autotutela, con funzione compensativa, potendo
l’amministrazione incamerare il bene consegnato a titolo di liquidazione
forfettaria dei danni relativi alla fase procedimentale. In questa
prospettiva, non è conferente il richiamo alla caparra confirmatoria di cui
all’art. 1385 cod. civ., in quanto la stessa, nella configurazione del
codice civile, presuppone la stipulazione di un contratto –che, nella
specie, manca– con l’inserimento della clausola che consente, in caso di
inadempimento, di recedere dal contratto stesso trattenendo la caparra (cfr.
Cass. civ., sez. un., 14.01.2009, n. 553).
La “fideiussione”, che rileva in questa sede, è una obbligazione di garanzia
di fonte legale imposta ai fini della partecipazione alla gara, che sorge a
seguito della stipulazione di un contratto tra un terzo garante e il
creditore che si può perfezionare anche mediante la sola proposta del primo
non rifiutata secondo il meccanismo dell’art. 1333 cod. civ.
Tale forma di garanzia si caratterizza in modo peculiare rispetto al
contratto di fideiussione disciplinato dal codice civile (artt. 1936-1957
cod. civ.).
L’art. 1936 cod. civ. prevede che «è fideiussore colui che, obbligandosi
personalmente, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui». Le
regole civilistiche rilevanti in questa sede sono le seguenti:
i) il
fideiussore è obbligato in solido con il debitore principale al pagamento
del debito, con la possibilità che le parti convengano che il fideiussore
non sia tenuto a pagare prima dell’escussione del debitore (art. 1944, commi
1 e 2, cod. civ.);
ii) il fideiussore può opporre contro il creditore tutte
le eccezioni che spettano al debitore principale, salva quella derivante
dall’incapacità (art. 1945 cod. civ.);
iii) il fideiussore rimane obbligato
anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale, purché il creditore
entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia
con diligenza continuate (art. 1956, comma 1, cod. civ.).
L’art. 93, comma 4, del Codice dei contratti pubblici deroga alle
disposizioni sopra riportate, disponendo che deve essere prevista la
rinuncia:
i) al beneficio della preventiva escussione del debitore
principale;
ii) al rapporto di accessorietà, dovendo operare questa forma di
garanzia a semplice richiesta;
iii) all’eccezione che consente di fare
valere la garanzia anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale.
Tale peculiare disciplina e, in particolare, la deroga al rapporto di
accessorietà comporta che il tipo contrattuale deve essere identificato nel
contratto autonomo di garanzia (Cass. civ., sez. un., 18.02.2010, n.
3947).
Nella fase fisiologica, la “fideiussione” assolve alla sola funzione di
consentire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo
dell’amministrazione di svincolare tale garanzia al momento della
sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “fideiussione”
consente all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento
dell’obbligo di pagamento della somma predeterminata dalla legge con
funzione compensativa dei danni relativi alla fase procedimentale.
L’operatività di entrambe le forme di garanzia presuppone un “fatto” del
debitore principale che viola le regole di gara che comporta –a seguito
dell’eliminazione del riferimento al dolo e alla colpa grave da parte del
citato decreto legislativo n. 56 del 2017– la configurazione di un modello
di responsabilità oggettiva, con conseguente esclusione di responsabilità
nei soli casi di dimostrata assenza di un rapporto di causalità.
La questione specifica rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria riguarda
l’individuazione dei “soggetti” nei cui confronti può essere escussa la
“garanzia provvisoria”.
Diversamente da quanto suggerito dalla sezione remittente, il soggetto è
solo l’aggiudicatario.
Ed invero, sul piano dell’interpretazione letterale, il comma 6 dell’art.
93, d.lgs. n. 50 del 2016 è chiaro nello stabilire che «la garanzia copre la
mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni
fatto riconducibile all’affidatario (…)». Il riferimento sia
all’aggiudicazione, quale provvedimento finale della procedura
amministrativa, sia al «fatto riconducibile all’affidatario» e non anche al
concorrente destinatario della “proposta di aggiudicazione” rende palese il
significato delle parole utilizzate dal legislatore nel senso di delimitare
l’operatività della garanzia al momento successivo all’aggiudicazione (in
questo senso anche Cons. Stato, sez. IV,
15.12.2021, n. 8367, che ha esaminato una questione analoga a quella in
esame, con decisione, però, assunta successivamente alla camera di consiglio
con cui è stata disposta la remissione all’Adunanza Plenaria). Il comma 9
dello stesso art. 93 prevede, inoltre, che «la stazione appaltante,
nell’atto con cui comunica l’aggiudicazione ai non aggiudicatari, provvede
contestualmente, nei loro confronti, allo svincolo della garanzia» prestata
a corredo dell’offerta.
Il significato letterale della norma è confermato anche dal contenuto degli
atti della procedura di gara. Il disciplinare dispone, infatti, che «l’eventuale
esclusione dalla gara prima dell’aggiudicazione, al di fuori dei casi di cui
all’art. 89, comma 1, non comporterà l’escussione della garanzia provvisoria».
Sul piano dell’interpretazione teleologica, il legislatore ha inteso ridurre
l’ambito di operatività del sistema delle garanzie nella fase procedimentale,
come risulta dall’analisi della successione delle leggi nel tempo.
In particolare, il Codice del 2016 non ha confermato il sistema previgente
disciplinato dall’art. 48 del Codice del 2006, che prevedeva la possibilità,
ricorrendo i presupposti indicati, di escutere la garanzia, con funzione
sanzionatoria, anche nei confronti dei partecipanti alla procedura. Ne
consegue che l’estensione del perimetro della “garanzia provvisoria” si
porrebbe in contrasto con la ratio legis.
L’esposta diversità di regime ha indotto il Consiglio di Stato, con la
citata
ordinanza n. 3299 del 2021, a rimettere alla Corte Costituzionale la
questione relativa all’applicazione retroattiva della nuova disciplina della
“garanzia provvisoria” (applicata al solo aggiudicatario con funzione
compensativa) perché più favorevole rispetto alla precedente disciplina
(applicata anche al concorrente con funzione punitiva).
Sul piano dell’interpretazione sistematica, in primo luogo, dall’analisi del
contesto in cui la norma è inserita e, in particolare, dalla lettura
coordinata di alcune disposizioni del Codice risulta chiara la distinzione
tra la fase procedimentale relativa alla “proposta di aggiudicazione” e la
fase provvedimentale relativa all’“aggiudicazione”.
Con riguardo alla “proposta di aggiudicazione” formulata dalla commissione
di gara, il Codice –che, come già esposto, ha inteso attribuirle natura
autonoma– disciplina il rapporto tra essa e l’aggiudicazione. Il
destinatario della proposta è ancora un concorrente, ancorché
individualizzato. In questa fase si inseriscono i seguenti adempimenti:
i)
la stazione appaltante, prima dell’aggiudicazione dell’appalto, «richiede
all’offerente cui ha deciso di aggiudicare l’appalto (…) di presentare
documenti complementari aggiornati», nel rispetto di determinate modalità,
per dimostrare la sussistenza dei requisiti generali e speciali di
partecipazione alla gara (art. 85, comma 5);
ii) la “proposta di
aggiudicazione” «è soggetta ad approvazione dell’organo competente secondo
l’ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini dallo
stesso previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione
da parte dell’organo competente» (art. 33, comma 1);
iii) la stazione
appaltante, dopo la suddetta approvazione, «provvede all’aggiudicazione»
(art. 32, comma 5). Nella prospettiva della tutela, la “proposta di
aggiudicazione”, essendo atto endoprocedimentale, non è suscettibile di
autonoma impugnazione.
Con riguardo all’aggiudicazione, il Codice disciplina il rapporto tra essa e
il contratto. L’art. 32, comma 6, stabilisce che «l’aggiudicazione non
equivale ad accettazione dell'offerta», in quanto occorre la stipula del
contratto e l'offerta dell'aggiudicatario è irrevocabile per sessanta
giorni. Nella prospettiva della tutela, l’aggiudicazione è il provvedimento
finale di conclusione del procedimento di scelta del contraente che, in
quanto tale, ha rilevanza esterna e può essere oggetto sia di impugnazione
in sede giurisdizionale sia di autotutela amministrativa.
In secondo luogo, la valutazione sistematica anche delle regole civilistiche
impone di evitare che il terzo –che ha stipulato un contratto autonomo di
garanzia collegato al rapporto principale tra amministrazione e partecipante
alla procedura di gara– debba eseguire prestazioni per violazioni non
chiaramente definite dalle regole di diritto pubblico.
Sul piano dell’interpretazione analogica, la diversità della disciplina e
delle situazioni regolate relativa alle due fasi, risultante
dall’applicazione degli esposti criteri interpretativi, impedisce di
estendere alla fase procedimentale le “garanzie provvisorie” della fase provvedimentale per i motivi di seguito indicati.
Nel caso di mancata stipulazione del contratto a seguito di una
“aggiudicazione”, le ragioni, come esposto, possono dipendere sia dalla
successiva verifica della mancanza dei requisiti di partecipazione sia,
soprattutto, dalla condotta dell’aggiudicatario che, per una sua scelta,
decide di non stipulare il contratto. In queste ipotesi la stazione
appaltante deve annullare d’ufficio il provvedimento di aggiudicazione e
rinnovare il procedimento con regressione alla fase della “proposta di
aggiudicazione”.
In tale contesto i possibili pregiudizi economici determinati dalla condotta
dell’aggiudicatario sono coperti dalla “garanzia provvisoria” che consente
all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento della prestazione
dovuta con la finalità di compensare in via fortettaria i danni subiti
dall’amministrazione per violazione delle regole procedimentali nonché
dell’obbligo di concludere il contratto.
Nel caso di “mancata aggiudicazione” a seguito di una “proposta di
aggiudicazione”, i motivi di tale determinazione possono dipendere,
oltre che da ragioni relative all’offerta, dalla verifica negativa
preventiva del possesso dei requisiti di partecipazione del concorrente
individuato. In queste ipotesi, contrariamente a quanto affermato
nell’ordinanza di rimessione, l’amministrazione non è costretta a procedere
all’aggiudicazione e poi ad esercitare il potere di annullamento in
autotutela, potendosi limitare a non adottare l’atto di aggiudicazione e ad
individuare il secondo classificato nei cui confronti indirizzare la nuova “proposta
di aggiudicazione”.
In tale contesto i pregiudizi economici, se esistenti, hanno portata
differente rispetto a quelli che si possono verificare nella fase
provvedimentale, con possibilità per l’amministrazione, ricorrendone i
presupposti, di fare valere l’eventuale responsabilità precontrattuale del
concorrente ai sensi degli artt. 1337-1338 cod. civ. Rimane fermo, altresì,
il potere dell’Autorità nazionale anticorruzione di applicare sanzioni
amministrative pecuniarie qualora si accertino specifiche condotte contrarie
alle regole della gara da parte degli operatori economici (art. 213, comma
13, d.lgs. n. 50 del 2016) (Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza 26.04.2022 n. 7 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1.- La questione posta all’esame dell’Adunanza Plenaria attiene all’ambito
di operatività della “garanzia provvisoria”, che correda l’offerta dei
partecipanti alla procedura di gara, al fine di stabilire se essa copra
soltanto i “fatti” che si verificano nel periodo compreso tra
l’aggiudicazione e il contratto ovvero se si estenda anche a quelli che si
verificano nel periodo compreso tra la “proposta di aggiudicazione” e
l’aggiudicazione.
2.- In via preliminare, occorre ricostruire il quadro normativo rilevante.
2.1.- La disciplina contenuta nel decreto legislativo 01.04.2016, n. 50
(Codice dei contratti pubblici) è basata sulla distinzione tra:
i) la fase procedimentale, finalizzata alla selezione del migliore offerente mediante
l’adozione, all’esito del procedimento, del provvedimento di aggiudicazione;
ii) la fase provvedimentale, che va dall’aggiudicazione alla stipulazione
del contratto;
iii) la fase costitutiva di stipulazione del contratto tra
pubblica amministrazione e aggiudicatario;
iv) la fase esecutiva di
adempimento delle obbligazioni contrattuali.
La “proposta di aggiudicazione” si inserisce nella fase
procedimentale (art. 32, comma 5). Il legislatore ha attribuito autonomia
all’istituto in esame, recependo le indicazioni fornite dal parere del
Consiglio di Stato 01.04.2016, n. 855, che aveva ritenuto necessario
superare i dubbi interpretativi sorti con riguardo all’istituto, elaborato
in sede giurisprudenziale, dell’“aggiudicazione provvisoria” che era un atto infraprocedimentale, considerato, però, suscettibile, in via facoltativa, di
immediata impugnazione, con onere di impugnazione successiva anche
dell’“aggiudicazione definitiva”.
2.2.- Il Codice ha previsto che la fase procedimentale e la fase esecutiva
siano corredate da un sistema di “garanzie provvisorie” (che rilevano in
questa sede) e “garanzie definitive”.
2.2.1.- Nella vigenza del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice
dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione
delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce), l’art. 75, comma 1, disponeva che
l’offerta fosse corredata da una garanzia, pari al due per cento, del prezzo
base indicato nel bando o nell’invito, sotto forma di “cauzione” o di
“fideiussione” a scelta dell’offerente.
L’escussione di tale garanzia poteva avvenire secondo due differenti forme.
La prima forma era disciplinata dall’art. 48 di tale decreto che, a sua
volta, contemplava due diverse fattispecie.
La prima fattispecie prevedeva che le stazioni appaltanti, prima di
procedere all’apertura delle buste, dovessero richiedere ad un numero di
offerenti non inferiore al dieci per cento delle offerte presentate, scelti
con sorteggio pubblico, di provare, entro dieci giorni dalla richiesta, il
possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa (cd. requisiti speciali), eventualmente richiesti (cd.
controllo a campione). Nel caso in cui tale prova non fosse stata fornita
ovvero non fosse risultata conforme alle dichiarazioni contenute nella
domanda di partecipazione o nell’offerta, le stazioni appaltanti dovevano
procedere –oltre all’esclusione dalla gara e alla segnalazione all’Autorità
di vigilanza dei contratti pubblici (le cui funzioni sono oggi assegnate
all’Autorità nazionale anticorruzione), che avrebbe disposto la sospensione
da uno a dodici mesi dalla partecipazione alle procedure di affidamento–
alla «escussione della relativa cauzione provvisoria» (art. 48, comma 1).
L’altra fattispecie riguardava la richiesta indirizzata, entro dieci giorni
dalla conclusione delle operazioni di gara, anche all’aggiudicatario e al
concorrente che seguiva in graduatoria, qualora gli stessi non fossero stati
ricompresi fra i concorrenti sorteggiati (art. 48, comma 2).
La seconda forma era quella prevista dallo stesso art. 75, il quale, al
comma 6, disponeva che «la garanzia copre la mancata sottoscrizione del
contratto per fatto dell'affidatario, ed è svincolata automaticamente al
momento della sottoscrizione del contratto medesimo».
2.2.2.- Nella vigenza del decreto legislativo n. 50 del 2016 è stata
mantenuta, con modifiche, soltanto quest’ultima forma di garanzia.
L’art. 93, comma 1, prevede, infatti, che «l’offerta è corredata da una
garanzia fideiussoria, denominata “garanzia provvisoria” pari al due per
cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di
cauzione o di fideiussione, a scelta dell’offerente». In particolare:
i) la
“cauzione” «può essere costituita, a scelta dell'offerente, in contanti, con
bonifico, in assegni circolari o in titoli del debito pubblico garantiti
dallo Stato al corso del giorno del deposito, presso una sezione di
tesoreria provinciale o presso le aziende autorizzate, a titolo di pegno a
favore dell'amministrazione aggiudicatrice»;
ii) la “fideiussione” «a scelta
dell’appaltatore può essere rilasciata da imprese bancarie o assicurative
che rispondano ai requisiti di solvibilità previsti dalle leggi che ne
disciplinano le rispettive attività o rilasciata dagli intermediari
finanziari», che abbiano anch’essi determinati requisiti specificamente
indicati.
Il sesto comma dell’art. 93 stabiliva che «la garanzia copre la mancata
sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione, per fatto dell’affidatario
riconducibile ad una condotta connotata da dolo o colpa grave, ed è
svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto
medesimo».
L'art. 59, comma 1, lett. d), del decreto legislativo 19.04.2017, n. 56,
ha modificato tale ultimo comma, disponendo che «la garanzia copre la
mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni
fatto riconducibile all'affidatario o all’adozione di informazione antimafia
interdittiva emessa ai sensi degli articoli 84 e 91 del decreto legislativo
06.09.2011, n. 159; la garanzia è svincolata automaticamente al
momento della sottoscrizione del contratto».
La possibilità di escussione della “garanzia provvisoria” per il concorrente
è prevista soltanto nel caso di dichiarazioni false rese dall’operatore
economico nell’ambito della procedura di avvalimento (art. 89, comma 1).
2.2.3.- La “garanzia definitiva” deve essere rilasciata dall’appaltatore al
momento della sottoscrizione del contratto, nella forma della “cauzione” o
della “fideiussione”, a garanzia, in particolare, «dell'adempimento di tutte
le obbligazioni del contratto e del risarcimento dei danni derivanti
dall'eventuale inadempimento delle obbligazioni stesse» (art. 103, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016; cfr. anche art. 113 d.lgs. n. 163 del 2006).
3.- In via preliminare, occorre stabilire, altresì, quali siano la natura e
la funzione della “garanzia provvisoria”.
3.1.- Nella vigenza del Codice del 2006, l’orientamento prevalente della
giurisprudenza amministrativa distingueva la “garanzia provvisoria” escussa
nei confronti dei concorrenti di cui all’art. 48, comma 1, e la “garanzia
provvisoria” escussa nei confronti dell’aggiudicatario di cui all’art. 75,
comma 1 (Cons. Stato, Ad. plen., 04.10.2005, n. 8; Cons. Stato, Ad. plen.,
10.12.2014, n. 34; Cons. Stato, sez. V, ord. 26.04.2021, n. 3299).
Alla prima tipologia di garanzia si assegnava natura sanzionatoria, con
funzione punitiva, in quanto l’amministrazione poteva escutere la garanzia,
incamerando la somma predeterminata, nei confronti di tutti gli offerenti
sorteggiati che non fossero in possesso dei requisiti di partecipazione, con
conseguenze economiche sovra-compensative. Ne conseguiva la necessità –in
conformità con le regole convenzionali (art. 7 Cedu)– di assicurare il
rispetto del principio di legalità e dei suoi corollari della prevedibilità,
accessibilità e limiti di applicabilità delle norme nel tempo.
Alla seconda tipologia di garanzia si assegnava natura non sanzionatoria,
qualificando la “cauzione” quale garanzia avente una valenza analoga a
quella della caparra confirmatoria e la “fideiussione” quale contratto di
garanzia personale, con funzione di evidenziare «la serietà ed affidabilità
dell’offerta» (Cons. Stato, Ad. plen., n. 34 del 2014, cit.), nonché con
funzione compensativa dei danni subiti dalla stazione appaltante.
3.2.- Nella vigenza del Codice del 2016, l’orientamento prevalente della
giurisprudenza amministrativa, essendo stata eliminata la prima forma di
garanzia, ha attribuito alla “garanzia provvisoria” natura esclusivamente
non sanzionatoria (Cons. Stato, sez. IV, ord. n. -OMISSIS-, cit.).
3.3.- L’Adunanza Plenaria ritiene che entrambi gli istituti in esame hanno
natura non sanzionatoria, con differente qualificazione giuridica a seconda
che venga in rilievo la “cauzione” o la “fideiussione”.
La “cauzione” è una obbligazione di garanzia di fonte legale imposta ai fini
della partecipazione alla gara, che deve essere eseguita dallo stesso
debitore. Nella fase fisiologica, la “cauzione” assolve alla funzione di
evidenziare la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo
dell’amministrazione di restituire la prestazione al momento della
sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “cauzione” ha natura
di rimedio di autotutela, con funzione compensativa, potendo
l’amministrazione incamerare il bene consegnato a titolo di liquidazione
forfettaria dei danni relativi alla fase procedimentale. In questa
prospettiva, non è conferente il richiamo alla caparra confirmatoria di cui
all’art. 1385 cod. civ., in quanto la stessa, nella configurazione del
codice civile, presuppone la stipulazione di un contratto –che, nella
specie, manca– con l’inserimento della clausola che consente, in caso di
inadempimento, di recedere dal contratto stesso trattenendo la caparra (cfr.
Cass. civ., sez. un., 14.01.2009, n. 553).
La “fideiussione”, che rileva in questa sede, è una obbligazione di garanzia
di fonte legale imposta ai fini della partecipazione alla gara, che sorge a
seguito della stipulazione di un contratto tra un terzo garante e il
creditore che si può perfezionare anche mediante la sola proposta del primo
non rifiutata secondo il meccanismo dell’art. 1333 cod. civ.
Tale forma di garanzia si caratterizza in modo peculiare rispetto al
contratto di fideiussione disciplinato dal codice civile (artt. 1936-1957
cod. civ.).
L’art. 1936 cod. civ. prevede che «è fideiussore colui che, obbligandosi
personalmente, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui». Le
regole civilistiche rilevanti in questa sede sono le seguenti:
i) il
fideiussore è obbligato in solido con il debitore principale al pagamento
del debito, con la possibilità che le parti convengano che il fideiussore
non sia tenuto a pagare prima dell’escussione del debitore (art. 1944, commi
1 e 2, cod. civ.);
ii) il fideiussore può opporre contro il creditore tutte
le eccezioni che spettano al debitore principale, salva quella derivante
dall’incapacità (art. 1945 cod. civ.);
iii) il fideiussore rimane obbligato
anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale, purché il creditore
entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia
con diligenza continuate (art. 1956, comma 1, cod. civ.).
L’art. 93, comma 4, del Codice dei contratti pubblici deroga alle
disposizioni sopra riportate, disponendo che deve essere prevista la
rinuncia:
i) al beneficio della preventiva escussione del debitore
principale;
ii) al rapporto di accessorietà, dovendo operare questa forma di
garanzia a semplice richiesta;
iii) all’eccezione che consente di fare
valere la garanzia anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale.
Tale peculiare disciplina e, in particolare, la deroga al rapporto di
accessorietà comporta che il tipo contrattuale deve essere identificato nel
contratto autonomo di garanzia (Cass. civ., sez. un., 18.02.2010, n.
3947).
Nella fase fisiologica, la “fideiussione” assolve alla sola funzione di
consentire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo
dell’amministrazione di svincolare tale garanzia al momento della
sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “fideiussione”
consente all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento
dell’obbligo di pagamento della somma predeterminata dalla legge con
funzione compensativa dei danni relativi alla fase procedimentale.
L’operatività di entrambe le forme di garanzia presuppone un “fatto” del
debitore principale che viola le regole di gara che comporta –a seguito
dell’eliminazione del riferimento al dolo e alla colpa grave da parte del
citato decreto legislativo n. 56 del 2017– la configurazione di un modello
di responsabilità oggettiva, con conseguente esclusione di responsabilità
nei soli casi di dimostrata assenza di un rapporto di causalità.
4.- La questione specifica rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria –da
risolvere alla luce delle premesse generali sin qui svolte– riguarda
l’individuazione dei “soggetti” nei cui confronti può essere escussa la
“garanzia provvisoria”.
Nell’ordinanza di rimessione si afferma che, pur non sussistendo precedenti
specifici del Consiglio di Stato, potrebbero sorgere «contrasti
giurisprudenziali» e che sia, pertanto, necessario assicurare certezza
«nell’interesse non solo degli operatori di settore ma del diritto oggettivo
nel suo complesso».
L’orientamento espresso nell’ordinanza di rimessione è nel senso che i
“soggetti” siano non solo l’“aggiudicatario”, ma anche il destinatario di
una “proposta di aggiudicazione” per le seguenti ragioni.
In primo luogo, si osserva che occorre valorizzare una interpretazione di
«carattere logico-sistematico e teleologico», che fa emergere «plasticamente
l’assoluta identità (…) tra la situazione dell’aggiudicatario e quella in
cui versa il soggetto “proposto per l’aggiudicazione” che, tuttavia, si sia
visto rifiutare la formale aggiudicazione, con contestuale esclusione dalla
procedura, poiché, all’esito dei controlli operati dalla stazione appaltante
proprio in vista della stipulazione del contratto, sia emersa l’assenza, non
importa se originaria o sopravvenuta, dei necessari requisiti di legge».
In secondo luogo, si afferma come risulterebbe «contraddittorio e diseconomico obbligare la stazione appaltante a procedere all’aggiudicazione
nei confronti del “proposto” e, subito dopo, ad esercitare l’annullamento in
autotutela di tale provvedimento per carenza, in capo all’affidatario, di un
imprescindibile requisito soggettivo».
5.- L’Adunanza Plenaria ritiene che deve essere seguito un orientamento
diverso da quello proposto dalla Quarta Sezione con l’ordinanza di
rimessione, per ragioni che si fondano sui criteri di interpretazione della
legge.
5.1.- L’art. 12 delle preleggi dispone che «nell’applicare la legge non si
può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato
proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del
legislatore» (primo inciso). Si tratta dei criteri letterale e teleologico
(cd. ratio legis), a cui deve aggiungersi, tra gli altri, il criterio
sistematico, il quale impone di avere riguardo anche alle altre norme
rilevanti inserite nel contesto di regolazione complessiva della materia.
Il citato art. 12 prevede, inoltre, che «se una controversia non può essere
decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si
decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato»
(secondo inciso). Si tratta dell’interpretazione analogica, che opera in
presenza di una lacuna normativa.
In applicazione dei riportati criteri, si perviene ai seguenti esiti.
5.2.- Sul piano dell’interpretazione letterale, il comma 6 dell’art. 93 del
decreto legislativo n. 50 del 2016 è chiaro nello stabilire che «la garanzia
copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta
ad ogni fatto riconducibile all’affidatario (…)». Il riferimento sia
all’aggiudicazione, quale provvedimento finale della procedura
amministrativa, sia al «fatto riconducibile all’affidatario» e non anche al
concorrente destinatario della “proposta di aggiudicazione” rende palese il
significato delle parole utilizzate dal legislatore nel senso di delimitare
l’operatività della garanzia al momento successivo all’aggiudicazione (in
questo senso anche Cons. Stato, sez. IV, 15.12.2021, n. 8367, che ha
esaminato una questione analoga a quella in esame, con decisione, però,
assunta successivamente alla camera di consiglio con cui è stata disposta la
remissione all’Adunanza Plenaria). Il comma 9 dello stesso art. 93 prevede,
inoltre, che «la stazione appaltante, nell’atto con cui comunica
l’aggiudicazione ai non aggiudicatari, provvede contestualmente, nei loro
confronti, allo svincolo della garanzia» prestata a corredo dell’offerta.
Il significato letterale della norma è confermato anche dal contenuto degli
atti della procedura di gara. Il disciplinare dispone, infatti, che
«l’eventuale esclusione dalla gara prima dell’aggiudicazione, al di fuori
dei casi di cui all’art. 89, comma 1, non comporterà l’escussione della
garanzia provvisoria».
5.3.- Sul piano dell’interpretazione teleologica, il legislatore ha inteso
ridurre l’ambito di operatività del sistema delle garanzie nella fase
procedimentale, come risulta dall’analisi della successione delle leggi nel
tempo.
In particolare, il Codice del 2016 non ha confermato il sistema previgente
disciplinato dall’art. 48 del Codice del 2006, che prevedeva la possibilità,
ricorrendo i presupposti indicati, di escutere la garanzia, con funzione
sanzionatoria, anche nei confronti dei partecipanti alla procedura. Ne
consegue che l’estensione del perimetro della “garanzia provvisoria” si
porrebbe in contrasto con la ratio legis.
L’esposta diversità di regime ha indotto il Consiglio di Stato, con la
citata ordinanza n. 3299 del 2021, a rimettere alla Corte Costituzionale la
questione relativa all’applicazione retroattiva della nuova disciplina della
“garanzia provvisoria” (applicata al solo aggiudicatario con funzione
compensativa) perché più favorevole rispetto alla precedente disciplina
(applicata anche al concorrente con funzione punitiva).
5.4.- Sul piano dell’interpretazione sistematica, in primo luogo,
dall’analisi del contesto in cui la norma è inserita e, in particolare,
dalla lettura coordinata di alcune disposizioni del Codice risulta chiara la
distinzione tra la fase procedimentale relativa alla “proposta di
aggiudicazione” e la fase provvedimentale relativa all’“aggiudicazione”.
Con riguardo alla “proposta di aggiudicazione” formulata dalla commissione
di gara, il Codice –che, come già esposto, ha inteso attribuirle natura
autonoma– disciplina il rapporto tra essa e l’aggiudicazione. Il
destinatario della proposta è ancora un concorrente, ancorché
individualizzato. In questa fase si inseriscono i seguenti adempimenti:
i)
la stazione appaltante, prima dell’aggiudicazione dell’appalto, «richiede
all’offerente cui ha deciso di aggiudicare l’appalto (…) di presentare
documenti complementari aggiornati», nel rispetto di determinate modalità,
per dimostrare la sussistenza dei requisiti generali e speciali di
partecipazione alla gara (art. 85, comma 5);
ii) la “proposta di
aggiudicazione” «è soggetta ad approvazione dell’organo competente secondo
l’ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini dallo
stesso previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione
da parte dell’organo competente» (art. 33, comma 1);
iii) la stazione
appaltante, dopo la suddetta approvazione, «provvede all’aggiudicazione»
(art. 32, comma 5). Nella prospettiva della tutela, la “proposta di
aggiudicazione”, essendo atto endoprocedimentale, non è suscettibile di
autonoma impugnazione.
Con riguardo all’aggiudicazione, il Codice disciplina il rapporto tra essa e
il contratto. L’art. 32, comma 6, stabilisce che «l’aggiudicazione non
equivale ad accettazione dell'offerta», in quanto occorre la stipula del
contratto e l'offerta dell'aggiudicatario è irrevocabile per sessanta
giorni. Nella prospettiva della tutela, l’aggiudicazione è il provvedimento
finale di conclusione del procedimento di scelta del contraente che, in
quanto tale, ha rilevanza esterna e può essere oggetto sia di impugnazione
in sede giurisdizionale sia di autotutela amministrativa.
In secondo luogo, la valutazione sistematica anche delle regole civilistiche
impone di evitare che il terzo –che ha stipulato un contratto autonomo di
garanzia collegato al rapporto principale tra amministrazione e partecipante
alla procedura di gara– debba eseguire prestazioni per violazioni non
chiaramente definite dalle regole di diritto pubblico.
5.5.- Sul piano dell’interpretazione analogica, la diversità della
disciplina e delle situazioni regolate relativa alle due fasi, risultante
dall’applicazione degli esposti criteri interpretativi, impedisce di
estendere alla fase procedimentale le “garanzie provvisorie” della fase provvedimentale per i motivi di seguito indicati.
Nel caso di mancata stipulazione del contratto a seguito di una
“aggiudicazione”, le ragioni, come esposto, possono dipendere sia dalla
successiva verifica della mancanza dei requisiti di partecipazione sia,
soprattutto, dalla condotta dell’aggiudicatario che, per una sua scelta,
decide di non stipulare il contratto. In queste ipotesi la stazione
appaltante deve annullare d’ufficio il provvedimento di aggiudicazione e
rinnovare il procedimento con regressione alla fase della “proposta di
aggiudicazione”. In tale contesto i possibili pregiudizi economici
determinati dalla condotta dell’aggiudicatario sono coperti dalla “garanzia
provvisoria” che consente all’amministrazione di azionare il rimedio di
adempimento della prestazione dovuta con la finalità di compensare in via fortettaria i danni subiti dall’amministrazione per violazione delle regole
procedimentali nonché dell’obbligo di concludere il contratto.
Nel caso di “mancata aggiudicazione” a seguito di una “proposta di
aggiudicazione”, i motivi di tale determinazione possono dipendere, oltre
che da ragioni relative all’offerta, dalla verifica negativa preventiva del
possesso dei requisiti di partecipazione del concorrente individuato. In
queste ipotesi, contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza di rimessione, l’amministrazione non è costretta a procedere all’aggiudicazione
e poi ad esercitare il potere di annullamento in autotutela, potendosi
limitare a non adottare l’atto di aggiudicazione e ad individuare il secondo
classificato nei cui confronti indirizzare la nuova “proposta di
aggiudicazione”.
In tale contesto i pregiudizi economici, se esistenti,
hanno portata differente rispetto a quelli che si possono verificare nella
fase provvedimentale, con possibilità per l’amministrazione, ricorrendone i
presupposti, di fare valere l’eventuale responsabilità precontrattuale del
concorrente ai sensi degli artt. 1337-1338 cod. civ. Rimane fermo, altresì,
il potere dell’Autorità nazionale anticorruzione di applicare sanzioni
amministrative pecuniarie qualora si accertino specifiche condotte contrarie
alle regole della gara da parte degli operatori economici (art. 213, comma
13, d.lgs. n. 50 del 2016).
6.- Alla luce di quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria afferma il
seguente principio di diritto: il comma 6 dell’art. 93 del
decreto legislativo n. 50 del 2016 –nel prevedere che la “garanzia
provvisoria” a corredo dell’offerta «copre la mancata sottoscrizione del
contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario
(…)»– delinea un sistema di garanzie che si riferisce al solo periodo
compreso tra l’aggiudicazione ed il contratto e non anche al periodo
compreso tra la “proposta di aggiudicazione” e l’aggiudicazione.
7.- In applicazione di tale principio, la questione rimessa all’esame della
Plenaria con la sentenza non definitiva n. -OMISSIS- della Quarta Sezione
deve essere decisa, in riforma parziale della sentenza n. 1581 del 2021 del
Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sez. IV, con l’accoglimento del motivo di appello relativo all’escussione
della “garanzia provvisoria” ed il conseguente annullamento del
provvedimento 18.02.2020, n. -OMISSIS- del Comune di Monza (Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza 26.04.2022 n. 7 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare, certificato dimostra la capacità di fare i lavori.
Per la prova dei servizi analoghi effettuati nell'anno precedente, si deve
ricorrere al certificato di regolare esecuzione; è irrilevante il fatturato.
Lo ha chiarito il TAR Campania-Napoli, Sez. III, con la
sentenza 22.04.2022 n. 2790 che ha
deciso una controversia relativa all'interpretazione di una clausola del
disciplinare in cui si chiedeva di aver svolto regolarmente e con buon esito
servizi specifici (di bonifica amianto) per un importo pari a un terzo
dell'importo a base d'asta dell'appalto.
Si sosteneva che la prova del servizio analogo avrebbe dovuto comportare la
richiesta del possesso di un fatturato minimo relativo allo svolgimento
nell'anno precedente all'indizione della gara del servizio specifico di
bonifica amianto. I giudici hanno respinto questa tesi partendo dalla
considerazione che il requisito di capacità tecnica è del tutto distinto,
anche ai fini della dimostrazione, da quello di capacità finanziaria: il
fatturato è strettamente riferibile ai requisiti posti in funzione di
verifica della capacità economico-finanziaria, mentre per la verifica della
capacità tecnica la norma (art. 83 del codice appalti) si riferisce alla
avvenuta esecuzione di servizi o forniture analoghi a quelli dell'oggetto
del contratto con riferimento all'importo dell'appalto, così differenziando
dal diverso requisito del fatturato (esplicabile attraverso gli incassi).
Di tale differenza si ha prova anche nell'allegato XVII, parti I e II del
codice appalti: la fatturazione è strumento principe di prova del requisito
finanziario, mentre non lo è per la capacità tecnico-professionale, legata
prevalentemente, alla prova di aver svolto lavorazioni nel periodo definito
dal bando come rilevante e documentabile con i certificati di regolare
esecuzione delle commesse o dei lavori che, avendo contenuto di
certificazione anche della (buona e corretta) qualità di esecuzione, valgono
a prova della capacità tecnica e professionale dell'esecutore/concorrente.
Dunque, vale l'elenco delle principali forniture/servizi quali risultanti
dal certificato di regolare esecuzione, o di atti similari, idonei ad
attestare inequivocabilmente il buon esito degli appalti precedenti eseguiti
e a supportare la dimostrazione della capacità tecnica
(articolo ItaliaOggi del 29.04.2022).
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SENTENZA
11. Lamenta parte ricorrente con un ulteriore ordine di censure, che il
requisito non sarebbe integrato, in ragione della circostanza che l’anno
precedente la pubblicazione del bando dovrebbe essere individuato con una
interpretazione più restrittiva, riferita a quello solare pregresso, con
chiusura del relativo bilancio: ne deriva che il periodo di riferimento
avrebbe dovuto essere il solo anno 2020, escludendosi quindi ogni servizio
espletato successivamente e fino alla pubblicazione del bando stesso.
11.1 Inoltre parte ricorrente contesta il calcolo del valore dei servizi
espletati dalla ditta Co.Ca.St. di Benevento nell’anno 2020, come esposto
nel prospetto riepilogativo depositato il 01.02.2022 e nella successiva
relazione degli uffici regionali, la quale ha esplicitato come lo stesso è
stato determinato in funzione del prodotto di due fattori rinvenuti dagli
Stati di Avanzamento (relativi ai soli interventi effettuati per conto
dell’Amministrazione e perciò già agli atti dell’ufficio Tecnico): il primo
corrispondente ai soli quantitativi di rifiuti contenenti amianto ed il
secondo inerente al costo determinato dalla S.A. non decurtato del ribasso
offerto dalla ditta concorrente.
Invero, per l’importo da considerare, la ricorrente ritiene debba farsi
riferimento ai soli stati di avanzamento fatturati, e per l’importo
corrispondente alla fatturazione, avuto riguardo al ribasso praticato
rispetto alla base d’asta.
11.2 Di contrario avviso è la tesi difensiva dell’amministrazione regionale,
che evidenzia come l’art. 7.2. del Disciplinare di Gara richiedeva: “di
aver svolto regolarmente e con buon esito, nell’anno antecedente alla data
di pubblicazione del presente bando di gara, servizi specifici di bonifica
amianto per un importo almeno di €.1.275.000,00 (pari a un terzo
dell'importo a base d'asta dell'appalto)”. Tale espressione sarebbe da
intendere come riferita solo allo svolgimento di servizi per un importo pari
ad un terzo di quello a base di asta, da individuarsi senza riferimento al
fatturato in senso tecnico, ma al solo valore dell’appalto al lordo del
ribasso effettuato dalla concorrente.
11.3 Osserva il Collegio come la questione relativa al periodo da prendere a
riferimento per il computo del requisito può essere posta in disparte,
atteso che anche aderendo alla tesi attorea secondo cui il periodo di
riferimento debba essere quello dell’anno solare 2020, può dirsi integrato
il servizio prestato regolarmente e con buon esito, in ragione di una
interpretazione della lex specialis coerente con la natura del
requisito .
11.4 In particolare, ad un attento esame della natura e contenuto della
clausola sul requisito di partecipazione, può ritenersi che la stessa vada
interpretata come comprova del possesso di requisito tecnico-esperienziale .
Invero l’art. 7.2 elenca i requisiti di capacità economica e finanziaria,
tecnica e professionale senza alcuna specificazione al riguardo,
ricomprendendo quello (lett. c) al punto 7.2 (“Di aver svolto
regolarmente e con buon esito, nell'anno antecedente alla data di
pubblicazione del presente bando di gara, servizi specifici di bonifica
amianto per un importo almeno di euro 1.275.000,00 (pari ad un terzo
dell’importo a base d’asta dell’appalto)”.
Non deve trarre in errore la circostanza che la prescrizione attinente al
requisito tecnico specifico si presenta come mista, nel senso che non
richiede solo l’esecuzione con buon esito di servizi analoghi, ma ne indica
la soglia di rilevanza, nella misura di un importo almeno di €.1.275.000,00
(pari a un terzo dell'importo a base d'asta dell'appalto).
La ratio della prescrizione, globalmente intesa, è quella di un
requisito attraverso il quale la stazione appaltante ha voluto richiedere la
comprova di esperienza e valutare la capacità tecnica e professionale del
concorrente, ed in più ha introdotto una soglia di rilevanza economica.
Peraltro, dando prevalenza alle finalità perseguite, ed alle modalità con
cui dimostrare le pregresse esperienze professionali, è ragionevole ritenere
che la soglia economica non vada intesa come riferita alla dimostrazione di
un fatturato , ma come valore complessivo del servizio posto a base di gara,
deponendo in tal senso una lettura letterale e logica della clausola.
11.5 In primo luogo , dal punto di vista letterale il bando parla di “importo
del servizio” e non di fatturato specifico; inoltre la soglia è
quantificata con riferimento a un terzo del valore del presente appalto, che
in quanto grandezza lorda , è congruo paragonare con grandezze omogenee e
quindi apprezzando il servizio svolto con riferimento al valore economico
del pregresso servizio reso, nei termini posti a base di gara ed al lordo
del ribasso praticato dalla concorrente.
Peraltro mette conto evidenziare come, essendo la clausola diretta alla
comprova della capacità tecnica , è ragionevole propendere per
l’interpretazione proposta dalla difesa della stazione appaltante, nel senso
di riferire l’importo al valore dell’appalto , come definito negli atti di
indizione delle precedenti gare. Va dunque dato rilievo preminente alla
circostanza che sia stata conseguita l’aggiudicazione di un appalto del
richiesto importo in termini lordi e che lo stesso sia poi stato
correttamente e con buon esito eseguito. In proposito non deve obliterarsi
come il pertinente articolo del bando richiede anche lo svolgimento regolare
e con buon esito dei precedenti affidamenti.
La ratio sottesa alla previsione di specifici criteri di selezione è stata
di recente delineata dall’Autorità ANAC , la quale ha precisato la
funzionalità di tale sistema nella valutazione dell’idoneità dell’offerente
ad effettuare a regola d’arte e con buon esito, quella data attività che si
vuole porre ad oggetto dell’appalto pubblico.
Ai fini della predetta dimostrazione, l’operatore economico può esibire
l’elenco dei principali servizi, quali risultanti dai certificati di
regolare esecuzione, o di atti similari idonei ad attestare
inequivocabilmente il buon esito degli appalti precedentemente eseguiti,
costituendo questi ultimi una sorta di “prova di resistenza” in
merito all’effettiva sussistenza della capacità richiesta ai fini di gara.
Tale opzione ermeneutica è coerente con le "esperienze necessarie per
eseguire l'appalto con un adeguato standard di qualità" le quali
costituiscono, in base all'art. 58 § 4 della Direttiva, un requisito che può
essere richiesto per dimostrare una adeguata capacità tecnica professionale
e che deve essere comprovato "da opportune referenze relative a contratti
eseguiti in precedenza".
Il requisito di capacità tecnica è quindi nettamente distinto , anche ai
fini della dimostrazione, da quello di capacità finanziaria, come si rileva
dalla stessa struttura dell’art. 83, comma 4, lett. a), del d.lgs. n.
50/2016, ove dispone con riferimento alla capacità finanziaria, che le
stazioni appaltanti possono chiedere ai concorrenti un “fatturato globale”
dell’impresa nonché uno specifico “relativo ai servizi o forniture nel
settore oggetto della gara”. Il termine fatturato è pertanto
strettamente riferibile ai requisiti posti in funzione di verifica della
capacità economico- finanziaria, mentre per la verifica della capacità
tecnica la norma si riferisce alla avvenuta esecuzione di servizi o
forniture analoghi a quelli dell’oggetto del contratto, ed ha riguardo
all’importo dell’appalto, termine che non riguarda il fatturato in senso
economico aziendale.
La clausola del bando può prevedere una soglia economica di rilevanza del
servizio analogo, purché ragionevole e proporzionata. Ma in tal caso si
parla di soglia con riferimento all’importo dell’appalto, così
differenziando dal diverso requisito del fatturato, atteso che non si tratta
della comprova della solidità finanziaria (questa esplicabile attraverso gli
incassi) ma della capacità tecnica, denotata dalla aggiudicazione di servizi
analoghi per importi –soglia che rappresentano in tal caso gli importi posti
a base di gara, idonei a denotare il rilievo della gara stessa.
Al riguardo l’art. 86, co. 5, codice appalti fornisce una indicativa chiave
di lettura sistematica, rinviando la definizione degli strumenti di prova
all’Allegato XVII, parti I e II, nel quale sono contenute -in via graduata-
tutte le varie opzioni percorribili per il conseguimento della prova del
possesso di un requisito.
L’ eterogeneità degli strumenti di prova è necessariamente conseguente
l'ontologica divaricazione che esiste tra i due criteri la fatturazione è
strumento principe di prova del requisito finanziario, mentre non lo è per
la capacità tecnico-professionale, legata prevalentemente, alla prova di
aver svolto lavorazioni nel periodo definito dal bando come rilevante.
Se la fatturazione rileva per la prova del requisito finanziario, così non è
automaticamente per quello tecnico-professionale, normalmente documentabile
con i certificati di regolare esecuzione delle commesse o dei lavori che,
avendo contenuto di certificazione anche della (buona e corretta) qualità di
esecuzione, valgono a prova della capacità tecnica e professionale
dell’esecutore/ concorrente.
Orbene, è chiaro che se il documento fiscale della fattura singola, che
contiene indicazioni riguardo alla prestazione effettuata, e la indicazione
di un dato ammontare di cd. fatturazione globale possano ben valere a
dimostrare un flusso finanziario ed una certa liquidità dell’operatore
economico, da cui si possa inferire la stabilità e solidità economica, la
dimostrazione del diverso requisito della capacità tecnico-professionale,
passa per l’esibizione dell’elenco delle principali forniture quali
risultanti dal certificato di regolare esecuzione, o di atti similari,
idonei ad attestare inequivocabilmente il buon esito degli appalti
precedenti eseguiti e, quindi, a supportare la dimostrazione della capacità
tecnica.
11.6 Applicando le indicate coordinate ermeneutiche alla fattispecie in
esame ed alla pertinente clausola della lex specialis, attraverso la
quale si può stabilire le finalità assegnate dalla stazione appaltante al
requisito, emerge come lo stesso non sembra posto in funzione di una certa
solidità economico e finanziaria dell’operatore economico –per aver, dai
pregressi servizi, ottenuto ricavi da porre a garanzia delle obbligazioni da
assumere con il contratto d’appalto- dirigendosi piuttosto verso la prova
della capacità tecnica, per aver già utilmente impiegato, nelle pregresse
esperienze lavorative, la propria organizzazione aziendale e le competenze
tecniche a disposizione (Cons. St., sez. V, 02.09.2019, n. 6066; id., sez.
III, 10.07.2019, n. 4866; id., sez. V, 19.07.2018, n. 4396).
Il requisito di tal fatta è evidentemente finalizzato a garantire che la
selezione venga svolta tra concorrenti che diano prova di adeguata
affidabilità nell’espletamento di un determinato servizio, per aver avuto
precedenti esperienze nel settore di attività oggetto di gara o in settori
analoghi (cfr. Cons. Stato, V, 06.04.2017, n. 1608; nonché già Cons. Stato,
V, 28.07.2015, n. 3717 e 25.06.2014, n. 3220); con la precisazione che, pur
rilevando l’identità del settore imprenditoriale o professionale, il
confronto va fatto in concreto tenendo conto del contenuto intrinseco delle
prestazioni (Cons. Stato, V, 12.05.2017, n. 2227).
11.7 In conclusione, richiedendo la prescrizione lo svolgimento di servizi “regolarmente
e con buon esito”, viene ad integrarsi un requisito tecnico
professionale, non legato ad un fatturato in senso tecnico, e la presenza
della soglia economica indicata dalla stazione appaltante vale a colorare di
una certa rilevanza detta esperienza, riferita al valore dell’appalto per
servizi analoghi, senza la eccessiva restrizione della pretesa che l’importo
economico sia conteggiato al netto del ribasso praticato in gara dalla
concorrente.
Alla luce di tali considerazioni, la comprova dei requisiti sub specie della
soglia economica richiesta, non può riferirsi al fatturato effettivo, ma con
maggiore coerenza rispetto alle finalità della prescrizione, all’importo a
base d’asta dei servizi già eseguiti dalla ditta, peraltro presso la
Stazione Appaltante.
11.8 In tali termini, la concorrente ha comprovato il possesso del
requisito, e la stazione appaltante ne ha dato dimostrazione in giudizio
attraverso il prospetto riepilogativo depositato in data 01.02.2022, ove
l’importo dei servizi pregressi, al lordo del ribasso praticato in sede di
gara, è risultato a tutta evidenza superiore alla soglia richiesta. |
PATRIMONIO: Legittimazione
di terre di uso civico di proprietà di comuni, frazioni ed associazioni
agrarie.
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Usi civici – Legittimazione terre di uso civico – Art. 9, comma 1, l. n.
1766 del 1927 – Ratio.
L’art. 9, comma 1, l. 16.06.1927 n. 1766 -nel
consentire la legittimazione di terre di uso civico di proprietà di comuni,
frazioni ed associazioni agrarie, in favore di chi abbia occupato il fondo
da almeno dieci anni e vi abbia apportato sostanziali e permanenti
migliorie- non ha inteso introdurre un istituto che consentisse l’acquisto,
in ogni tempo, sia pure per mezzo di atto dell’autorità amministrativa, del
diritto di proprietà esclusiva di un fondo già destinato ad uso civico,
bensì soltanto ha voluto legittimare le usurpazioni di terre di proprietà
pubblica avvenute nel passato in considerazione del già avvenuto
conseguimento degli obiettivi finali della legge stessa.»
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(1) Ha ricordato il parere che gli usi civici sono diritti reali
millenari di natura collettiva, volti ad assicurare un’utilità ai singoli
appartenenti ad una collettività, disciplinanti, in linea generale, dalla
legge 16.06.1927, n. 1766, mantenuta in vigore dall’allegato n. 1
dell’art. 1 del d.lgs. 01.12.2009 n. 179, limitatamente agli articoli
da 1 a 34 e da 36 a 43, nonché dal relativo regolamento contenuto nel regio
decreto 26.02.1928, n. 332.
La richiesta di legittimazione di terreni gravati da usi civici postula la
disamina di questo singolare tipo di diritto risalente a epoca anteriore
all’Unità d’Italia, attraverso un breve excursus sulla sua evoluzione, onde
comprenderne meglio la natura e individuare la soluzione da applicare al
caso in esame.
Con la legge 16.06.1927, n. 1766, sul «riordinamento degli usi civici nel
Regno», il legislatore aveva inteso disciplinare la liquidazione degli usi
civici e la conservazione dei beni di proprietà civica sottratti alla
liquidazione.
Il regime delineato dalla legge n. 1766 del 1927 prevede all’art. 1 che la
proprietà del demanio civico appartiene «agli abitanti di un Comune, o di
una frazione di Comune».
La legge del 1927, per garantire la destinazione funzionale dei beni a
favore della collettività e il loro utilizzo che ne assicuri la
conservazione, ha previsto che l’amministrazione di tale proprietà dovesse
spettare all’ente esponenziale della comunità.
Gli usi civici sono, pertanto, astrattamente riconducibili all’interno della
proprietà privata, seppur comune e caratterizzata da particolari vincoli di
destinazione e di indisponibilità.
Nonostante, dunque, i comproprietari siano soggetti privati, giova, subito,
evidenziare che gli usi civici sono connotati dalla legge sul riordinamento
del 1927 di una rilevante dimensione pubblicistica, tant’è che per la loro
tutela sono previste regole speciali, sia con riferimento alla gestione che
per l’eventuale disposizione dei beni che ne costituiscono oggetto, tanto da
poter essere assimilati ai beni demaniali.
Al riguardo in giurisprudenza si è affermato che «[i] beni gravati da usi
civici debbono essere assimilati ai beni demaniali e la particolarità del
regime a cui sono sottoposti i beni in esame determina che, al di fuori dei
procedimenti di liquidazione dell'uso civico e prima del loro formale
completamento, la preminenza del pubblico interesse che ha impresso al bene
immobile il vincolo dell'uso civico ne vieta ogni circolazione.» (Tar Lazio,
sez. II, 11.07.2018, n. 7740).
Per la dottrina gli usi civici sono assimilabili ad una proprietà privata
comune, caratterizzata da particolari vincoli di destinazione e di
indisponibilità, i cui comproprietari sono soggetti privati e la cui
rappresentanza è affidata ex lege al comune ovvero ad un diverso ente di
gestione.
Secondo la Corte di Cassazione gli usi civici sono espressione della
proprietà in senso collettivo, non conosciuta dal legislatore del codice
civile, ma che ha trovato una sua specifica disciplina nella legge n.
1766/1927 e nel relativo regolamento, nonché nella più recente legge n. 97
del 1994 (Nuove disposizioni per le zone montane).
In particolare, la Suprema Corte afferma che «tali “usi” presentano la
caratteristica della non appartenenza, a titolo di proprietà individuale, a
persone fisiche od enti in quanto spettanti ad una comunità di abitanti che
ne godono collettivamente. La finalità che il legislatore ha perseguito con
detti usi è quella della liquidazione, in realtà non raggiunta, perché negli
anni è andato sempre più emergendo il collegamento funzionale tra disciplina
degli usi pubblici e la tutela dell’ambiente (sul punto, le sentenze della
Corte Costituzionale n. 46/1995, 345/1997 e 310/2006)» (Cass., sez. un., 18.02.2011, n. 3939).
6.2.4. All’interesse al proficuo utilizzo del bene, in termini sia
conservativi sia eventualmente dispositivi, si è aggiunta nel tempo una
nuova e diversa prospettiva, alla stregua della quale emerge sempre di più
la rilevanza pubblica dell’interesse pubblico alla conservazione seppur
sotto un ulteriore aspetto.
Gli usi civici hanno assunto, progressivamente, rilevanza sotto i profili
paesaggistico-ambientale e di assetto territoriale.
La rilevanza ambientale e paesaggistica delle proprietà collettive, infatti,
è stata espressamente riconosciuta a partire dalla legge n. 431 del 1985,
che all’art. 1 ha sottoposto a vincolo paesistico «le zone gravate da usi civici.».
Il vincolo paesaggistico è stato, poi, ribadito dal d.lgs. n. 490 del 1999,
ed è oggi confermato dall’art. 142, lett. h), del d.lgs. 22.01.2004, n.
42, il quale stabilisce che «[s]ono comunque di interesse paesaggistico e
sono sottoposti alle disposizioni di questo Titolo: h) le aree assegnate
alle università agrarie e le zone gravate da usi civici;».
Ha aggiunto il parere che l’inserimento degli usi civici all’interno dei
beni paesaggistico-ambientali, beni che godono di investitura e protezione a
livello costituzionale, ha segnato la transizione da una tutela del bene
legata al collegamento con la comunità d’origine ad una salvaguardia
indifferenziata dello stesso, percepito nella sua dimensione collettiva
indivisibile e in quanto tale appartenente potenzialmente all’intera
collettività di cittadini: questa è ormai percepita come la potenziale
fruitrice dell’area soggetta ad uso civico, intesa quale bene ambientale
tutelato di per sé (Tar Salerno, sez. I, 06.02.2012, n. 174).
Il legislatore del 1927 all’art. 11 ha previsto che i terreni sui quali si
esercitano usi civici «saranno distinti in due categorie: a) terreni
convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente; b)
terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria.».
A questa distinzione ha fatto seguire un differente regime di circolazione:
i terreni utilizzabili come bosco o pascolo sono inalienabili e nessun
mutamento di destinazione è possibile senza la preventiva autorizzazione
«del Ministero dell’economia nazionale», mentre i terreni utilizzabili per
coltivazione agraria sono destinati ad essere ripartiti tramite
assegnazione.
Nel disciplinare la destinazione delle terre sulle quali gravano usi civici
l’art. 12, comma 2, della legge n. 1766/1927, ha sancito, in via generale e
per quanto in particolare in questa sede interessa, l’inalienabilità e
l’impossibilità di mutamento di destinazione dei terreni convenientemente
utilizzabili come bosco o come pascolo permanente.
Le limitate deroghe previste dal legislatore alla inalienabilità e al cambio
di destinazione, previa acquisizione dell’autorizzazione ministeriale,
comportando necessariamente limitazioni dei diritti d’uso civico ed
implicazioni sull’ambiente naturale o tradizionale per la collettività a cui
appartengono, hanno, secondo il Collegio, carattere tipicamente eccezionale,
sicché non possono né devono risolversi nella perdita dei benefici, anche
solo di carattere ambientale per la generalità degli abitanti, unicamente a
vantaggio dei privati.
L’istituto della legittimazione delle occupazioni ex art. 9 legge n.
1766/1927, come nel caso che ne occupa, va collocato all’interno del quadro
sopra delineato.
Ha ancora chiarito il parere che il regime giuridico dei beni di uso civico
può essere assimilato a quello dei beni demaniali, ed ancora, che la
legittimazione dell’avvenuta occupazione di terre di demanio civico può
essere equiparata ad una concessione amministrativa rimessa all’ampio potere
discrezionale dell’autorità, la quale deve tenere in considerazione
preminente gli interessi pubblici sottesi.
Con riferimento alle tre condizioni previste dall’art. 9 della legge n.
1766/1927 per la legittimazione dei terreni occupati, per quanto in
particolare attiene alle «sostanziali e permanenti migliorie», il Collegio
condivide il risalente orientamento giurisprudenziale, coerente con la
superiore ricostruzione, secondo il quale «le “sostanziali e permanenti
migliorie”, previste da quella disposizione come presupposto necessario
della legittimazione dell’occupazione di terreni gravati da uso civico,
devono consistere in opere finalizzate alla coltivazione o comunque allo
sfruttamento agricolo o zootecnico del suolo ed a soddisfare l’interesse
agrario della collettività in tale misura da non richiedere il ricorso alla
reintegra» (Cons. Stato, sez. VI, 14.10.1998, n. 137).
In altri termini, le opere di miglioramento che possono fondare la domanda
di legittimazione non possono consistere in mere migliorie del terreno, ma
devono essere tali da garantire le migliori modalità di sfruttamento del
bene e di soddisfazione dell’interesse pubblico, essendo questa l’unico
possibile ed utile contraccambio rispetto alla perdita del bene da parte
della collettività locale.
Ancora, l’art. 9, comma 1, della legge 16.06.1927 n. 1766 prevede: «[q]ualora
sulle terre di uso civico appartenenti ai Comuni, alle frazioni ed alle
associazioni o ad esse pervenute per effetto della liquidazione dei diritti
di cui all’art. 1, siano avvenute occupazioni, queste, su domanda degli
occupatori, potranno essere legittimate …».
Il presupposto della domanda di legittimazione è, dunque, l’avvenuta
occupazione. Chiarisce il significato dell’espressione «sulle terre di uso
civico … siano avvenute occupazioni», il regolamento per la esecuzione della
legge 16.06.1927, n. 1766, contenuto nel regio decreto 26.02.1928,
n. 332, all’art. 25 ove si legge: «[s]ono soggette all’applicazione degli
articoli 9 e 10 della legge le terre di origine comune o provenienti da
affrancazione di uso civico da chiunque possedute per le quali manchi il
titolo, ovvero esso non sia riconosciuto valido a norma delle leggi vigenti
in ciascuna regione all’epoca della concessione.».
Secondo il tenore letterale della disciplina, presupposto soggettivo per
avanzare domanda di legittimazione ex art. 9, comma 1, legge n. 1766/1927 è,
pertanto, l’occupazione sine titulo (CGARS,
Sezz. riun.,
parere
22.04.2022 n. 191 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sull’esenzione
dal pagamento del costo di costruzione prevista dall’art. 17, comma 3, lett.
c), DPR 380/2001.
Come è noto, l’art. 1 della legge n. 10 del 1977 ha introdotto
nell’ordinamento il principio fondamentale secondo cui ogni attività
comportante trasformazione urbanistico/edilizia del territorio partecipa
agli oneri da essa derivanti. Tale principio dell’onerosità del permesso di
costruire è oggi confermato dall’art. 11, comma 2, del T.U. n. 380 del 2001,
il quale poi precisa all’art. 16 che il relativo contributo è costituito da
due quote, commisurate rispettivamente all’incidenza delle spese di
urbanizzazione e al costo di costruzione dell’edificio assentito.
Rispetto a tale regola generale, l’art. 17 del citato T.U. contempla alcune
ipotesi di riduzione o esonero dal contributo di costruzione, che devono
considerarsi tassative e di stretta interpretazione poiché derogatorie
rispetto alla regola generale dell’onerosità del permesso.
Secondo la giurisprudenza, l’esonero dal costo di costruzione previsto
dall’art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 presuppone la sussistenza di due
requisiti attinenti, il primo al carattere pubblico o di interesse generale
delle opere da realizzare e, il secondo, al fatto che le opere
debbano essere eseguite da un ente istituzionalmente competente o da privati
che abbiano un legame istituzionale con l’azione dell’amministrazione
pubblica volta alla cura di interessi pubblici..
Nel caso di specie, anche a ritenere sussistente il requisito oggettivo,
rappresentato dalla finalizzazione degli interventi edilizi realizzati dalla
ricorrente al soddisfacimento dell’interesse pubblico (requisito senza
dubbio sussistente per la realizzazione del distaccamento dei Vigili del
Fuoco), difetta il requisito soggettivo ovvero la realizzazione dell’opera
da parte di un Ente istituzionale.
E’ bensì vero che l’esenzione dal contributo di costruzione può essere
riferita anche ad un’opera di interesse generale realizzata da un privato
per conto di un ente pubblico, ma in questa ipotesi –secondo
l’interpretazione più rigorosa, cui il Collegio aderisce– l’esenzione
spetta soltanto qualora (come avviene nella concessione di opera pubblica e
in altre analoghe figure organizzatorie) lo strumento contrattuale
utilizzato consenta formalmente di imputare la realizzazione del bene
direttamente all’ente per conto del quale il privato abbia operato.
In altri termini, l’esenzione spetta solo se il privato abbia agito quale
organo indiretto dell’amministrazione, come avviene nella concessione o
nella delega.
Nel caso di specie, la ditta costruttrice non ha operato come concessionario
o delegato del Comune.
La società ricorrente non ha mai conseguito dal Comune una concessione di
opera pubblica o una delega per la realizzazione degli interventi edilizi de quibus, ponendosi quale “longa manus della PA”,
il che esclude che possa pretendere un beneficio spettante ai privati solo
se essi hanno edificato per conto dell’Ente pubblico, quali organi indiretti
dell’Amministrazione, come nella concessione o nella delega.
L’esenzione dal pagamento del costo di costruzione prevista dall’art. 17,
comma 3, lett. c), DPR 380/2001 ha carattere eccezionale e spetta
esclusivamente nei casi tassativamente indicati dalla legge e richiede
sempre un requisito soggettivo e uno oggettivo; nel caso di specie, manca il
requisito soggettivo, ovvero la realizzazione dell’edificio da parte di un
Ente istituzionale, sicché la domanda principale va rigettata.
---------------
Nel presente giudizio la Bi.Sp. S.r.l., società mista a partecipazione
pubblico-privata titolare della concessione demaniale di gran parte
dell’arenile di Bibione, ha chiesto accertarsi la non debenza del contributo
di costruzione (€ 253.642,62) imposto dal Comune in sede di rilascio del
permesso di costruire n. 11051/VI/03 del 25.01.2007, e in subordine la
debenza parziale del contributo, nonché la condanna dell’Amministrazione
alla restituzione di quanto indebitamente percepito a titolo di contributo
di costruzione, oltre interessi e rivalutazione.
La vicenda dedotta in giudizio si riferisce a interventi edilizi realizzati
dalla ricorrente nell’ambito di una convenzione attuativa di un programma di
riqualificazione urbanistica.
Gli interventi edilizi per i quali si chiede l’esonero dal contributo di
costruzione –o in subordine la sua riduzione– riguardano la realizzazione
(previa demolizione di un preesistente fabbricato) da parte di Bibione
Spiaggia di un nuovo fabbricato, adibito in parte ad ufficio e magazzini di
Bibione Spiaggia, in parte a sede di un distaccamento dei Vigili del fuoco,
nonché la realizzazione di un deposito bombole di G.p.l. (in disponibilità
del Comune e da questo conferito in concessione a operatori economici terzi)
e di un gattile.
Secondo la ricorrente il Comune avrebbe erroneamente applicato alla
fattispecie il principio di onerosità del permesso di costruire, dovendosi
applicare ai summenzionati interventi edilizi l’art. 17, comma 3, lettera c),
del D.P.R. n. 380/2001, secondo cui il contributo di costruzione non è
dovuto “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse
generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le
opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
La domanda principale non merita accoglimento.
Come è noto, l’art. 1 della legge n. 10 del 1977 ha introdotto
nell’ordinamento il principio fondamentale secondo cui ogni attività
comportante trasformazione urbanistico/edilizia del territorio partecipa
agli oneri da essa derivanti. Tale principio dell’onerosità del permesso di
costruire è oggi confermato dall’art. 11, comma 2, del T.U. n. 380 del 2001,
il quale poi precisa all’art. 16 che il relativo contributo è costituito da
due quote, commisurate rispettivamente all’incidenza delle spese di
urbanizzazione e al costo di costruzione dell’edificio assentito.
Rispetto a tale regola generale, l’art. 17 del citato T.U. contempla alcune
ipotesi di riduzione o esonero dal contributo di costruzione, che devono
considerarsi tassative e di stretta interpretazione poiché derogatorie
rispetto alla regola generale dell’onerosità del permesso.
Secondo la giurisprudenza, l’esonero dal costo di costruzione previsto
dall’art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 presuppone la sussistenza di due
requisiti attinenti, il primo al carattere pubblico o di interesse generale
delle opere da realizzare e, il secondo, al fatto che le opere debbano
essere eseguite da un ente istituzionalmente competente o da privati che
abbiano un legame istituzionale con l’azione dell’amministrazione pubblica
volta alla cura di interessi pubblici (Cons. Stato Sez. IV Sent.,
02/01/2020, n. 4, ma si veda anche Cons. Stato Sez. IV, 25/11/2019, n. 8002
Cons. Stato Sez. IV, 20.11.2017, n. 5356).
Nel caso di specie, anche a ritenere sussistente il requisito oggettivo,
rappresentato dalla finalizzazione degli interventi edilizi realizzati dalla
ricorrente al soddisfacimento dell’interesse pubblico (requisito senza
dubbio sussistente per la realizzazione del distaccamento dei Vigili del
Fuoco), difetta il requisito soggettivo ovvero la realizzazione dell’opera
da parte di un Ente istituzionale.
E’ bensì vero che l’esenzione dal contributo di costruzione può essere
riferita anche ad un’opera di interesse generale realizzata da un privato
per conto di un ente pubblico, ma in questa ipotesi –secondo
l’interpretazione più rigorosa, cui il Collegio aderisce– l’esenzione
spetta soltanto qualora (come avviene nella concessione di opera pubblica e
in altre analoghe figure organizzatorie) lo strumento contrattuale
utilizzato consenta formalmente di imputare la realizzazione del bene
direttamente all’ente per conto del quale il privato abbia operato (cfr. ex multis V Sez. n. 536 del 1999 e n. 1901 del 2000; Consiglio di Stato n.
595/2016; Consiglio di Stato n. 5356 del 2017).
In altri termini, l’esenzione spetta solo se il privato abbia agito quale
organo indiretto dell’amministrazione, come avviene nella concessione o
nella delega.
Nel caso di specie, la ditta costruttrice non ha operato come concessionario
o delegato del Comune.
La società ricorrente non ha mai conseguito dal Comune una concessione di
opera pubblica o una delega per la realizzazione degli interventi edilizi de quibus, ponendosi quale “longa manus della PA”, il che esclude che possa
pretendere un beneficio spettante ai privati solo se essi hanno edificato
per conto dell’Ente pubblico, quali organi indiretti dell’Amministrazione,
come nella concessione o nella delega (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia n.
402/2021; Cons. St. n. 82/2021; C.d.S., n. 5194/2019).
L’esenzione dal pagamento del costo di costruzione prevista dall’art. 17,
comma 3, lett. c), DPR 380/2001 ha carattere eccezionale e spetta
esclusivamente nei casi tassativamente indicati dalla legge e richiede
sempre un requisito soggettivo e uno oggettivo; nel caso di specie, manca il
requisito soggettivo, ovvero la realizzazione dell’edificio da parte di un
Ente istituzionale, sicché la domanda principale va rigettata (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 21.04.2022 n. 582 - link a ww.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oneri
di urbanizzazione – Disciplina regolamentare – Diritto di credito decennale
– Criteri di determinazione del contributo di costruzione – Necessario
riferimento ai parametri e alle tabelle.
L’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n. 12 del 2018 ha chiarito che l’obbligazione di
corrispondere il contributo nasce nel momento in cui viene rilasciato il
titolo ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione
dell’entità del contributo (Cons. St., sez.
IV, 30.11.2015, n. 5412, ma v. anche Cons. St., sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
L’atto di imposizione e di liquidazione del contributo, quale corrispettivo
di diritto pubblico richiesto per la compartecipazione ai costi delle opere
di urbanizzazione, non ha natura autoritativa né costituisce esplicazione di
una potestà pubblicistica, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e
contabile, in applicazione di rigidi e prestabiliti parametri regolamentari
e tabellari.
Va ricordato, infatti, che gli oneri di urbanizzazione, ai sensi dell’art.
16, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, sono corrisposti sulla base delle
tabelle parametriche, predisposte dalle Regioni, tabelle che devono essere
recepite dal Comune in una propria deliberazione, atto amministrativo
generale impugnabile solo con il concreto provvedimento applicativo.
La determinazione degli oneri di urbanizzazione si
correla ad una precisa disciplina regolamentare, con la conseguenza che, per
costante orientamento giurisprudenziale, i provvedimenti applicativi della
stessa non richiedono alcuna puntuale motivazione allorché le scelte operate
dalla pubblica amministrazione si conformino ai criteri stessi di cui alle
tabelle parametriche (Cons. St.,
sez. V, 09.02.2001, n. 584).
Per l’altrettanto consolidata giurisprudenza del Consiglio
di Stato, la natura paritetica dell’atto di determinazione consente che la
pubblica amministrazione possa apportarvi modifiche, sia in favore del
privato che in senso contrario, purché ciò avvenga nei limiti della
prescrizione decennale del relativo diritto di credito
(v., inter multas, Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n. 6033, Cons. St., sez.
IV, 17.09.2010, n. 6950).
Si tratta, infatti, di una determinazione che obbedisce a
prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l’amministrazione
comunale si limita ad applicare dei parametri, aventi per la stessa natura
cogente, laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa
(Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n. 6033) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 21.04.2022 n. 582 - link a ww.ambientediritto.it).
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Va, invece, accolto, per le ragioni e nei limiti di seguito indicati, il
motivo subordinato con cui la società ricorrente contesta la misura del
contributo di costruzione concretamente applicato (quantum debeatur),
ritenendo imperscrutabile e non supportata da adeguata istruttoria la
determinazione del Comune di commisurare il contributo di costruzione agli
edifici residenziali, anziché a quelli commerciali, direzionali o destinati
allo svolgimento di servizi ex art. 19, comma 2, DPR 380/2001.
Com’è noto l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 12 del 2018 ha
chiarito che l’obbligazione di corrispondere il contributo nasce nel momento
in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre aver
riguardo per la determinazione dell’entità del contributo (Cons. St., sez.
IV, 30.11.2015, n. 5412, ma v. anche Cons. St., sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
L’atto di imposizione e di liquidazione del contributo, quale corrispettivo
di diritto pubblico richiesto per la compartecipazione ai costi delle opere
di urbanizzazione, non ha natura autoritativa né costituisce esplicazione di
una potestà pubblicistica, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e
contabile, in applicazione di rigidi e prestabiliti parametri regolamentari
e tabellari.
Va ricordato, infatti, che gli oneri di urbanizzazione, ai sensi dell’art.
16, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, sono corrisposti sulla base delle
tabelle parametriche, predisposte dalle Regioni, tabelle che devono essere
recepite dal Comune in una propria deliberazione, atto amministrativo
generale impugnabile solo con il concreto provvedimento applicativo.
La determinazione degli oneri di urbanizzazione si correla ad una precisa
disciplina regolamentare, con la conseguenza che, per costante orientamento
giurisprudenziale, i provvedimenti applicativi della stessa non richiedono
alcuna puntuale motivazione allorché le scelte operate dalla pubblica
amministrazione si conformino ai criterî stessi di cui alle tabelle
parametriche (Cons. St., sez. V, 09.02.2001, n. 584).
Per l’altrettanto consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, la
natura paritetica dell’atto di determinazione consente che la pubblica
amministrazione possa apportarvi modifiche, sia in favore del privato che in
senso contrario, purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione decennale
del relativo diritto di credito (v., inter multas, Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n. 6033, Cons. St., sez. IV, 17.09.2010, n. 6950).
Si tratta, infatti, di una determinazione che obbedisce a prescrizioni
desumibili da tabelle, in ordine alla quale l’amministrazione comunale si
limita ad applicare dei parametri, aventi per la stessa natura cogente,
laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa (Cons. St., sez.
IV, 28.11.2012, n. 6033).
Ciò premesso, osserva il Collegio che nel permesso di costruire rilasciato
alla ricorrente non sono in alcun modo indicati (neanche per relationem) i
criteri di determinazione del contributo di costruzione, sicché non
risultano comprensibili le ragioni per le quali l’edificio costruito dalla
ricorrente (destinato ad ospitare il distaccamento dei Vigili del fuoco, il
magazzino e gli uffici della società) è stato di fatto assoggettato al
contributo di costruzione applicabile ai fabbricati a destinazione
residenziale e non a quello dovuto per i fabbricati con destinazione
commerciale-direzionale.
La mancanza di ogni e qualsiasi riferimento ai parametri e alle tabelle
concretamente applicate rende imperscrutabile e, dunque, illegittima in
parte qua la determinazione del Comune, che dovrà, pertanto, rideterminarsi
al riguardo, tenendo conto delle doglianze formulate dalla ricorrente, e, se
del caso, restituire le somme percepite in eccesso.
Entro questi ristretti limiti il ricorso merita accoglimento, dovendosi per
il resto respingere. |
APPALTI: Estensione
del soccorso istruttorio anche alle irregolarità relative alle polizze
fideiussorie a garanzia dell’offerta.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazioni – Garanzia - Deposito “in
numerario” – Condizione.
●
Contratti della Pubblica amministrazioni – Soccorso istruttorio –
Condizioni.
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione - Impugnazione -
Concorrente legittimamente escluso dalla gara – Inammissibilità.
●
Nelle gare di appalto per l’affidamento di lavori, servizi e forniture
pubbliche il deposito “in numerario” dell’importo oggetto di una garanzia
fideiussoria, bancaria o assicurativa ovvero rilasciata da uno degli
intermediari abilitati iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 106 del
T.U.L.B. (d.lgs. 01.09.1993, n. 385), possiede idoneità surrogatoria della
formale garanzia fideiussoria, solo qualora il deposito in numerario venga
effettuato entro il termine ultimo fissato dalla lex specialis per la
presentazione dell’offerta di gara, in omaggio al principio generale,
positivizzato in norma, vigente nel diritto degli appalti pubblici, secondo
cui la cauzione provvisoria (a garanzia dell’offerta) nonché quella a
presidio della corretta esecuzione dell’opera o del servizio o della
fornitura pubblica, deve essere prodotta alla stazione appaltante entro il
termine di presentazione dell’offerta stessa.
●
Il soccorso istruttorio ex art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 deve
essere azionato anche nei casi di invalidità o irregolarità della cauzione
provvisoria trattandosi di ipotesi da ricondurre all'ambito delle “carenze
di elementi formali della domanda” ovvero della “mancanza, incompletezza” o
“irregolarità essenziale” della documentazione allegata alla domanda di
partecipazione, e va a buon fine –e l’operatore può restare in gara– solo se
la cauzione provvisoria presentata in sanatoria è stata emessa in data
anteriore al termine per la presentazione delle domande di partecipazione.
●
Il concorrente legittimamente escluso da una gara pubblica non ha
interesse processuale a ricorrere contro i provvedimenti adottati nelle
ulteriori fasi della procedura e, in particolare, contro quello di
aggiudicazione ad altra impresa partecipante, posto che l’eventuale
accoglimento del gravame nessun vantaggio recherebbe alla sua sfera
giuridica, restando invulnerata la sua esclusione dalla gara; è ravvisabile
anche inammissibilità per difetto di legittimazione a ricorrere poiché “la
definitiva esclusione o l'accertamento della illegittimità della
partecipazione alla gara impedisce di assegnare al concorrente la titolarità
di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare gli esiti della
procedura selettiva, e tale esito rimane fermo in ogni caso in cui
l'illegittimità della partecipazione alla gara è stata definitivamente
accertata per inoppugnabilità dell'atto di esclusione ovvero per
annullamento dell'atto di ammissione”
(TAR Lazio-Roma, Sez. III,
ordinanza 14.04.2022 n. 2524 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
ORDINANZA
Ritenuto in punto di diritto che nelle gare di appalto per
l’affidamento di lavori, servizi e forniture pubbliche il deposito “in
numerario” dell’importo oggetto di una garanzia fideiussoria, bancaria o
assicurativa ovvero rilasciata da uno degli intermediari abilitati iscritti
nell’elenco speciale di cui all’articolo 106 del T.U.L.B., d.lgs.
legislativo 01.09.1993, n. 385, possiede idoneità surrogatoria della
formale garanzia fideiussoria, solo qualora il deposito in numerario venga
effettuato entro il termine ultimo fissato dalla lex specialis per la
presentazione dell’offerta di gara, in omaggio al principio generale,
positivizzato in norma, vigente nel diritto degli appalti pubblici, secondo
cui la cauzione provvisoria (a garanzia dell’offerta) nonché quella a
presidio della corretta esecuzione dell’opera o del servizio o della
fornitura pubblica, deve essere prodotta alla stazione appaltante entro il
termine di presentazione dell’offerta stessa; precetto normativo del resto
riprodotto nella lex specialis della gara per cui è controversia al
paragrafo IV.2 del Disciplinare di gara;
Considerato che nel caso di specie il termine ultimo stabilito per
la presentazione dell’offerta era abbondantemente decorso alla data del 03.09.2021 individuata dalla Stazione appaltante Trenitalia S.p.a., solo
ai fini dell’integrazione per via del soccorso istruttorio contemplato
dall’art. 83, co. 9, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e prima ancora dall’art. 6
della L. 07.08.1990, n. 241;
Rilevato inoltre che risulta in atti che solo in data 02/11/2021,
due mesi oltre il 03.09.2021 la Fe. S.p.A. ricorrente inviava a
Trenitalia S.p.A. l’appendice di polizza richiesta in occasione del soccorso
istruttorio corredata di autentica notarile datata 21/09/2021 e traduzione
giurata di detto documento datata 23/09/2021 allegando anche istanza di
revoca e/o annullamento del 14.10.2021 del provvedimento di esclusione
(Docc. 15, 16, 17 produzione Trenitalia del 04.04.2022);
Segnalato al riguardo l’orientamento consolidato della
giurisprudenza, prevalentemente d’appello, cui la Sezione aderisce anche in
ragione delle brevi considerazioni che infra ci si accinge a svolgere, a
stare al quale “la regolarizzazione della cauzione provvisoria è consentita
solo in caso di mancata produzione del documento rappresentativo per svista
o dimenticanza e sempre che essa si riferisca ad un atto comunque
perfezionato prima della scadenza del termine di presentazione della domanda
di partecipazione alla gara (Cons. Stato, V, 23.03.2021, n. 2483)”
(Consiglio di Stato, Sez. V, 17.09.2021, n. 6324); in termini, adde,
Consiglio di Stato, Sez. V, 27.01.2021, n. 804;
Rammentato che si è in proposito già puntualizzato che “In caso di
irregolarità concernenti la cauzione provvisoria è ammesso l'istituto del
soccorso istruttorio, ma l'operatore può restare in gara solo se la cauzione
provvisoria presentata in sanatoria, come pure la dichiarazione di impegno
alla prestazione di garanzia de finitiva, sono di data anteriore al termine
per la presentazione delle domande di partecipazione” (TAR Campania-Napoli, Sez. II, 11.01.2021, n. 183);
Precisandosi che il soccorso istruttorio ex art. 83, co. 9, d.lgs.
n. 50/2016 deve essere azionato anche nei casi di invalidità o irregolarità
della cauzione provvisoria trattandosi di ipotesi da ricondurre all'ambito
delle «carenze di elementi formali della domanda» ovvero della «mancanza,
incompletezza » o «irregolarità essenziale» della documentazione allegata
alla domanda di partecipazione, si era già del resto affermato che, “Il
soccorso istruttorio, però, va a buon fine –e l’operatore può restare in
gara– solo se la cauzione provvisoria presentata in sanatoria è stata
emessa in data anteriore al termine per la presentazione delle domande di
partecipazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 02.09.2019, n. 6013;
22.10.2018, n. 6005; 26.07.2016, n. 3372) sarebbe, infatti, violata
la par condicio tra i concorrenti, qualora fosse consentita la presentazione
di una cauzione provvisoria formata successivamente alla scadenza del
termine per la presentazione della domanda di partecipazione, e, nel termine
del soccorso istruttorio (…)” (TAR Sardegna, Sez. I, 10.01.2020, n.
17); in tal senso, adde, già Consiglio di Stato, Sez. V, 04.12.2019, n.
8296);
Considerato invece che nel caso di specie la ricorrente ha
prodotto, ma solo entro il termine stabilito mediante il soccorso
istruttorio, la cauzione fideiussoria (ancorché in numerario ma ciò era
consentito dal l par. IV.2 del disciplinare) conforme ai dettami della lex
specialis ma rilasciata e versata in gara il 03.09.2021 allorché,
ormai -ripetesi– il termine ultimo per la presentazione dell’offerta di
gara era abbondantemente elasso;
Ritenuto che la produzione della cauzione provvisoria, richiesta ai
fini dell’ammissione alla gara, successivamente al termine ultimo stabilito
per la presentazione dell’offerta vulnererebbe la par condicio competitorum
non fosse altro perché, quanto meno, il differimento, a beneficio del
concorrente che non abbia prodotto la cauzione entro il pretto termine
massimo, del cennato termine ultimo, concederebbe al concorrente “in
ritardo” un maggior lasso di tempo per scandagliare il mercato assicurativo
consentendogli, eventualmente, di “procacciarsi” condizioni contrattuali
migliori;
...
Rilevato, inoltre, che con i motivi aggiunti la ricorrente ha
altresì impugnato della delibera di aggiudicazione n. 28 del 10.02.2022;
Ricordato al riguardo che per giurisprudenza costante, il
concorrente legittimamente escluso da una gara pubblica non ha interesse
processuale a ricorrere contro i provvedimenti adottati nelle ulteriori fasi
della procedura ed, in particolare, contro quello di aggiudicazione ad altra
impresa partecipante, posto che l’eventuale accoglimento del gravame nessun
vantaggio recherebbe alla sua sfera giuridica, restando invulnerata la sua
esclusione dalla gara (Consiglio di Stato, Sez. V, 30.08.2006, n. 5067;
Consiglio di Stato, Sez. V, 16.09.2004, n. 6031; TAR Campania–Napoli, Sez. I,
02.08.2007, n. 727; TAR Abruzzo L'Aquila, sez. I, 12.06.2008,
n. 691; TAR Puglia–Bari, Sez. I, 07.02.2005 n. 385; TAR
Piemonte, Sez. I, 06.07.2011, n. 739; vi è anche inammissibilità per
difetto di legittimazione a ricorrere poiché “la definitiva esclusione o
l'accertamento della illegittimità della partecipazione alla gara impedisce
di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che
lo abiliti ad impugnare gli esiti della procedura selettiva, e tale esito
rimane fermo in ogni caso in cui l'illegittimità della partecipazione alla
gara è stata definitivamente accertata per inoppugnabilità dell'atto di
esclusione ovvero per annullamento dell'atto di ammissione” (Consiglio di
Stato, Adunanza Plenaria, 07.04.2011, n. 4) (TAR Lazio-Roma, Sez. III,
ordinanza 14.04.2022 n. 2524 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gare,
non basta l'iscrizione soltanto formale alla Cciaa.
Se non è attivato l'oggetto sociale di un'impresa, attraverso lo svolgimento
concreto di attività coerenti con quelle da affidare, l'iscrizione puramente
formale alla Camera di commercio non consente all'azienda di concorrere alla
gara.
Lo ha affermato il TAR Campania-Napoli, Sez. V, con la
sentenza 13.04.2022 n. 2539.
L'impresa ricorrente era stata esclusa perché munita di un'iscrizione
formale alla Camera di commercio, ma non aveva svolto mai alcuna attività
prima dell'indizione della gara né tra quelle rientranti nell'oggetto
sociale, né quella richiesta dal bando di gara. Il Collegio giudicante, pur
ricordando l'esistenza di pronunce di segno contrario, ha sposato
l'orientamento giurisprudenziale prevalente che vede nell'iscrizione
camerale un requisito di idoneità professionale «anteposto ai più specifici
requisiti attestanti la misura della capacità tecnico professionale ed
economico-finanziaria dei partecipanti alla gara».
In sostanza, hanno ricordato i giudici, l'iscrizione assume lo scopo di
«filtrare l'ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una
professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell'affidamento
pubblico». È quindi sulla base dell'attività principale o prevalente, in
concreto espletata e documentata dall'iscrizione alla Camera di commercio,
che si procede all'individuazione della tipologia d'azienda. Non basta il
richiamo all'elenco dei settori di attività riportati nell'oggetto sociale
risultante dall'atto costitutivo o dallo statuto societario, che a loro
volta sono solo espressione di potenziali indirizzi operativi, inidonei a
qualificare l'impresa.
Pertanto, l'iscrizione alla Cciaa per determinate attività ha lo scopo di
selezionare ditte che abbiano un'esperienza specifica nel settore
interessato dall'appalto, maturata attraverso lo svolgimento di una
determinata attività direttamente coerente con il servizio da svolgere.
Pertanto il concetto di coerenza tra iscrizione, attività e oggetto
dell'appalto non può riguardare il generico oggetto sociale, che
costituisce, in mancanza di attivazione, dato potenziale e insuscettibile di
poter esprimere l'effettiva idoneità dell'impresa rispetto alle prestazioni
nel contratto di servizio da affidare
(articolo ItaliaOggi del 22.04.2022).
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SENTENZA
4.3 Ciò posto, ritiene il Collegio che non coglie nel segno il
complessivo apparato argomentativo della ricorrente, attraverso cui si
vorrebbe dimostrare l’illegittimità della sua esclusione dalla procedura, in
ragione dell’asserito travisamento della disciplina di gara, nella parte in
cui fissa la portata dei requisiti di idoneità professionale necessari ai
fini della partecipazione.
A ben vedere, infatti, la tesi della ricorrente si ferma ad una
interpretazione del dato letterale del tutto parcellizzata e riduttiva, non
affatto coerente con la ratio e la intrinseca coerenza della
previsione, in relazione sia al complessivo quadro normativo di riferimento
che alla disciplina di gara.
4.4 Sulla questione, il Collegio, pur non ignorando l’esistenza di pronunce
di segno contrario (da ultimo TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 06.09.2021, n.
1966), ritiene nondimeno di condividere l’orientamento giurisprudenziale
prevalente per cui “… nell’impostazione del nuovo codice appalti
l’iscrizione camerale è assurta a requisito di idoneità professionale [art.
83, comma 1, lett. a), e 3, d.lgs. n. 50/2016], anteposto ai più specifici
requisiti attestanti la misura della capacità tecnico professionale ed
economico-finanziaria dei partecipanti alla gara di cui alle successive
lettere b) e c) del medesimo comma: la sua utilità sostanziale è infatti
quella di filtrare l’ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una
professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell’affidamento
pubblico" (in tal senso Cons. di Stato, III, 08.11.2017, n. 5170; Cons.
di Stato, V, 25.07.2019, n. 5257).
Del resto, come non ha mancato di rimarcare la giurisprudenza, è attraverso
l’attività principale o prevalente, in concreto espletata e documentata
dall’iscrizione alla Camera di Commercio, che si procede all’individuazione
ontologica della tipologia d’azienda, essendo insufficiente il richiamo
all’elenco dei settori di attività, invero in astratto illimitati, riportati
nell’oggetto sociale risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto
societario, costituendo detto elenco espressione di potenziali indirizzi
operativi, inidonei a qualificare l’impresa ove non effettivamente attivati
e, dunque, ove non comprovati da un’esperienza specifica nel relativo
settore di attività.
Pertanto la prescrizione della legge di gara con cui si richiede ai
concorrenti, ai fini della partecipazione, l’iscrizione alla C.C.I.A.A. per
determinate attività -ancor più, si ribadisce, nell'impianto del nuovo
Codice dei contratti pubblici, ove è assurta, con la previsione di cui
all'art. 83, comma 1, lett. a), del D.lgs. n. 50 del 2016, a requisito di
idoneità professionale- è finalizzata a selezionare ditte che abbiano una
esperienza specifica nel settore interessato dall'appalto, maturata
attraverso lo svolgimento di una determinata attività direttamente coerente
con il servizio da svolgere (cfr. Consiglio di stato, sez. V, 18.01.2021, n.
508; 25.09.2019 n. 6431 e 10.04.2018, n. 2176).
Del resto, il concetto di coerenza tra iscrizione, attività e oggetto
dell’appalto (richiamato dal su citato art. 8.1 del Disciplinare) non può
riguardare il generico oggetto sociale, che costituisce, in mancanza di
attivazione, un dato solo potenziale e, dunque, insuscettibile di poter
esprimere -se non in connessione con l'attività concretamente esercitata- la
effettiva idoneità dell’impresa rispetto alle prestazioni dedotte nel
contratto di servizio da affidare.
In altri termini, solo l’attivazione in concreto dell’oggetto sociale
consente di rivelare la reale attitudine e idoneità dell'impresa ad operare
nel settore di attività oggetto dell’appalto, con adeguate garanzie di
capacità e professionalità, e consentire, dunque, alla stazione appaltante
di poter fare affidamento circa la puntuale esecuzione delle prestazioni
richieste.
Peraltro, “Il requisito di idoneità professionale è collegato al dato
esperienziale ed aziendale dell'idoneità ad eseguire commesse analoghe a
quella da affidarsi, per cui deve, tra l’altro, essere posseduto
personalmente dall’operatore e non può essere oggetto di avvalimento (al
contrario dei requisiti speciali o oggettivi) in quanto non equiparabile ad
un requisito “trasferibile” da un operatore economico all'altro" (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 09.03.2020, n. 1667).
4.5 Al lume dei riportati principi giurisprudenziali sull'interpretazione
della disciplina normativa applicabile, risulta, dunque, del tutto corretta
la decisione assunta dalla S.A. di escludere dalla competizione
concorrenziale la ricorrente, provvedendo alla revoca della precedente
aggiudicazione, essendo detta decisione diretta conseguenza della mancanza
del requisito di idoneità professionale in capo alla ricorrente, per non
aver attivato, prima della scadenza del termine di presentazione delle
domande -limite temporale a partire dal quale va verificato il possesso dei
requisiti partecipativi-, alcuna attività coerente con l’oggetto
dell’appalto.
5. In ragione di quanto precede, il ricorso si palesa, dunque, infondato e
va, pertanto, respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Trasformazione di un locale sgombero in unità abitativa –
Modifica di destinazione d’uso – Volumetria ex novo –
Intervento di nuova costruzione – BENI CULTURALI ED
AMBIENTALI – Zone vincolate necessità di autorizzazione
paesaggistica – Giurisprudenza – Fattispecie – Art. 10 c. 1,
lett. a), del T.U.E..
La trasformazione di un locale sgombero
in unità abitativa determina un aumento di cubatura per il
quale è necessario il permesso a costruire. Nel caso in
esame con la trasformazione, con opere, del locale adibito
ad uso sgombero, si è creata una volumetria ex novo che, a
mente dell’art. 10, comma 1, lett. a), del d.P.R. 380 del
2001, costituisce intervento di nuova costruzione e, nel
caso di zone vincolate, occorre anche l’autorizzazione
paesaggistica.
La giurisprudenza più recente ha precisato che la modifica
di destinazione d’uso è integrata anche dalla realizzazione
di sole opere interne, ad esempio il mutamento in abitazione
del sottotetto mediante la predisposizione di impianti
tecnologici sottotraccia o la trasformazione di una cantina
in mini-appartamento eseguita in zona vincolata che richiede
il preventivo rilascio sia del permesso di costruire che
dell’autorizzazione paesaggistica, potendo anche le sole
opere interne integrare una modifica di destinazione d’uso
penalmente rilevante.
Nella fattispecie, l’originario volume destinato a sgombero,
e dunque non residenziale, è divenuto abitabile per effetto
delle opere interne realizzate che hanno così determinato un
aumento della volumetria abitabile, rispetto ai parametri
urbanistici che ne individuano i limiti.
...
Realizzazione di una autonoma unità abitativa – Sequestro
preventivo sul rilievo dell’aumentato carico urbanistico –
Sussistenza del periculum in mora – Esclusione del
fumus commissi delicti in relazione al reato
paesaggistico – Effetti – Fattispecie: trasformazione di un
locale adibito a sgombero a residenziale – Art. 44, lett.
c), del d.P.R. n. 380/2001.
In tema di sequestro preventivo è
congruamente motivata la sussistenza del pericolum in mora,
con riferimento al reato di cui all’art. 44, lett. c), del
d.P.R. n. 380 del 2001, sul rilievo dell’aumentato carico
urbanistico conseguente all’intervento edilizio volto a
rendere abitabile un piano seminterrato originariamente
costruito quale unico locale adibito a sgombero, con
aggravio del carico urbanistico derivante dalla
realizzazione di una autonoma unità abitativa, in un
contesto nel quale neppure si allega l’utilizzo da parte del
medesimo nucleo abitativo.
Nel caso in esame con la trasformazione, con opere, del
locale adibito ad uso sgombero, si è creata una volumetria
ex novo che, a mente dell’art. 10, comma 1, lett. a), del
d.P.R. 380 del 2001, costituisce intervento di nuova
costruzione.
Mentre l’esclusione del fumus commissi delicti in relazione
al reato paesaggistico rende irrilevante l’indagine
dell’aggravio anche sotto il profilo ambientale.
Fattispecie: sequestro preventivo di un immobile in
relazione al reato di cui all’art. 44, lett. c), del d.P.R.
n. 380 del 2001, per avere realizzato in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico (Vietri sul Mare) ed in assenza di
permesso a costruire, un cambio di destinazione d’uso del
locale seminterrato trasformato in unità abitativa, dotata
di tutte le opere accessorie con accesso creato mediante
apertura di un vano porta sul prospetto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.04.2022 n. 13703 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Localizzazione
di impianti di distribuzione carburanti.
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Urbanistica – Localizzazione - Impianti di distribuzione carburanti –
Condizione.
La localizzazione di impianti di distribuzione
carburanti incontra i limiti della esigenza di salvaguardia ambientale
insita nella destinazione di zona agricola (1).
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(1) Ha affermato la Sezione che l’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs.
n. 32 del 1998, si limita a prevedere la compatibilità funzionale degli
impianti di carburante con le diverse parti del territorio comunale, ad
eccezione di quelle comprese in zona territoriale omogenea A ovvero soggette
a particolari vincoli paesaggistici, ambientali o monumentali, con l'effetto
che essi non devono di necessità essere collocati in zona territoriale
omogenea a destinazione industriale; rimane comunque salva la potestà
comunale di individuare le caratteristiche delle aree sulle quali possono
essere realizzati tali impianti.
Il d.lgs. n. 32/1998 configura un potere conformativo della rete
distributiva dei carburanti particolare rispetto all’ambito esclusivamente
urbanistico, affidando ai Comuni il compito di definire i criteri, requisiti
e caratteristiche delle aree su cui possono essere istallati gli impianti di
distribuzione carburanti, con un apposito atto di raccordo con la disciplina
urbanistica, in modo da consentire la razionalizzazione della rete di
distribuzione e la semplificazione del procedimento di autorizzazione di
nuovi impianti su aree private.
Il significato della norma è quello secondo cui è in facoltà degli enti
locali consentire, in sede di pianificazione della rete, la localizzazione
dei nuovi impianti anche nelle zone del P.R.G. soggette a diversa
destinazione, purché non sottoposte a particolari vincoli
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.04.2022 n. 2696
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
34. Con il quarto motivo del ricorso introduttivo, la Società ha
lamentato la violazione delle disposizioni normative in tema di concorrenza
e liberalizzazione degli impianti, circa la loro localizzazione.
34.1. L’art. 45 delle NTA si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 2,
comma 1-bis, del d.lgs. n. 32 del 1998, secondo cui gli impianti di
distribuzione carburanti devono ritenersi, in linea di principio,
compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica.
35. Il motivo è infondato.
35.1. L’art. 2 comma 1-bis, del d.lgs. n. 32 del 1998, si limita a prevedere
la compatibilità funzionale degli impianti di carburante con le diverse
parti del territorio comunale, ad eccezione di quelle comprese in zona
territoriale omogenea A ovvero soggette a particolari vincoli paesaggistici,
ambientali o monumentali, con l'effetto che essi non devono di necessità
essere collocati in zona territoriale omogenea a destinazione industriale;
rimane comunque salva la potestà comunale di individuare le caratteristiche
delle aree sulle quali possono essere realizzati tali impianti.
35.2. Il d.lgs. n. 32/1998 configura un potere conformativo della rete
distributiva dei carburanti particolare rispetto all’ambito esclusivamente
urbanistico, affidando ai Comuni il compito di definire i criteri, requisiti
e caratteristiche delle aree su cui possono essere istallati gli impianti di
distribuzione carburanti, con un apposito atto di raccordo con la disciplina
urbanistica, in modo da consentire la razionalizzazione della rete di
distribuzione e la semplificazione del procedimento di autorizzazione di
nuovi impianti su aree private.
35.3. Il significato della norma è quello secondo cui è in facoltà degli
enti locali consentire, in sede di pianificazione della rete, la
localizzazione dei nuovi impianti anche nelle zone del P.R.G. soggette a
diversa destinazione, purché non sottoposte a particolari vincoli.
35.4. In tal senso, anche la legislazione concorrente regionale.
35.5. La legge regionale Lombardia 02.02.2010, n. 6 (Testo unico delle leggi
regionali in materia di commercio e fiere), disciplina, al Capo IV, la “vendita
dei carburanti per uso di autotrazione”.
35.6. L’art. 82, lett. j), stabilisce che “Ai fini dell'applicazione del
presente capo e dei provvedimenti attuativi di cui all'articolo 83 si
intende per (…) servizi accessori all'utente: servizi di erogazione e
controllo aria ed acqua, servizi di lubrificazione, officina leggera,
elettrauto, gommista, autolavaggio (…)”.
35.7. Il successivo articolo 85 regola le “Competenze dei comuni” e
stabilisce che “I comuni esercitano le funzioni amministrative
concernenti: (…) ) la definizione del piano urbanistico di localizzazione
degli impianti stradali di distribuzione di carburanti di cui all'articolo
86, comma 2”.
35.8. L’art. 86 (Localizzazione impianti) dispone che “I comuni
individuano i criteri di inquadramento territoriale, i requisiti e le
caratteristiche urbanistiche delle aree private sulle quali possono essere
installati i nuovi impianti di distribuzione carburanti, o realizzate le
ristrutturazioni totali degli impianti esistenti, anche in relazione ad
attività commerciali integrative. Contestualmente i comuni stabiliscono le
norme applicabili a tali aree, comprese quelle sulle dimensioni delle
superfici edificabili, in presenza delle quali i comuni stessi sono tenuti a
rilasciare il permesso di costruire per la realizzazione dell'impianto”.
36. Il Comune di Nerviano, in sede di adozione del P.G.T., ha esercitato,
agli artt. 45 e 51 delle N.T.A., il potere di pianificazione e
localizzazione dei nuovi impianti di distribuzione carburanti, anche in
relazione ad attività commerciali integrative, individuando le zone di
localizzazione degli impianti.
37. Le norme sulla localizzazione costituiscono il risultano della analisi
della rete distributiva esistente, che l’Amministrazione indica come “riportata
nel quadro conoscitivo (elaborato Q1 – Relazione illustrativa del Quadro
Conoscitivo) e richiamata nell’elaborato R1 relazione illustrativa del Piano
delle Regole”.
38. Le relative previsioni pianificatorie, frutto di una analisi della rete
distributiva, confluite nell’apposito elaborato allegato al Piano delle
Regole, facente parte del P.G.T. comunale, peraltro non specificamente
avversate quanto all’analisi condotta e alle valutazioni ivi svolte,
supportano congruamente le divisate decisioni urbanistiche.
39. Ne consegue che, correttamente il divieto opposto al progetto nella sua
unicità, prevedendo come sopra anticipato nuove costruzioni, e non
trattandosi di un mero potenziamento dell’impianto esistente (mediante la
sola installazione di colonnine GPL), ha scontato la previa verifica di
(in)compatibilità con la localizzazione programmata dal Piano.
40. Le ragioni sottese alla infondatezza del motivo appena esaminato,
valgono anche a confutazione del settimo, ottavo e decimo motivo del ricorso
introduttivo, coi quali la società ricorrente ha dedotto violazione degli
artt. 85, 86 e 87-ter della legge regionale n. 6 del 2010, dovendosi
riscontrare la competenza del Comune in materia di localizzazione degli
impianti, nei limiti e nel rispetto delle analisi, valutazioni e
pianificazioni sopra evidenziate.
In particolare, quanto al decimo motivo del ricorso introduttivo, a mezzo
del quale la Società ha lamentato l’illegittimità della “fissazione di un
limite di superficie fisso pari a 150 mq” per le attività di cui
all’art. 82, comma 1, lett. j), l.r. 6/2010, lo stesso si disvela anche
inammissibile per carenza di interesse in quanto, assodato che la
localizzazione delle attività è stata legittimamente pianificata dal Comune
sulla base delle fonti regionali e nazionali, nessun giovamento ne potrebbe
trarre la Società da un suo eventuale accoglimento stante la “Destinazione
vietata –Carburanti” (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.04.2022 n. 2696
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La previsione di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 –nel
testo ratione temporis vigente- secondo cui la comunicazione del
preavviso di rigetto “interrompe i termini per concludere il procedimento
che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle
osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo
periodo” è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza
amministrativa nel senso che il termine di conclusione del procedimento
debba ritenersi interrotto per effetto della comunicazione del preavviso di
rigetto, con la conseguenza che esso riprende a decorrere ex novo, e non
solo per la parte non consumata, dal momento in cui vengono presentate le
osservazioni di parte ovvero dalla inutile scadenza del termine per la loro
produzione.
L’effetto interruttivo segnava, infatti, un preciso limite
all’attività del responsabile del procedimento che doveva necessariamente
attenersi alla ripresa dei termini iniziali, ciò in quanto l’interruzione
dei termini era riferita, non già alla presentazione delle osservazioni
bensì, alla comunicazione del diniego; tale comunicazione si poneva,
pertanto, come il momento centrale del nuovo sub procedimento che veniva a
incardinarsi per effetto della determinazione volta a respingere la
richiesta dell’istante.
Tale la ratio, la norma costituiva -nello schema ordinamentale
previgente la novella introdotta nel 2020 ad opera dell'art. 12, comma 1,
lett. e), del d.l. 16.07.2020, n. 76– l’opportuno, e perciò plausibile sul
piano della ragionevolezza, contemperamento operato dal legislatore tra la
funzione garantista, assicurata dal pieno contraddittorio, e quella
acceleratoria rappresentata dalla necessità di assicurare tempi certi e
celeri alla definizione del procedimento.
Depone, in tal senso, anche il senso letterale della disposizione in
esame, ove messa a confronto con il testo di recente novellato.
L’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, nel testo ratione
temporis vigente, recitava al comma 1, terzo periodo, che “la
comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il
procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione
delle osservazioni …”.
Il nuovo periodo del comma 1, così recita: “La comunicazione di cui
al primo periodo sospende i termini di conclusione dei procedimenti, che
ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la presentazione delle
osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza del termine di cui
al secondo periodo”.
La locuzione “ricominciano a decorrere” segna chiaramente il tratto
di continuità temporale tra il periodo già decorso e quello successivo;
laddove la locuzione “iniziano nuovamente a decorrere” indica(va) una
cesura temporale tra i medesimi.
---------------
15. Con il primo motivo, la Società sostiene che si sarebbe formato
il silenzio-assenso sulla domanda di rilascio del permesso di costruire.
Segnatamente, dovrebbe escludersi “recisamente che la notifica del
preavviso faccia ri-decorrere integralmente il termine” di conclusione
del procedimento.
16. Il motivo è infondato.
17. La previsione di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 –nel
testo ratione temporis vigente- secondo cui la comunicazione del
preavviso di rigetto “interrompe i termini per concludere il procedimento
che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle
osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo
periodo” è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza
amministrativa nel senso che il termine di conclusione del procedimento
debba ritenersi interrotto per effetto della comunicazione del preavviso di
rigetto, con la conseguenza che esso riprende a decorrere ex novo, e non
solo per la parte non consumata, dal momento in cui vengono presentate le
osservazioni di parte ovvero dalla inutile scadenza del termine per la loro
produzione.
17.1. L’effetto interruttivo segnava, infatti, un preciso limite
all’attività del responsabile del procedimento che doveva necessariamente
attenersi alla ripresa dei termini iniziali, ciò in quanto l’interruzione
dei termini era riferita, non già alla presentazione delle osservazioni
bensì, alla comunicazione del diniego; tale comunicazione si poneva,
pertanto, come il momento centrale del nuovo sub procedimento che veniva a
incardinarsi per effetto della determinazione volta a respingere la
richiesta dell’istante.
17.2. Tale la ratio, la norma costituiva -nello schema ordinamentale
previgente la novella introdotta nel 2020 ad opera dell'art. 12, comma 1,
lett. e), del d.l. 16.07.2020, n. 76– l’opportuno, e perciò plausibile sul
piano della ragionevolezza, contemperamento operato dal legislatore tra la
funzione garantista, assicurata dal pieno contraddittorio, e quella
acceleratoria rappresentata dalla necessità di assicurare tempi certi e
celeri alla definizione del procedimento.
17.3. Depone, in tal senso, anche il senso letterale della disposizione in
esame, ove messa a confronto con il testo di recente novellato.
17.4. L’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, nel testo ratione
temporis vigente, recitava al comma 1, terzo periodo, che “la
comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il
procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione
delle osservazioni …”.
17.5. Il nuovo periodo del comma 1, così recita: “La comunicazione di cui
al primo periodo sospende i termini di conclusione dei procedimenti, che
ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la presentazione delle
osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza del termine di cui
al secondo periodo”.
La locuzione “ricominciano a decorrere” segna chiaramente il tratto
di continuità temporale tra il periodo già decorso e quello successivo;
laddove la locuzione “iniziano nuovamente a decorrere” indica(va) una
cesura temporale tra i medesimi.
18. Consegue a tanto, che il provvedimento, tenuto conto dell’effetto
interruttivo (e non sospensivo) indicato dalla norma, è stato correttamente
adottato nel termine di conclusione del procedimento (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.04.2022 n. 2696
- link a
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ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
In tema di violazione della disciplina del commercio e, più in
generale, sui limiti opponibili alle liberalizzazioni in materia di
commercio, il Collegio richiama la propria giurisprudenza secondo cui “È legittimo il provvedimento con cui
il Comune decide di non dare seguito al progetto di insediamento di un parco
commerciale in una certa zona, ove il diniego prescinda del tutto da
valutazioni estrinseche di natura prettamente economica o commerciale, ma
dipenda da limiti imposti dagli atti della pianificazione urbanistica,
compatibili rispetto agli obiettivi di tutela del territorio e
dell’ambiente, ivi compreso quello urbano (nella specie, l’ente locale aveva
già previsto, nell’ambito del territorio comunale, in rapporto al tessuto
urbano e insediativo, altra area deputata a ospitare le dette strutture di
vendita)”.
In particolare:
i) va riconosciuta l’esigenza di operare un ponderato bilanciamento
tra il diritto ad aprire nuovi esercizi commerciali e i valori sottesi alle
scelte effettuate in sede di pianificazione urbanistica relativamente
all’insediamento delle strutture produttive e commerciali;
ii) pur in base a tale premessa, vanno tuttavia valorizzati i
motivi imperativi di interesse generale che, nel caso di specie, si ponevano
a fondamento dell’imposizione di vincoli di natura urbanistica;
segnatamente, tali vincoli apparivano in linea con il perseguimento degli
obiettivi di garantire la protezione dell’ambiente e assicurare la razionale
gestione del territorio;
iii) siffatti motivi di interesse generale sono puntualmente
evidenziati dall’art. 31 del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito in
legge n. 214 del 2011, e, come si evince dalla giurisprudenza
costituzionale, sono funzionali a far sì che il venir meno degli ostacoli al
libero esercizio dell’attività economica, che si rivelino inutili o
sproporzionati, non travolga le normative necessarie a garantire che le
dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale (cfr.
Corte cost., n. 39 del 2016); con l’avvertenza finale che per potersi
configurare una situazione di contrasto con la disciplina anticoncorrenziale
è necessario provare la volontà di alterare maliziosamente le condizioni di
mercato.
---------------
41. Con il motivo n. 9 del ricorso di primo grado, la Società ha lamentato
la violazione delle norme euro-unitarie e nazionali in tema di concorrenza e
liberalizzazione (direttiva 2006/123/CE, c.d. Bolkestein).
42. Il motivo è infondato.
43. Gli atti impugnati per nulla impediscono il libero accesso al mercato da
parte degli operatori, atteso che non introducono forme di discriminazione
basate sull’appartenenza territoriale o su rendite di posizioni; né limitano
la libertà di circolazione dei servizi o di stabilimento.
44. La rete distributiva degli impianti di carburante, programmata dal
Comune all’esito delle analisi ed elaborazioni di settore, risponde,
infatti, alla diversa e legittima logica di pianificazione del territorio,
in vista di un razionale assetto delle misure di sfruttamento del medesimo.
45. In tema di violazione della disciplina del commercio e, più in generale,
sui limiti opponibili alle liberalizzazioni in materia di commercio, il
Collegio richiama la propria giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV, sentenza
04.05.2017, n. 2026), secondo cui “È legittimo il provvedimento con cui
il Comune decide di non dare seguito al progetto di insediamento di un parco
commerciale in una certa zona, ove il diniego prescinda del tutto da
valutazioni estrinseche di natura prettamente economica o commerciale, ma
dipenda da limiti imposti dagli atti della pianificazione urbanistica,
compatibili rispetto agli obiettivi di tutela del territorio e
dell’ambiente, ivi compreso quello urbano (nella specie, l’ente locale aveva
già previsto, nell’ambito del territorio comunale, in rapporto al tessuto
urbano e insediativo, altra area deputata a ospitare le dette strutture di
vendita)”; in particolare, secondo questa decisione (in senso analogo Cons.
Stato, sez. V, 13.01.2014, n. 70):
i) va riconosciuta l’esigenza di operare un ponderato bilanciamento
tra il diritto ad aprire nuovi esercizi commerciali e i valori sottesi alle
scelte effettuate in sede di pianificazione urbanistica relativamente
all’insediamento delle strutture produttive e commerciali;
ii) pur in base a tale premessa, vanno tuttavia valorizzati i
motivi imperativi di interesse generale che, nel caso di specie, si ponevano
a fondamento dell’imposizione di vincoli di natura urbanistica;
segnatamente, tali vincoli apparivano in linea con il perseguimento degli
obiettivi di garantire la protezione dell’ambiente e assicurare la razionale
gestione del territorio;
iii) siffatti motivi di interesse generale sono puntualmente
evidenziati dall’art. 31 del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito in
legge n. 214 del 2011, e, come si evince dalla giurisprudenza
costituzionale, sono funzionali a far sì che il venir meno degli ostacoli al
libero esercizio dell’attività economica, che si rivelino inutili o
sproporzionati, non travolga le normative necessarie a garantire che le
dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale (cfr.
Corte cost., n. 39 del 2016); con l’avvertenza finale che per potersi
configurare una situazione di contrasto con la disciplina anticoncorrenziale
è necessario provare la volontà di alterare maliziosamente le condizioni di
mercato (cfr. Cass. civ., sez. I, 03.04.2020, n. 7676), prova che non è
stata fornita nel caso di specie (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.04.2022 n. 2696
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sulle conseguenze pecuniarie quando la parte soccombente agisce o resistite
temerariamente in giudizio.
---------------
54. Il Collegio rileva, inoltre, che l’infondatezza del ricorso in appello
si fonda su ragioni manifeste in modo da integrare i presupposti applicativi
dell’art. 26, comma 2, c.p.a. secondo l’interpretazione che ne è stata data
dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez.
IV, 2205 del 2018; n. 2879 del 2017; 5497 del 2016, cui si rinvia ai sensi
dell’art. 88, comma 2, lettera d), c.p.a. anche in ordine alle modalità
applicative ed alla determinazione della sanzione), conformemente ai
principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. da ultimo sez. VI, n.
11939 del 2017; n. 22150 del 2016).
54.1. A tanto consegue il pagamento della sanzione nella misura di €
4.000,00.
55. La condanna dell’appellante, ai sensi dell’art. 26, comma 2, c.p.a.
rileva, infine, eventualmente, anche agli effetti di cui all’art. 2, comma
2-quinquies, lettere a) e d), della legge 24.03.2001, nr. 89 (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.04.2022 n. 2696
- link a
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ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
agli atti relativi alla documentazione propedeutica ad un servizio
giornalistico.
---------------
●
Accesso ai documenti – Accesso difensivo – Servizio giornalistico –
Documentazione propedeutica – Omessa motivazione sul nesso di strumentalità
– Diniego – Legittimità.
●
Accesso ai documenti – Accesso civico generalizzato - Art. 2-bis, comma 2,
lett. b), d.lgs. n. 33 del 2013 - Violazione degli artt. 3, 97 e 117 Cost. –
Esclusione Rai - Violazione degli artt. 3, 97 e 117 Cost. - Manifestamente
infondata
●
E’ legittimo il diniego di accesso alla documentazione propedeutica ad un
servizio giornalistico, che conterrebbe informazioni false ed errate in
relazione alla tutela dell’onore dell’istante se nell’istanza non è spiegato
quale nesso di strumentalità sussista tra l’accesso ai documenti preparatori
e la lesione dell’onore paventato dall’istante, considerato che si tratta di
documentazione, che non è stata diffusa all’esterno (1).
●
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2-bis, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 33 del 2013,
per violazione degli artt. 3, 97 e 117 Cost. che, nel tracciare l’ambito
soggettivo di applicazione del diritto di accesso civico, dettando regimi
differenziati in ragione delle particolari caratteristiche strutturali che
connotano le diverse persone giuridiche, sottrae all’accesso civico le
società in controllo pubblico quotate, quale è la Rai (2).
---------------
(1) La Sezione ha ricordato le direttrici fondamentali individuate
dalla giurisprudenza del giudice amministrativo in termini di accesso
difensivo.
Il parametro di riferimento è la sentenza n. 4 del 2021 dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, che espone una condivisibile ricostruzione
dell’accesso difensivo, che, nei termini di interesse ai fini del presente
giudizio, presuppone:
a) la sussistenza del solo nesso di necessaria strumentalità tra
l’accesso e la cura o la difesa in giudizio dei propri interessi giuridici;
b) la verifica della sussistenza di un interesse legittimante,
dotato delle caratteristiche della immediatezza, della concretezza e
dell’attualità.
La sussistenza di un nesso di necessaria strumentalità impone al richiedente
di motivare la propria richiesta di accesso, rappresentando in modo puntuale
e specifico nell’istanza di ostensione elementi che consentano
all’amministrazione detentrice del documento il vaglio del nesso di
strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta sub specie di
astratta pertinenza con la situazione “finale” controversa.
Secondo l’Adunanza Plenaria non è a tal fine sufficiente il generico
riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano
esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando.
Nella fattispecie se è evidente il nesso di strumentalità tra l’accesso e il
servizio giornalistico, che conterrebbe informazioni false ed errate in
relazione alla tutela dell’onore dell’istante e del suo studio, non si
spiega nell’istanza quale nesso di strumentalità sussista tra l’accesso ai
documenti preparatori e la lesione dell’onore paventato dall’istante,
considerato che si tratta di documentazione, che non è stata diffusa
all’esterno.
Specificazione che è, quindi, necessaria e che manca del tutto nel caso in
esame, anche se non deve spingersi nel senso di offrire elementi per
un’indagine da parte dell’amministrazione o del giudice sull'utilità ed
efficacia del documento stesso in prospettiva di tutela giurisdizionale. Non
si chiede all’istante una probatio diabolica in termini di utilità,
ma una prospettazione delle ragioni che rendono la documentazione oggetto
dell’accesso necessaria a tutela della posizione giuridica tutelanda.
(2) Quanto all’art. 3, deve osservarsi che non sussiste prima
facie il denunciato vizio di disparità di trattamento e
irragionevolezza, dal momento che il regime giuridico in comparazione è
differente in ragione del fatto che la limitazione soggettiva riguarda le
società in controllo pubblico che hanno emesso strumenti quotati e che non
si è in presenza di una previsione irragionevole, poiché il legislatore ha
necessariamente dovuto prendere in considerazione gli ulteriori interessi di
tutela del mercato.
Del pari non si ravvisa una contrarietà con il principio di buon andamento
ex art. 97 Cost., atteso che le società quotate soggiacciono a specifici
obblighi informativi anche ai sensi del d.lgs. n. 58 del 1998 e che, ai
sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d), del contratto di servizio: “La Rai
assicura un’offerta di servizio pubblico improntata ai seguenti principi:…
d) adottare criteri di gestione idonei ad assicurare trasparenza ed
efficienza con particolare riguardo all’uso delle risorse pubbliche”.
Infine, non si ravvisa una plausibile violazione dell’art. 117 Cost., sicché
la stessa risulta manifestamente infondata, ed, infatti, lo Statuto della
RAI espressamente prevede all’art. 32 che: “Il consiglio di
amministrazione costituisce un organismo, monocratico o collegiale, cui è
affidato il compito di attendere al controllo del funzionamento e
dell’osservanza dei modelli organizzativi e di gestione adottati per la
prevenzione dei reati di cui al d.lgs. 08.06.2001, n. 231, nonché il compito
di curarne l’aggiornamento. Tale organismo è dotato di autonomi poteri di
iniziativa e di controllo per l’esercizio delle proprie funzioni e riferisce
all’organo di amministrazione o ad un apposito comitato eventualmente
costituito all’interno dell’organo di amministrazione” (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.04.2022 n. 2655 -
commento tratto da e link a
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LAVORI PUBBLICI: Base
di calcolo dell’incremento del quinto della qualificazione per le Ati.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione - Ati -
Incremento del quinto - Art. 61, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010 – Criterio
di calcolo.
In sede di base di calcolo dell’incremento del
quinto della qualificazione in una categoria da parte delle società
partecipanti a un raggruppamento, se il parametro di riferimento da porre al
denominatore è costituito dall’importo complessivo dei lavori a base d’asta,
il dato da porre al numeratore deve essere omogeneo e così comprendere le
complessive qualificazioni possedute (anche in altre categorie) dalla
società partecipante al raggruppamento che intenda usufruire del quinto di
incremento (1).
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(1) Il C.g.a. si è pronunciato sull’incremento del quinto, previsto
dall’art. 61, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, della qualificazione in una
categoria da parte delle società partecipanti a un raggruppamento e, in
particolare, sulla condizione, cui è subordinato l’aumento, della titolarità
(da parte di chi aspira all’aumento) di “almeno un quinto dell’importo
dei lavori a base di gara”.
Assumendo quanto statuito dal Consiglio di Stato con una precedente
pronuncia -che ha interpretato il requisito nel senso che sia necessario il
possesso di qualificazione, nella stessa categoria da incrementare, per un
importo pari ad almeno il 20% dell’importo complessivo a base d’asta
(sentenza n. 3040 del 2021)– ha ritenuto che, se il parametro di riferimento
da porre al denominatore è costituito dall’importo complessivo dei lavori a
base d’asta, il dato da porre al numeratore deve essere omogeneo e così
comprendere le complessive qualificazioni possedute (anche in altre
categorie) dalla società partecipante al raggruppamento che intenda
usufruire del quinto di incremento.
Così facendo il requisito cui l’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010
subordina l’aumento del quinto è conforme al dato letterale e garantisce
l’esigenza, evidenziata dal Consiglio di Stato nel 2021, di evitare che la
premialità del quinto esasperi gli effetti della qualificazione virtuale
quando le imprese esecutrici sono una pluralità e il requisito di
qualificazione risulta, di conseguenza, molto frazionato, seppur nel
rispetto della ratio dell’istituto del raggruppamento.
Nel caso di specie i partecipanti al raggruppamento aggiudicatario erano
comunque in possesso del requisito del 20% dell’importo a base di gara anche
se si interpreta detta condizione in conformità al (diverso) orientamento
seguito dal Tar, in base al quale sia numeratore che denominatore sono da
interpretare nel senso che riguardino la sola categoria interessata
dall’aumento del quinto. Sicché è sufficiente che le due soggettività
posseggano il 20% dell’importo indicato per la categoria interessata per
usufruire dell’aumento del quinto (CGARS,
sentenza 11.04.2022 n. 450 -
commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA: Presupposti
della rinnovazione della demolizione e sospensione o inefficacia della
stessa per effetto della pendenza di sanatorie.
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Edilizia – Condono - Obbligo di riesaminare l’abusività delle opere –
Quando sussiste.
L’obbligo di riesaminare l’abusività delle opere
provocato dalla domanda di condono con la riadozione dei provvedimenti
repressivi ha senso solo in presenza di un intervento astrattamente
sanabile, ossia quando per effetto della formazione di un nuovo
provvedimento esplicito e per il suo concreto contenuto risulti
definitivamente vanificata l’operatività del precedente provvedimento
demolitorio, adottato senza tener conto della (astratta) condonabilità del
bene (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che per giurisprudenza pacifica, “la
presentazione di una istanza di sanatoria non comporta l'inefficacia del
provvedimento sanzionatorio pregresso, non essendoci pertanto un'automatica
necessità per l'amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo
provvedimento di demolizione; nel caso in cui venga presentata una domanda
di accertamento di conformità in relazione alle medesime opere (da
verificare nel caso di specie da parte degli organi comunali), l'efficacia
dell'ordine di demolizione subisce un arresto, ma tale inefficacia opera in
termini di mera sospensione" (Cons. Stato, sez. VI,
16.03.2020, n. 1848; id.
n. 4829 del 2020).
In caso di abusi edilizi, l'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
giammai legittimare (Cons. Stato, sez. VI,
n. 1552 del 2021).
Ne consegue che, rigettato il condono, la demolizione, temporaneamente
inefficace in pendenza del procedimento di sanatoria, riprende vigore.
L’ordinanza di demolizione non avrebbe poi mai potuto perdere
definitivamente efficacia per l’applicazione dell’art. 44, l. n. 47 del
1985, in quanto detta norma si riferisce testualmente alla sospensione dei
provvedimenti sanzionatori pregressi e quindi dell’ordine di demolizione
adottato precedentemente alla presentazione della domanda di condono
(l’ordine di demolizione successivo dovendo essere impugnato deducendone
l’illegittimità per mancata previa definizione dell’istanza di condono –che
paralizza temporaneamente l’esecuzione delle sanzioni- circostanza –questa
dell’impugnazione della demolizione- non verificatasi nella specie essendosi
fatta questione solo dell’impugnativa del diniego di condono e, omisso
medio, del provvedimento di acquisizione del manufatto abusivo e
dell’area di sedime).
Aggiungasi che, stante la non accoglibilità della domanda di condono,
essendo priva degli elementi essenziali (avvenuta ai sensi della l. n. 326
del 2003, la cui sanatoria è riferita solo ad abusi di natura residenziale,
ma oggetto dell’opera sine titulo è un deposito), l’esito del
procedimento non poteva essere diverso.
Non sussistono pertanto, nella presente fattispecie, nemmeno i presupposti
per l’applicazione dell’ orientamento giurisprudenziale invocato dal
ricorrente e relativo solo ai provvedimenti di condono (non agli
accertamenti di conformità) secondo il quale la presentazione della domanda
di condono successivamente alla impugnazione dell’ordinanza di demolizione
(e nel caso di specie mai avvenuta) produce l’effetto di rendere inefficace
tale provvedimento, e quindi improcedibile l’impugnazione stessa per
sopravvenuta carenza di interesse, perché tale orientamento –comunque
revocabile in dubbio nel caso in cui il procedimento di condono si concluda
con un rigetto a distanza di tempo ragionevole dalla demolizione sospesa dal
condono– non può trovare applicazione nei casi come quello in esame, in cui
sia palese la mancanza dei presupposti minimi di ammissibilità della stessa
domanda di condono.
L’obbligo di riesaminare l’abusività delle opere provocato dalla domanda di
condono con la riadozione dei provvedimenti repressivi ha senso solo in
presenza di un intervento astrattamente sanabile, ossia quando per effetto
della formazione di un nuovo provvedimento esplicito e per il suo concreto
contenuto risulti definitivamente vanificata l’operatività del precedente
provvedimento demolitorio, adottato senza tener conto della (astratta)
condonabilità del bene.
La Sezione ha ricordato il principio di speditezza e non aggravamento dei
procedimenti amministrativi repressivi, con una inutile riedizione ex
novo di esso, atteso l’identico provvedimento repressivo da adottare in
sede di rinnovo, stante la natura abusiva del manufatto e dell’impossibilità
di condonarla, non rientrando per l’oggettività della sua natura nelle
categorie previste dalla normativa di condono (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.04.2022 n. 2596 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
13.2 La doglianza ha pregio.
13.3 Deve rilevarsi che, per giurisprudenza pacifica, “la presentazione
di una istanza di sanatoria non comporta l'inefficacia del provvedimento
sanzionatorio pregresso, non essendoci pertanto un'automatica necessità per
l'amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di
demolizione; nel caso in cui venga presentata una domanda di accertamento di
conformità in relazione alle medesime opere (da verificare nel caso di
specie da parte degli organi comunali), l'efficacia dell'ordine di
demolizione subisce un arresto, ma tale inefficacia opera in termini di mera
sospensione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 16/03/2020 , n. 1848)”
(Cons. Stato, Sez. VI, n. 4829/2020).
In caso di abusi edilizi, l'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
giammai legittimare (Cons. Stato, sez. VI, n. 1552/2021).
Ne consegue che, rigettato il condono, la demolizione, temporaneamente
inefficace in pendenza del procedimento di sanatoria, riprende vigore.
13.4 Inoltre come accertato infra, l’ordine di demolizione n. 32/2004
non risulta antecedente all’istanza di condono, ma l’istanza di condono ha
preceduto (30.03.2004) l’ordine di demolizione (30.04.2004), difettando
quindi i presupposti dell’art. 44 della legge n. 47/1985 (richiamata
dall’art. 39 della L. n. 724 del 1994 e dall’art. 32 del D.L. n. 269 del
2003, convertito nella L. n. 326 del 2003) invocata dal TAR e non rilevante
nella specie.
L’ordinanza di demolizione non avrebbe poi mai potuto perdere
definitivamente efficacia per l’applicazione dell’art. 44, in quanto detta
norma si riferisce testualmente alla sospensione dei provvedimenti
sanzionatori pregressi e quindi dell’ordine di demolizione adottato
precedentemente alla presentazione della domanda di condono (l’ordine di
demolizione successivo dovendo essere impugnato deducendone l’illegittimità
per mancata previa definizione dell’istanza di condono –che paralizza
temporaneamente l’esecuzione delle sanzioni- circostanza –questa
dell’impugnazione della demolizione- non verificatasi nella specie essendosi
fatta questione solo dell’impugnativa del diniego di condono e, omisso
medio, del provvedimento di acquisizione del manufatto abusivo e
dell’area di sedime).
Ma v’è di più.
Stante la non accoglibilità della domanda di condono, essendo priva degli
elementi essenziali (avvenuta ai sensi della legge n. 326/2003, la cui
sanatoria è riferita solo ad abusi di natura residenziale, ma oggetto
dell’opera sine titulo è un deposito), l’esito del procedimento non
poteva essere diverso, come ha chiarito lo stesso TAR Napoli respingendo il
ricorso introduttivo e confermando il diniego della medesima istanza di
condono.
Non sussistono pertanto, nella presente fattispecie, nemmeno i presupposti
per l’applicazione dell’orientamento giurisprudenziale invocato dal
ricorrente e relativo solo ai provvedimenti di condono (non agli
accertamenti di conformità) secondo il quale la presentazione della domanda
di condono successivamente alla impugnazione dell’ordinanza di demolizione
(e nel caso di specie mai avvenuta) produce l’effetto di rendere inefficace
tale provvedimento, e quindi improcedibile l’impugnazione stessa per
sopravvenuta carenza di interesse, perché tale orientamento –comunque
revocabile in dubbio nel caso in cui il procedimento di condono si concluda
con un rigetto a distanza di tempo ragionevole dalla demolizione sospesa dal
condono– non può trovare applicazione nei casi come quello in esame, in cui
sia palese la mancanza dei presupposti minimi di ammissibilità della stessa
domanda di condono.
L’obbligo di riesaminare l’abusività delle opere provocato dalla domanda di
condono con la riadozione dei provvedimenti repressivi ha senso solo in
presenza di un intervento astrattamente sanabile, ossia quando per effetto
della formazione di un nuovo provvedimento esplicito e per il suo concreto
contenuto risulti definitivamente vanificata l’operatività del precedente
provvedimento demolitorio, adottato senza tener conto della (astratta)
condonabilità del bene.
Ha pregio l’assunto del Comune che ricorda il principio di speditezza e non
aggravamento dei procedimenti amministrativi repressivi, con una inutile
riedizione ex novo di esso, atteso l’identico provvedimento repressivo da
adottare in sede di rinnovo, stante la natura abusiva del manufatto e
dell’impossibilità di condonarla, non rientrando per l’oggettività della sua
natura nelle categorie previste dalla normativa di condono (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.04.2022 n. 2596 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI: Alla
Plenaria il computo del termine lungo di impugnazione nel periodo feriale.
Con l’ordinanza in rassegna (analoga alla pronuncia n. 428 depositata nella
medesima data), il C.g.a. ha formulato all’Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato il quesito di cui in massima diretto a determinare le modalità di
scomputo del periodo feriale dal termine lungo di impugnazione.
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Il C.g.a. ha deferito all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato il
quesito su come vada (s)computato, dal termine lungo di impugnazione, il
periodo feriale dal 1 al 31 agosto.
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Giustizia amministrativa – Appello - Termine lungo di impugnazione –
Sospensione feriale dei termini – Deferimento all’Adunanza plenaria.
E’ deferito all’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato il seguente quesito: come vada (s)computato, dal termine lungo di
impugnazione che si calcola a mesi, il periodo feriale dal 1° al 31 agosto
che cada nel mezzo del termine lungo, ossia dopo che quest’ultimo è iniziato
a decorrere, e in particolare
- se sia corretto continuare a seguire il criterio, elaborato dalla
Corte di cassazione quando il periodo feriale durava 46 giorni, secondo cui
il termine lungo va calcolato includendo fittiziamente e provvisoriamente il
periodo feriale, e poi sommando al termine così calcolato ulteriori 31
giorni (criterio che somma il termine a mesi computato “ex nominatione
dierum” e il periodo feriale computato “ex numeratione dierum”), o
- se debba seguirsi il diverso criterio, adottato dalla Corte di
cassazione e dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, per il computo
del termine lungo di impugnazione che inizia a decorrere durante il periodo
feriale, che consiste nel “saltare” il periodo feriale, sicché il termine
lungo viene calcolato applicando solo il criterio “ex nominatione dierum”
senza commistione con il criterio “ex numeratione dierum” (1).
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(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna (analoga alla
pronuncia n. 428 depositata nella medesima data), il C.g.a. ha formulato
all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato il quesito di cui in massima
diretto a determinare le modalità di scomputo del periodo feriale dal
termine lungo di impugnazione.
II. – Il collegio, dopo aver descritto le vicende processuali
sottese, ha osservato quanto segue:
a) la giurisprudenza segue due criteri diversi
per il computo del termine lungo, a
seconda che inizi a decorrere prima dell’inizio del periodo feriale o
durante
quest’ultimo. I due criteri indicati in massima portano a risultati
differenti;
b) “La Sezione rimettente propende per il secondo
criterio (che già viene utilizzato se il
termine inizia a decorrere durante il periodo feriale), perché è quello che
evita vistose
incongruenze e disparità di trattamento, indotte invece dal primo criterio
(seguito
dall’appellante), e perché, sul piano logico, più coerente con il criterio
del computo “a
mesi”, laddove il primo criterio crea una indebita commistione tra computo a
mesi e
computo a giorni”;
c) le regole processuali rilevanti sono le
seguenti:
c1) il termine lungo per appellare è di sei mesi decorrenti dalla
pubblicazione
della sentenza ai sensi dell’art. 92, comma 3, c.p.a.;
c2) per il computo dei termini a mesi si osserva il calendario comune ai
sensi
dell’art. 155, comma 2, c.p.a.;
c3) la scadenza del termine che si computa a mesi si verifica nel mese di
scadenza e nel giorno di questo corrispondente al giorno del mese iniziale;
se nel mese di scadenza manca tale giorno, il termine si compie con l’ultimo
giorno dello stesso mese (artt. 2963, commi 4 e 5, c.c.);
c4) i termini processuali sono sospesi dal primo agosto al 31 agosto di
ciascun
anno (art. 54, comma 2, c.p.a.);
d) nel caso di specie:
d1) il dies a quo è costituito dal 30.07.2021 e dovendosi interamente
scomputare il mese di agosto 2021, i sei mesi vengono a scadere il 28.02.2021 –giorno non festivo– in base alla regola espressa dall’art.
2963
c.c., ai sensi del quale occorre fare riferimento al mese di scadenza, nel
giorno corrispondente al dies a quo nel mese iniziale, se nel mese finale
manca tale giorno, la scadenza si compie l’ultimo giorno del mese;
d2) secondo la parte appellante, il termine deve essere calcolato computando
prima i sei mesi senza scomputare il periodo dal 1 al 31.08.2021,
arrivando così al 30.01.2022 e poi sommando i 31 giorni del periodo
feriale; in tal modo, avendo il mese di febbraio 2022 28 giorni, il termine
ultimo sarebbe il 02.03.2022;
e) il criterio di calcolo seguito dall’appellante
si basa su alcune decisione della
giurisprudenza di legittimità secondo cui nel calcolo del termine lungo a
mesi o
anni, il termine lungo si calcola “ex nominatione dierum” ma a tale termine
va
sommato il periodo feriale calcolato “ex numeratione dierum”;
f) tale orientamento:
f1) non appare condivisibile perché crea una commistione tra criterio di
calcolo
a mesi e criterio di calcolo a giorni;
f2) poteva immaginarsi una ragione pratica all’epoca in cui il periodo
feriale
durava 46 giorni, in quanto diventa effettivamente complicato calcolare un
termine a mesi interi o anni interi, se bisogna poi scomputare un termine
che per legge si basa sui giorni, ma tale ragione pratica non ha più ragione
di esistere da quando il periodo feriale è stato ridotto al solo mese di
agosto,
sicché per calcolare un termine a mesi o anni al netto del periodo feriale
non
si rende più necessario creare una commistione tra termine a mesi o anni e
termine a giorni;
f3) “Continuare a seguire siffatto criterio, porta a incongruenze logiche e
soprattutto
irragionevoli disparità di trattamento: in base a tale sistema, un termine
che inizia
a decorrere il 30.07.2021 scadrebbe il 21 marzo mentre un termine che
inizia a
decorrere dopo, e segnatamente tra il 1 e il 31 agosto, scade il 28.02.2022”;
g) in conformità con l’orientamento espresso
dalle sezioni unite della Corte di
cassazione e dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, il termine che
inizia a
decorrere tra il 1 e il 31 agosto scade il 28 febbraio dell’anno successivo;
g1) pertanto, per calcolare un termine a mesi che inizia a decorrere nel
periodo
feriale si utilizza, correttamente, solo il criterio del nominatione dierum
senza
commistione con quello della numeratione dierum;
g2) per ragioni di parità di trattamento i termini per identici atti e
calcolati con
il medesimo criterio a mesi devono seguire identici criteri di calcolo ed
essere di identica durata, e un termine che inizia a decorrere prima, non
può
che scadere prima di un termine che inizia a decorrere dopo, e non
viceversa;
g3) pertanto, l’applicazione del criterio di computo proposto
dall’appellante
porta a una incongruenza logica e a una disparità di trattamento. “I due
orientamenti della Cassazione sopra esposti, l’uno relativo al criterio di
calcolo di
un termine che inizi a decorrere prima del periodo feriale, e l’altro
relativo al criterio
di calcolo di un termine che inizi a decorrere durante il periodo feriale,
sembrano in
contrasto tra loro e portano all’incongruo risultato che un termine che
inizia a
decorrere prima (a luglio) scada dopo di un termine che inizia a decorrere
dopo (ad
agosto). Nel caso di specie l’incongruenza è particolarmente evidente: in
caso di dies
a quo coincidente con il 30 luglio, la parte avrebbe ben quattro giorni in
più per
appellare che in caso di dies a quo che cada tra il 1 e il 31 agosto,
considerati i giorni
30 e 31 luglio e 1 e 2 marzo”;
g4) andrebbe valorizzata il principio espresso dalla Corte di cassazione
secondo
cui la finalità della
l. n. 742 del 1969 consiste nell’assicurare ai professionisti
un congruo periodo di riposto annuale, svincolando l’attività professionale
dalla scadenza di termini durante il periodo riservato a detto riposo. Su
tale
base non potrebbe trovare adeguata spiegazione il diverso trattamento dei
termini il cui decorso abbia inizio prima del 1 agosto, rispetto a quelli il
cui
inizio si verifichi nel periodo feriale;
g5) in tale prospettiva è possibile eliminare l’incongruenza logica e
fattuale,
ribadendo che se la legge prevede il calcolo di un termine a mesi, non sono
ammesse commistioni con l’aggiunta di un calcolo a giorni;
g6) “in conclusione, dato che il termine lungo di impugnazione, nel processo
amministrativo, si calcola “a mesi”, non è possibile inserire effettuare il
calcolo
sommando ai “mesi” del termine lungo i “giorni” del periodo feriale”;
g7) se si volesse mantenere il criterio di calcolo seguito dalla
giurisprudenza di
legittimità andrebbe coerentemente modificato l’orientamento sul calcolo
del termine lungo che inizi a decorrere durante il periodo feriale;
g8) tale ragionamento non troverebbe applicazione nel caso di computo dei
termini a giorni, nel qual caso, sul piano pratico, è indifferente
l’utilizzo
dell’uno o dell’altro criterio di calcolo;
h) valuterà la Plenaria, ove ritenga di aderire
alla tesi della irricevibilità, se ricorrono
i presupposti per l’applicazione del principio del prospective overruling
trattandosi
di introdurre un nuovo orientamento che ribalta un orientamento consolidato
in
materia processuale, e comunque per la concessione dell’errore scusabile, e,
ove
decida vuoi per la ricevibilità in diritto del ricorso, vuoi per la
concessione
dell’errore scusabile in caso di ritenuta irricevibilità, se decidere
l’appello nel
merito o restituirlo alla sezione rimettente per l’ulteriore corso.
Al fine
della
valutazione sulla concessione dell’errore scusabile dovrebbe tenersi conto:
dell’orientamento espresso dalla Corte di cassazione e sopra citato; della
circostanza che il criterio di calcolo seguito da parte ricorrente è
utilizzato anche
dal software An. di uso corrente ad opera di avvocati e ausiliari del
giudice;
sebbene si tratti di software privato che in alcun modo vincola il giudice
nella
applicazione delle regole processuali, la circostanza che lo stesso sia
basato su un
orientamento espresso dalla Corte di cassazione, e che sia di uso diffuso,
potrebbe
costituire elemento fattuale che eccezionalmente giustifica l’errore della
parte e lo
rende scusabile.
III. – Per completezza si osserva quanto segue:
i) sulle modalità di computo dei termini
processuali perentori nel caso in cui il decorso del termine abbia inizio
durante il periodo di sospensione feriale si veda: Cons. Stato, Ad. plen.,
27.07.2016, n. 18 (in Foro it., 2016, III, 579, con nota di richiami cui
si rinvia per ulteriori approfondimenti; Riv. Nel diritto 2016, 1442; Dir.
proc. amm. 2016, 1133, con nota di LATTANZI; Riv. amm. 2017, 232; oggetto
della
News US in data 19.08.2016), secondo cui “In base al differimento del
decorso del termine processuale a giorni che abbia inizio durante il periodo
di sospensione feriale, previsto dall’art. 1, comma 1, secondo periodo,
della legge n. 742 del 1969, il primo giorno successivo alla scadenza del
periodo feriale va computato nel termine in questione”. Alla citata News US
si rinvia per l’esame delle argomentazioni sviluppate dalla Plenaria e per
riferimenti dottrinali.
L’Adunanza plenaria prende posizione
sull'identificazione del dies a quo per il termine per la notifica del
ricorso, nel caso in cui venga impugnato un atto la cui pubblicazione, o
comunicazione o piena conoscenza sia intervenuta nel periodo di sospensione
feriale. Aderisce all'orientamento secondo cui nel computo del termine
processuale a giorni va incluso nella sua interezza il primo giorno
successivo alla scadenza del periodo feriale.
L’Adunanza plenaria richiama
ampiamente Cass. civ., sez. un., 28.03.1995, n. 3668 (in Arch. Civ.,
1995, 942; Gius, 1995, 927, con nota di CARBONE; Giur. it. 1995, I, 1, 1402;
Giust. civ. 1995, I, 2739, con nota di MONETA), secondo cui l’art. 1 della
l. 07.10.1969 n. 742, nello stabilire che, ove il decorso del termine
per un atto processuale abbia inizio durante il periodo di sospensione,
l'inizio stesso è differito alla fine di detto periodo, doveva essere inteso
nel senso che il primo giorno successivo al periodo feriale andava compreso
nel novero dei giorni concessi per l'atto processuale, atteso che tale
giorno segna non l'inizio del termine, ma l'inizio del suo decorso, il quale
non include il dies a quo del termine stesso, in applicazione del principio
fissato dall'art. 155, 1° comma, c.p.c. Di conseguenza, in tale ipotesi, al
primo giorno successivo alla sospensione feriale non si applica la regola
dies a quo non computatur.
In seguito alla pronuncia dell'Adunanza
plenaria, risulta quindi superato il contrasto nell'interpretazione
dell'art. 1 l. n. 742 del 1969, sulla disciplina della sospensione feriale
dei termini processuali, che invece si riscontrava precedentemente fra la
giurisprudenza civile e una parte consistente della giurisprudenza
amministrativa;
j) sulle caratteristiche essenziali del
prospective
overruling e i limiti di applicazione nel processo amministrativo si
veda Cons. Stato, Ad. plen.,
23.02.2018, n. 1 (in Foro it., 2018, I, 1900; nonché oggetto della
News US in data 27.02.2018). Alla citata News si rinvia in particolare,
oltre che per l’esame delle argomentazioni delle parti, al § h), per
ulteriori riferimenti in tema di overruling;
k) sulla concessione del beneficio della
rimessione in termini per errore scusabile si vedano:
k1) Cons. Stato, sez. VI,
30.06.2020, n. 4149 (in Foro it., 2020, III, 520, con nota di richiami
cui si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo cui “posto che il
beneficio dell’errore scusabile costituisce rimedio eccezionale ed è
soggetto a regole di stretta interpretazione, esso va riconosciuto solo dopo
un accertamento rigoroso dal quale risultino obiettive incertezze normative
o in presenza di gravi impedimenti di fatto, non imputabili alla parte”;
k2) Cons. Stato, Ad. plen.,
27.07.2016, n. 22 (in Foro it. 2017, III, 66; Dir. proc. amm. 2017, 246,
con nota di LATTANZI; Riv. amm. 2017, 254), per la concessione del beneficio
dell’errore scusabile in situazioni caratterizzate da contrasti
giurisprudenziali sul termine per il ricorso;
k3) Cons. Stato, Ad. plen.,
27.07.2016, n. 18, cit., secondo cui “È precluso l'esame da parte
dell'adunanza plenaria della richiesta di rimessione in termini per errore
scusabile, quando su tale richiesta si sia pronunciata già l'ordinanza di
rinvio all'adunanza plenaria, rigettandola”;
k4) Cons. Stato, Ad. plen.,
10.12.2014, n. 33 (in Foro it., 2015, III, 134; Foro amm., 2014, 3061),
che ha sostenuto un’interpretazione rigorosa dei presupposti per la
concessione del beneficio della rimessione in termini per errore scusabile.
In particolare, la Plenaria aveva escluso che il beneficio potesse essere
concesso nel caso in cui la parte, con un comportamento negligente, avesse
contribuito alla scadenza del termine.
In particolare, secondo l’ordinanza in esame “L'efficacia della
comunicazione effettuata, ai sensi dell'art. 136 cod. proc. amm., attraverso
posta elettronica certificata non è condizionata alla indicazione da parte
del difensore del proprio indirizzo Pec; pertanto il decreto di perenzione
quinquennale, emanato ai sensi dell'art. 82 cod. proc. amm., è validamente
comunicato via Pec anche al difensore che non abbia indicato il suo relativo
indirizzo Pec (l'ordinanza precisa che in caso di tardività dell'opposizione
rispetto a tale comunicazione, non può essere concesso il beneficio
dell'errore scusabile)”; “Nel caso in cui vi sia stata una
comunicazione tramite posta elettronica certificata, non può essere rilevata
la sussistenza di un errore scusabile ai sensi dell'art. 37 c.p.a., qualora
si deduca unicamente l'incertezza sotto il profilo giuridico della validità
dell'utilizzo dello strumento di comunicazione della Pec”;
l) per la tesi secondo cui nel calcolo del
termine lungo a mesi o anni, il termine lungo si calcola “ex nominatione
dierum”, ma a tale termine va sommato il periodo feriale calcolato “ex
numeratione dierum”, si vedano: Cass. civ., sez. I, 07.07.2000, n. 9068
(in Foro it., 2001, I, 167); Cass. civ., 15.05.1997, n. 4249 (in Foro it.,
1997, 2953);
m) sul computo del termine nel periodo feriale si
veda anche Cass. civ., sez. III, 06.04.2006, n. 8102, secondo cui “Per il
computo dei termini processuali a mese o ad anno si osserva il calendario
comune, facendo riferimento al nome e al numero attribuiti rispettivamente a
ciascun mese e giorno; ne consegue che nell'ipotesi in cui il decorso di un
termine processuale sia rimasto sospeso nel periodo feriale (1º agosto 15
settembre di ciascun anno) ed abbia ripreso a decorrere dalla fine di tale
periodo cioè dalla data del 16 settembre, quest'ultima deve essere computata
nel termine stesso senza che possa essere considerata come un dies a quo”
(CGARS,
ordinanza 07.04.2022 n. 429 -
commento tratto da e link a
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ATTI AMMINISTRATIVI: Alla
Adunanza plenaria il criterio di scomputo del periodo feriale in caso di
termine lungo di impugnazione (calcolato a mesi) e dies ad quem per
la proposizione dell’appello.
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Processo amministrativo – Appello – Termine lungo – Computo - Criterio di
scomputo del periodo feriale – Dubbi in giurisprudenza – Rimessione alla
Adunanza plenaria
E’ rimessa all’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato la questione di come vada (s)computato, dal termine lungo di
impugnazione che si calcola a mesi, il periodo feriale dal 1° al 31 agosto
che cada nel mezzo del termine lungo, ossia dopo che quest’ultimo è iniziato
a decorrere, e in particolare
- se sia corretto continuare a seguire il criterio, elaborato dalla
Corte di cassazione quando il periodo feriale durava 46 giorni, secondo cui
il termine lungo va calcolato includendo fittiziamente e provvisoriamente il
periodo feriale, e poi sommando al termine così calcolato ulteriori 31
giorni (criterio che somma il termine a mesi computato “ex nominatione
dierum” e il periodo feriale computato “ex numeratione dierum”), o
- se debba seguirsi il diverso criterio, adottato dalla Corte di
cassazione e dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, per il computo
del termine lungo di impugnazione che inizia a decorrere durante il periodo
feriale, che consiste nel “saltare” il periodo feriale, sicché il termine
lungo viene calcolato applicando solo il criterio “ex nominatione dierum”
senza commistione con il criterio “ex numeratione dierum” (1).
---------------
(1) Analoga rimessione è stata disposta con
ordinanza 08.04.2022, n. 429.
Ha affermato il C.g.a. di non ignorare che il criterio di calcolo del
termine lungo di impugnazione computando prima i sei mesi senza scomputare
il periodo dal 1° al 31.08.2021, arrivando così al 30.01.2022, e poi
sommando i 31 giorni del periodo feriale si basa su risalenti decisioni
della Corte di cassazione, ribadite tralaticiamente anche di recente,
secondo cui nel calcolo del termine lungo a mesi o anni, il termine lungo si
calcola “ex nominatione dierum” ma a tale termine va sommato il
periodo feriale calcolato “ex numeratione dierum” (v. funditus
Cass. civ., I, 07.07.2000 n. 9068, in termini Id., I, 15.05.1997 n. 4249; Id.,
I, 24.03.1998 n. 3112; Id., I, 03.06.2003 n. 8850; Id., V, 14.02.2007 n.
3223; Id., 01.02.2021 n. 2186; Id., 16.11.2021 n. 34659).
Tali decisioni non sembrano condivisibili perché creano una commistione tra
criterio di calcolo a mesi e criterio di calcolo a giorni. Le stesse
potevano avere una loro ragione pratica all’epoca in cui il periodo feriale
durava 46 giorni, dal 1° agosto al 15 settembre di ciascun anno: diventa
effettivamente complicato calcolare un termine a mesi interi o anni interi,
se bisogna poi scomputare un termine che per legge si basa sui giorni. Ma
tale ragione pratica, non ha più ragione di esistere da quando il periodo
feriale è stato ridotto al solo mese di agosto, sicché per calcolare un
termine a mesi o anni al netto del periodo feriale, non si rende più
necessario dal punto di vista pratico, creare una commistione tra termine a
mesi o anni e termine a giorni.
Continuare a seguire siffatto criterio, porta a incongruenze logiche e
soprattutto irragionevoli disparità di trattamento: in base a tale sistema,
un termine che inizia a decorrere il 30.07.2021 scadrebbe il 21 marzo mentre
un termine che inizia a decorrere dopo, e segnatamente tra il 1 e il 31
agosto, scade il 28.02.2022.
Che un termine che inizia a decorrere tra il 1 e il 31 agosto scada il 28
febbraio dell’anno successivo, deriva dall’applicazione della giurisprudenza
della stessa Corte di cassazione a Sezz. un., seguita anche dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato: Cass. sez. un., n. 3688/1995 “La
funzione del principio "dies a quo non computatur in termini", attiene
all'esigenza di dare rilievo (quando il termine è a giorni), a giorni
interi, trascurando le frazioni di giorno relative al momento in cui si sia
verificato l'atto che costituisce il punto di riferimento del termine,
nonché l'effetto giuridico di quell'atto. Sarebbe, pertanto, contrario alla
ratio dell'art. 155 c.p.c. lasciare fuori dal computo un giorno intero (il
16 settembre) in cui l'atto di riferimento (deposito della sentenza (…)) non
si è verificato, giorno che si aggiungerebbe illogicamente a quelli interi
del termine, allungandolo senza alcuna logica giustificazione. Inoltre, il
giorno che non viene computato nel termine, secondo il principio dell'art.
155 c.p.c., è il giorno (con riferimento specifico alle impugnazioni) in cui
si è verificato un atto avente un determinato effetto giuridico. Nel caso in
cui quell'atto si realizzi nel periodo feriale, esso rimane pienamente
valido ed efficace nella sua interezza, volta che il differimento coinvolge
soltanto il decorso del termine che in quell'atto abbia il punto temporale
di riferimento. Non vi è preclusione, in definitiva, a che il dies a quo, da
non computare nel termine, sia individuabile nello stesso giorno in cui
l'atto abbia manifestato i suoi effetti, e rimanga detta individuazione
ancorché l'atto stesso sia caduto in periodo feriale”; cui adde Cass.
civ., III, 06.04.2006 n. 8102; Id., II, 12.01.2011 n. 631; Cons. St., ad.
plen., 27.07.2016 n. 18: “In base al differimento del decorso del termine
processuale a giorni che abbia inizio durante il periodo di sospensione
feriale, previsto dall’art. 1, comma 1, secondo periodo, della legge n. 742
del 1969, il primo giorno successivo alla scadenza del periodo feriale va
computato nel termine in questione”.
Appare dunque evidente che per calcolare un termine a mesi che inizia a
decorrere nel periodo feriale, si utilizza, correttamente, solo il criterio
della “nominatione dierum” senza commistione con quello della “numeratione
dierum”.
E tuttavia, per ragioni di parità di trattamento i termini per identici atti
(qui l’appello) e calcolati con il medesimo criterio (a mesi) devono seguire
identici criteri di calcolo ed essere di identica durata, e un termine che
inizia a decorrere prima, non può che scadere prima di un termine che inizia
a decorrere dopo, e non viceversa.
Pertanto, l’applicazione del criterio di computo proposto dall’appellante,
ancorché sulla scia della Corte di cassazione, porta ad una incongruenza
logica e a una disparità di trattamento. I due orientamenti della Cassazione
sopra esposti, l’uno relativo al criterio di calcolo di un termine che inizi
a decorrere prima del periodo feriale, e l’altro relativo al criterio di
calcolo di un termine che inizi a decorrere durante il periodo feriale,
sembrano in contrasto tra loro e portano all’incongruo risultato che un
termine che inizia a decorrere prima (a luglio) scada dopo di un termine che
inizia a decorrere dopo (ad agosto). Nel caso di specie l’incongruenza è
particolarmente evidente: in caso di dies a quo coincidente con il 30
luglio, la parte avrebbe ben quattro giorni in più per appellare che in caso
di dies a quo che cada tra il 1° e il 31 agosto, considerati i giorni
30 e 31 luglio e 1 e 2 marzo.
Piuttosto, andrebbe valorizzato quanto le stesse Sez. unite della Cassazione
hanno affermato e cioè che “la finalità della l. n. 742 del 1969 consiste
nell'assicurare ai professionisti un congruo periodo di riposo annuale,
svincolando l'attività professionale dalla scadenza di termini durante il
periodo riservato a detto riposo. Su tale base non potrebbe trovare adeguata
spiegazione il diverso trattamento dei termini il cui decorso abbia inizio
prima del 1 agosto, rispetto a quelli il cui inizio si veri fichi nel
periodo feriale” (Cass. civ., sez. un., n. 3668/1995).
In tale prospettiva, è possibile eliminare la incongruenza logica e fattuale
sopra evidenziata ribadendo che se la legge prevede il calcolo di un termine
a mesi, non sono ammesse commistioni con l’aggiunta di un calcolo a giorni.
E che se tale commistione, per ragioni pratiche, poteva ammettersi quando il
periodo feriale si calcolava in giorni (46 giorni dal 1° agosto al 15
settembre), non è più ammissibile dopo che il periodo feriale è stato
ridotto al mese di agosto, ed è dunque calcolabile “a mesi”.
In conclusione, dato che il termine lungo di impugnazione, nel processo
amministrativo, si calcola “a mesi”, non è possibile inserire
effettuare il calcolo sommando ai “mesi” del termine lungo i “giorni”
del periodo feriale.
Più semplicemente il periodo feriale dal 1 al 31 agosto, che cade nel mezzo
di un termine da calcolarsi a mesi, va “saltato”, sicché nel
conteggio dei sei mesi si passa direttamente dal 30 luglio al 30 settembre,
ignorando il periodo feriale.
Se si volesse mantenere il criterio di calcolo seguito dalla Cassazione e in
questa causa da parte appellante, per le illustrate ragioni di parità di
trattamento, andrebbe coerentemente modificato l’orientamento sul calcolo
del termine lungo che inizi a decorrere durante il periodo feriale, e
ribadito dalla citata Plenaria n. 18/2016. Anche in tal caso, infatti,
anziché “saltare”, come si fa, il periodo feriale, e far decorrere il
termine dal 1° settembre, bisognerebbe far decorrere il termine dal giorno
proprio e sommare alla fine il residuo periodo feriale.
Solo in tal modo si arriverebbe ad un risultato coerente, perché, ad
esempio, se un termine che inizia a decorrere il 16 agosto, venisse fatto
partire dal 16 agosto, anziché dal 1° settembre, sommando alla fine i
residui 15 giorni del periodo feriale, il termine non scadrebbe il 28
febbraio, ma il 3 marzo, così eliminandosi l’attuale incoerenza di far
scadere il 28 febbraio un termine che inizia a decorrere ad agosto, laddove
un termine che inizia a decorrere il 30 luglio lo si fa scadere il 2 marzo.
Ovviamente, tale ragionamento non trova applicazione nel caso di computo dei
termini “a giorni”, nel qual caso è sul piano pratico indifferente
l’utilizzo dell’uno o dell’altro criterio di calcolo.
Esemplificando, se, in ipotesi, il termine di impugnazione di una sentenza
fosse quello breve decorrente dalla sua notificazione, quindi sessanta
giorni, e iniziasse a decorrere il 30.07.2021, sarebbe indifferente “saltare”
i 31 giorni del periodo feriale, o sommarli alla fine del calcolo dei
sessanta giorni:
- primo criterio: 1 giorno di luglio; si saltano i 31 giorni
di agosto, si aggiungono 59 giorni computati dal 1° settembre, arrivando
così al 30 ottobre, quale dies ad quem;
- secondo criterio: si calcolano sessanta giorni decorrenti
dal 30 luglio e si arriva così al 29 settembre, si aggiungono 31 giorni e si
arriva parimenti al 30 ottobre, quale dies ad quem (CGARS,
ordinanza 07.04.2022 n. 428 -
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EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela del paesaggio – Natura
di reato formale e di pericolo della violazione
paesaggistica – Valutazione ex ante – Configurabilità del
reato – AREE PROTETTE – Abusi paesaggistici – Principio di
offensività – Fattispecie – Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
Il reato contemplato dall’art. 181
d.lgs. 42/2004 è un reato formale e di pericolo che si
perfeziona, indipendentemente dal danno arrecato al
paesaggio, con la semplice esecuzione di interventi non
autorizzati idonei ad incidere negativamente sull’originario
assetto dei luoghi sottoposti a protezione e come sia di
tutta evidenza, attesa la posizione di estremo rigore del
legislatore in tema di tutela del paesaggio, che assume
rilievo, ai fini della configurabilità del reato contemplato
dal menzionato articolo 181, ogni intervento astrattamente
idoneo ad incidere, modificandolo, sull’originario assetto
del territorio sottoposto a vincolo paesaggistico ed
eseguito in assenza o in difformità della prescritta
autorizzazione.
L’individuazione della potenzialità lesiva di detti
interventi deve essere effettuata mediante una valutazione
ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato
un danno al paesaggio ed all’ambiente, bensì se il tipo di
intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene
giuridico tutelato e che, proprio per tali ragioni, è
richiesta la preventiva valutazione da parte dell’ente
preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche
modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina
urbanistica e edilizia.
In conclusione, riguardo agli abusi paesaggistici, il
principio di offensività opera in relazione alla attitudine
della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al
bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo
della violazione non richiede la causazione di un danno e la
incidenza della condotta medesima sull’assetto del
territorio non viene meno neppure qualora venga attestata,
dall’amministrazione competente, la compatibilità
paesaggistica dell’intervento eseguito.
Fattispecie: interventi, in assenza dei necessari titoli
abilitativi, consistenti in movimenti di terra con
mini-escavatore, apertura di una stradella in terra battuta
in area a riserva naturale e in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico ed idrogeologico (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2022 n. 12936 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Movimenti di terra con mini-escavatore – Distinzione tra
scavo, sbancamenti, livellamenti di terreno – Necessità del
permesso di costruire – Giurisprudenza – AGRICOLTURA E
ZOOTECNIA – Interventi finalizzati ad usi agricoli –
Necessità del permesso di costruire – Esclusione.
La giurisprudenza penale distingue tra
diverse ipotesi di scavo, sbancamenti, livellamenti di
terreno.
Tale tipologia di intervento può essere infatti così
suddivisa: interventi finalizzati ad attività agricole,
interventi finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli che
incidono sul tessuto urbanistico del territorio, interventi
prodromici alla realizzazione di un immobile.
Nel primo caso non si ritiene necessario il permesso di
costruire che, al contrario, è richiesto negli altri due
casi, (in zone soggette a vincoli paesaggistici occorre
anche la preventiva autorizzazione paesaggistica) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2022 n. 12936 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Obbligo
di riesame su istanza del privato volta a sollecitare l’autotutela.
---------------
Annullamento d’ufficio e revoca - Annullamento d’ufficio – Su istanza del
privato - Riesame - Obbligo – Quando sussiste.
In via generale non sussiste un obbligo di riesame
su istanza del privato volta a sollecitare l’autotutela, salvo eccezionali
casi di autotutela doverosa per espressa disposizione di legge o per
conclamate e rilevanti esigenze di equità e giustizia (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che tale conclusione discende dalla
inconfigurabilità di un obbligo della p.a. di provvedere a fronte di istanze
di riesame di atti sfavorevoli precedentemente emanati, conseguente alla
natura officiosa e ampiamente discrezionale -soprattutto nell’an- del
potere di autotutela ed al fatto che, rispetto all’esercizio di tale potere,
il privato può avanzare solo mere sollecitazioni o segnalazioni prive di
valore giuridicamente cogente (Cons. Stato, sez. IV,
09.07.2020, n. 4405).
La proposizione dell’esercizio dei poteri di autotutela non è, di per sé, in
grado di generare, un obbligo giuridico di provvedere, il cui inadempimento
possa legittimare l’attivazione delle tutele avverso i rifiuti, le inerzie o
i silenzi antigiuridici; questo principio trova non solo conferma testuale
nella lettera dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 che prefigura
l'iniziativa di annullamento dell’atto in termini di mera “possibilità”,
ma si giustifica, alla luce delle esigenze di certezza delle situazioni
giuridiche e della correlata regola di inoppugnabilità dei provvedimenti
amministrativi, non tempestivamente contestati (Cons. Stato, sez. V,
24.09.2019, n. 6420).
Ha aggiunto la Sezione che un richiamo generalizzato alle esigenze di
giustizia ed equità per ritenere doverosa l’autotutela, come quello ora
proposto da parte ricorrente, comporterebbe l’introduzione di un ulteriore
rimedio -giustificabile in casi particolari ove sussistano conclamate
esigenze di giustizia di regola normativamente determinati- rispetto al
sistema di impugnativa degli atti ledendo il principio di inoppugnabilità
degli stessi e quindi la definizione delle controversie.
A riprova dell’eccezionalità del richiamo alle esigenze di giustizia che
giustificano l'esistenza di un obbligo di esame dell’istanza di autotutela
va rilevato come nella fattispecie esaminata dalla più recente
giurisprudenza (Cons.Stato, sez. VI,
n. 183 del 2020) si ha riguardo ad ipotesi con “tratti di peculiarità
che giustificano la non operatività del principio generale della
insussistenza di un obbligo di provvedere sulla domanda di ritiro in
autotutela di un precedente provvedimento adottato dall'amministrazione”;
nello specifico si trattava di un ordine di demolizione, adottato dal Comune
sul presupposto di una sentenza di condanna penale risultando al contempo
pendente, in detta sede, incidente di esecuzione diretto alla revoca del
medesimo (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 06.04.2022 n. 2564 -
commento tratto da e link a
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SENTENZA
La controversia origina da una richiesta di condono (prot. n. 6353 del 01.03.1995) presentata, ai sensi della l. n. 724/1994, dal dante causa dei
ricorrenti relativa alla realizzazione di un fabbricato per civile
abitazione su due livelli sito in Vico Equense,-OMISSIS-.
Sulla detta istanza la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio
per l’area metropolitana di Napoli ha espresso parere negativo (prot. n.
5359 - P del 20.04.2020, in quanto “l’intervento ricade in "zona 1b"
(tutela dell’ambiente naturale di 2° grado) del P.U.T. e in "zona A2" (zona
di rilevante interesse ambientale) del P.R.G. comunale”.
Nella nota prot. n. 17973 del 26.11.2019, della citata Sovrintendenza,
ex articolo 10-bis l. 241/1990, si rilevava che:
- “ai sensi dell’art. 33 della L. 47/1985 e s.m.i. non sono
suscettibili di sanatoria le opere di cui all’art. 1 della suddetta legge
[che] siano in contrasto con i vincoli imposti da leggi statali e regionali
nonché dagli strumenti urbanistici di tutela di interessi paesaggistici e
ambientali qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti
prima delle opere stesse”;
- “l’intervento contrasta con le caratteristiche paesaggistiche del
sito protetto, in quanto in contrasto con il vincolo di inedificabilità sia
pubblica che privata, esistente per la "zona territoriale 1b" (tutela
dell’ambiente naturale di 2° grado) L.R. 35/1987 (P.U.T.)”.
Con nota del 17.06.2020, trasmessa rispettivamente il 15 e 17.07.2020 alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area
metropolitana di Napoli ed al Comune di Vico Equense, i ricorrenti hanno
chiesto “di accertare in autotutela e dichiarare l’illegittimità, la nullità
e, comunque annullare il parere negativo vincolante in relazione al chiesto
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica protocollo n. 5359 - P del 20.04.2020”, facendo rilevare che:
- la Soprintendenza avrebbe erroneamente collocato il fabbricato in
“zona A2 di PRG in luogo di 1b di PRG”; che il vincolo d’inedificabilità
previsto dal PUT in zona 1b non sarebbe assoluto ma relativo;
- sarebbero
state violate le loro garanzie di partecipazione procedimentale per non
avere la Soprintendenza tenuto conto delle osservazioni trasmesse in
riscontro al preavviso di parere negativo, con nota del 20.12.2019.
Nella citata nota del 17.06.2020 le parti ricorrenti hanno anche chiesto
di essere preventivamente sentite “per la disamina partecipata del complesso
caso di specie e per evitare che ulteriori ripetizioni di errori e gravi
disparità di trattamento debbano condurre a costose e defatiganti iniziative
giudiziarie”.
In mancanza di riscontro alla predetta istanza di annullamento in autotutela,
i ricorrenti hanno adito il Tar Campania avverso il silenzio serbato
dall’Amministrazione.
Il Tar Campania, sez. VII, del 23.08.2021, n. 5565/2021 ha respinto il
ricorso sulla scorta di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, ivi
richiamato, cui in questa fase il Consiglio non ritiene di discostarsi.
Va in primo luogo rilevato che non sussiste alcun obbligo per
l'amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta a ottenere un
provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno
l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto
amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto (ex multis Cons.
Stato, Sent. IV, 04.11.2020, n. 6809).
Ciò discende dalla inconfigurabilità di un obbligo della p.a. di provvedere
a fronte di istanze di riesame di atti sfavorevoli precedentemente emanati,
conseguente alla natura officiosa e ampiamente discrezionale -soprattutto
nell’an- del potere di autotutela ed al fatto che, rispetto all’esercizio
di tale potere, il privato può avanzare solo mere sollecitazioni o
segnalazioni prive di valore giuridicamente cogente (Cons. Stato, Sent. IV,
09.07.2020, n. 4405).
La proposizione dell’esercizio dei poteri di autotutela non è, di per sé, in grado di generare, un obbligo giuridico di
provvedere, il cui inadempimento possa legittimare l’attivazione delle
tutele avverso i rifiuti, le inerzie o i silenzi antigiuridici; questo
principio trova non solo conferma testuale nella lettera dell’art. 21-nonies
della l. n. 241/1990 che prefigura l'iniziativa di annullamento dell’atto in
termini di mera “possibilità”, ma si giustifica, alla luce delle esigenze di
certezza delle situazioni giuridiche e della correlata regola di
inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, non tempestivamente
contestati (Cons. Stato, Sent. V, 24.09.2019, n. 6420).
Parte appellante fonda, peraltro, una parte delle censure, sulle ipotesi
individuate dalla giurisprudenza di doverosità dell’autotutela, nelle quali
sussistono specifiche ragioni di giustizia ed equità che impongano
l'adozione di un provvedimento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14.05.2010,
n. 3024; sez.VI, 11.05.2007, n. 2318; sez. VI, 09.01.2020 n. 183);
in particolare ritiene sussistente l’obbligo di procedere in sede di autotutela sulla scorta della ritenuta erroneità della collocazione
dell’immobile ad opera della Sovrintendenza.
Va però evidenziato che un richiamo generalizzato alle esigenze di giustizia
ed equità per ritenere doverosa l’autotutela, come quello ora proposto da
parte ricorrente, comporterebbe l’introduzione di un ulteriore rimedio -giustificabile in casi particolari ove sussistano conclamate esigenze di
giustizia di regola normativamente determinati (CdS VI n. 8920 del 2019
secondo cui i casi normativi definiti d'autotutela doverosa, tra cui quello
della decadenza ex tunc del beneficio qual conseguenza del generale
principio contenuto nell'art. 75 d.P.R. n. 445/2000- in base al quale, ove
emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione secondo una
valutazione autonoma della p.A., il dichiarante decade dai benefici
conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non
veritiera -non sono affatto “eccezioni” alla regola “generale” ex art.
21-novies della l. 241/1990, ma costituiscono forme ben definite d'autotutela
doverosa poste a garanzia di supremi valori ed interessi dell'ordinamento
contro la consolidazione degli effetti d'un atto illegittimo ed ingiusto e
non tempestivamente revocato o annullato, tant'è che l'art. 21-nonies, comma
2-bis, recato dalla novella ex art. 6, comma 1, lett. d), n. 2), della l. 07.08.2015 n. 124, ha fatto salve, tra le altre, le sanzioni previste dal
capo VI del d.P.R. n. 445/2000, tra cui, appunto, quelle dettate dall'art.
75; ne consegue che sussiste in capo alla p.A. l'obbligo di provvedere a
fronte di un'istanza di un terzo diretta all'applicazione del citato art. 75
(fattispecie relativa ad un'istanza con la quale si chiedeva alla p.A. di
esercitare l'autotutela doverosa su un permesso di costruire rilasciato
sulla base di una falsa dichiarazione della realtà con conseguente
applicazione dell'art. 75 d.P.R. n. 445/2000)- rispetto al sistema di
impugnativa degli atti ledendo il principio di inoppugnabilità degli stessi
e quindi la definizione delle controversie.
A riprova dell’eccezionalità del richiamo alle esigenze di giustizia che
giustificano l'esistenza di un obbligo di esame dell’istanza di autotutela
va rilevato come nella fattispecie esaminata dalla più recente
giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. VI, sent.n. 183/2020) si ha
riguardo ad ipotesi con “tratti di peculiarità che giustificano la non
operatività del principio generale della insussistenza di un obbligo di
provvedere sulla domanda di ritiro in autotutela di un precedente
provvedimento adottato dall'amministrazione”; nello specifico si trattava di
un ordine di demolizione, adottato dal Comune sul presupposto di una
sentenza di condanna penale risultando al contempo pendente, in detta sede,
incidente di esecuzione diretto alla revoca del medesimo.
Appare evidente come invece, nell’ipotesi oggetto del presente gravame,
manchi una peculiarità tale da giustificare una deroga al principio della
insussistenza dell’obbligo di provvedere sulla domanda di ritiro in
autotutela; piuttosto trattasi della prospettazione di “ordinari” vizi
relativi alla ritenuta erronea collocazione dell’immobile ed al mancato
richiamo nel provvedimento di diniego alle osservazioni proposte, ex art.
10-bis l. 241/1990, da far valere eventualmente con gli ordinari strumenti
di tutela e non da esaminare in questa sede.
Va quindi ribadito l’insegnamento secondo cui per la consolidata
giurisprudenza l'amministrazione non ha l'obbligo di pronunciarsi in maniera
esplicita su un istanza diretta a sollecitare l'esercizio del potere di
autotutela (che costituisce una manifestazione tipica della discrezionalità
amministrativa, di cui è titolare in via esclusiva l'amministrazione per la
tutela dell'interesse pubblico) e che il potere di autotutela è incoercibile
dall'esterno attraverso l'istituto del silenzio-inadempimento ai sensi
dell'art. 117 c.p.a. (cfr. ex multis, Cons. di Stato, V, 04.05.2015, n.
2237; Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4309; 07.07.2014, n. 3426;
24.09.2013, n. 4714; Sez. IV, 22.01.2013, n. 355; sez. V, 03.10.2012, n. 5199; sez. VI,
09.07.2013, n. 3634) salvo i casi normativamente stabiliti di autotutela doverosa e casi particolari legati ad
esigenze conclamate di giustizia.
Per i motivi sin qui evidenziati il ricorso va rigettato (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.04.2022 n. 2564 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Edilizia
scolastica e speciali poteri attribuiti ai Sindaci.
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Edilizia – Edilizia scolastica – Art. 7 ter, d.l. n. 22 del 2020 – Ambito
di applicazione.
L’art. 7-ter, comma 3, d.l. 08.04.2020, n. 22
attribuisce al Sindaco, per le occupazioni di urgenza e per le
espropriazioni delle aree occorrenti per l’esecuzione degli interventi di
edilizia scolastica, la facoltà di adottare un decreto per la redazione
dello stato di consistenza e del verbale di immissione in possesso dei
suoli, riconoscendosi a tale provvedimento anche il valore di atto
impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della
pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell’intervento.
La natura di norma speciale della previsione in questione, derivante dalle
particolari esigenze legate al periodo emergenziale, impone
un’interpretazione rigida della stessa, che non consente di ampliare il
relativo ambito di applicazione in virtù del dichiarato intento di
accelerazione delle procedure e che, per converso, richiede di circoscrivere
gli straordinari poteri riconosciuti ai Sindaci nei limiti di tempo e
contenuto previsti dalla legge stessa, in osservanza del principio di
legalità sostanziale;
Non può pertanto ritenersi che il decreto sindacale, oltre ad assumere la
particolare efficacia riconosciuta espressamente dalla norma (valore di atto
impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della
pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza), possa implicare in via
automatica anche la variazione della strumentazione urbanistica, dovendosi
ritenere conseguentemente che l’esercizio di tale potere straordinario sia
circoscritto ai casi in cui l’adozione della variante non sia necessaria,
ossia per le ipotesi di (riscontrata e dimostrata) conformità urbanistica
dell’opera (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che la conformità urbanistica
rappresenta presupposto necessario per la realizzazione di opere pubbliche o
di pubblica utilità, in relazione alle quali si procede alla espropriazione.
Ne consegue che l’eventuale incompatibilità con le previsioni urbanistiche,
possibilmente derivante da una localizzazione dell’opera in area con
destinazione non conforme, richiede la preventiva adozione di specifica
variante allo strumento urbanistico in vigore.
In tal senso sono le seguenti previsioni del d.P.R. n. 327/2001:
i) l'opera da realizzare deve essere prevista nello strumento
urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul
bene da espropriare deve essere stato apposto il vincolo preordinato
all'esproprio (art. 8);
ii) un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio nel
momento in cui diviene efficace l’approvazione della variante (art. 9).
L’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, quale fase funzionale a
dare attuazione alla localizzazione dell’opera, presuppone pertanto la
sussistenza della conformità urbanistica, non potendo quindi prescindersi da
tale preliminare attività, ipotizzando che l’apposizione del vincolo valga
anche come variante allo strumento urbanistico.
Del resto, la conferma della priorità temporale dell’attività di zoning
ad opera dello strumento urbanistico generale rispetto alla
(necessariamente) successiva fase dell’apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio deriva altresì dalle previsioni della previgente legge
regionale Emilia Romagna 24.03.2000, n. 20, secondo cui: “La
localizzazione delle opere pubbliche è operata dagli strumenti di
pianificazione urbanistica, ovvero da loro varianti, che ne prevedono la
realizzazione. In particolare:
a) il PSC provvede alla previsione dell’opera e alla indicazione di
massima della sua localizzazione, attraverso la individuazione degli ambiti
idonei e dei corridoi di fattibilità. Esso definisce inoltre i requisiti
prestazionali dell’opera e le condizioni di sostenibilità della stessa,
indicando le opere di mitigazione o compensazione ambientale ovvero le fasce
di ambientazione o le altre dotazioni ecologiche e ambientali ritenute
necessarie;
b) il POC stabilisce la puntuale localizzazione dell’opera, con la
conseguente apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, anche
apportando rettifiche non sostanziali ai perimetri degli ambiti idonei ed ai
corridoi individuati dal PSC. Esso disciplina altresì le modalità attuative
dell’opera e le dotazioni o misure che ne assicurano la sostenibilità
ambientale e territoriale, in conformità alle previsioni del PSC.” (art.
36–bis).
In definitiva, il provvedimento di imposizione del vincolo è il primo atto
della procedura espropriativa e, in quanto tale, non può avere valenza di
variante urbanistica. Esso persegue anche finalità urbanistiche ma nel
diverso significato di costituire elemento di raccordo tra il settore
dell’urbanistica e quello dell’espropriazione, consentendo l’acquisizione al
patrimonio pubblico soltanto di quelle aree che sono state previamente
individuate negli strumenti di pianificazione territoriale.
Ha aggiunto la Sezione che una interpretazione dell’art. 7-ter d.l.
08.04.2020, n. 22 -nella parte in cui attribuisce ai sindaci e ai presidenti
delle province e delle città metropolitane, fino al 31.12.2026 (termine
modificato con l’art. 55 della legge n. 181 del 29.07.2021), la facoltà di
esercitare poteri commissariali al fine di garantire la rapida esecuzione di
interventi di edilizia scolastica, anche in relazione all’emergenza da
COVID-19- diversa da quella ritenuta dal Collegio una diversa
interpretazione consentirebbe, in assenza di una specifica previsione
normativa derogatoria, di evitare l’intero iter di approvazione della
variante urbanistica (cfr. artt. 9, 10 e 19 d.P.R. n. 327/2001) e,
conseguentemente, di omettere il coinvolgimento dell’organo consiliare nella
decisione.
Peraltro, in senso contrario non può ritenersi che il legislatore, mediante
la locuzione “prescindendo da ogni altro adempimento” di cui all’art.
7-ter, abbia voluto omettere integralmente l’adozione della variante
urbanistica, rimettendo ad una libera decisione del Sindaco l’espropriazione
per la realizzazione di un’opera pubblica non conforme alla destinazione di
zona. Del resto, considerando che l’intera materia espropriativa è governata
dal principio di legalità, in assenza di diverse previsioni esplicite, non è
sostenibile che tale inciso possa di per sé costituire una idonea base
legale per poter prescindere dalla conformità urbanistica.
È dunque preferibile l’interpretazione secondo cui con tale locuzione si sia
voluto fare riferimento alla diversa fase esecutiva dell’esproprio, in
ragione della circostanza che essa risulta inserita nell’ambito della
descrizione dei poteri del Sindaco nella redazione dello stato di
consistenza
In definitiva, la norma in esame attribuisce al Sindaco poteri straordinari
di incidenza negativa nella sfera giuridica dei destinatari dell’azione
amministrativa per finalità connesse all’emergenza sanitaria. Tale norma, in
ossequio al principio di legalità che assume connotati più pregnanti in
presenza di tale tipologia di poteri, deve essere interpretata in modo
letterale e rigoroso, con configurabilità dei soli poteri espressamente
nominati e conseguente esclusione dal perimetro applicativo della
disposizione in esame di poteri di natura urbanistica (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.04.2022 n. 2556 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
8. Il Collegio premette che con il decreto legge 08.04.2020, n. 22 (recante
“Misure urgenti sulla regolare conclusione e l’ordinato avvio dell’anno
scolastico e sullo svolgimento degli esami di Stato, nonché in materia di
procedure concorsuali e di abilitazione e per la continuità della gestione
accademica”), all’art. 7-ter (“Misure urgenti per interventi di
riqualificazione dell’edilizia scolastica”), è stata attribuita ai
sindaci e ai presidenti delle province e delle città metropolitane, fino al
31.12.2026 (termine modificato con l’art. 55 della legge n. 181 del
29.07.2021), la facoltà di esercitare poteri commissariali al fine di
garantire la rapida esecuzione di interventi di edilizia scolastica, anche
in relazione all’emergenza da COVID-19.
In particolare, al comma 3 del citato art. 7-ter, si prevede che “Per le
occupazioni di urgenza e per le espropriazioni delle aree occorrenti per
l’esecuzione degli interventi di edilizia scolastica, i sindaci e i
presidenti delle province e delle città metropolitane, con proprio decreto,
provvedono alla redazione dello stato di consistenza e del verbale di
immissione in possesso dei suoli anche con la sola presenza di due
rappresentanti della regione o degli enti territoriali interessati,
prescindendo da ogni altro adempimento. Il medesimo decreto vale come atto
impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della
pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell’intervento”.
8.1. La questione centrale affrontata dall’appello, come visto, attiene
all’assenza della necessaria conformità urbanistica dell’opera in esame,
atteso che, nella tesi dell’appellante, l’art. 7-ter del d.l. n. 22/2020,
se, da un lato, detterebbe una particolare disciplina acceleratoria,
dall’altro non consentirebbe di procedere all’espropriazione senza la
preventiva adozione della variante allo strumento urbanistico.
8.2. È, invero, preliminare constatare l’incompatibilità urbanistica
dell’immobile, non potendo valere in senso contrario le deduzioni avverse di
parte comunale, che, in maniera del tutto generica ed assertiva, si fondano
sostanzialmente sull’uso per finalità scolastiche protrattosi nel corso
degli anni e sulla ammissibilità di esso da parte del RUE (in tal modo
richiamando le motivazioni –altrettanto sintetiche- rese sul punto nei
provvedimenti impugnati) e rinviando per ulteriori approfondimenti al
contenuto della “Relazione tecnico illustrativa”, quale parte
integrante del decreto di approvazione del vincolo preordinato all’esproprio
(a mezzo della quale veniva fornita una ricostruzione della storia
urbanistico-edilizia dell’immobile, che ricalca quanto espresso dalla Giunta
comunale di San Lazzaro di Savena con la deliberazione n. 102
dell’08.07.2020).
L’esercizio di un potere straordinario, riconosciuto da una norma di
carattere emergenziale, avrebbe al contrario richiesto da parte
dell’Amministrazione una motivazione puntuale ed approfondita, nonché
un’appropriata difesa, in ordine ai relativi presupposti, tra i quali -come
si dirà– figura la compatibilità urbanistica dell’immobile. Invero, non
possono a tal fine ritenersi sufficienti le assertive dichiarazioni
dell’Ente comunale, che ha ritenuto non necessaria la “preventiva
procedura di variante urbanistica” in ragione della compatibilità
urbanistica dell’opera (cfr. “Relazione tecnico illustrativa” cit.;
parere favorevole al progetto di opera pubblica, di cui alla delibera della
Giunta comunale -proposta n. 1067/2020- all. n. 12 depositato in data 22.03.2021 dal Comune nel giudizio di primo grado; decreto sindacale prot.
n. 28823 del 05.08.2020, recante l’apposizione del vincolo, la
dichiarazione di pubblica utilità e l’approvazione del progetto definitivo).
8.2.1. Ad ogni modo, il Collegio rileva che l’area di proprietà
dell’Istituto Do.Tr. è classificata dal vigente Piano strutturale
comunale (PSC) del Comune di San Lazzaro di Savena, adottato nel 2008 e
approvato nel 2009, quale “Ambito Urbano Consolidato”, in relazione al quale
si rimette al Regolamento urbanistico edilizio (RUE) la disciplina delle
trasformazioni edilizie e funzionali.
In particolare, il RUE, rimasto invariato quanto alla disciplina urbanistica
dalla versione del 2009 adottata dopo l’osservazione della proprietà,
sottopone l’area ad intervento diretto convenzionato secondo i parametri
edilizi indicati nella scheda di riferimento - “I.U.C. 11 - Istituto Don Trombelli - Via Fonde – ambito A.U.C.” e consente, tra gli usi ammessi
quelli per attività terziarie (culturali, ricreative; scolastiche; attività
di svago e sportive; sanitarie e di istruzione superiore, formazione e
ricerca) e la destinazione residenziale.
Tale previsione urbanistica, nell’ammettere distinte tipologie di
destinazione d’uso insediabili nell’ambito consolidato in questione, non
incide nella individuazione della “destinazione urbanistica” dell’area.
Invero, per realizzare opere di urbanizzazione secondaria, quale è un
edificio scolastico pubblico, è necessario, ai fini espropriativi, la previa
destinazione urbanistica dell’area a zona F (“parti del territorio destinato
ad attrezzature ed impianti di interesse generale” cfr. art. 2 del D.M. n.
1444/1968) o, secondo la diversa classificazione e terminologia della l.r.
24.03.2000, n. 20 (“Disciplina generale sulla tutela e l’uso del
territorio”) recepita dal PSC e dal RUE del Comune di San Lazzaro di Savena,
quale area destinata alla realizzazione di “Attrezzature e spazi collettivi”
(art. A-24 l.r. n. 20/2000) la cui programmazione e localizzazione nei
diversi ambiti territoriali è rimessa agli strumenti urbanistici.
Tuttavia, la disciplina urbanistica dell’area di proprietà dell’Istituto non
subiva, a partire dal 2009, alcuna variazione, restando ferma la citata
classificazione di cui al PSC quale “Ambito Urbano Consolidato”. Invero, il
Piano operativo comunale (POC), approvato il 20.12.2011, che
individuava un comparto “ANS.C.3 c-d –P.8” e contemplava la realizzazione da
parte di soggetti attuatori anche di un nuovo polo scolastico, veniva in
seguito dichiarato decaduto relativamente a detto comparto, restando di
conseguenza meramente ammesso l’utilizzo dell’immobile ad uso scolastico, in
virtù delle previsioni del RUE.
8.3. Ciò rilevato, il Collegio osserva, in termini generali, che la
conformità urbanistica rappresenta presupposto necessario per la
realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, in relazione alle
quali si procede alla espropriazione. Ne consegue che l’eventuale
incompatibilità con le previsioni urbanistiche, possibilmente derivante da
una localizzazione dell’opera in area con destinazione non conforme,
richiede la preventiva adozione di specifica variante allo strumento
urbanistico in vigore.
8.3.1. In tal senso sono le seguenti previsioni del d.P.R. n. 327/2001:
i)
l'opera da realizzare deve essere prevista nello strumento urbanistico
generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da
espropriare deve essere stato apposto il vincolo preordinato all'esproprio
(art. 8);
ii) un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio nel
momento in cui diviene efficace l’approvazione della variante (art. 9).
L’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, quale fase funzionale a
dare attuazione alla localizzazione dell’opera, presuppone pertanto la
sussistenza della conformità urbanistica, non potendo quindi prescindersi da
tale preliminare attività, ipotizzando che l’apposizione del vincolo valga
anche come variante allo strumento urbanistico.
8.3.2. Del resto, la conferma della priorità temporale dell’attività di
zoning ad opera dello strumento urbanistico generale rispetto alla
(necessariamente) successiva fase dell’apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio deriva altresì dalle previsioni della previgente legge
regionale Emilia-Romagna 24.03.2000, n. 20, secondo cui: “La
localizzazione delle opere pubbliche è operata dagli strumenti di
pianificazione urbanistica, ovvero da loro varianti, che ne prevedono la
realizzazione.
In particolare:
a) il PSC provvede alla previsione dell’opera e alla indicazione di
massima della sua localizzazione, attraverso la individuazione degli ambiti
idonei e dei corridoi di fattibilità. Esso definisce inoltre i requisiti
prestazionali dell’opera e le condizioni di sostenibilità della stessa,
indicando le opere di mitigazione o compensazione ambientale ovvero le fasce
di ambientazione o le altre dotazioni ecologiche e ambientali ritenute
necessarie;
b) il POC stabilisce la puntuale localizzazione dell’opera, con la
conseguente apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, anche
apportando rettifiche non sostanziali ai perimetri degli ambiti idonei ed ai
corridoi individuati dal PSC. Esso disciplina altresì le modalità attuative
dell’opera e le dotazioni o misure che ne assicurano la sostenibilità
ambientale e territoriale, in conformità alle previsioni del PSC.” (art.
36–bis).
8.3.3. In definitiva, il provvedimento di imposizione del vincolo è il primo
atto della procedura espropriativa e, in quanto tale, non può avere valenza
di variante urbanistica. Esso persegue anche finalità urbanistiche ma nel
diverso significato di costituire elemento di raccordo tra il settore
dell’urbanistica e quello dell’espropriazione, consentendo l’acquisizione al
patrimonio pubblico soltanto di quelle aree che sono state previamente
individuate negli strumenti di pianificazione territoriale.
8.4. Come visto, il citato art. 7-ter, comma 3, attribuisce al Sindaco, per
le occupazioni di urgenza e per le espropriazioni delle aree occorrenti per
l’esecuzione degli interventi di edilizia scolastica, la facoltà di adottare
un decreto per la redazione dello stato di consistenza e del verbale di
immissione in possesso dei suoli, riconoscendosi a tale provvedimento anche
il valore di atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e
dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza
dell’intervento.
8.4.1. La natura di norma speciale della previsione in questione, derivante
dalle particolari esigenze legate al periodo emergenziale, impone
un’interpretazione rigida della stessa, che non consente di ampliare il
relativo ambito di applicazione in virtù del dichiarato intento di
accelerazione delle procedure e che, per converso, richiede di circoscrivere
gli straordinari poteri riconosciuti ai Sindaci nei limiti di tempo e
contenuto previsti dalla legge stessa, in osservanza del principio di
legalità sostanziale.
Diversamente da quanto sostenuto dall’Amministrazione comunale, non può
pertanto ritenersi che il decreto sindacale, oltre ad assumere la
particolare efficacia riconosciuta espressamente dalla norma (valore di atto
impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della
pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza), possa implicare in via
automatica anche la variazione della strumentazione urbanistica, dovendosi
ritenere conseguentemente che l’esercizio di tale potere straordinario sia
circoscritto ai casi in cui l’adozione della variante non sia necessaria,
ossia per le ipotesi di (riscontrata e dimostrata) conformità urbanistica
dell’opera.
Del resto, una diversa interpretazione consentirebbe, in assenza di una
specifica previsione normativa derogatoria, di evitare l’intero iter di
approvazione della variante urbanistica (cfr. artt. 9, 10 e 19 d.P.R. n.
327/2001) e, conseguentemente, di omettere il coinvolgimento dell’organo
consiliare nella decisione.
8.4.2. Peraltro, in senso contrario non può ritenersi che il legislatore,
mediante la locuzione “prescindendo da ogni altro adempimento” di cui
all’art. 7-ter, abbia voluto omettere integralmente l’adozione della
variante urbanistica, rimettendo ad una libera decisione del Sindaco
l’espropriazione per la realizzazione di un’opera pubblica non conforme alla
destinazione di zona. Del resto, considerando che l’intera materia
espropriativa è governata dal principio di legalità, in assenza di diverse
previsioni esplicite, non è sostenibile che tale inciso possa di per sé
costituire una idonea base legale per poter prescindere dalla conformità
urbanistica.
È dunque preferibile l’interpretazione secondo cui con tale locuzione si sia
voluto fare riferimento alla diversa fase esecutiva dell’esproprio, in
ragione della circostanza che essa risulta inserita nell’ambito della
descrizione dei poteri del Sindaco nella redazione dello stato di
consistenza.
8.4.3. In definitiva, la norma in esame attribuisce al Sindaco poteri
straordinari di incidenza negativa nella sfera giuridica dei destinatari
dell’azione amministrativa per finalità connesse all’emergenza sanitaria.
Tale norma, in ossequio al principio di legalità che assume connotati più
pregnanti in presenza di tale tipologia di poteri, deve essere interpretata
in modo letterale e rigoroso, con configurabilità dei soli poteri
espressamente nominati e conseguente esclusione dal perimetro applicativo
della disposizione in esame di poteri di natura urbanistica.
9. In conclusione, in ragione di quanto esposto in ordine alla fondatezza
delle prime tre censure, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in
parziale riforma dell’impugnata sentenza, devono essere accolti
integralmente il ricorso di primo grado e il relativo atto di motivi
aggiunti. Deve pertanto essere disposto l’annullamento degli atti gravati,
restando ferma la possibilità per il Comune di Comune di San Lazzaro di
Savena di rieditare il potere espropriativo seguendo le procedure ordinarie (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.04.2022 n. 2556 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: - secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale opera di diritto (e dunque in via automatica) quale
sanzione per l’inottemperanza all’ordine di demolizione e ripristino dello status quo ante nel termine all’uopo assegnato, e può raggiungere il
proprietario “solo se vi sia modo di reputare che egli sia responsabile o
corresponsabile dell’abuso, o comunque, non ne abbia impedito la
consumazione, dopo esserne venuto a conoscenza, con gli strumenti offerti
dall’ordinamento giuridico”, ossia laddove possa essergli mosso un
rimprovero, anche in termini colposi, per non averne impedito la
realizzazione;
- in particolare, è stato affermato che la posizione del proprietario si
ritiene “neutra” rispetto alla sanzione de qua “solo qualora sia
completamente estraneo al compimento dell’opera abusiva, o, essendone venuto
a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti
offertigli dall’ordinamento, non essendo a tal fine sufficiente prospettare
la formalizzazione della risoluzione del contratto di locazione, senza aver
dato poi seguito a tale dichiarata intenzione”, dovendo il proprietario incolpevole di un abuso edilizio
commesso da altri provare la intrapresa di “iniziative idonee” a costringere
il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi
nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa, non essendo
all’uopo sufficienti mere dichiarazioni, affermazioni di dissociazione o
semplici manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno
giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso, risultando altrimenti
totalmente depotenziata la tutela contro gli abusi nei casi di locazione ;
---------------
La stipulazione del contratto di comodato, se pure comporta il trasferimento
al comodatario della disponibilità materiale e del godimento dell’immobile,
non priva in assoluto il proprietario dei poteri/doveri di controllo, cura e
vigilanza sulla res, trattandosi di fattispecie contrattuale (a causa cd “debole”, in
ragione della sua coessenziale gratuità) che non elide del tutto le facoltà
dominicali, come dimostra il potere di chiedere la restituzione immediata
della cosa ai sensi dell’art. 1804, comma 3, c.c. in caso di inadempimento
degli obblighi pattuiti, soprattutto laddove, come nel caso di specie, lo
stesso proprietario fosse perfettamente a conoscenza della futura intrapresa
sull’immobile in comodato di lavori che necessitavano di titoli abilitativi
di cui poi si accerti il mancato conseguimento.
---------------
Atteso infatti che:
- nel caso di specie la ricorrente non contesta l’abusività delle opere
oggetto dalla gravata ordinanza di demolizione, la quale pertanto può
considerarsi circostanza fattuale acquisita ai sensi e per gli effetti
dell’art. 115, comma 1, c.p.c. (cfr. segnatamente pagg. 15-17 del ricorso),
quanto piuttosto la sua qualificazione in termini di “committente” e
“responsabile” dei lavori attesa la propria “completa estraneità nella
realizzazione degli interventi edilizi de quibus, onde evitare che nei suoi
confronti vengano irrogate le sanzioni previste dal d.P.R. n. 380 del 2001,
prima fra tutte la (già “minacciata”) acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell’area di sedime ove insistono le opere abusive di che trattasi”
ai sensi dell’art. 31, comma 3 del d.P.R. n. 380/2001 (cfr. pag. 3 del
ricorso), nonché l’impossibilità di ottemperare all’ordine di demolizione;
- la questione della applicabilità della sanzione da ultimo citata nei
confronti del proprietario per opere abusive realizzate da terzi è stata
esaminata sia dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte Cost., n. 345
del 1991) sia, ripetutamente, da quella amministrativa, soprattutto con
riferimento agli abusi commessi dal locatario;
- secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, già ampiamente
condiviso da questa Sezione (la quale è stata più volte chiamata a
pronunciarsi sulla portata dell’art. 15, comma 5, della L.R. n. 15/2008, che
esclude l’acquisizione dell’area nel caso in cui il proprietario della
stessa non sia responsabile dell’abuso), l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale opera di diritto (e dunque in via automatica) quale
sanzione per l’inottemperanza all’ordine di demolizione e ripristino dello
status quo ante nel termine all’uopo assegnato, e può raggiungere il
proprietario “solo se vi sia modo di reputare che egli sia responsabile o
corresponsabile dell’abuso, o comunque, non ne abbia impedito la
consumazione, dopo esserne venuto a conoscenza, con gli strumenti offerti
dall’ordinamento giuridico”, ossia laddove possa essergli mosso un
rimprovero, anche in termini colposi, per non averne impedito la
realizzazione (cfr. ex multis TAR Lazio, II-quater, 03.03.2021, n. 2556);
- in particolare, è stato affermato che la posizione del proprietario si
ritiene “neutra” rispetto alla sanzione de qua “solo qualora sia
completamente estraneo al compimento dell’opera abusiva, o, essendone venuto
a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti
offertigli dall’ordinamento, non essendo a tal fine sufficiente prospettare
la formalizzazione della risoluzione del contratto di locazione, senza aver
dato poi seguito a tale dichiarata intenzione (Consiglio di Stato, sez. VI,
n. 2211/2015)”, dovendo il proprietario incolpevole di un abuso edilizio
commesso da altri provare la intrapresa di “iniziative idonee” a costringere
il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi
nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa, non essendo
all’uopo sufficienti mere dichiarazioni, affermazioni di dissociazione o
semplici manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno
giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso, risultando altrimenti
totalmente depotenziata la tutela contro gli abusi nei casi di locazione (cfr.
TAR Lazio, Sez. II-quater, 3.02.2021, n. 1431);
Ritenuto che, nella fattispecie in esame, non sussistono le condizioni per
esonerare la ricorrente dalla responsabilità per i perpetrati abusi, in
quanto la medesima non può ritenersi estranea alla loro realizzazione,
avendone avuto quantomeno effettiva conoscenza, alla luce delle seguenti
circostanze fattuali:
- la stessa parte ricorrente afferma di aver prestato il proprio assenso
alla riattivazione del progetto “-OMISSIS-” nel 2018, concedendo l’immobile
in comodato alla società -OMISSIS-. con l’espressa previsione che quest’ultima
avrebbe proceduto a “richiedere all’amministrazione competente tutte le
autorizzazioni e/o concessioni del caso”, e tanto è sufficiente a concludere
che la stessa fosse perfettamente a conoscenza dalla imminente
realizzazione, sul terreno di sua proprietà, di opere che necessitavano di
idonei titoli abilitativi;
- peraltro, dalla documentazione in atti emerge che la ricorrente avesse la
sua residenza proprio nell’immobile interessato dai predetti lavori, e
questo rende ancora più inverosimile che la medesima fosse del tutto ignara
del compimento delle opere di cui trattasi;
- né rileva la circostanza che il terreno, alla data del compimento delle
opere, fosse stato attribuito in comodato alla società -OMISSIS-, con
conseguente “sgravio” di responsabilità –in ragione della clausola
contrattuale che obbligava la società comodataria a richiedere
all’amministrazione competente, ai fini della realizzazione dei lavori di
messa in sicurezza e “migliorie”, le necessarie autorizzazioni-,
considerato in primis che la società in questione ha forma giuridica di s.n.c., con la conseguenza che la ricorrente, in qualità di socia, era
comunque titolare di poteri/doveri di controllo sullo svolgimento degli
affari sociali ex art. 2261 c.c., la cui mancata attivazione comporta
quantomeno una sua culpa in vigilando (e in disparte ogni considerazione in
ordine al fatto che tale società è qualificata dalla stessa parte come “di
famiglia” -cfr. pag. 7 del ricorso-, essendo la compagine sociale composta
esclusivamente dalla ricorrente e dai suoi stretti familiari, tra cui i
figli -OMISSIS- e -OMISSIS-, come visure camerali versate in atti, con la
conseguenza che il rapporto di parentela intercorrente con la medesima
-OMISSIS-, legale rappresentante della società fino al giugno 2021 e
asseritamente responsabile dell’esecuzione dei lavori abusivi unitamente al
compagno Sig. -OMISSIS-, è un’ulteriore circostanza fattuale che concorre a
rendere poco credibile l’affermazione secondo cui la Sig.ra -OMISSIS-
sarebbe stata all’oscuro degli abusi);
- né può attribuirsi rilievo, al fine di escluderne ogni responsabilità,
alle infauste vicende personali che hanno colpito la parte (-OMISSIS-), in
quanto si tratta di accadimenti occorsi in anni precedenti rispetto alla
data di realizzazione delle opere, e in ogni caso, anche in relazione agli
episodi più recenti (tra cui la dedotta positività -OMISSIS- al virus
COVID-19, con conseguente ricovero ospedaliero), non è stato dimostrato come
tali contingenze abbiano precluso alla parte di seguire le vicende
societarie o avere quantomeno contezza della situazione di fatto esistente
sul terreno di sua proprietà;
- in secondo luogo, anche a voler prescindere da tali considerazioni (sia
pure risolutive, a giudizio del Collegio), si osserva che la stipulazione
del contratto di comodato, se pure comporta il trasferimento al comodatario
della disponibilità materiale e del godimento dell’immobile, non priva in
assoluto il proprietario dei poteri/doveri di controllo, cura e vigilanza
sulla res, trattandosi di fattispecie contrattuale (a causa cd “debole”, in
ragione della sua coessenziale gratuità) che non elide del tutto le facoltà
dominicali, come dimostra il potere di chiedere la restituzione immediata
della cosa ai sensi dell’art. 1804, comma 3, c.c. in caso di inadempimento
degli obblighi pattuiti, soprattutto laddove, come nel caso di specie, lo
stesso proprietario fosse perfettamente a conoscenza della futura intrapresa
sull’immobile in comodato di lavori che necessitavano di titoli abilitativi
di cui poi si accerti il mancato conseguimento;
- ne consegue l’infondatezza del primo motivo di ricorso, con cui si deduce
l’illegittimità del gravato provvedimento nella misura in cui non avrebbe
considerato che alla data di realizzazione dei lavori il bene era detenuto
in comodato dalla società -OMISSIS-, nonché del secondo motivo, teso a
contestare l’attuale impossibilità di demolire il bene in quanto la società comodataria ne ha tutt’ora la disponibilità; (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 05.04.2022 n. 3900 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
indubbio che, in linea di principio, “per agire nel processo amministrativo
è necessario non solo essere titolari di una situazione giuridica
riconducibile a diritto soggettivo o interesse legittimo, ma anche di un
interesse a ricorrere inteso non come idoneità astratta a conseguire un
risultato utile, ma come interesse personale, concreto ed attuale al
conseguimento di un vantaggio materiale o morale” e che, sicuramente, la
legittimazione e l’interesse ad agire devono sussistere all’atto della
proposizione del ricorso e non sono suscettibili di sanatoria postuma,
atteso che le condizioni dell’azione devono sussistere al momento della
proposizione della domanda e permanere fino al momento della decisione.
---------------
Ed invero, è indubbio che, in linea di principio, “per agire nel processo
amministrativo è necessario non solo essere titolari di una situazione
giuridica riconducibile a diritto soggettivo o interesse legittimo, ma anche
di un interesse a ricorrere inteso non come idoneità astratta a conseguire
un risultato utile, ma come interesse personale, concreto ed attuale al
conseguimento di un vantaggio materiale o morale” (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, n. 855/2015, che conferma TAR Campania, Napoli, sez. IV, n.
4035/2000) e che sicuramente la legittimazione e l’interesse ad agire devono
sussistere all’atto della proposizione del ricorso e non sono suscettibili
di sanatoria postuma, atteso che le condizioni dell’azione devono sussistere
al momento della proposizione della domanda e permanere fino al momento
della decisione (cfr. TAR Puglia-Lecce, sez. I, 21/05/2015, n. 1723, Tar
Campania–Napoli, Sez. V, sentenza n. 2765/2017); ciò posto, è altrettanto
indubbio che, nella fattispecie che occupa, l’interesse fatto valere dalla
citata ricorrente è, per come dalla stessa dichiarato, quello di ottenere la
caducazione degli atti impugnati al fine di scongiurare il rischio che la
stessa, in caso di perdurante esistenza degli stessi, possa essere citata in
giudizio dinanzi al Giudice Ordinario dalla società ricorrente per
un’eventuale azione risarcitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.04.2022 n. 2320 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Messa
in liquidazione di società partecipata.
---------------
●
Giurisdizione – Società – Società partecipata – Messa in liquidazione –
Controversia – Giurisdizione giudice amministrativo.
●
Società – Società partecipata – Messa in liquidazione - Motivazione –
Necessità.
●
Spetta alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo la
cognizione della controversia avente ad oggetto la legittimità (o meno)
delle deliberazioni del Consiglio comunale di messa in liquidazione di una
società partecipata, adottate nell’ambito degli adempimenti di cui all’art.
20 d.lgs. n. 175 del 2016 (“Razionalizzazione periodica delle partecipazioni
pubbliche”), in quanto gli atti in questione sono espressione del potere
autoritativo delle amministrazioni pubbliche, teso, tra l’altro,
all’esigenza di razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica (art. 1
d.lgs. n. 175 del 2016).
Essi involgono posizioni di interesse legittimo finalizzato al corretto
esercizio del potere da parte della società, la quale fa per l’appunto
valere un interesse legittimo come aspirazione al conseguimento o al
mantenimento di un bene o di una utilità in conseguenza dell’azione
amministrativa (in tal caso al mantenimento in vita della società) a fronte
dell’esercizio del detto potere autoritativo (1).
●
La scelta del Comune di procedere alla messa in liquidazione di
una società partecipata a seguito della ricognizione ai sensi dell’art. 20
d.lgs. n. 175 del 2016 deve essere esternata con motivazione da inserire
nella relazione tecnica per dare conto delle ragioni dell’ipotesi ritenuta
sussistente (nel caso di specie art. 20, comma 2, lett. b), e del modello
scelto (messa in liquidazione) per affrontarla (2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che trova conferma nella giurisprudenza
amministrativa e delle sezioni unite della Corte di Cassazione, secondo cui,
in tema di riparto della giurisdizione, sono devolute alla giurisdizione del
giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l'attività
unilaterale e prodromica, di natura pubblicistica, con la quale un ente
pubblico delibera di incidere sulle vicende societarie (di costituzione,
modificazione ed estinzione della società), mentre sono devolute alla
giurisdizione del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto gli
atti societari che si pongono a valle della scelta di fondo di utilizzo del
modello societario, le quali restano interamente soggette alle regole del
diritto commerciale proprie del modello recepito (Cons. Stato, sez. V,
22.06.2020, n. 3969 e id.
23.01.2019, n. 578; Cass. civ., S.U., 20.09.2013, n. 21588; Tar Milano, sez. I,
19.05.2021, n. 1212).
Va precisato che nel caso di specie non è ravvisabile una ipotesi di
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (come sostenuto, sia pur
incidentalmente, dalle sent. Cass. s.u. n. 30167 del 2011 e n. 21588 del
2013, richiamate dalla società ricorrente), atteso che non vi è nella legge
(e in particolare nel cod. proc. amm.) alcuna norma che riconosca che
controversie quali quella di cui trattasi siano devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
Infatti, le controversie relative a provvedimenti concernenti le “procedure
di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici, nonché
quelli relativi alla costituzione, modificazione o soppressione di società,
aziende e istituzioni da parte degli enti locali” sono soggette al rito
abbreviato di cui all’art. 119, comma 1, lett. c), c.p.a., ma ciò non
implica che la cognizione delle relative controversie sia riservata dalla
legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, limitandosi
detta disposizione a dettare particolari regole (non sulla giurisdizione,
ma) di procedura per la trattazione di tali giudizi (v. Tar Palermo, sez. II,
13.09.2016, n. 2153; Tar Lecce, sez. II,
12.03.2014, n. 751; Tar Catania, sez. III,
30.01.2013, n. 200).
A quanto esposto consegue che la clausola compromissoria prevista dall’art.
30 dell’atto costitutivo della società ricorrente non può trovare
applicazione nel caso di specie ai sensi dell’art. 12 c.p.a. (secondo cui le
controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del
giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di
diritto ai sensi degli artt. 806 e ss. cod. proc. civ.), concernendo, come
chiarito, la controversia interessi legittimi e non diritti soggettivi.
Detta disposizione (art. 12 c.p.a.) è norma di stretta interpretazione,
applicabile solo quando la posizione giuridica soggettiva azionata abbia
consistenza di diritto soggettivo e sia devoluta alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo e, di contro, non applicabile quando la
posizione giuridica soggettiva azionata abbia natura di interesse legittimo;
ciò in quanto l’accordo delle parti, espresso nel patto compromissorio,
comporta indirettamente una deroga alla giurisdizione, avendo l’effetto di
affidare al giudice ordinario, in sede di impugnazione del lodo, la
cognizione di controversie che, in assenza dell’arbitrato, sarebbero
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (cfr. ex multis, Cass., s.u. 27.07.2004, n. 14090; Tar Palermo, sez. II, 13.09.2016, n. 2153).
In ogni caso –e quindi anche ove in tesi dovesse ritenersi che la questione
verta su diritti soggettivi e che la giurisdizione sia esclusiva (il che
questo Collegio esclude per quanto sin qui detto)– la clausola
compromissoria non potrebbe operare, atteso che l’art. 30 dell’atto
costitutivo della società demanda al collegio arbitrale “tutte le
controversie aventi ad oggetto rapporti sociali, comprese quelle relative
alla validità delle delibere assembleari”, tra le quali non rientra,
all’evidenza, quella in esame, ove l’oggetto è costituito dalle dette
deliberazioni consiliari del Comune deputate agli adempimenti di cui
all’art. 20 cit., da assumere nell’esercizio di poteri pubblicistici, avendo
riguardo, tra l’altro, all’interesse pubblico di riduzione della spesa
pubblica (art. 1, d.lgs. n. 175 del 2016).
(2) La Sezione ha ricordato che dall’art. 20, d.lgs. n. 175 del
2016 emerge, da una parte, l’obbligatorietà della revisione periodica delle
partecipazioni pubbliche (“I piani di razionalizzazione…sono adottati ove…”)
e, dall’altra, la necessità di una motivazione da parte degli enti circa le
misure adottate; in altri termini, la ricognizione annuale, incentrata sulla
valutazione della ricorrenza dei parametri elencati nell’art. 20 TUSP,
costituisce adempimento obbligatorio, mentre gli esiti possono essere vari e
sono rimessi alla discrezionalità delle amministrazioni partecipanti, le
quali sono tenute a motivare espressamente sulla scelta effettuata, la quale
può consistere sia nel mantenimento della partecipazione senza interventi
sia in una misura di razionalizzazione, il cui contenuto, a sua volta, può
consistere in un “piano di riassetto per la loro razionalizzazione, fusione
o soppressione, anche mediante messa in liquidazione o cessione”.
Consegue che la scelta del Comune di procedere alla messa in liquidazione di
una società partecipata a seguito della ricognizione ai sensi dell’art. 20,
d.lgs. n. 175 del 2016 deve essere esternata con motivazione da inserire
nella relazione tecnica per dare conto delle ragioni dell’ipotesi ritenuta
sussistente (nel caso di specie art. 20, comma 2, lett. b), e del modello
scelto (messa in liquidazione) per affrontarla.
Tale adempimento (ossia la relazione tecnica e nel caso di specie il suo
adeguamento a seguito dell’emendamento) viene previsto dall’art. 20 cit.
come corredo necessario del piano di razionalizzazione (“[i] piani di
razionalizzazione, corredati di un'apposita relazione tecnica”) ed “è
funzionale a consentire la ricostruzione dell’iter logico-giuridico seguito
dall’amministrazione” (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 04.04.2022 n. 964 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella
fascia di rispetto cimiteriale, il vincolo di inedificabilità è assoluto e
non si riferisce soltanto ad interventi di natura residenziale.
Invero, il vincolo cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun
modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico-sanitaria,
la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati
alla inumazione e alla sepoltura ed il mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale.
---------------
Secondo il Comune, l’intervento in questione ricade nella fascia di rispetto
cimiteriale, ove il vincolo di inedificabilità, secondo pacifica
giurisprudenza, è assoluto e non si riferisce soltanto ad interventi di
natura residenziale.
Come, infatti, affermato da ultimo dal Consiglio di Stato, Sezione VI, n.
5458 in data 20.07.2021, il vincolo cimiteriale ha carattere assoluto e non
consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere
incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici
interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le
esigenze di natura igienico-sanitaria, la salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura ed
il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 01.04.2022 n. 937 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel procedimento di
repressione degli abusi edilizi vengono in rilievo atti vincolati che non
richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale in ordine all’intervento repressivo,
non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
del privato alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare.
Il carattere vincolato dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi
edilizi rende anche superflua la comunicazione di avvio del procedimento,
dal momento che, salvo ipotesi del tutto residuali, non è possibile alcun
utile apporto partecipativo dell’interessato, come pure risulta inutile una
specifica motivazione, risultando sufficiente l'individuazione degli abusi
commessi.
Ad analoghe conclusioni deve, ovviamente, giungersi anche per quanto attiene
l’omessa comunicazione del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della
legge n. 241/1990, dovendo, peraltro, aggiungersi che tale preavviso si
riferisce ai procedimenti su iniziativa di parte e non a quelli attivati
d’ufficio (per i quali trova, invece, applicazione la disciplina sulla
comunicazione di avvio del procedimento).
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In materia di provvedimenti
repressivi degli abusi edilizi non è, poi, richiesta alcuna particolare
comparazione con gli interessi o con l’affidamento del privato, né una
motivazione specifica sull’interesse pubblico.
Nel procedimento di repressione degli abusi edilizi vengono, infatti, in
rilievo atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale in ordine
all’intervento repressivo, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile del privato alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (sul
punto, cfr., fra le tante, TAR Campania, Napoli, IV, n. 3110/2020; Consiglio
di Stato, II, n. 3485/2020, n. 1765/2020, n. 549/2020; Consiglio di Stato,
VI, n. 7793/2019 e n. 3685/2019; nonché Consiglio di Stato, Ad. Plen.,
17.09.2017, n. 9).
Il carattere vincolato dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi
edilizi rende anche superflua la comunicazione di avvio del procedimento,
dal momento che, salvo ipotesi del tutto residuali, non è possibile alcun
utile apporto partecipativo dell’interessato, come pure risulta inutile una
specifica motivazione, risultando sufficiente l'individuazione degli abusi
commessi (sul punto, cfr., fra le più recenti, TAR Campania, Napoli, II, n.
2842/2020; TAR Campania, Napoli, III, n. 78/2020; TAR Campania, Napoli, VIII,
n. 4765/2020; TAR Liguria, Genova, I, n. 723/2019).
Ad analoghe conclusioni deve, ovviamente, giungersi anche per quanto attiene
l’omessa comunicazione del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della
legge n. 241/1990, dovendo, peraltro, aggiungersi che tale preavviso si
riferisce ai procedimenti su iniziativa di parte e non a quelli attivati
d’ufficio (per i quali trova, invece, applicazione la disciplina sulla
comunicazione di avvio del procedimento) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 01.04.2022 n. 937 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Materiale legnoso spiaggiato – Raccolta –
Esclusione dall’ambito delle attività di gestione dei
rifiuti – Art. 183, c. 1, lettere b-ter) e n) – Art. 19, c.
36 l.r. Abruzzo n. 1/2021- – Conformità alla disciplina
statale e realizzazione di una forma di maggiore tutela
dell’ambiente – Questione di legittimità costituzionale,
promossa in riferimento all’art. 117, c. 2 Cost. –
Infondatezza.
Alla luce del combinato disposto
dell’art. 183, c. 1, lett. b-ter), numero 4) e lett. n),
come modificata dall’art. 14, c. 8, lett. b-bis), del d.l.
n. 91/2014, i materiali presenti sulle spiagge, al di là
della loro qualificazione, al fine della disciplina della
relativa raccolta, possono dividersi in due categorie:
quella dei rifiuti urbani giacenti sulla spiaggia (ad
esempio plastiche, lattine, rottami e carta) e quella dei
materiali o sostanze di origine naturale, come il legname
spiaggiato, trasportati sulle spiagge dalle mareggiate, per
i quali il legislatore statale si è preoccupato, al fine di
consentirne una più spedita rimozione, di prevedere una
specifica disciplina delle operazioni di prelievo,
raggruppamento, cernita e deposito, escludendoli dall’ambito
delle attività di gestione dei rifiuti (per le cui attività
di raccolta e di trasporto l’art. 212 cod. ambiente impone,
tra l’altro, l’iscrizione dei soggetti operanti in uno
specifico Albo nazionale gestori ambientali).
L’art. 19, c. 36, della l.r. Abruzzo n. 1/2021, nel
consentire la raccolta del materiale legnoso spiaggiato per
un determinato e limitato periodo di tempo, per uso
esclusivamente personale o domestico e senza fine di lucro,
intende consentire una forma di gestione di tali materiali
sul presupposto, stabilito proprio dal codice dell’ambiente,
che a questi non si applichino le disposizioni relative alla
raccolta dei rifiuti urbani.
La norma impugnata, intervenendo nella prospettiva
dell’economia circolare, in modo da favorire il riutilizzo
del legname spiaggiato e di limitare la quantità finale di
rifiuti da smaltire, va perciò considerata non solo conforme
alla disciplina statale, ma anche tale da realizzare una
forma di maggiore tutela dell’ambiente, come tale consentita
al legislatore regionale.
Dev’essere, pertanto, dichiarata non fondata la questione di
legittimità costituzionale della norma regionale de quo,
promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera
s), Cost. (Corte
Costituzionale,
sentenza 01.04.2022 n. 85 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Esclusione
dalla gara per grave illecito professionale derivante da sentenza penale di
condanna non definitiva.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione - Esclusione dalla gara – Grave
illecito professionale – Derivante da sentenza penale di condanna non
definitiva – Termine di efficacia della causa di esclusione – Mancanza di
una previsione legislativa – Art. 57, par. 7, della direttiva 2014/24/UE –
Diretta applicabilità – Termine di tre anni dal fatto che ha originato la
condanna non definitiva
Allorquando un’impresa sia esclusa dalla gara
d’appalto per grave illecito professionale derivante dalla condanna del suo
titolare con sentenza penale non definitiva, in assenza di una specifica
disposizione normativa (riferendosi i commi 10 e 10-bis dell’art. 80, d.lgs.
n. 50 del 2016 alla sentenza penale definitiva ovvero alla esclusione
disposta con provvedimento amministrativo), è direttamente applicabile
l’art. 57, par. 7, della direttiva 2014/24/UE, con la conseguenza che la
causa di esclusione non può essere fatta valere se sono decorsi tre anni dal
fatto che ha originato la condanna non definitiva (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che l’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 non
stabilisce alcunché in ordine all’efficacia temporale della causa di
esclusione, laddove il fatto valutabile come illecito professionale, ai
sensi del comma 5, lett. c), derivi da una sentenza penale non definitiva.
I commi 10 e 10-bis dell’art. 80, infatti, si occupano della durata
dell’esclusione, nell’ipotesi in cui essa si tragga dalla sentenza penale di
condanna definitiva, che non fissi la durata della pena accessoria della
incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (commi 10 e
10-bis, primo periodo), ovvero nel caso di adozione di un provvedimento
amministrativo di esclusione (con decorrenza dal passaggio in giudicato
della sentenza, ove contestato in giudizio: comma 10-bis, secondo periodo).
Allorquando invece venga in rilievo un fatto che, come nella specie, sia
valutato quale illecito professionale in base a una sentenza penale di
condanna non definitiva, occorre rifarsi alla “norma di cui all’art. 57,
par. 7, della direttiva 2014/24/UE, il quale ha previsto, in termini
generali, che il periodo di esclusione per i motivi di cui al paragrafo 4
(all’interno del quale rientrano sia la causa di esclusione per gravi
illeciti professionali [lett. c)], sia quella delle «false dichiarazioni […]
richieste per verificare l’assenza di motivi di esclusione» [lett. h)]) non
può essere superiore a «tre anni dalla data del fatto in questione»)”
(di recente, Cons. Stato, sez. V,
27.01.2022 n. 575) (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 31.03.2022 n. 964 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
In sede cautelare è stata posta “l’esigenza di individuare i limiti
temporali entro cui va circoscritta la causa di esclusione in questione”
(ordinanza 13/01/2022 n. 77).
Risulta dalla sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che il
fatto che ha originato la condanna è avvenuto l’11 aprile 2015.
Sebbene non sia fornito agli atti di causa il riferimento alla data di
indizione della gara in questione, essa può dirsi avviata nell’anno 2021
(poiché era fissata al 30/11/2021 la data ultima per la presentazione delle
offerte).
Emerge dunque che tra il fatto rilevante quale illecito professionale e
l’indizione della gara siano decorsi ben più di tre anni (dato che rileva
per quanto si dirà).
Ciò chiarito in punto di fatto, l’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016 non
stabilisce alcunché in ordine all’efficacia temporale della causa di
esclusione, laddove il fatto valutabile come illecito professionale, ai
sensi del co. 5, lett. c), derivi da una sentenza penale non definitiva.
I commi 10 e 10-bis dell’art. 80, infatti, si occupano della durata
dell’esclusione, nell’ipotesi in cui essa si tragga dalla sentenza penale di
condanna definitiva, che non fissi la durata della pena accessoria della
incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (commi 10 e
10-bis, primo periodo), ovvero nel caso di adozione di un provvedimento
amministrativo di esclusione (con decorrenza dal passaggio in giudicato
della sentenza, ove contestato in giudizio: comma 10-bis, secondo periodo).
Allorquando invece venga in rilievo un fatto che, come nella specie, sia
valutato quale illecito professionale in base a una sentenza penale di
condanna non definitiva, occorre rifarsi alla “norma di cui all’art. 57,
par. 7, della direttiva 2014/24/UE, il quale ha previsto, in termini
generali, che il periodo di esclusione per i motivi di cui al paragrafo 4
(all’interno del quale rientrano sia la causa di esclusione per gravi
illeciti professionali [lett. c)], sia quella delle «false dichiarazioni […]
richieste per verificare l’assenza di motivi di esclusione» [lett. h)]) non
può essere superiore a «tre anni dalla data del fatto in questione»)”
(di recente, Cons. Stato, sez. V, 27/01/2022 n. 575, aggiungendo che: “Alla
disposizione contenuta nella direttiva la giurisprudenza del Consiglio di
Stato ha attribuito efficacia diretta nell’ordinamento interno, con
conseguente immediata applicabilità”).
In analoga fattispecie, con la richiamata sentenza si è così ritenuto che: “è
irrilevante il fatto costitutivo di una delle cause di esclusione di cui
all’art. 80 comma 5, lett. c), cit., che sia stato commesso oltre tre anni
prima della indizione della procedura di gara; conclusione alla quale si è
giunti, dapprima, richiamando il principio generale di proporzionalità di
derivazione unionale e osservando come la previsione di un onere
dichiarativo esteso a fatti risalenti oltre un determinato limite temporale
implicasse un evidente contrasto con tale principio, per la possibilità
riconosciuta all’amministrazione appaltante di dare rilevanza a fatti che
–per il tempo trascorso– non rappresentano più un indice su cui misurare
l’affidabilità professionale dell’operatore economico.
Un siffatto generalizzato obbligo dichiarativo, senza l’individuazione di un
preciso limite di operatività, infatti, «potrebbe rilevarsi eccessivamente
oneroso per gli operatori economici imponendo loro di ripercorrere a
beneficio della stazione appaltante vicende professionali ampiamente datate
o, comunque, del tutto insignificanti nel contesto della vita professionale
di una impresa»: in tal senso Cons. Stato, V, 22.07.2019, n. 5171; si veda
anche Cons. Stato V, 06.05.2019, n. 2895).
E poi invocando l’applicazione dell’art. 57, par. 7, della direttiva
2014/24/UE, del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’U.E., del
26.02.2014, il quale stabilisce che «[i]n forza di disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative e nel rispetto del diritto dell’Unione, gli
Stati membri […] determinano il periodo massimo di esclusione nel caso in
cui l’operatore economico non adotti nessuna misura di cui al paragrafo 6
per dimostrare la sua affidabilità. Se il periodo di esclusione non è stato
fissato con sentenza definitiva, tale periodo non supera i cinque anni dalla
data della condanna con sentenza definitiva nei casi di cui al paragrafo 1 e
i tre anni dalla data del fatto in questione nei casi di cui al paragrafo 4»
(paragrafo, quest’ultimo, che –alla lett. c)– contempla la causa di
esclusione dell’operatore economico che si sia reso colpevole di gravi
illeciti professionali). Pertanto, per effetto della diretta applicazione
della disposizione unionale, il fatto astrattamente idoneo a integrare la
causa di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), cessa di avere
rilevanza, a questi fini, una volta decorsi tre anni dalla data della sua
commissione (cfr. Cons. Stato, V, 07.09.2021, n. 6233; V, 26.08.2020, n.
5228; V, 05.08.2020, n. 4934)” (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 31.03.2022 n. 964 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Soccorso
istruttorio nel project financing.
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●
Contratti della Pubblica amministrazione - Finanza di progetto – Fase
preliminare – Natura.
●
Contratti della Pubblica amministrazione - Finanza di progetto – Soccorso
istruttorio – Limiti.
●
Nel project financing la fase preliminare non è da intendersi quale fase del
“procedimento” di scelta della migliore fra una pluralità di offerte sulla
base di criteri tecnici ed economici preordinati (e quindi soggetta alle
ordinarie regole di garanzia partecipativa), ma fase “procedimentalizzata”
di valutazione di un interesse pubblico che giustifichi, alla stregua della
programmazione delle opere pubbliche, l'accoglimento della proposta
formulata dall'aspirante promotore, ove assume prevalenza –nella specificità
della procedura– l’interesse pubblico dell’amministrazione e in cui, di
contro, gli interessi privati rimangono sullo sfondo (1).
●
Nel project financing l’amministrazione non ha alcun obbligo di
attivare il soccorso istruttorio nel senso tradizionale inteso (2).
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(1) Ha ricordato la Sezione che nello specifico contesto del
project financing, in virtù della specialità della disciplina dettata
dall’art. 183, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016, in considerazione della
rappresentata fase prodromica ivi codificata, antecedente al vero e proprio
procedimento selettivo, cui le garanzie partecipative ex lege si
attagliano, l’incompletezza della proposta del privato non obbliga l’ente
all’attivazione del soccorso procedimentale.
In base all’art. 183, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 (ai sensi del quale “A
tal fine l'amministrazione aggiudicatrice può invitare il proponente ad
apportare al progetto di fattibilità le modifiche necessarie per la sua
approvazione”), l’Amministrazione ha il potere (non il dovere) di
disporre integrazioni istruttorie al fine di conseguire gli approfondimenti
necessari a pervenire a una valutazione completa ed esaustiva.
Tale potere non può ritenersi illimitato, ma presuppone pur sempre che la
documentazione prodotta sia tale da consentire ad essa di valutare, sebbene
prima facie, la fattibilità tecnica della proposta e la sua
sostenibilità economica, insieme alla rispondenza della stessa al pubblico
interesse.
Non è applicabile alla procedura del project financing l’art. 10-bis,
l. n. 241 del 1990, in virtù della detta specialità della disciplina dettata
dall’art. 183, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016, che disciplina il peculiare
segmento ivi codificato (antecedente al vero e proprio procedimento
selettivo al quale si applicano le garanzie procedimentali), ove, come
detto, prevale, sugli altri, l’interesse pubblico dell’Amministrazione a
scegliere una proposta progettuale da includere negli strumenti di
programmazione che sia conforme ai suoi desiderata e obiettivi.
(2) Ha chiarito il Tar che tale obbligo non può farsi derivare
dall’art. 183 codice contratti pubblici, norma speciale che trova
applicazione nel caso di specie.
Va evidenziato, in particolare, che l’art. 183, comma 15, d.gs. 18.04.2016,
n. 50 (“A tal fine l'amministrazione aggiudicatrice può invitare il
proponente ad apportare al progetto di fattibilità le modifiche necessarie
per la sua approvazione”) rimette alla valutazione discrezionale
dell’Amministrazione l’attivazione del contraddittorio procedimentale in
ordine ai contenuti del progetto (Cons. Stato, sez. III,
12.10.2020, n. 6042; Tar Toscana, sez. I,
21.11.2019, n. 1593).
La norma fa riferimento alle modifiche da apportare a un progetto
contenutisticamente definito, laddove nella specie si tratterebbe di
completare un progetto carente di opere “importanti”, bisognevole
cioè di una attività sostanzialmente emendativa.
L’Amministrazione, in tale speciale fase, non ha il dovere ma ha piuttosto
il potere di disporre integrazioni istruttorie e tale potere non può
ritenersi illimitato, presupponendo pur sempre che la documentazione
prodotta sia tale da consentire ad essa di valutare, sebbene prima facie,
la fattibilità tecnica della proposta e la sua sostenibilità economica,
insieme alla rispondenza della stessa al pubblico interesse: essa, in altre
parole, deve consentire all’Amministrazione di estrapolare una proposta
completa, coerente e munita dei su indicati requisiti di fattibilità,
sostenibilità e coerenza con l’interesse pubblico, salvi gli approfondimenti
e le integrazioni istruttorie necessarie a pervenire, in ordine ai profili
indicati, ad una valutazione completa ed esaustiva.
Il potere di integrazione, rispondente alla detta finalità, non può certo
risolversi nel completamento di una proposta che sia carente degli elementi
minimi a definirla contenutisticamente e quindi a consentire di valutarla
sotto il profilo della rispondenza al pubblico interesse, perché altrimenti
si risolverebbe non nel perfezionamento documentale di una proposta già
completa nei suoi elementi essenziali, ma nella presentazione di una
proposta ex novo, non essendo la documentazione già presentata idonea a
configurarla (Cons. Stato, sez. III,
12.10.2020, n. 6042).
Tale, invece, è l’esito auspicato dalla parte ricorrente, se si considera
che le carenze progettuali investono proprio i parcheggi ritenuti “necessari”
dall’amministrazione nell’avviso esplorativo e rendono i documenti prodotti
privi degli elementi minimi ai fini della valutazione della proposta sotto i
profili della corrispondenza all’interesse pubblico (palesato nell’avviso).
Peraltro, ove si consideri che, ai sensi dell’art. 183, comma 9, d.lgs. n.
50 del 2016, “le offerte devono contenere un progetto definitivo, una
bozza di convenzione, un piano economico-finanziario asseverato da un
istituto di credito o da società di servizi costituite dall'istituto di
credito stesso ed iscritte nell'elenco generale degli intermediari
finanziari, ai sensi dell'articolo 106 del decreto legislativo 01.09.1993,
n. 385, o da una società di revisione ai sensi dell'articolo 1 della legge
23.11.1939, n. 1966”, non può non rilevarsi che la mancanza nello studio
di fattibilità presentato dalla parte di opere ritenute necessarie (i
parcheggi) induce ad assimilare la fattispecie a quella della mancata
presentazione del documento medesimo, ovvero ad una ipotesi di carenza e non
di irregolarità/incompletezza del documento medesimo, al cui superamento non
si attaglia l’invocato istituto del cd. soccorso istruttorio.
Non sussiste, in ogni caso, un generale obbligo dell’amministrazione di
attivare il soccorso istruttorio/procedimentale nel project financing
in base alla normativa sul procedimento amministrativo, e ciò in ragione
della specialità della disciplina dettata dall’art. 183, comma 15, d.lgs. n.
50 del 2016.
Va ribadito che nel project financing la fase preliminare non è da
intendersi quale fase del “procedimento” di scelta della migliore fra
una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed economici
preordinati (e quindi soggetta alle ordinarie regole di garanzia
partecipativa), ma fase “procedimentalizzata” di valutazione di un
interesse pubblico che giustifichi, alla stregua della programmazione delle
opere pubbliche, l'accoglimento della proposta formulata dall'aspirante
promotore (Cons. Stato, sez. V,
31.08.2015, n. 4035; Tar Molise
24.02.2020, n. 63; Tar Toscana, sez. I,
21.11.2019, n. 1593), ove assume prevalenza –nella specificità della
procedura– l’interesse pubblico dell’amministrazione e in cui, di contro,
gli interessi privati rimangono sullo sfondo (Tar Catania, sez. I, n. 1624
del 2020).
Va infatti chiarito che tale fase prodromica è caratterizzata dalla
valutazione dell’interesse pubblico da parte dell’amministrazione; con essa
non si è ancora entrati nella fase della procedura pubblica di selezione
finalizzata a consentire alle imprese interessate il conseguimento del
sostanziale bene della vita, costituito dalla aggiudicazione di una pubblica
commessa, fase quest’ultima caratterizzata dalla imprescindibile logica
partecipativa.
Ne consegue che, nello specifico contesto del project financing (non
a caso disciplinato dalla normativa speciale di cui si è detto),
l’incompletezza della proposta del privato non obbliga l’ente l’attivazione
del soccorso procedimentale e legittima la determinazione (negativa)
dell’amministrazione che non la ritenga, come nel caso, meritevole di
accoglimento alla luce degli interessi pubblici che essa intende perseguire (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 31.03.2022 n. 933 -
commento tratto da e link a
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SENTENZA
2. Ai fini dell’esame delle doglianze, giova preliminarmente esporre i
principi che reggono l’istituto del project financing.
Occorre premettere che, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale (cfr.,
per una recente applicazione, Cons. Stato, sez. V, 10.02.2020, n.
1005; TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 1624 del 2020), la procedura di
project financing (prima disciplinata dagli artt. 37-bis e ss. della legge
11.02.1994, n. 109, successivamente dagli artt. 153 e ss. del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163 e, quindi, dall’art. 183 del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50), individua due serie procedimentali
strutturalmente autonome, ma biunivocamente interdipendenti sotto il profilo
funzionale, la prima di selezione del progetto di pubblico interesse, la
seconda di gara ad evidenza pubblica sulla base del progetto dichiarato di
pubblica utilità, quest’ultima a sua volta distinta nelle subfasi di
individuazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa e di eventuale
esercizio da parte del promotore del diritto di prelazione.
In tale ambito, la giurisprudenza ha ripetutamente riconosciuto che la fase
preliminare di individuazione del promotore, ancorché procedimentalizzata, è
connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, tale da non potere
essere resa coercibile nel giudizio amministrativo di legittimità, essendo
intesa non già alla scelta della migliore fra una pluralità di offerte sulla
base di criteri tecnici ed economici preordinati, ma alla valutazione di un
interesse pubblico che giustifichi, alla stregua della programmazione delle
opere pubbliche, l’accoglimento della proposta formulata dall’aspirante
promotore e che lo scopo finale dell’intera procedura, interdipendente dalla
fase prodromica di individuazione del promotore, è l’aggiudicazione della
concessione in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
È stato osservato che il primo segmento procedimentale del project financing
-di interesse nel caso di specie e su cui occorre pertanto soffermarsi- si
connota non già in termini di concorsualità (id est di gara comparativa
finalizzata alla individuazione di un vincitore); in questa fase ciò che
rileva è esclusivamente l’interesse della Amministrazione ad includere le
opere e i servizi proposti dal privato negli strumenti di programmazione,
all’uopo nominando “promotore” il soggetto imprenditoriale il cui progetto
sia risultato maggiormente aderente ai desiderata e agli interessi dell’ente
(cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 28.03.2019, n. 691).
...
4.2.1. Infondata è la censura relativa alla erroneità della motivazione.
Come detto in premessa, la presentazione del project financing mira a
intercettare i desiderata dell’ente pubblico che ne è destinatario ai fini
del suo recepimento negli strumenti programmatori dell’ente prima e della
sua realizzazione poi.
Nel caso di specie, i desiderata dell’amministrazione erano stati
esplicitati nell’avviso esplorativo poi annullato, da assumere, comunque, a
riferimento degli intendimenti dell’ente; in esso si prevedeva tra l’altro
“la progettazione di un parcheggio multipiano, con gestione automatizzata
dei flussi in ingresso e in uscita, inclusi i pagamenti. Tale intervento è
necessario in quanto le aree di interfaccia porto-città, soprattutto nello
scalo etneo, prevedono una serie di attività ludiche e di ristorazione da
ipotizzare un’area urbano-portuale per l’accoglienza dei passeggeri in
arrivo e in partenza”.
Ciò posto, lo studio di fattibilità di parte ricorrente –pur presente– non
si sofferma su tali lavori ritenuti “necessari”.
Come sottolineato dalla difesa dell’amministrazione, il proponente medesimo
dichiara di voler realizzare n. 2 parcheggi multipiano da 500 posti auto
cadauno, di cui n. 1 nel Porto di Augusta e n. 1 nel Porto di Catania, ma
tale intendimento non assume alcuna veste progettuale (sia pure in termini
di fattibilità), che la norma prevede invece sia presente nella proposta e
che l’Amministrazione è tenuta a valutare.
A dimostrazione del fatto che lo
stesso proponente rimanda a un momento successivo la redazione del progetto
di fattibilità –che invece il comma 15 richiede si allegato in fase di
presentazione della proposta–, la difesa dell’amministrazione richiama il
documento “14.4.CME_COMPUTO_v004-16ott2021”, in cui figura la voce n. 86
NP25 Progettazione di un parcheggio multipiano che recita “Progettazione di
livello preliminare, definitiva ed esecutiva di un parcheggio multipiano da
500 posti auto” al costo unitario di € 384.082,54 e complessivo per n. 2
parcheggi di € 768.165,08, voce che però non è correlata a una vera e
propria stima economica né ad una allegata progettazione in termini di
studio di fattibilità alla stregua della normativa vigente (cfr. anche artt.
23 e segg. del codice dei contratti pubblici).
4.2.2. Tali argomenti non vengono efficacemente contrastati dalla parte
ricorrente, la quale si limita a replicare che eventuali carenze sarebbero
state colmabili con il soccorso istruttorio, la cui omissione è oggetto di
doglianza con la seconda censura.
Ma anche tale censura è infondata, in quanto, contrariamente a quanto
sostenuto dalla parte ricorrente, nel project financing l’amministrazione
non ha alcun obbligo di attivare il soccorso istruttorio nel senso
tradizionale inteso.
Tale obbligo non può farsi derivare dall’art. 183 codice contratti pubblici,
norma speciale che trova applicazione nel caso di specie.
Va evidenziato, in particolare, che l’art. 183, comma 15, decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 (“A tal fine l'amministrazione aggiudicatrice può invitare il proponente ad apportare al progetto di
fattibilità le modifiche necessarie per la sua approvazione”) rimette alla
valutazione discrezionale dell’Amministrazione l’attivazione del
contraddittorio procedimentale in ordine ai contenuti del progetto (cfr.
Consiglio di Stato, sez. III, del 12.10.2020, n. 6042; TAR Toscana,
sez. I, 21.11.2019, n. 1593).
La norma fa riferimento alle modifiche da apportare a un progetto
contenutisticamente definito, laddove nella specie si tratterebbe di
completare un progetto carente di opere “importanti”, bisognevole cioè di
una attività sostanzialmente emendativa.
L’Amministrazione, in tale speciale fase, non ha il dovere ma ha piuttosto
il potere di disporre integrazioni istruttorie e tale potere non può
ritenersi illimitato, presupponendo pur sempre che la documentazione
prodotta sia tale da consentire ad essa di valutare, sebbene prima facie, la
fattibilità tecnica della proposta e la sua sostenibilità economica, insieme
alla rispondenza della stessa al pubblico interesse: essa, in altre parole,
deve consentire all’Amministrazione di estrapolare una proposta completa,
coerente e munita dei su indicati requisiti di fattibilità, sostenibilità e
coerenza con l’interesse pubblico, salvi gli approfondimenti e le
integrazioni istruttorie necessarie a pervenire, in ordine ai profili
indicati, ad una valutazione completa ed esaustiva.
Il potere di integrazione, rispondente alla detta finalità, non può certo
risolversi nel completamento di una proposta che sia carente degli elementi
minimi a definirla contenutisticamente e quindi a consentire di valutarla
sotto il profilo della rispondenza al pubblico interesse, perché altrimenti
si risolverebbe non nel perfezionamento documentale di una proposta già
completa nei suoi elementi essenziali, ma nella presentazione di una
proposta ex novo, non essendo la documentazione già presentata idonea a
configurarla (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, del 12.10.2020, n.
6042 cit.).
Tale, invece, è l’esito auspicato dalla parte ricorrente, se si considera
che le carenze progettuali investono proprio i parcheggi ritenuti
“necessari” dall’amministrazione nell’avviso esplorativo e rendono i
documenti prodotti privi degli elementi minimi ai fini della valutazione
della proposta sotto i profili della corrispondenza all’interesse pubblico
(palesato nell’avviso).
Peraltro, ove si consideri che, ai sensi dell’art. 183, comma 9, d.lvo n.
50/2016, “le offerte devono contenere un progetto definitivo, una bozza di
convenzione, un piano economico-finanziario asseverato da un istituto di
credito o da società di servizi costituite dall'istituto di credito stesso
ed iscritte nell'elenco generale degli intermediari finanziari, ai sensi
dell'articolo 106 del decreto legislativo 01.09.1993, n. 385, o da
una società di revisione ai sensi dell'articolo 1 della legge 23.11.1939, n. 1966”, non può non rilevarsi che la mancanza nello studio di
fattibilità presentato dalla parte di opere ritenute necessarie (i
parcheggi) induce ad assimilare la fattispecie a quella della mancata
presentazione del documento medesimo, ovvero ad una ipotesi di carenza e non
di irregolarità/incompletezza del documento medesimo, al cui superamento non
si attaglia l’invocato istituto del cd. soccorso istruttorio.
4.2.3. Non sussiste, in ogni caso, un generale obbligo dell’amministrazione
di attivare il soccorso istruttorio/procedimentale nel project financing
in base alla normativa sul procedimento amministrativo, e ciò in ragione
della specialità della disciplina dettata dall’art. 183, co. 15, del d.lgs.
n. 50 del 2016.
Va ribadito che nel project financing la fase preliminare non è da
intendersi quale fase del “procedimento” di scelta della migliore fra una
pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed economici preordinati
(e quindi soggetta alle ordinarie regole di garanzia partecipativa), ma fase
“procedimentalizzata” di valutazione di un interesse pubblico che
giustifichi, alla stregua della programmazione delle opere pubbliche,
l'accoglimento della proposta formulata dall'aspirante promotore (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 31.08.2015, n. 4035; TAR Molise, sez. I, 24.02.2020, n. 63; TAR Toscana, sez. I, 21.11.2019, n. 1593), ove assume
prevalenza –nella specificità della procedura– l’interesse pubblico
dell’amministrazione e in cui, di contro, gli interessi privati rimangono
sullo sfondo (TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 1624 del 2020).
Va infatti chiarito che tale fase prodromica è caratterizzata dalla
valutazione dell’interesse pubblico da parte dell’amministrazione; con essa
non si è ancora entrati nella fase della procedura pubblica di selezione
finalizzata a consentire alle imprese interessate il conseguimento del
sostanziale bene della vita, costituito dalla aggiudicazione di una pubblica
commessa, fase quest’ultima caratterizzata dalla imprescindibile logica
partecipativa.
Ne consegue che, nello specifico contesto del project financing (non
a caso disciplinato dalla normativa speciale di cui si è detto),
l’incompletezza della proposta del privato non obbliga l’ente l’attivazione
del soccorso procedimentale e legittima la determinazione (negativa)
dell’amministrazione che non la ritenga, come nel caso, meritevole di
accoglimento alla luce degli interessi pubblici che essa intende perseguire (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 31.03.2022 n. 933 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è consolidata nel ritenere che, attesa la natura ripristinatoria dell'ordine di demolizione, la sanzione demolitoria può
essere legittimamente irrogata nei confronti del proprietario del bene,
anche se diverso dal responsabile dell'abuso e anche se estraneo alla
commissione dell'abuso stesso.
E, invero, come emerge dal tenore letterale dell’art. 31 DPR 380/2001,
destinatari della sanzione demolitoria, in forma non alternativa ma
congiunta, sono sia il proprietario che il responsabile dell'abuso.
Pertanto, l’ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario dell'immobile oggetto di intervento abusivo
sebbene non responsabile dell’abuso, trattandosi di illecito permanente
sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo
o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo stato di buona fede
rispetto alla commissione dell'illecito.
Mentre la condizione di estraneità o di buona fede soggettiva al momento
della commissione dell'illecito può assumere rilievo unicamente ai fini
della successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
---------------
Si controverte sulla legittimità dei provvedimenti in epigrafe indicati con
i quali il Comune di San Giovanni Lupatoto ha ordinato la demolizione di una
serie di manufatti abusivi (fabbricato ad uso ufficio della superficie
coperta di 100 mq; tre capannoni con struttura in ferro e copertura in nylon
per il ricovero di camion; un muro in calcestruzzo eretto in prossimità di
un corso d’acqua) realizzati su terreni agricoli soggetti a vincolo
paesaggistico nonché respinto una domanda di rilascio di un permesso di
costruire in sanatoria relativa al manufatto destinato ad uso ufficio.
Con separati ricorsi, integrati da motivi aggiunti, riuniti in corso di
causa per ragioni di connessione, la società ricorrente, proprietaria del
complesso immobiliare situato in zona impropria (ex agricola) su cui sorgono
i manufatti abusivi e viene esercitata l’attività produttiva di
autotrasporto, ha impugnato i prefati provvedimenti, deducendone
l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere.
...
I ricorsi all’esame non meritano accoglimento per le ragioni di seguito
sinteticamente esposte.
Le opere abusive per cui è causa sono state realizzate in una zona
impropria, soggetta a una scheda puntuale (n. 3 del P.I.) che vieta
qualsiasi ampliamento dell’attività produttiva ivi esercitata.
Ciò posto, la censura con cui la ricorrente deduce l’illegittimità
dell’ordine di demolizione, asserendo di non essere responsabile dell’abuso,
poiché proprietaria incolpevole, non merita condivisione.
A prescindere da ogni considerazione in ordine alla fondatezza delle
deduzioni del Comune in ordine all’esistenza di un unico centro decisionale,
la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che, attesa la natura
ripristinatoria dell'ordine di demolizione, la sanzione demolitoria può
essere legittimamente irrogata nei confronti del proprietario del bene,
anche se diverso dal responsabile dell'abuso e anche se estraneo alla
commissione dell'abuso stesso.
E, invero, come emerge dal tenore letterale dell’art. 31 DPR 380/2001,
destinatari della sanzione demolitoria, in forma non alternativa ma
congiunta, sono sia il proprietario che il responsabile dell'abuso.
Pertanto, l’ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario dell'immobile oggetto di intervento abusivo
sebbene non responsabile dell’abuso, trattandosi di illecito permanente
sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo
o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo stato di buona fede
rispetto alla commissione dell'illecito. Mentre la condizione di estraneità
o di buona fede soggettiva al momento della commissione dell'illecito può
assumere rilievo unicamente ai fini della successiva acquisizione gratuita
al patrimonio comunale (ex multis Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.01.2016 sentenza n. 1129 del 10.12.2018 n. 358 e 30.03.2015 n. 1650; TAR
Campania Napoli Sez. II, 25/09/2017, n. 4482; Tar Veneto, Sez, II n. 129 del
10.12.2018) (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 31.03.2022 n. 522 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La sanatoria ordinaria di cui all’art. 36
del DPR 06.06.2001, n. 380, presuppone il requisito della doppia conformità
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dell’abuso, sia al momento della presentazione della domanda.
---------------
L'istituto dell’accertamento di conformità previsto dall’art.
36 del DPR 06.06.2001, n. 380 disciplina il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria “subordinandolo alla doppia conformità degli
interventi realizzati con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia
al momento della realizzazione degli stessi, che a quello della
presentazione della domanda, in linea con la sua funzione, che è quella «di
garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia
durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la
presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità»".
---------------
L’ordinanza di demolizione
non necessità di una valutazione da parte dell’autorità procedente in ordine
alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino
della legalità violata, essendo all’uopo sufficiente che nella motivazione
si faccia espresso richiamo al comprovato carattere abusivo dell’opera.
---------------
Inapplicabile è l’istituto della sanatoria giurisprudenziale, ormai
definitivamente abbandonato dalla giurisprudenza, sia amministrativa, sia
della Corte Costituzionale.
Le sopravvenienze positive non consentono di sanare gli
abusi pregressi. Diversamente opinando, si incentiverebbe l’abusivismo e si
premierebbe la condotta del soggetto che ha trasgredito le norme.
Le
sopravvenienze, anche positive, minerebbero la certezza e la sicurezza dei
rapporti giuridici, oltre che il buon andamento della Pubblica
Amministrazione.
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Si controverte sulla legittimità dei provvedimenti in epigrafe indicati con
i quali il Comune di San Giovanni Lupatoto ha ordinato la demolizione di una
serie di manufatti abusivi (fabbricato ad uso ufficio della superficie
coperta di 100 mq; tre capannoni con struttura in ferro e copertura in nylon
per il ricovero di camion; un muro in calcestruzzo eretto in prossimità di
un corso d’acqua) realizzati su terreni agricoli soggetti a vincolo
paesaggistico nonché respinto una domanda di rilascio di un permesso di
costruire in sanatoria relativa al manufatto destinato ad uso ufficio.
Con separati ricorsi, integrati da motivi aggiunti, riuniti in corso di
causa per ragioni di connessione, la società ricorrente, proprietaria del
complesso immobiliare situato in zona impropria (ex agricola) su cui sorgono
i manufatti abusivi e viene esercitata l’attività produttiva di
autotrasporto, ha impugnato i prefati provvedimenti, deducendone
l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere.
...
Va, altresì, respinta la censura con cui la ricorrente deduce
l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, sostenendo che il manufatto
abusivamente realizzato ad uso uffici dovrebbe potersi sanare con il
permesso di costruire in deroga, presentato attraverso Suap come nuova
costruzione, ai sensi dell’art. 3 della LRV n. 55 del 2012, che prevede delle
procedure urbanistiche semplificate volte ad agevolare l’insediamento e
l’ampliamento delle attività d’impresa.
Detta norma, in base alla quale sono ammessi in deroga allo strumento
urbanistico gli interventi che comportano ampliamenti di attività produttive
in difformità dallo strumento urbanistico purché entro il limite massimo
dell’80 per cento del volume e della superficie netta/lorda esistente e,
comunque, in misura non superiore a 1.500 mq -vigente al tempo in cui
veniva realizzato l’abuso e al momento della domanda di sanatoria- secondo
la ricorrente consentirebbe la sanabilità per doppia conformità dell’opera
abusiva.
L’assunto non merita condivisione in quanto la sanatoria ordinaria di cui
all’art. 36 del DPR 06.06.2001, n. 380, presuppone il requisito della
doppia conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dell’abuso, sia al momento della presentazione
della domanda, mentre l’art. 3 L.R.V. n 55 del 2012 introduce un
procedimento semplificato tramite Suap di permesso di costruire in deroga,
per l’ampliamento, in difformità allo strumento urbanistico, di attività
produttiva.
Pertanto le norme della L.R.V. n 55 del 2012 richiamate dalla ricorrente,
come condivisibilmente affermato dalla circolare del Presidente della Giunta
regionale n. 1 del 20.01.2015, non possono essere fondatamente invocate
per ottenere la sanatoria degli abusi edilizi.
Si tratta, infatti, di norme che per la loro operatività presuppongono
proprio la non conformità agli strumenti urbanistici vigenti dell’intervento
edilizio da sanare, tant’è vero che prevedono entrambe una deroga agli
strumenti urbanistici che deve ritenersi ammissibile nei soli casi e negli
stretti limiti dalle stesse previsti, in quanto si tratta di disposizioni
che hanno carattere eccezionale e derogatorio.
Come rimarcato da Tar Ve n. 56/2019, una diversa interpretazione che
attribuisse agli artt. 2 e 3 della L.R.V. n 55 del 2012 il significato di
una liberalizzazione, da parte del legislatore regionale, di una categoria
di interventi edilizi che per la normativa statale sono soggetti al rilascio
di un permesso di costruire, o il significato della loro compatibilità con
tutte le destinazioni previste dallo strumento urbanistico, contrasterebbe
con quanto affermato dalla Corte costituzionale in materia di riparto delle
competenze legislative tra Stato e Regioni in materia edilizia, circa la
natura di principi fondamentali della materia sia delle disposizioni che
definiscono le categorie di interventi edilizi “perché è in conformità a
queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con
riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative
sanzioni, anche penali” (cfr. Corte Costituzionale 23.11.2011, n.
309), sia dell’istituto dell’accertamento di conformità previsto dall’art.
36 del DPR 06.06.2001, n. 380, che disciplina il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria “subordinandolo alla doppia conformità degli
interventi realizzati con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia
al momento della realizzazione degli stessi, che a quello della
presentazione della domanda, in linea con la sua funzione, che è quella «di
garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia
durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la
presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità»" (cfr.
Corte Costituzionale, 05.04.2018, n. 68; id. 08.11.2017, n. 232; id.
11.05.2017, n. 107; id. 29.05.2013, n. 101).
Va disattesa anche la censura con cui la ricorrente deduce l’imprecisione
del provvedimento impugnato nella parte in cui descrive l’area oggetto di
eventuale acquisizione al patrimonio comunale, atteso che, in disparte ogni
considerazione in ordine all’attualità dell’interesse a ricorrere avverso
siffatta descrizione, in materia di abusi edilizi l’omessa o imprecisa
indicazione dell’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico
non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione,
atteso che il provvedimento di acquisizione ha una sua autonomia e viene
adottato successivamente alla detta inottemperanza.
Sono, infondate, anche le ulteriori doglianze avanzate dalla ricorrente.
L’ordinanza di demolizione non necessità di una valutazione da parte
dell’autorità procedente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale al ripristino della legalità violata, essendo all’uopo
sufficiente che nella motivazione si faccia espresso richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’opera (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n 9 del
2017).
Inapplicabile è anche l’istituto della sanatoria giurisprudenziale, ormai
definitivamente abbandonato dalla giurisprudenza, sia amministrativa, sia
della Corte Costituzionale (C.d.S. sez. VI, 09/09/2019, n. 6107; C.d.S., sez.
VI, 07.09.2018, n. 5274; C.d.S., sez. VI, 05.03.2018, n. 1389; Corte
Cost. n. 101/2013).
Le sopravvenienze positive non consentono di sanare gli
abusi pregressi. Diversamente opinando, si incentiverebbe l’abusivismo e si
premierebbe la condotta del soggetto che ha trasgredito le norme. Le
sopravvenienze, anche positive, minerebbero la certezza e la sicurezza dei
rapporti giuridici, oltre che il buon andamento della Pubblica
Amministrazione.
Per tutto quanto sin qui esposto, i ricorsi riuniti, comprensivi di motivi
aggiunti, devono essere respinti (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 31.03.2022 n. 522 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di incrementi volumetrici non può per definizione conciliarsi
con la categoria di intervento del risanamento conservativo, la quale
richiede che l’edificio rimanga identico sotto il profilo tipologico,
strutturale e formale, mentre ogni intervento che comporti l’addizione di
volumi è riconducibile quantomeno alla ristrutturazione edilizia.
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3.1. Le censure sono infondate.
L’esistenza di un aumento volumetrico di circa 25 mc, imputabile alla
realizzazione di cordoli in cemento armato sulle pareti portanti e agli
interventi su solai e copertura dell’edificio, è riconosciuta dallo stesso
ricorrente nell’istanza di sanatoria (si veda la relazione tecnica a corredo
dell’istanza).
Altrettanto pacifica è l’avvenuta realizzazione di volumi interrati per
oltre 140 mc, che stando alla prospettazione sarebbero tuttavia irrilevanti
dal punto vista urbanistico-edilizio ai sensi dell’art. 15 delle n.t.a. del
regolamento urbanistico comunale, in quanto locali accessori dall’altezza
non eccedente i 2,40 m. La tesi è tuttavia smentita dagli accertamenti
svolti dalla Polizia Municipale di Greve in Chianti, dai quali risulta che i
locali in questione erano rifiniti e adibiti a soggiorno, disimpegno,
servizio igienico e locale tecnico/lavanderia (si vedano le relazioni di
sopralluogo del 15 ottobre e del 03.12.2013, in atti), vale a dire
all’uso abitativo stabile, incompatibile con la natura accessoria degli
stessi.
Ne discende la radicale inapplicabilità dell’invocato art. 15 delle n.t.a.
di R.U., e questo indipendentemente dal fatto che l’altezza interna dei
locali coincida con quella massima stabilita dalla norma, giacché a rilevare
è, evidentemente, la destinazione impressa ai locali dall’intervento
edilizio e non la loro altezza (se poi l’altezza, come nella specie, non
corrisponde a quella minima richiesta a fini igienico-sanitari, si è a ben
vedere in presenza di un elemento che rende a maggior ragione inammissibile
la destinazione stessa).
A questo si aggiunga, più in generale, che la realizzazione di incrementi
volumetrici non può per definizione conciliarsi con la categoria di
intervento del risanamento conservativo, la quale richiede che l’edificio
rimanga identico sotto il profilo tipologico, strutturale e formale, mentre
ogni intervento che comporti l’addizione di volumi è riconducibile
quantomeno alla ristrutturazione edilizia (fra le molte, cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 10.03.2021, n. 2038; id., sez. VI, 09.10.2020, n. 5992; id.,
sez. V, 12.11.2015, n. 5184). E infatti l’art. 37 delle norme di
attuazione del regolamento urbanistico di Greve in Chianti include al più,
nel risanamento conservativo, gli interventi di riorganizzazione degli spazi
esistenti, non certo l’aggiunta di nuove volumetrie.
Il diniego della sanatoria rappresenta dunque, da parte dell’amministrazione
resistente, un atto doveroso, le cui ragioni emergono con assoluta chiarezza
dal provvedimento impugnato e danno altresì conto della inaccoglibilità
delle osservazioni endoprocedimentali del ricorrente (queste ultime, com’è
noto, non richiedono puntuale confutazione, atteso che a fondare il diniego
è sufficiente la motivazione resa a sostegno dello stesso: per tutte, cfr.
Cons. Stato, sez. V, 20.10.2021, n. 7054) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 31.03.2022 n. 432 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA: Deroga
ai limiti di emissioni fissati dalla legge.
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Inquinamento – Emissioni – Limiti – Deroghe – Possibilità – Onere della
prova.
In materia ambientale, è il titolare dell’interesse
legittimo pretensivo ad ottenere una deroga ai limiti di emissioni fissati
dalla legge che deve fornire la prova che la concessione di tale deroga non
rilevi in danno della salubrità dell’ambiente (fattispecie relativa al
rilascio di una A.I.A., ex art. 29-sexies, d.lgs. n. 152 del 2006, che
negava la deroga al superamento di emissioni di una sostanza chimica, in un
collettore di scarico di reflui, che aveva contribuito ad aumentare
emissioni odorigene moleste) (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che rispetto ad un interesse di pretesa
-quale è quello ad ottenere una deroga ai limiti di emissioni fissati dalla
legge- sia l’interessato a dover dare prova, nel corso del procedimento, del
ricorrere di tutti i presupposti che la legge ritiene necessari perché possa
essere accordata l’“utilità finale” o il “bene della vita”, e
non competa, per converso, all’amministrazione dover dare prova dell’assenza
dei suddetti presupposti.
Un’eventuale prova del contrario, avrebbe dovuto essere offerta, dunque,
durante il procedimento, dalla società che aveva interesse all’ottenimento
della deroga e non già dall’amministrazione chiamata a decidere in merito (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.03.2022 n. 2344 -
commento tratto ad e link a
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SENTENZA
11.1. Giova preliminarmente enucleare l’esatta portata del thema
decidendum.
11.1.1. Si controverte sulla legittimità di quella prescrizione del
provvedimento di rinnovo dell’autorizzazione unica ambientale, che ha
respinto l’istanza della società appellante, finalizzata al protrarsi della
deroga al limite fissato dalla legge, allo scarico dei reflui contenenti
sostanze aldeidi dall’01.06.2015.
11.1.2. L’oggetto del presente giudizio è dunque costituito dalla tutela di
un interesse pretensivo della suddetta società, la quale, facendo leva sulle
ragioni della produzione, intende ottenere un’utilità consistente nella
facoltà di non rispettare il limite ordinariamente imposto dalla legge per
gli scarichi in acqua dei reflui della sostanza chimica da essa prodotta.
11.1.3. Rispetto a questo interesse di pretesa e all’utilità domandata
dall’istante, il quadro normativo assegna un’ampia facoltà di scelta (e,
pertanto, un’ampia discrezionalità) all’amministrazione, chiamata a
contemperare le richiamate ragioni della produzione con gli altri interessi
coinvolti nella vicenda, quali, principaliter, quello primario
dell’ambiente, normativamente salvaguardato dalla disciplina dell’A.i.a., e
quello della popolazione dei Comuni limitrofi allo stabilimento industriale
al pieno e indisturbato godimento e alla salubrità delle loro proprietà,
leso dalle immissioni olfattive moleste.
11.2. In particolare, quanto alla disciplina di riferimento, va ricordato,
per quel che maggiormente interessa la delibazione della presente
controversia, che l’art. 29-sexies d.lgs. n. 152/2006 prevede:
- al primo comma che “L’autorizzazione integrata ambientale
rilasciata ai sensi del presente decreto, deve includere tutte le misure
necessarie a soddisfare i requisiti di cui ai seguenti commi del presente
articolo nonché di cui agli articoli 6, comma 16, e 29-septies, al fine di
conseguire un livello elevato di protezione dell'ambiente nel suo complesso.
[…]”;
- al terzo comma, prima frase, che “L’autorizzazione integrata
ambientale deve includere valori limite di emissione fissati per le sostanze
inquinanti…”;
- al terzo comma, ultimo periodo, che “Se del caso i valori
limite di emissione possono essere integrati o sostituiti con parametri o
misure tecniche equivalenti”;
- al comma 4-bis che “L'autorità competente fissa valori limite
di emissione che garantiscono che, in condizioni di esercizio normali, le
emissioni non superino i livelli di emissione associati alle migliori
tecniche disponibili (BAT-AEL)…”;
11.3. Delineato il quadro composito della vicenda amministrativa, degli
interessi coinvolti nel procedimento di rinnovo dell’a.i.a. e della
normativa di riferimento, il Collegio ritiene che l’appello sia infondato.
11.4. L’amministrazione chiamata a provvedere in deroga al limite di legge,
pur disponendo di un’ampia discrezionalità al riguardo, si muove pur sempre
in un quadro normativo che procede secondo la diade “regola-eccezione” (arg.,
da un lato, dall’art. 29-sexies, comma 3, prima frase, e comma 4-bis, e,
dall’altro, dall’art. 29-sexies, comma 3, ultimo periodo: “se del caso…”) e,
in base ai consolidati principi espressi a più riprese da questo Consiglio,
quando ciò avviene è la decisione amministrativa che risulta eccezionale a
necessitare
- di una più rigorosa valutazione -(cfr., ad es., in materia di
autorizzazione paesaggistica, Cons. Stato, sez. VI, 06.12.2021 n. 8083,
§ 3, tredicesimo periodo; in materia di applicazione dell’art. 34 d.P.R. n.
380/2001, in luogo dell’ordinane di demolizione, Cons. Stato, sez. VI, 03.01.2022, n. 1, sez. VI,
01.03.2021, n. 1743; in materia di
accertamento della data di realizzazione del manufatto, ai fini della
concessione del provvedimento di condono edilizio, Cons. Stato, sez. II, 09.01.2020, n. 211, sez. IV, 11.10.2017, n. 4703, sez. V, 12.10.1999, n. 1440; in materia di deroga ai valori del costo del lavoro
risultanti dalle tabelle ministeriali nelle offerte nelle gare pubbliche, Cons. Stato, sez. V, 28.06.2021, n. 4868; sez. V,
03.05.2021, n.
3473)- e
- di una più forte ed articolata motivazione rispetto a quella del
provvedimento che invece si conformi al parametro ordinariamente previsto
dalla legge (cfr., in materia di principio di rotazione nelle procedure di
affidamento dei contratti pubblici, Cons. Stato, sez. V, 27.04.2020, n.
2655; sez. III, 04.02.2020, n. 875; sez. V, 05.11.2019, n. 7539;
in materia di ordinanze di protezione civile, Cons. Stato, sez. VI, 10.02.2015, n. 701, § 1, quarto periodo; in materia di diniego di
condono, malgrado il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione
dell’abuso, Cons. Stato, sez. VI, 20.05.2021, n. 3904; in materia di
indizione di un nuovo concorso, a fronte di una graduatoria concorsuale
ancora efficace, Cons. Stato, sez. VI, 09.04.2015, n. 1796; in materia di
informativa antimafia, Cons. Stato, sez. III, 19.09.2011, n. 5262; in
materia di superamento degli standard minimi, nella pianificazione
urbanistica, Cons. Stato, Ad. pl. n. 24 del 1999 e n. 7 del 2007; sul piano
normativo, si pensi alle previsioni dell’art. 42-bis, d.P.R. n. 327/2001,
nonché dell’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50/2016).
11.4.1. Peraltro, nel caso di specie, l’amministrazione provinciale ha
compiutamente dato conto dell’istruttoria che ha condotto al diniego
dell’ulteriore deroga al limite di legge, elencando le numerose segnalazioni
che si sono susseguite nel corso degli anni; dei numerosi incontri tecnici
che sono stati convocati “in relazione anche alla problematica connessa con
le emissioni odorigene”; della diffida n. 2878 del 05.08.2011, che ha
imposto alla società di “descrivere gli interventi attuati e/o previsti per
limitare la formazione delle emissioni odorigene” e che non risulta essere
stata impugnata dalla Pe.; di quanto rappresentato dalla società Pr.se. nel corso dell’incontro del 27.10.2014, ossia che “quando le
produzioni di Bi-Mp. sono attive, presso l’impianto di depurazione di
Olgiate Olona si avvertono emissioni odorigene caratteristiche”, e nel corso
della conferenza di servizi del 16.04.2015, ossia che il refluo
industriale contiene molecole capaci di originare l’odore avvertibile nel
pozzetto di ingresso e in altre sezioni dell’impianto di depurazione
consortile e nell’area limitrofa all’impianto stesso, quando è attiva la
produzione del prodotto BisMpa, senza che l’impianto di depurazione di
Olgiate Olona sia in grado di fare alcunché (“nulla può fare”), per
abbattere l’odore generato dal refluo industriale.
11.4.2. I superiori assunti consentono, allora, di dichiarare infondate le
censure della società sull’asserito difetto di istruttoria e di motivazione,
formulate con il primo motivo di ricorso (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.03.2022 n. 2344 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Cambio destinazione uso fra categorie edilizie omogenee e
disomogenee – Cambio destinazione uso tra locali accessori e
vani ad uso residenziale – Cambio destinazione d’uso senza o
con la realizzazione di opere edilizie – Disciplina
applicabile – Titolo abilitativo necessario – D.lgs. n.
222/2016 – Artt. 3, 10, 23-ter, 44, d.p.r. n. 380/2001.
In materia urbanistica, solo il cambio
di destinazione d’uso fra categorie edilizie omogenee non
necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul
carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga
tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non
omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso
residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti
incidenti sul carico urbanistico, con conseguente
assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò
indipendentemente dall’esecuzione di opere che, comunque,
nel caso di specie sono presenti.
Sicché, neanche il cambiamento di destinazione d’uso senza
realizzazione di opere edilizie costituirebbe un’attività
del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare
la vanificazione di ogni previsione urbanistica che
disciplini l’uso nel territorio del singolo Comune.
In definitiva, nel caso di trasformazione dei vani accessori
in vani abitabili, è da ritenersi che venga meno il rispetto
degli elementi formali/strutturali dell’organismo edilizio
(intendendosi per “elementi formali” quelli attinenti alla
disposizione dei volumi, elementi architettonici che
distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando la
sua immagine caratteristica; mentre, gli “elementi
strutturali” sono quelli che materialmente compongono la
struttura dell’organismo edilizio), i quali non vanno
giustapposti, bensì considerati sinteticamente come
espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è
connotato non solo tipologicamente, ma anche con
individualità, dalla previsione di una determinata
proporzione di elementi accessori, la cui eliminazione
trascende l’ambito della mera conservazione, sia pure intesa
dinamicamente.
Questo tipo di mutamento (da locale accessorio o pertinenza
a vano abitabile, attuabile con un intervento di tipo
ristrutturativo), presenta allora carattere urbanisticamente
rilevante, così da richiedere il permesso di costruire per
la sua esecuzione, essendo del tutto assimilabile ad un
cambio di categoria riconducibile all’art. 23-ter, comma 1,
d.P.R. n. 380 del 2001, come tale avente rilevanza
urbanistica ai sensi del punto 39 della tabella A–Edilizia
allegata al decreto SCIA 2 (d.lgs. n. 222/2016)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.03.2022 n. 11303 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistici – Ampliamento degli interventi di
manutenzione straordinaria – Legge n. 164/2014 –
Fattispecie: cambio di destinazione d’uso tra locali
accessori e vani ad uso residenziale.
In tema di reati urbanistici, a seguito
delle modifiche apportate dall’art. 17 comma primo lett. b),
n. 1 e 2 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del
2014), deve ritenersi ampliata la categoria degli interventi
di manutenzione straordinaria, comprensiva anche del
frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con
esecuzione di opere, anche se comportanti una variazione di
superficie o del carico urbanistico, per i quali pertanto,
ove rimangano immutate la volumetria complessiva e la
originaria destinazione d’uso, non è più necessario il
permesso di costruire.
Nella fattispecie, tuttavia, è altrettanto vero che il
cambio di utilizzo dei locali accessori del p.t. in due
distinte unità abitative, in difformità dello stato
autorizzato dell’immobile, necessitava del permesso di
costruire. Pertanto, non è possibile ritenere
urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage,
di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile;
senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità
del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento
della superficie residenziale e della relativa volumetria
autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Quindi, deve ritenersi che il cambio di destinazione d’uso
tra locali accessori e vani ad uso residenziale integra una
modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico
urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del
permesso di costruire, e ciò indipendentemente
dall’esecuzione di opere.
...
Reati edilizi – Verifica di atti della pubblica
amministrazione – Correttezza dei procedimenti
amministrativi – Poteri del giudice penale – Disapplicazione
dell’atto amministrativo illegittimo
In tema di reati edilizi, l’accertamento
della correttezza dei procedimenti amministrativi per il
rilascio dei titoli abilitativi è un giudizio di fatto,
fondato sulla verifica di atti della pubblica
amministrazione, riservato al giudice di merito ed
insindacabile in sede di legittimità, concernente, invece,
la correttezza giuridica di detto accertamento.
Mentre per le violazioni urbanistiche, l’interesse protetto
dall’art. 44, DPR n. 380/2001 non è quello del rispetto
delle prerogative della pubblica amministrazione nel
controllo dell’attività edilizia e perciò della regolarità
delle procedure di rilascio dei titoli abilitativi, ma
quello sostanziale della protezione del territorio in
conformità alla normativa urbanistica, perciò non si pone un
problema di disapplicazione dell’atto amministrativo
illegittimo, quanto di controllo della legittimità di un
atto amministrativo che costituisce un elemento costitutivo
o un presupposto del reato. Qualora emerga una difformità
tra la normativa urbanistica ed edilizia e l’intervento
realizzato, per il quale sia stato rilasciato un titolo
abilitativo, il giudice penale è in ogni caso tenuto a
verificare incidentalmente la legittimità di quest’ultimo,
senza che ciò comporti la sua eventuale “disapplicazione”,
in quanto tale provvedimento non è sufficiente a definire di
per sé –ovvero prescindendo dal quadro delle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, e dalle rappresentazioni di
progetto alla base della sua emissione– lo statuto di
legalità dell’opera realizzata.
L’esercizio di una potestà riservata agli organi
dell’Amministrazione si realizza quando il giudice con il
provvedimento impugnato abbia usurpato poteri amministrativi
(ad esempio, annullando o revocando un atto amministrativo)
e, cioè, abbia esercitato una potestà tipica spettante
all’amministrazione.
Non sussiste, invece, l’esercizio di una siffatta potestà
allorché il giudice ordinario, nella specie penale, è
chiamato a verificare incidentalmente la legittimità
dell’atto amministrativo, estrinsecandosi infatti tale
potestà nel consentito controllo della legittimità di un
atto, che costituisce un elemento costitutivo o un
presupposto del reato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.03.2022 n. 11303 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
permesso di costruire in sanatoria, se per un verso non può certo essere
soggetto a condizioni modificative di quanto realizzato abusivamente, può
legittimamente introdurre o recepire limitate prescrizioni intese ad imporre
correttivi esecutivi sull’esistente, ad esempio al fine di mitigare
l’impatto paesaggistico del manufatto, in termini tali da renderlo più
coerente con il contesto ambientale, qualora si tratti di integrazioni
minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da agevolare il
rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio
e fattuale proprio del singolo territorio di riferimento.
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XI. Da ultimo vale evidenziare che non appare pertinente al caso di specie
la giurisprudenza citata dalla parte ricorrente che ammette la possibilità
di sanatoria parziale o con prescrizioni, poiché rigorosi devono ritenersi i
limiti alla relativa ammissibilità, secondo quanto statuito dalla
giurisprudenza condivisa anche da parte di questo Tribunale, (cfr. Sentenza
TRGA di Trento 20.04.2021, n. 60: “il permesso di costruire in sanatoria,
se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di
quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire
limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente,
ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in
termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale (cfr. in
termini Cons. St., VI, 28.06.2016, n. 2860), qualora si tratti di
integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da
agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto
regolatorio e fattuale proprio del singolo territorio di riferimento (cfr.
ad es. Cons. St., IV, 08.09.2015 n. 4176) (così Consiglio di Stato, Sez. VI,
28.09.2020, n. 5683)”.
Infatti, la natura degli interventi realizzati e il contrasto sostanziale
degli stessi con le previsioni urbanistiche, rendono inapplicabile alla
controversia in esame la fattispecie reclamata (TRGA Trentino Alto
Adige-Trento,
sentenza 28.03.2022 n. 73 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Zona sottoposta a vincolo
paesaggistico – Complesso turistico ricettivo – DIRITTO
URBANISTICO – EDILIZIA – Contravvenzione di lottizzazione
abusiva – Opere eseguite in assenza di autorizzazione o in
difformità da essa – Fattispecie – DIRITTO PROCESSUALE
PENALE – Ordinanze di sequestro preventivo o probatorio –
Richiesta di dissequestro – Ricorso per cassazione – Limiti
– Artt. 44, lett. c), d.P.R. 380/2001 e 181 d.Lgs. 42/2004.
In materia di contravvenzione di
lottizzazione abusiva in una zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, commessa in relazione ad opere eseguite in
assenza di autorizzazione o in difformità da essa ai sensi
dell’art. 44, lett. c), d.P.R. 380/2001 in combinato con
l’art. 181 d.Lgs. 42/2004, il ricorso per cassazione contro
ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o
probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale
nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o
in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali
da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del
provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti
minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi
inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito
dal giudice.
In tal misura, è inammissibile la richiesta di dissequestro
basata sulle ragioni fiscali addotte a giustificazione
dell’operazione catastale eseguita dall’indagato, così come
l’anteriorità di parte di essa rispetto alla realizzazione
delle opere abusive nonché sull’avvenuta demolizione delle
opere, risultando evidente come comunque il frazionamento
catastale riguardasse l’area interessata dalle costruzioni
illegittimamente realizzate con conseguente evidenza della
sua mancata ricomposizione nello status quo ante.
Fattispecie: realizzazione di un complesso turistico
ricettivo in violazione del titolo autorizzativo che
consentiva, a seguito di SCIA presentata l’installazione
solo di opere a carattere precario ed amovibile per un
periodo di 180 giorni (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.03.2022 n. 10758 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della determinazione dell’effettiva proprietà del bene, alle risultanze
catastali non può essere riconosciuto un definitivo valore probatorio, bensì
una valenza meramente sussidiaria rispetto a quanto desumibile dagli atti
traslativi.
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In ogni caso giova evidenziare che, ai fini della
determinazione dell’effettiva proprietà del bene, alle risultanze catastali
non può essere riconosciuto un definitivo valore probatorio, bensì una
valenza meramente sussidiaria rispetto a quanto desumibile dagli atti
traslativi (ex plurimis TAR Veneto, Sez. II, 29/10/2020, n. 1022; TAR
Campania, Salerno, Sez. II, 11/09/2015, n. 1902; Cons. Stato, Sez. VI,
05/01/2015, n. 5)
(TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 25.03.2022 n. 493 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
comma 2-bis dell'art. 21-nonies della L. n. 241
del 1990 va interpretato nel senso che “la falsa rappresentazione dei fatti
da parte del privato comporta l’inapplicabilità del termine di diciotto mesi
per l’annullamento d’ufficio introdotto, nell’art. 21-nonies, L. n. 241 del
1990, dall’art. 6, L. 07.08.2015 n. 124, e perciò senza neppure
richiedere alcun accertamento processuale penale”.
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La
circostanza per cui la ricorrente ed il suo progettista non avrebbero potuto
verificare lo stato dei luoghi, rappresentandolo nel progetto, per
l’impossibilità di accedere al fabbricato, è contraddetta in quanto nella
pratica del 2018 il tecnico “descrive compiutamente il fabbricato e comunque
allega documentazione fotografica, testimoniando esso stesso l’avvenuto
accesso al fabbricato” e dà atto di avervi svolto “precedenti sopralluoghi”.
Ne discende l’infondatezza del secondo motivo di ricorso, in quanto per
costante giurisprudenza il comma 2-bis dell'art. 21-nonies della L. n. 241
del 1990 va interpretato nel senso che “la falsa rappresentazione dei fatti
da parte del privato comporta l’inapplicabilità del termine di diciotto mesi
per l’annullamento d’ufficio introdotto, nell’art. 21-nonies, L. n. 241 del
1990, dall’art. 6, L. 07.08.2015 n. 124, e perciò senza neppure
richiedere alcun accertamento processuale penale” (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14/01/2022, n. 300; Cons. Stato, Sez. IV, 08/11/2018 n. 6308; Cons.
Stato, Sez. IV, 18/07/2018 n. 4374; Cons. Stato, Sez. V, 27/06/2018 n. 3940)
(TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 25.03.2022 n. 493 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Condono,
il silenzio-assenso vale solo l'istanza ha i requisiti per essere accolta.
Il silenzio assenso, nel caso di condono edilizio, si perfeziona solamente
se la domanda ha i requisiti sostanziali per essere accolta.
È uno dei motivi per cui il TAR Lazio-Roma (Sez. II,
sentenza
21.02.2022 n. 2058) ha rigettato un
ricorso presentato contro la determinazione dirigenziale del 2014 con cui
Roma Capitale aveva respinto la domanda di condono del '95 e un ordine di
servizio avente per oggetto «i manufatti privi di tamponature esterne».
La vicenda ha origine quando il ricorrente, per conto della figlia, presenta
per l'abuso, che consiste nella realizzazione di un nuovo edificio, due
distinte istanze di condono «aventi ad oggetto, ognuna, la metà
dell'edificio la cui volumetria complessiva, come prospettato nel gravame, è
pari a mc. 783,09 e, quindi, superiore a quella massima condonabile di 750
mc».
Al diniego segue quindi il ricorso al Tar. Tra i motivi del ricorso il nodo
tempo. Secondo il ricorrente ci sarebbe una violazione dell'articolo 39
della legge 724/0994 in quanto «nella fattispecie sulla domanda di condono si
sarebbe formato il silenzio-assenso che renderebbe illegittimo il gravato
diniego del 14/10/2014».
Per i giudici il motivo è infondato. «In materia di condono edilizio il
silenzio-assenso -scrivono- si perfeziona solo nell'ipotesi in cui la
domanda del privato possiede i requisiti sostanziali per il suo
accoglimento, tra cui il rispetto del limite di volumetria e la
dimostrazione del tempo di ultimazione dei lavori». Facendo poi riferimento
al caso specifico i giudici scrivono che «il superamento del limite di
volumetria e la mancata ultimazione dell'opera nel termine ultimo previsto
dall'art. 39, comma 1, l. n. 724/1994 ostano all'accoglimento della domanda di
condono e, conseguentemente, alla formazione del silenzio assenso sulla
stessa».
Per l'abuso, come risulta dagli atti, vengono presentate «distinte istanze
di condono aventi ad oggetto, ognuna, la metà dell'edificio la cui
volumetria complessiva, come prospettato nel gravame, è pari a mc. 783,09 e,
quindi, superiore a quella massima condonabile di 750 mc. prevista dall'art.
39, comma 1, l. n. 724/1994». I giudici evidenziano che «l'opera abusiva va
individuata con riferimento all'unitarietà dell'immobile o del complesso
immobiliare, qualora realizzato in esecuzione di un disegno unitario,
essendo irrilevante la suddivisione in più unità abitative». Quindi: «Ne
deriva che è illegittimo l'inoltro di diverse domande tutte imputabili ad un
unico centro sostanziale di interesse e riferibili al medesimo abuso
sostanziale, in quanto tale espediente rappresenta un tentativo di aggirare
i limiti consentiti per il condono relativamente al calcolo della volumetria
consentita».
I giudici amministrativi poi sottolineano che «correttamente il Comune ha
valutato unitariamente le due istanze di sanatoria presentate il 27/02/1995 e
le ha ritenute inammissibili perché il cumulo della volumetria abusiva,
oggetto delle stesse, supera il limite volumetrico di 750 mc. previsto
dall'art. 39, comma 1, l. n. 724/1994». «Né, contrariamente a quanto prospettato
nella quarta censura, l'amministrazione avrebbe potuto rilasciare un condono
parziale sia perché tale istituto non è previsto dalla normativa di
riferimento sia perché un siffatto modus procedendi finirebbe per eludere il
limite volumetrico di 750 mc. riferito all'abuso unitariamente considerato».
Ricorso respinto
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.02.2022).
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SENTENZA
I motivi sono infondati.
Dagli atti di causa risulta che Et.Gi.Vi., per conto della figlia, ha
presentato per l’abuso, consistente nella realizzazione di un nuovo
edificio, due distinte istanze di condono con prot. n. 43537 del 27/02/1995
e 43518 del 27/02/1995 aventi ad oggetto, ognuna, la metà dell’edificio la
cui volumetria complessiva, come prospettato nel gravame, è pari a mc.
783,09 e, quindi, superiore a quella massima condonabile di 750 mc. prevista
dall’art. 39, comma 1, l. n. 724/1994.
Contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, il gravato diniego di
condono ha inteso considerare unitariamente le due istanze di condono
facendo, pertanto, riferimento alla volumetria complessiva delle stesse come
si desume, in maniera inequivoca, dal tenore letterale della determinazione
dirigenziale del 01/10/2014 che richiama esplicitamente l’art. 39 l. n.
724/94 laddove prevede che “le suddette disposizioni [ovvero quelle dei
capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 di cui è stata prevista
l’applicabilità già “alle opere abusive che risultino ultimate entro il
31.12.1993, e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore
al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria ovvero,
indipendentemente dalla volumetria iniziale o assentita, un ampliamento
superiore a 750 metri cubi”] trovano altresì applicazione alle opere abusive
realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni non
superiori ai 750 metri cubi per singola richiesta di concessione edilizia in
sanatoria”.
Nell’interpretare il limite volumetrico previsto dall’art. 39 l. n.
724/1994, la giurisprudenza ha evidenziato che l'opera abusiva va
individuata con riferimento all'unitarietà dell'immobile o del complesso
immobiliare, qualora realizzato in esecuzione di un disegno unitario,
essendo irrilevante la suddivisione in più unità abitative (nella
fattispecie, per altro, nemmeno, in fatto, ravvisabile come risulta dalla
documentazione fotografica prodotta dai ricorrenti) e la presentazione di
istanze separate (Consiglio di Stato n. 1229/2001).
Ne deriva che è illegittimo l'inoltro di diverse domande tutte imputabili ad
un unico centro sostanziale di interesse e riferibili al medesimo abuso
sostanziale, in quanto tale espediente rappresenta un tentativo di aggirare
i limiti consentiti per il condono relativamente al calcolo della volumetria
consentita (Consiglio di Stato n. 2995/2014, Cons. Stato n. 4711/2012).
Nella fattispecie l’indiscutibile unitarietà dell’abuso emerge dalla stessa
documentazione fotografica allegata all’atto introduttivo (allegato 5) che,
anche alla luce delle modalità di costruzione dell’immobile quali desumibili
dagli atti dei procedimenti repressivi penale ed amministrativo, palesa
l’unicità della realizzazione del manufatto costituito solo da pilastri,
piani di calpestio e coperture al rustico e, quindi, privo, anche in fatto,
di elementi sostanziali da cui desumere l’ipotetica suddivisione in unità
immobiliari (come già precisato, comunque, irrilevante); l’artificioso
frazionamento delle due istanze di sanatoria è, del resto, confermato dal
fatto che le stesse sono riferibili al medesimo centro di interessi in
quanto entrambe presentate dal ricorrente Vicari per conto della figlia.
Pertanto, correttamente il Comune ha valutato unitariamente le due istanze
di sanatoria presentate il 27/02/1995 e le ha ritenute inammissibili perché
il cumulo della volumetria abusiva, oggetto delle stesse, supera il limite
volumetrico di 750 mc. previsto dall’art. 39, comma 1, l. n. 724/1994.
Né, contrariamente a quanto prospettato nella quarta censura,
l’amministrazione avrebbe potuto rilasciare un condono parziale sia perché
tale istituto non è previsto dalla normativa di riferimento sia perché un
siffatto modus procedendi finirebbe per eludere il limite volumetrico
di 750 mc. riferito all’abuso unitariamente considerato; né, in contrario,
alcuna rilevanza riveste la dedotta conformità del manufatto alle norme
urbanistiche vigenti che, al più, potrà costituire elemento da valutare
nell’ambito di un’eventuale procedimento ex art. 36 d.p.r. n. 380/01,
ovviamente in riferimento agli specifici requisiti richiesti dalla
disposizione in esame.
Con la terza censura i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 39,
comma 1, l. n. 724/1994 e 43, comma 5, l. n. 47/1985 e l’eccesso di potere
per falsità dei presupposti in quanto, contrariamente a quanto evidenziato
nel provvedimento impugnato, il manufatto abusivo potrebbe essere oggetto di
completamento mediante realizzazione delle tamponature, come previsto
dall’art. 43, comma 5, l. n. 47/1985, e ciò in ragione dell’intervenuto
provvedimento di sequestro penale che ha riguardato l’immobile né la
violazione dei sigilli, terminata, per altro, il 26/09/93, osterebbe
all’applicazione dell’art. 43 citato.
Il motivo è inammissibile per difetto d’interesse.
Il gravato diniego di condono, infatti, si fonda su una duplice serie di
autonome motivazioni, ciascuna di per sé autosufficiente ed idonea a
giustificare il diniego, e riguardanti, l’una, l’inammissibilità del
frazionamento delle istanze e il superamento, tramite le stesse, del limite
volumetrico di 750 mc., e, l’altra, l’omessa ultimazione del manufatto alla
data del 31/12/1993 per la mancata realizzazione delle tamponature.
La ritenuta legittimità del profilo motivazionale relativo al superamento
del limite volumetrico, di cui si è dato atto in riferimento alla seconda e
quarta censura, rende inammissibile, per difetto d’interesse, il terzo
motivo la cui ipotetica fondatezza non potrebbe, per le ragioni anzidette,
comportare, comunque, l’annullamento dell’atto impugnato.
In ogni caso anche nel merito la doglianza è infondata.
L’art. 39 l. n. 724/1994 applica la sanatoria, ivi prevista, alle “opere
abusive ultimate entro il 31.12.1993”; l’art. 43, comma 5, l. n.
47/1985, poi, richiamato dal citato art. 39 e posto a fondamento della
censura, stabilisce che “possono ottenere la sanatoria le opere non
ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali
limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente
necessari alla loro funzionalità. Il tempo di commissione dell'abuso e di
riferimento per la determinazione dell'oblazione sarà individuato nella data
del primo provvedimento amministrativo o giurisdizionale”.
Parte ricorrente richiama, a fondamento del gravame, l’orientamento
giurisprudenziale che riconduce al completamento previsto dall’art. 43 l. n.
47/1985 anche la realizzazione delle tamponature.
Tale impostazione non può essere condivisa.
Va, innanzi tutto, rilevato che l’art. 43 l. n. 47/1985 costituisce
disposizione eccezionale in quanto estende sostanzialmente i limiti
temporali di ultimazione dell’abuso, previsti per l’ammissibilità del
condono, anche a fattispecie peculiari già oggetto di precedenti
provvedimenti inibitori o repressivi.
Ciò posto, il completamento di cui all’art. 43, comma 5, l. n. 47/1985 deve
riguardare opere, comunque, già “realizzate” ovvero che presentino
gli elementi sostanziali tipologici idonei ad identificare il manufatto
nella sua individualità e nella sua successiva destinazione, come emerge
anche dal successivo inciso della disposizione che, a tal fine, fa
riferimento ai soli “lavori strettamente necessari alla…funzionalità”
delle opere abusive, funzionalità che deve, appunto, preesistere.
Dalla documentazione fotografica allegata al ricorso (allegato 5) si evince
che l’abuso consiste nella mera realizzazione di una serie di pilastri,
piani di calpestio e solai di copertura tutti al rustico senza tamponature
e, soprattutto, senza quegli elementi minimi, quali la suddivisione degli
ambienti interni, la predisposizione di impianti, la presenza di
pavimentazione o di altri riferimenti materiali comprovanti l’effettiva
consistenza (la suddivisione in due unità immobiliari, come già detto,
costituisce un mero assunto di parte ricorrente) e la destinazione del
manufatto che, per quanto desumibile dalla documentazione fotografica,
potrebbe essere indifferentemente destinato ad un successivo uso abitativo,
produttivo, artigianale od altro (per un’analoga fattispecie, in fatto,
Cons. Stato n. 4287/2012).
Tale impostazione risulta, del resto, confermata dall’orientamento del
giudice di appello che, muovendo proprio dal legame tra l'avverbio "strettamente"
ed il concetto di "funzionalità" presente nell’art. 43 l. n. 47/1985
e riferibile solo alle strutture già “realizzate”, ha ritenuto che la
norma sia applicabile ai soli lavori necessari per assicurare la
funzionalità di quanto già costruito e non consenta, pertanto, di integrare
le opere con interventi edilizi che diano luogo a nuove strutture (in questo
senso Cons. Stato n. 4011/2009, Cons. Stato n. 3282/2008, Cons. Stato n.
3542/2005, Cons. Stato n. 6327/01, TAR Puglia Bari n. 1392/2010).
In quest’ottica, se è vero che il requisito della "non ultimazione",
previsto dall'art. 43 l. n. 47/1985, deve essere logicamente letto in
relazione a quello ordinario della "ultimazione" oggetto dell’art. 31 del
medesimo testo normativo ("si intendono ultimati gli edifici nei quali
sia stato eseguito il rustico e completata la copertura ovvero, quanto alle
opere interne e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano
completate funzionalmente"), con la conseguenza che possono certamente
conseguire la sanatoria edilizia anche manufatti la cui realizzazione si sia
arrestata ad uno stadio anteriore a quello di configurabilità dei predetti
requisiti, è pur vero che, avendo la disposizione di cui all'art. 43
carattere eccezionale rispetto alla regola generale sancita dall'articolo
31, essa sia di stretta interpretazione ed applicabile in termini
restrittivi (vertendosi, tra l'altro, in materia di beneficio di condono di
lavori abusivi), richiedendosi necessariamente che il manufatto, pur non
ultimato, sia suscettibile di una sicura identificazione edilizia, sia da un
punto di vista strutturale che della destinazione (così espressamente Cons.
Stato n. 4287/2012), identificazione nella fattispecie mancante per le
circostanze di fatto in precedenza indicate.
Per questi motivi il ricorso è infondato e deve essere respinto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore
e vibrazioni nelle abitazioni private: quali limiti?
Risultano conformi alla regola generale dell’ordinamento
che consente le emissioni acustiche solo entro i limiti della normale
tollerabilità (di cui all’art. 844 cod. civ.) e al comune buon senso le
prescrizioni contenute nel regolamento di polizia urbana secondo cui nelle
abitazioni private:
a) è proibito provocare rumori incomodi al vicinato;
b) non è consentito mettere in funzione apparecchiature fonti di
molestie e disturbi;
c) le apparecchiature di uso domestico che producono rumore e
vibrazioni non possono essere usate dopo le 22.00 e prima delle 7.30 (ovvero
le 9.00 nelle giornate festive);
d) le apparecchiature radiofoniche e televisive devono essere
utilizzate contenendo sempre il volume delle emissioni sonore entro limiti
tali da non recare in alcun modo molestie o disturbi ai vicini
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 14.02.2022 n. 343
- massima tratta da www.tuttoambiente.it).
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La sig.ra Pa.Gr. -comproprietaria di un immobile ubicato nel
Comune di Cassano Magnago, in via ... n. 17- ha impugnato
l’ordinanza n. 115 del 03.07.2020, adottata dal Vicesindaco e Assessore al
Territorio ed ai Lavori Pubblici del Comune di Cassano Magnago, avente ad
oggetto “il rispetto delle normative sulla tutela della tranquillità e del
riposo dei residenti in prossimità dell’immobile sito in via ...
11-17 a Cassano Magnago”, la nota ricevuta il 30.09.2020 con cui il
Sindaco ha rigettato l’istanza di annullamento in autotutela e il
regolamento del Comune di Cassano Magnago “di polizia urbana, di educazione
alla legalità e alla convivenza civile” approvato con deliberazione di C.C.
n. 5 del 28.02.2019, articolando le seguenti doglianze:
I. violazione di legge ed eccesso di potere – travisamento dei presupposti
di fatto e diritto – violazione e falsa applicazione dell’art. 54 d.lgs. n.
267/2000, dell’art. 21-octies l. 241/90 e delle disposizioni del regolamento
comunale di polizia urbana – difetto d’istruttoria e di motivazione –
contraddittorietà e sviamento;
II. violazione di legge ed eccesso di potere – violazione e falsa
applicazione degli artt. 54 d.lgs. n. 267/2000, 1 l. 241/1990 e 42 Cost.,
nonché delle disposizioni del regolamento comunale di polizia urbana e delle
norme del PGT – difetto d’istruttoria e di motivazione – illogicità
manifesta e violazione del principio di proporzionalità – sviamento.
Il Comune di Cassano Magnago, pur regolarmente intimato, non si è costituito
in giudizio.
All’udienza del 27.01.2022 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Con ordinanza n. 115 del 03.07.2020, il Comune di Cassano Magnago ha
richiamato il regolamento di polizia urbana e di educazione alla legalità e
alla convivenza civile (approvato con deliberazione del Consiglio Comunale
n. 5 del 28.02.2019) e la destinazione urbanistica dell’edificio di via ... nn. 11 e 17 (quale “bene storico-artistico monumentale” per il quale
non è ammessa la destinazione a discoteca/locale notturno); ha ritenuto che
la stagione estiva potesse determinare il ripetersi di comportamenti non
rispettosi delle disposizioni regolamentari richiamate, da parte di soggetti
non residenti che utilizzano occasionalmente l’immobile; ha, quindi,
ordinato alla sig.ra Pa.Gr., unitamente al comproprietario An.Gr. e ai proprietari dell’immobile sito in via
... 11, di “non
utilizzare nel proprio immobile di via ...:
- apparecchiature fonti di molestie e disturbi di uso non domestico;
- apparecchiature di uso domestico che producono rumore o vibrazioni dopo le
22.00 e prima delle ore 7.30, ovvero le ore 9.00 delle giornate festive
- apparecchi radiofonici e televisivi, nonché gli apparecchi di qualsiasi
specie per la riproduzione della musica nelle aree all’aperto di via ... 11 e 17 in modo da non recare in alcun modo molestie o disturbo ai
vicini;
di non svolgere o consentire lo svolgimento di trattenimenti idonei a
configurare un’attività economica”, con l’avvertimento che “in caso di
inottemperanza alla presente ordinanza si procederà ad emettere ordinanza
con maggiore contenuto inibitorio, parziale o totale, delle attività che
influiscono negativamente sulla tutela della vivibilità urbana”.
Con il primo motivo vengono dedotti i vizi di violazione dell’art. 54, d.lgs. n. 267/2000, di difetto di motivazione e di istruttoria: non
sussisterebbe alcuna situazione eccezionale che minacci l’incolumità
pubblica, né l’urgenza di provvedere, non altrimenti fronteggiabile; la
ripetizione delle norme regolamentari e il carattere preventivo del
provvedimento confermerebbero che non sussiste alcun pericolo per
l'incolumità dei cittadini derivante da “aggregazioni di persone con
diffusione musica”.
Il provvedimento sarebbe motivato unicamente sulla base
di numerose segnalazioni “pervenute nella gran parte in forma verbale”, di
cui non vi sarebbe prova e senza che il Comune abbia effettuato alcun
accertamento tecnico per individuare la fonte delle emissioni sonore, la riconducibilità alla proprietà della ricorrente, gli effettivi autori
materiali delle emissioni rumorose e il superamento di livelli di emissione
fissati dalla normativa sull’inquinamento acustico.
Con il secondo motivo viene contestato che le prescrizioni dettate dal
vicesindaco sarebbero indeterminate, manifestamente illogiche e
sproporzionate; anche il regolamento di polizia urbana e di educazione alla
legalità e alla convivenza civile sarebbe illegittimo per assoluta
genericità e mancata definizione dei limiti di emissione. L’ordinanza
sarebbe inoltre illegittima perché si risolverebbe in una limitazione della
proprietà privata in assenza di presupposti e in violazione dell’art. 42
della Costituzione: essa imporrebbe di “non utilizzare nel proprio immobile
di via ...: ... apparecchi radiofonici e televisivi, nonché gli
apparecchi di qualsiasi specie per la riproduzione della musica nelle aree
all’aperto di via ... 11 e 17”, senza indicazioni di orari o
prescrizioni e, quindi, imponendo una completa inibitoria dell’ascolto di
musica, di televisione e radio nelle aree all’aperto della proprietà dei
ricorrenti.
Né –ad avviso della ricorrente– si potrebbe adottare un’ordinanza contingibile e urgente per imporre il generico rispetto delle destinazioni
d’uso previste dalle disposizioni dello strumento urbanistico, disponendo il
Comune dei poteri di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia di cui
all’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001. In ogni caso, la destinazione
dell’immobile prevista dal vigente PGT non comporterebbe l’inibizione
dell’uso delle apparecchiature nelle modalità e nelle misure indicate nel
provvedimento.
Le censure –che possono essere trattate congiuntamente– sono infondate.
Il provvedimento impugnato, pur richiamando nelle proprie premesse l’art.
54, d.lgs. n. 267/2000, non può qualificarsi quale ordinanza contingibile e
urgente.
Con esso, il Comune di Cassano Magnago si è limitato a richiamare la
ricorrente al rispetto di quanto già previsto, in via ordinaria e generale
nei confronti della generalità dei consociati, dal regolamento di polizia
urbana e a minacciare, in caso di inottemperanza l’adozione di un successivo
provvedimento.
Con tale atto –con riferimento al quale può financo dubitarsi della
sussistenza di un interesse concreto e attuale alla impugnazione– il
vicesindaco –in disparte l’assenza di competenza, vizio che, tuttavia, non
è stato dedotto– non ha, dunque, esercitato un potere extra ordinem per
fronteggiare una situazione di pericolo, in quanto tale atipico nei
contenuti, non avendo ordinato alcunché di diverso da quanto disposto, in
via ordinaria, dal regolamento.
Stante la natura meramente ricognitiva del provvedimento, nella parte in cui
richiama gli obblighi derivanti dal regolamento e la disciplina urbanistica
dell’edificio di via ... nn. 11 e 17, non possono, quindi, ritenersi
fondate le censure con cui viene contestata la violazione dell’art. 54,
d.lgs. n. 267/2000, il difetto di motivazione e di istruttoria e la
manifesta illogicità delle prescrizioni dettate.
Non sono fondate neppure le censure con cui viene contestata l’illegittimità
del regolamento di polizia urbana e di educazione alla legalità e alla
convivenza civile per assoluta genericità e mancata definizione dei limiti
di emissione e per violazione dell’art. 42 della Costituzione.
L’art. 20 del regolamento -ai sensi del quale nelle abitazioni private “1.
É proibito provocare rumori incomodi al vicinato. 2. Nelle abitazioni
private non è consentito far funzionare apparecchiature fonti di molestie e
disturbi, fatte salve le eccezioni di cui ai due commi seguenti. 3. Le
apparecchiature di esclusivo uso domestico che producono rumore o vibrazioni
non possono farsi funzionare dopo le ore 22.00 e prima delle ore 7.30,
ovvero le ore 9.00 delle giornate festive. 4. Gli apparecchi radiofonici e
televisivi, nonché gli apparecchi di qualsiasi specie per la riproduzione
della musica devono essere utilizzati contenendo sempre il volume delle
emissioni sonore entro limiti tali da non recare in alcun modo molestie o
disturbo ai vicini”- detta prescrizioni, oltre che di comune buon senso,
conformi alla regola generale dell’ordinamento che consente le immissioni
acustiche solo entro i limiti della normale tollerabilità (art. 844 c.c.),
limiti che non hanno carattere assoluto, ma dipendono dalla situazione
ambientale, dalle caratteristiche della zona e dalle abitudini degli
abitanti (cfr. Cassazione civile, sez. II, 01.10.2018, n. 23754
Tribunale, Roma, sez. V, 10/09/2021, n. 14279; Corte appello, Torino, sez. III, 08/04/2021, n. 403).
Per le ragioni esposte il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti.
Coperture di fabbricati con materiali contenenti amianto: sono rifiuti?
Con riferimento alle copertura di fabbricati con
materiali contenenti amianto, vengono in rilievo esclusivamente le
disposizioni riguardanti la cessazione dell’impiego dell’amianto (di cui
alla L. 27.03.1992, n. 257) dovendosi ritenere che la copertura di un
fabbricato -fino a che non crolla a terra divenendo inutilizzabile- svolge
un ruolo di protezione che impedisce di qualificarla come rifiuto ex art.
183, comma 1, lett. a), Dlgs. 152/2006.
Di conseguenza, risulta impossibile configurare –rispetto ad una tale
copertura– la fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.02.2022 n. 767
- massima tratta da www.tuttoambiente.it).
---------------
8. Ad ogni buon conto, l’appello è anche infondato nel merito.
Al riguardo, si osserva quanto segue.
9. In primo luogo, va sottolineato che, nel caso di specie, vengono in
rilievo esclusivamente le norme riguardanti la cessazione dell’impiego
dell’amianto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2020, n. 1759; id., 09.11.2019, n. 7665, secondo cui la copertura di un fabbricato, fino a
che non rovina a terra divenendo inutilizzabile, svolge un ruolo di
protezione che impedisce di qualificarla come “rifiuto” in senso tecnico; da
qui l’impossibilità di configurare, rispetto ad una tale copertura, la
fattispecie dell’abbandono o del deposito incontrollato di rifiuti.
Pertanto, fino a che la copertura del fabbricato in questione non è
sottratta alla sua funzione originaria e principale, non può definirsi
“rifiuto” ai sensi del d.lgs. n. 152 del 2006).
9.1. Secondo l’art. 12 della l. n. 257 del 1992, “1. Le unità sanitarie
locali effettuano l’analisi del rivestimento degli edifici di cui
all'articolo 10, comma 2, lettera l), avvalendosi anche del personale degli
uffici tecnici erariali e degli uffici tecnici degli enti locali.
2. Con decreto del Ministro della sanità, da emanare entro centottanta
giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabilite
le norme relative agli strumenti necessari ai rilevamenti e alle analisi del
rivestimento degli edifici, nonché alla pianificazione e alla programmazione
delle attività di rimozione e di fissaggio di cui al comma 3 e le procedure
da seguire nei diversi processi lavorativi di rimozione.
3. Qualora non si possa ricorrere a tecniche di fissaggio, e solo nei casi
in cui i risultati del processo diagnostico la rendano necessaria, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano dispongono la
rimozione dei materiali contenenti amianto, sia floccato che in matrice
friabile. Il costo delle operazioni di rimozione è a carico dei proprietari
degli immobili.
4. Le imprese che operano per lo smaltimento e la rimozione dell'amianto e
per la bonifica delle aree interessate debbono iscriversi a una speciale
sezione dell'albo di cui all'art. 10 del D.L. 31.08.1987, n. 361,
convertito, con modificazioni, dalla L. 29.10.1987, n. 441. Il Ministro
dell'ambiente, di concerto con il Ministro dell'industria, del commercio e
dell'artigianato, stabilisce con proprio decreto, da emanare entro
centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i
requisiti, i termini, le modalità e i diritti di iscrizione. Le imprese di
cui al presente comma sono tenute ad assumere, in via prioritaria, il
personale già addetto alle lavorazioni dell'amianto, che abbia i titoli di
cui all'art. 10, comma 2, lettera h), della presente legge.
5. Presso le unità sanitarie locali è istituito un registro nel quale è
indicata la localizzazione dell'amianto floccato o in matrice friabile
presente negli edifici. I proprietari degli immobili devono comunicare alle
unità sanitarie locali i dati relativi alla presenza dei materiali di cui al
presente comma. Le imprese incaricate di eseguire lavori di manutenzione
negli edifici sono tenute ad acquisire, presso le unità sanitarie locali, le
informazioni necessarie per l'adozione di misure cautelative per gli
addetti. Le unità sanitarie locali comunicano alle regioni e alle province
autonome di Trento e di Bolzano i dati registrati, ai fini del censimento di
cui all'articolo 10, comma 2, lettera l).
6. I rifiuti di amianto sono classificati tra i rifiuti speciali, tossici e
nocivi, ai sensi dell'articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica
10.09.1982, n. 915, in base alle caratteristiche fisiche che ne
determinano la pericolosità, come la friabilità e la densità”.
9.2. L’allegato al d.m. 06.09.1994 (contenente normative e metodologie
tecniche riguardanti, tra l’altro, “il controllo dei materiali contenenti
amianto e le procedure per le attività di custodia e manutenzione in
strutture edilizie contenenti materiali di amianto; le misure di sicurezza
per gli interventi di bonifica”), al punto 2 (“Valutazione del rischio”)
dispone “La presenza di materiali contenenti amianto in un edificio non
comporta di per sé un pericolo per la salute degli occupanti.
Se il
materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente
improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di
amianto. Se invece il materiale viene danneggiato per interventi di
manutenzione o per vandalismo, si verifica un rilascio di fibre che
costituisce un rischio potenziale. Analogamente se il materiale è in cattive
condizioni, o se è altamente friabile, le vibrazioni dell'edificio, i
movimenti di persone o macchine, le correnti d'aria possono causare il
distacco di fibre legate debolmente al resto del materiale. […]”; al punto
2c (“Materiali danneggiati”), “Sono situazioni nelle quali esiste pericolo
di rilascio di fibre di amianto con possibile esposizione degli occupanti,
come ad esempio:
- materiali a vista o comunque non confinati, in aree occupate
dell'edificio, che si presentino:
- danneggiati per azione degli occupanti o per interventi manutentivi;
- deteriorati per effetto di fattori esterni (vibrazioni, infiltrazioni
d'acqua, correnti d'aria, ecc.), deteriorati per degrado spontaneo;
- materiali danneggiati o deteriorati o materiali friabili in prossimità dei
sistemi di ventilazione.
Sono queste le situazioni in cui si determina la necessità di un'azione
specifica da attuare in tempi brevi, per eliminare il rilascio in atto di
fibre di amianto nell'ambiente.
I provvedimenti possibili possono essere: [...]” restauro dei materiali
ovvero intervento di bonifica secondo uno dei metodi indicati al punto 3
dello stesso allegato (rimozione, incapsulamento, confinamento).
Secondo il punto 4, (“Programma di controllo dei materiali di amianto in
sede - Procedure per le attività di custodia e di manutenzione”):
“Dal momento in cui viene rilevata la presenza di materiali contenenti
amianto in un edificio, è necessario che sia messo in atto un programma di
controllo e manutenzione al fine di ridurre al minimo l'esposizione degli
occupanti. Tale programma implica mantenere in buone condizioni i materiali
contenenti amianto, prevenire il rilascio e la dispersione secondaria di
fibre, intervenire correttamente quando si verifichi un rilascio, verificare
periodicamente le condizioni dei materiali contenenti amianto.
4a) Programma di controllo
Il proprietario dell'immobile e/o il responsabile dell'attività che vi si
svolge dovrà:
- designare una figura responsabile con compiti di controllo e coordinamento
di tutte le attività manutentive che possono interessare i materiali di
amianto;
- tenere un'idonea documentazione da cui risulti l'ubicazione dei materiali
contenenti amianto. […]”,
Il punto 7 (“Coperture in cemento-amianto”), prevede specifiche procedure
operative per eliminare il rischio amianto dalle coperture degli edifici
(rimozione, incapsulamento, sopra-copertura).
9.3. In sintesi, tenuto conto di quanto previsto, tra l’altro, dal punto 4
dell’allegato al D.M. 06.09.1994, nonché dall’art. 12, commi 3 e 5,
vanno distinte le tipologie di obblighi imposti dalla normativa di settore
(arg. da Cons. Stato, sez. V, n. 1759 del 2021; sez. IV, n. 7665 del 2019;
Corte cost. n. 14 del 2014).
Per quanto qui rileva, si segnalano:
- gli obblighi di controllo e di manutenzione, gravanti su chi attualmente
detiene o utilizza il bene;
- gli obblighi di intervento e di bonifica, gravanti sul proprietario.
Questi ultimi ed i costi relativi sono posti a carico del proprietario, non
tanto perché questi è tenuto all’attuazione del programma di manutenzione e
controllo, ma piuttosto perché l’immobile –deteriorato per degrado spontaneo
o per fattori esterni- ha finito per presentare dei vizi strutturali, i cui
costi di eliminazione non possono che gravare sul titolare del
corrispondente diritto reale.
La regola posta dall’art. 12, comma 3, della legge n. 257 del 1992 -secondo
cui, per le strutture in amianto degli edifici, “il costo delle operazioni
di rimozione è a carico dei proprietari degli immobili”- è riferita ai
proprietari, non in quanto detentori degli immobili bensì in quanto titolari
del corrispondente diritto reale sui beni inficiati da vizio strutturale,
trattandosi di norma che individua il destinatario finale della spesa.
10. Ciò posto, nel caso di specie, il primo giudice ha correttamente
applicato i principi testé sintetizzati, ritenendo del tutto indifferente la
circostanza, dedotta in primo grado, che l’odierna appellante, con contratto
del 31.05.2007, avesse costituito in favore della Al. S.r.l. il
diritto di superficie sull’area all’interno della quale sorge il manufatto
dotato di copertura in amianto.
E’ infatti rimasto incontestato che, come rilevabile dall’esame di tale atto
negoziale, non vi è stato anche il trasferimento della proprietà
superficiaria in capo a detta società.
Né a una diversa conclusione potrebbe giungersi anche a voler tener conto
del precedente contratto di locazione stipulato tra le parti in data 21.03.2002 (documentato solo in sede di appello) perché, come si è visto,
l’obbligo di rimozione, con i relativi costi, è stato esplicitamente posto
dalla legge a carico dei proprietari. |
|
UTILITA' |
VARI: Raccolta
(nazionale) degli atti recanti misure urgenti in materia di contenimento e
gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19
(link a www.gazzettaufficiale.it). |
VARI:
Coronavirus, le misure adottate dal Governo (link a
www.governo.it). |
VARI:
Normativa emergenza Coronavirus
(link a www.protezionecivile.gov.it). |
VARI: Coronavirus
- Sicurezza lavoratori
(link a www.salute.gov.it). |
VARI: Elenco
delle circolari per l'emergenza COVID-19
(link a www.interno.gov.it). |
VARI: Emergenza
Coronavirus: "Tutto ciò che devi sapere"
(link a www.poliziadistato.it). |
APPALTI: Emergenza
Covid-19 - Tutti i provvedimenti adottati dall’Anac inerenti le
disposizioni per emergenza Coronavirus
(link a www.anticorruzione.it). |
VARI: Coronavirus
- Regione Lombardia (link a www.regione.lombardia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: COVID-19
e protezione dei dati personali
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
cd. “lotto intercluso”.
A mente dell'art. 9, t.u.ed.,
costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del
territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una
determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di
solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire
l'intervento diretto costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale, come ricordato da
recente giurisprudenza,
sono:
a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua
attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il
rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo
che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando
è concluso il relativo procedimento;
b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che
preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona
l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale
prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione
della zona stessa;
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con
l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo
edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le
opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e
materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello
strumento esecutivo;
d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o
giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia
tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo,
la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema;
e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone
parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di
compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di
dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto.
Alla luce di tale normativa la giurisprudenza ha individuato, tuttavia,
un’eccezione a tale stringente necessaria presenza di strumenti urbanistici
per la disciplina del territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo tale impostazione, allorquando l'area
edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti
la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a
quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività
procedimentale per l'ente pubblico essendo stato raggiunto lo scopo e i risultati perseguiti dai piani
esecutivi/attuativi.
---------------
1. - Al fine di un corretto inquadramento delle problematiche afferenti la
presente controversia, occorre premettere che l’area oggetto di contenzioso,
dal punto di vista urbanistico, ricade in ZTO C1 ex B4 (zona Residenziale di
espansione con obbligo della lottizzazione convenzionata) del PRG vigente.
Il contenzioso si incardina sulla possibilità di procedere, nello specifico
caso in questione, all’edificazione attraverso un intervento diretto in
deroga alla previsione di operare attraverso una pianificazione attuativa
per come prescritto dal PRG, possibilità in concreto esclusa
dall’amministrazione resistente, che, su tale presupposto, ha proceduto
all’impugnato annullamento in autotutela del titolo edilizio tacitamente
assentito.
A tal riguardo, giova ricordare che, a mente dell'art. 9, t.u.ed.,
costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del
territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una
determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di
solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire
l'intervento diretto costruttivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008,
n. 6625).
Corollari immediati di tale principio fondamentale, come ricordato da
recente giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. IV, 07.11. 2014, n. 5488),
sono:
a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua
attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il
rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo
che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando
è concluso il relativo procedimento (cfr. Cons. St., sez. V, 01.04.1997,
n. 300);
b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che
preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona
l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale
prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione
della zona stessa (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con
l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo
edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le
opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e
materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello
strumento esecutivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V, 15.01.1997,
n. 39);
d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o
giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia
tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo,
la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone
parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di
compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di
dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto (cfr. Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n.
35880).
Alla luce di tale normativa la giurisprudenza ha individuato, tuttavia,
un’eccezione a tale stringente necessaria presenza di strumenti urbanistici
per la disciplina del territorio: il cd. “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo tale impostazione, allorquando l'area
edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti
la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a
quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività
procedimentale per l'ente pubblico (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V,
03.03.2004, n. 1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010, n. 3699) essendo stato
raggiunto lo scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi/attuativi (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 02.03.2017 n. 352 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla questione se, in caso di
mancata stipulazione della convenzione di lottizzazione, a fronte di un
piano di lottizzazione approvato dal Comune da oltre un decennio, le aree in
questione possano considerarsi “di fatto edificate”, ai fini della sussistenza del lotto
intercluso.
In merito al rapporto tra approvazione del piano di
lottizzazione e successiva stipula e trascrizione della convenzione di
lottizzazione, è opinione diffusa nella giurisprudenza che la convenzione
sia atto autonomo e indipendente rispetto al provvedimento di approvazione
del piano di lottizzazione, il quale ultimo diventa un presupposto giuridico
(e non necessariamente logico) della stipula; la convenzione rappresenta
soltanto una delle eventuali attività che possono concretizzarsi dopo
l'approvazione del piano, ma non l’unica, potendo venire meno in tutto o in
parte i presupposti che avevano portato all’approvazione del piano di
lottizzazione, secondo valutazioni di competenza dell’ente.
In sostanza, fra piano di lottizzazione e convenzione di lottizzazione non
v'è un reciproco nesso di logica consequenzialità (la quale, semmai, resiste
soltanto nel caso in cui permangano volontà e presupposti della
pianificazione approvata per la lottizzazione): esiste solo un principio di
pregiudizialità giuridica del primo rispetto alla seconda, che, ovviamente, come
ricordato dallo stesso verificatore, “resta … un presupposto per la
successiva attuazione dell’intervento edilizio”.
Dalla suddetta autonomia discende, altresì, che ovviamente, qualora tra
approvazione del piano attuativo / schema di convenzione e momento di
stipulazione della stessa sia decorso un notevole lasso di tempo e siano
venuti meno i presupposti sui quali la stessa approvazione è stata fondata,
l’amministrazione ben potrebbe verificare la persistenza di detti
presupposti fino al momento della stipula, non potendo
ritenersi obbligata alla stipulazione della convenzione.
Ciò la giurisprudenza ha ritenuto possibile allorquando, ad esempio, come
nel caso, la volontà privata venga meno in parte, essendo sicuramente
l’Amministrazione titolare del potere di valutare se tale ridotta
composizione (per il ritiro di alcuni lottizzanti) possa in qualche modo
soddisfare gli interessi pubblici di natura urbanistica che l’originaria
lottizzazione era in grado di portare a compimento.
Insomma, a fronte di un piano approvato da oltre un decennio e non seguito
dalla stipula della convenzione di lottizzazione e dalla sua trascrizione,
con riferimento al quale il Comune riferisce che “alcuni proprietari dei
terreni contemplati in detta “proposta” di lottizzazione, hanno revocato la
propria disponibilità (a lottizzare) e la relativa domanda”, non può
ritenersi che l’area dallo stesso interessata sia di fatto edificata, ai
fini della configurazione del lotto intercluso, dovendosi avere riguardo al
dato di fatto esistente all’attualità e non allo stato ipotetico e futuro
che potrebbe derivare dalla stipula della convenzione di lottizzazione.
---------------
Con riferimento al grado di urbanizzazione, la
relativa valutazione, a fronte della ratio e della natura eccezionale della
regola sottesa al c.d. “lotto intercluso”, in assenza di strumento attuativo,
deve ritenersi rimessa all’esclusivo apprezzamento discrezionale del comune,
che, semmai, ove intenda rilasciare il titolo edilizio, deve compiere una
penetrante istruttoria per accertare che la pianificazione esecutiva non
conservi una qualche utile funzione, anche in relazione a situazioni di
degrado che possano recuperare margini di efficienza abitativa, riordino e
completamento razionale e non sia in grado di esprimere scelte
programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel p.r.g.
---------------
1.1. - Nel caso di specie, il Collegio ha ritenuto, nel contrasto delle
posizioni tra le parti, anche in fatto, di avvalersi dell’ausilio delle
verificazione, ponendo specifici quesiti ai quali il verificatore ha dato
riscontro, concludendo per la sussistenza del “lotto intercluso”.
Il Collegio, avendo a riferimento i dati fattuali come riferiti dal
verificatore, ritiene tuttavia di giungere a diversa conclusione sotto il
profilo giuridico, per come di seguito esposto.
1.2. - In particolare, con riferimento al lato ovest, nella relazione il
verificatore riferisce che l’area in questione in buona parte confina con
aree edificate e per un tratto di circa 25 m con la lottizzazione denominata
“San Francesco”.
Il verificatore relaziona in merito alla rilevata assenza della convenzione,
a tutt’oggi non stipulata, e all’esistenza in tale zona di due strade, alla
loro ubicazione ed al loro stato di attuazione, per poi concludere che “Per
quanto detto le aree ad ovest a confine con la lottizzazione “San Francesco”
devono considerarsi di fatto edificate”, allegando le relative fotografie.
Ricordando ancora una volta la necessità, ai fini della configurazione del
lotto intercluso, della presenza delle tassative condizioni richieste dalla
giurisprudenza su ricordate, prima tra tutte la residualità, deve ritenersi
che, proprio alla luce di quanto riferito, non si ritiene sussistere tale
requisito.
1.2.1. - La questione è se, in caso di mancata stipulazione della
convenzione di lottizzazione, a fronte di un piano di lottizzazione
approvato dal Comune da oltre un decennio, le aree in questione possano
considerarsi “di fatto edificate”, ai fini della sussistenza del lotto
intercluso.
Orbene, in merito al rapporto tra approvazione del piano di lottizzazione e
successiva stipula e trascrizione della convenzione di lottizzazione, è
opinione diffusa nella giurisprudenza che la convenzione sia atto autonomo e
indipendente rispetto al provvedimento di approvazione del piano di
lottizzazione, il quale ultimo diventa un presupposto giuridico (e non
necessariamente logico) della stipula; la convenzione rappresenta soltanto
una delle eventuali attività che possono concretizzarsi dopo l'approvazione
del piano, ma non l’unica, potendo venire meno in tutto o in parte i
presupposti che avevano portato all’approvazione del piano di lottizzazione,
secondo valutazioni di competenza dell’ente.
In sostanza, fra piano di lottizzazione e convenzione di lottizzazione non
v'è un reciproco nesso di logica consequenzialità (la quale, semmai, resiste
soltanto nel caso in cui permangano volontà e presupposti della
pianificazione approvata per la lottizzazione): esiste solo un principio di
pregiudizialità giuridica del primo rispetto alla seconda (cfr. di recente
Cass. Civ., sez. II, 05.02.2015, n. 2119), che, ovviamente, come
ricordato dallo stesso verificatore, “resta … un presupposto per la
successiva attuazione dell’intervento edilizio”.
Dalla suddetta autonomia discende, altresì, che ovviamente, qualora tra
approvazione del piano attuativo / schema di convenzione e momento di
stipulazione della stessa sia decorso un notevole lasso di tempo e siano
venuti meno i presupposti sui quali la stessa approvazione è stata fondata,
l’amministrazione ben potrebbe verificare la persistenza di detti
presupposti fino al momento della stipula (Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2016 n. 3334; Cons. St. sez. IV, 29.09.2016, n. 4027), non potendo
ritenersi obbligata alla stipulazione della convenzione.
Ciò la giurisprudenza ha ritenuto possibile allorquando, ad esempio, come
nel caso, la volontà privata venga meno in parte, essendo sicuramente
l’Amministrazione titolare del potere di valutare se tale ridotta
composizione (per il ritiro di alcuni lottizzanti) possa in qualche modo
soddisfare gli interessi pubblici di natura urbanistica che l’originaria
lottizzazione era in grado di portare a compimento (Cons. St., sez. V, 21.05.2010, n. 3217).
Insomma, a fronte di un piano approvato da oltre un decennio e non seguito
dalla stipula della convenzione di lottizzazione e dalla sua trascrizione,
con riferimento al quale il Comune riferisce che “alcuni proprietari dei
terreni contemplati in detta “proposta” di lottizzazione, hanno revocato la
propria disponibilità (a lottizzare) e la relativa domanda”, non può
ritenersi che l’area dallo stesso interessata sia di fatto edificata, ai
fini della configurazione del lotto intercluso, dovendosi avere riguardo al
dato di fatto esistente all’attualità e non allo stato ipotetico e futuro
che potrebbe derivare dalla stipula della convenzione di lottizzazione.
1.2.2. – Va, inoltre, rilevato che l’esigenza di un disegno organico di
viabilità di progetto, di una viabilità integrata con lo strumento
urbanistico complessivo, la necessità di una “sistemazione e distribuzione
delle aree destinate a attrezzature generali e a standard urbanistici (verde
e parcheggi) funzionale anche per gli edifici scolastici posti nelle
immediate vicinanze dell’area di intervento per i quali a seguito
dell’aumento di utenza si registra una carenza di dotazione di aree
destinate a parcheggi”, sono tra gli argomenti posti dall’amministrazione a
fondamento dell’atto di autotutela adottato.
Tali argomenti non vengono smentiti dalla relazione del verificatore.
Quest’ultimo, pur pervenendo alla conclusione dell’esistenza, a suo parere,
del lotto intercluso, dà atto che “…per l’area oggetto di contenzioso
nessuna delle tre lottizzazioni adiacenti è stata concepita con opere di
urbanizzazione primarie tali da integrarla in un disegno organico
dell’intero comparto, infatti, tutte le lottizzazioni prevedono lungo il
confine lotti edificabili non permettendo alcuna interazione con le opere di
urbanizzazione primarie …”.
Tale osservazione non contrasta con l’esigenza di una lottizzazione con
riferimento all’area in questione, ma anzi evidenzia la correttezza della
valutazione dell’amministrazione.
1.2.3. - Ed ancora in merito alla carente dotazione di sotto-servizi (rete
fognaria) nell’area in cui ricade il lotto in parola, il Comune ha
depositato recente relazione che evidenzia l’utilità di un piano di
lottizzazione.
1.2.4. - Più in generale, con riferimento al grado di urbanizzazione, la
relativa valutazione, a fronte della ratio e della natura eccezionale
della regola sottesa al c.d. “lotto intercluso”, in assenza di
strumento attuativo, deve ritenersi rimessa all’esclusivo apprezzamento
discrezionale del comune (cfr. Cons. St., sez. IV, 01.08.2007, n. 4276;
Cons. St. sez. IV, 10.06.2010, n. 3699), che, semmai, ove intenda rilasciare
il titolo edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare
che la pianificazione esecutiva non conservi una qualche utile funzione,
anche in relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di
efficienza abitativa, riordino e completamento razionale e non sia in grado
di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel
p.r.g. (cfr. sez. V, 27.10.2000, n. 5756; sez. V, 08.07.1997, n.
772, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699).
1.2.5. - L’amministrazione resistente, specificamente con l’ultima memoria e
documentazione depositata in data 30.12.2016, riferisce che sulla
questione si era già espresso anche il CTU della Procura della Repubblica
incaricato nell’ambito del p.p. (50)2673/2011 RGNR, facente riferimento a
pratiche edilizie di cd. “lotti interclusi”, fra cui anche la pratica
edilizia n. 50758 del 24.12.2008 in questione, intestata alla
Costruzioni Calabre, subentrata alla ditta Vi.Ro..
In senso contrario, parte ricorrente argomenta che tale perizia sia stata
redatta prima della deliberazione della Commissione Straordinaria del Comune
di Corigliano Calabro adottata con i poteri della G.C. n. 97 del 19.06.2012 e che non tenga conto del parere della Regione Calabria di cui al prot.
101769 del 20.03.2012, con cui si sarebbe ripresa l’istruttoria delle
pratiche relative ai lotti interclusi, tra cui quello oggetto
dell’intervento edilizio in questione.
Tuttavia, tale argomentazione di parte ricorrente non supera la superiore
valutazione relativa alla mancata stipula della convenzione di lottizzazione
San Francesco, con conseguente mancata edificazione di una parte confinante
con l’area de qua.
1.3. - Per quanto sopra esposto, il Collegio ritiene che non sussistono i
requisiti, come dalla giurisprudenza descritti, necessari per poter
configurare il lotto intercluso, con la conseguenza che il provvedimento di
annullamento impugnato appare esente dai vizi denunciati in merito a tale
profilo (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 02.03.2017 n. 352 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI:
Questo comune ha a disposizione delle somme residue discendenti
dalle misure di solidarietà alimentare di cui all'art. 53, D.L. 25.05.2021,
n. 73.
Si chiede un vostro parere sulla possibilità di utilizzo di tali economie
nel 2022 e precisamente dopo la cessazione dello stato di emergenza fissata
al 31/03/2022.
Il citato art. 53, D.L. 25.05.2021, n. 73 non fa direttamente menzione al
termine dello stato di emergenza da Covid-19 per l'utilizzo delle risorse in
oggetto.
Infatti, tale articolo recita testualmente che "1. Al fine di consentire
ai comuni l'adozione di misure urgenti di solidarietà alimentare, nonché di
sostegno alle famiglie che versano in stato di bisogno per il pagamento dei
canoni di locazione e delle utenze domestiche è istituito nello stato di
previsione del Ministero dell'interno un fondo di 500 milioni di euro per
l'anno 2021, da ripartire, entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore
del presente decreto, con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con
il Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di
Conferenza Stato-città ed autonomie locali…
2. All'onere di cui al comma 1, pari a 500 milioni di euro per l'anno 2021,
si provvede ai sensi dell'articolo 77.".
Considerato, inoltre, che il D.L. 24.03.2022, n. 24 recante "Disposizioni
urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione
dell'epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di
emergenza" (decreto "cessazione stato di emergenza") ha previsto
una serie di disposizioni volte a favorire il rientro nell'ordinario in
seguito alla cessazione dello stato di emergenza da COVID-19, si ritiene del
tutto ragionevole stante anche l'incertezza che ancora oggi avvolge la fine
della pandemia, l'utilizzo delle risorse di cui all'art. 53, D.L.
25.05.2021, n. 73 entro e non oltre tale data.
Ad abundantiam, si ricorda anche la disposizione introdotta di
recente dall'art. 13, D.L. 27.01.2022, n. 4 (come convertito in legge, con
modificazioni, dalla L. 28.03.2022, n. 25) recita testualmente che "Le
risorse del fondo di cui all'articolo 1, comma 822, della legge 30.12.2020,
n. 178, sono vincolate alla finalità di ristorare l'eventuale perdita di
gettito e le maggiori spese, al netto delle minori spese, connesse
all'emergenza epidemiologica da COVID-19 anche nell'anno 2022 e le risorse
assegnate per la predetta emergenza a titolo di ristori specifici di spesa
che rientrano nelle certificazioni di cui all'articolo 1, comma 827, della
suddetta legge n. 178 del 2020, e all'articolo 39, comma 2, del
decreto-legge 14.08.2020, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge
13.10.2020, n. 126, possono essere utilizzate anche nell'anno 2022 per le
finalità cui sono state assegnate".
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 25.05.2021, n. 73, art. 53 - D.L. 27.01.2022, n. 4, art. 13 - D.L.
24.03.2022, n. 24 (27.04.2022
- tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblicazione assenze del personale dipendente ex D.lgs 33/2013, art 16, c.
3.
Quesiti
Avrei bisogno di chiarimenti per quanto riguarda l'adempimento della
pubblicazione delle assenze del personale dipendente con cadenza trimestrale
di cui al
D.lgs. 33/2013, art 16, c. 3.
Primo se vanno conteggiati anche i dipendenti a tempo determinato e secondo
se nelle assenze vanno incluse anche le assenze che non danno diritto a
retribuzione, come nel caso di assenza per mancanza di green pass o congedi
parentali non retribuiti ecc.
Risposta
Secondo quanto indicato dal Dipartimento della funzione pubblica, con la
circolare n. 3/2009, nel computo delle assenze dovranno essere calcolati
insieme, in modo indifferenziato, tutti i giorni di mancata presenza
lavorativa, a qualsiasi titolo verificatasi (malattia, ferie, permessi,
aspettativa, congedo obbligatorio, ecc.), del personale dell'ufficio od
unità organizzativa (compreso il dirigente).
Inoltre, il dato relativo alla presenza dovrà emergere dal rapporto
percentuale tra il numero dei giorni lavorativi complessivamente prestati
dal personale dell'ufficio od unità organizzativa (compreso il dirigente) e
il numero dei giorni lavorativi del mese di riferimento.
Si deve ritenere che nel personale dell’ufficio od unità organizzativa
rientri anche il personale a tempo determinato. Inoltre, vanno incluse anche
le assenze che non danno diritto alla retribuzione (26.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Indennità di vigilanza a dipendente assente per malattia.
Quesiti
Il comandante dei VV.UU. è assente per malattia da 8 mesi tra ricoveri
ospedalieri e post ricovero.
Chiedo se l'indennità di vigilanza, considerata trattamento accessorio, deve
essere sospesa dal calcolo mensile del cedolino.
Risposta
Sul punto soccorrono due orientamenti applicativi ARAN; il primo
reca il n. RAL524, sebbene datato, qui riportato integralmente:
“In caso di assenza per malattia, devono essere riconosciute le indennità
spettanti al personale dell’area di vigilanza ai sensi dell’art. 37, comma
1, lett. b) del CCNL del 60/07/1995, pari rispettivamente ad € 810,84 e ad €
480,30?
Il CCNL del 06.07.1995, all'art. 21, comma 7, lett. e), ha previsto che per
i primi nove mesi di assenza per malattia il dipendente ha diritto
all'intera retribuzione fissa mensile, comprese le indennità pensionabili,
comunque denominate. E' noto che, con l'entrata in vigore della
legge n. 335/1995 tutti gli emolumenti corrisposti ai dipendenti sono
divenuti pensionabili.
La portata della clausola contrattuale va dunque letta in una nuova chiave.
Pertanto, le uniche voci del trattamento accessorio che non devono essere
corrisposte, tenuto conto della ratio della clausola contrattuale, sembrano
essere solo quelle che non hanno carattere di fissità e che, per la loro
intrinseca natura, sono legate esclusivamente alla effettiva prestazione e
alla presenza in servizio (ad es. per lavoro straordinario; turnazioni;
produttività collettiva ed individuale, etc.).
È indubbio, invece, che le indennità in questione abbiano il richiesto
carattere di fissità (essendo stabilite in un valore annuale pagate per 12
mensilità).
A tal fine, richiamiamo l'attenzione sulla circostanza che espressamente
l'art. 49 del CCNL del 14.09.2000 include tali voci retributive tra quelle
che, per la loro fissità e continuità, devono essere prese come base di
calcolo per la liquidazione del trattamento di fine rapporto di lavoro”.
Il secondo orientamento applicativo, da prendere a riferimento in
quanto ultimo intervenuto in ordine cronologico, è il RAL_1323, qui
riportato.
“Le indennità del personale dell’Area della vigilanza, di cui all’art.
37, comma 1, lett. b), primo e secondo periodo, del CCNL del 06.07.1995, con
le integrazioni introdotte dall’art. 16 del CCNL del 22.01.2004, sono
assoggettabili a decurtazione per le assenze per malattia fino a 10 giorni,
ai sensi dell’art. 71 della legge n. 133/2008?
Sulle corrette modalità applicative della nuova disciplina in materia di
trattamento economico delle assenze per malattia del personale contenute
nell’art.
71 della Legge 06.08.2008 n. 133, in particolare sulle voci retributive
assoggettabili a decurtazione nel caso di malattia fino a 10 giorni, sono
già state fornite con l’orientamento applicativo RAL527 indicazioni sulle
diverse voci retributive che, sulla base della loro natura e caratteristiche
come definite dal CCNL, debbono considerarsi rispettivamente costituenti
trattamento fondamentale ed accessorio del personale del Comparto
Regioni-Autonomie Locali.
Nell’ambito del trattamento accessorio sono espressamente elencate anche le
indennità del personale dell’area della vigilanza, sia per l'esercizio delle
funzioni di cui all'articolo
5 della legge 07.03.1986 n. 65 sia di carattere generale, ai sensi
dell’art. 37, comma 1, lett. b), primo e secondo periodo, del CCNL del
06.07.1995, con le integrazioni introdotte dall’art. 16 del CCNL del
22.01.2004. Il Ministero dell’Economia con parere del 24.11.2008,
rispondendo ad una precisa sollecitazione in tal senso del Dipartimento
della Funzione Pubblica, ha fatto proprie le indicazioni del citato
orientamento applicativo RAL527, ritenendo che le voci retributive da questo
definite come trattamento accessorio siano quelle assoggettabili a
decurtazione in caso di assenza per malattia fino a 10 giorni.
Tuttavia, trattandosi della definizione della portata applicativa di
specifiche disposizioni di legge, ulteriori e maggiori indicazioni in
materia potranno essere fornite direttamente dal citato Dipartimento della
Funzione Pubblica, istituzionalmente competenti per l’interpretazione delle
norme di legge concernenti il rapporto di lavoro pubblico”.
Quindi, tale ultimo orientamento ha affermato che, nell’ambito del
trattamento accessorio da non corrispondere in caso di malattia, come
previsto dall’art.
71 del d.l. n. 112/2008, convertito in
l. 133/2008, sono da ritenersi comprese anche le indennità spettanti al
personale dell’area della vigilanza, sia per l’esercizio delle funzioni di
cui all’art.
5 della l. 65/1986, sia a carattere generale, come stabilite
contrattualmente (22.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assegnazione posizioni organizzative.
Quesiti
Ente locale senza presenza di dirigenti e con una decina di aree con a capo
di ognuna una posizione organizzativa di categoria "D". Nell'insieme dei
dipendenti presenti ci sono una ventina di persone di categoria "D".
Come procedere nel tempo all'assegnazione delle posizioni organizzative?
Oltre alla valutazione individuale è obbligatoria la rotazione?
Risposta
L’Ente deve disciplinare con disposizioni regolamentari interne, integrando
il regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi, il procedimento
di conferimento delle posizioni organizzative tra il personale interno di
categoria D (requisiti soggettivi, oggettivi, criteri selettivi, modalità di
assegnazione, rinnovi ecc.), assicurando la rotazione, quale principio
fondante la
legge n. 190/2012, sia pure per quanto possibile rispetto alla
dimensione dell’ente ed alle professionalità esistenti, specie di quelle
specialistiche infungibili.
L’applicazione della misura della rotazione ordinaria è rimessa all’autonoma
programmazione delle amministrazioni, anche nel caso di Comuni di ridotte
dimensioni.
L’ANAC ha valutato opportuno consentire ad ogni amministrazione di adattare
l’applicazione della misura alla concreta situazione dell’organizzazione dei
propri uffici.
Ove non sia possibile applicare la misura, per carenza di personale, o per
professionalità con elevato contenuto tecnico, i Comuni di ridotte
dimensioni devono motivare adeguatamente nel PTPCT le ragioni della mancata
applicazione dell’istituto e sono tenuti ad adottare scelte organizzative o
altre misure di natura preventiva che producano effetti analoghi alla
rotazione quali, a titolo esemplificativo, modalità operative che
favoriscano una maggiore compartecipazione del personale alle attività del
proprio ufficio, o meccanismi di condivisione tra più soggetti delle fasi
procedimentali (21.04.2022
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PATRIMONIO:
Riduzione orari accensione punti luce illuminazione pubblica.
Quesiti
Per fronteggiare l'aumento spesa del gestore della rete di pubblica
illuminazione comunale data in concessione con progetto di finanza, occorre
provvedere alla riduzione degli orari di accensione dei punti luce.
E’ corretto che non esiste una normativa che obbliga i comuni a provvedere
all'accensione notturna continua dei punti luce sul proprio territorio?
Risposta
Ogni Regione, in genere, regola con propria legge l’inquinamento luminoso,
per cui occorre verificare nella Regione di riferimento del Comune se esista
o meno detta disciplina e se regoli la questione in oggetto.
Quanto alla riduzione degli orari di accensione per riequilibrare la
concessione, fermo restando che il principio dell’equilibrio delle
concessioni costituisce un principio previsto dalla giurisprudenza e dal
Codice dei contratti (v., in particolare l’art.
165 del Codice), è altrettanto vero che se il gestore chiede un
intervento a proprio favore in questo periodo di aumenti energetici, lo
stesso dovrebbe dimostrare –secondo buona fede e correttezza- che non ha
avuto vantaggi significativi durante il precedente periodo (se c’è stato)
della concessione da eventuali riduzioni dei costi energetici rispetto a
quelli previsti nel piano finanziario correlato alla concessione (22.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzione ex art. 110 del TUEL figura professionale a tempo determinato che
risulta aver instaurato un contenzioso civile nei confronti dell'Ente.
Quesiti
Questo Ente deve procedere ad assumere ex
art. 110 del TUOEL, una figura professionale a tempo determinato, 18 ore
settimanali, che risulta aver instaurato un contenzioso civile nei confronti
dell'Ente medesimo, attualmente pendente in appello.
Alla luce di quanto sopra, si chiede, cortesemente, di sapere se l'Ente può
procedere ad effettuare l'assunzione o se il contenzioso pendente possa
essere motivo ostativo.
In caso di possibilità di assumere, si chiede di sapere che tipo di
dichiarazione dovrebbe sottoscrivere l'interessato.
Risposta
Salvo che non sia stata espressamente prevista in sede di avviso pubblico,
un eventuale contenzioso civile (di cui non è noto il contenuto né la
natura) non esclude di per sé dalla ammissione ad una procedura ex
art. 110 TUOEL che, si rammenta, costituisce solo una procedura
idoneativa e non concorsuale in senso proprio, come chiarito più volte dalla
giurisprudenza amministrativa.
Infatti, il Cons. di Stato, sez. V, 03/05/2019, n. 2867, ha osservato che
non è necessario adottare una graduatoria finale nelle procedure ex
art. 110, comma 1, TU cit. essendo “assente una procedura di
valutazione assoluta, attraverso prove scritte ed orali, della capacità dei
candidati, ed essendo invece prevista una procedura comparativa fondata
sulla valutazione dei soli titoli posseduti dai candidati e su di un
colloquio, volto evidentemente ad apprezzare, in funzione della fiduciarietà
dell’incarico da caricare, le capacità in concreto del candidato in
relazione alle funzioni da svolgere, risultando del tutto irrilevante –ai
fini della configurazione come effettiva procedura concorsuale– la
predisposizione di una graduatoria degli idonei“.
Semmai, stante la natura anzidetta, l’eventuale contenzioso potrà incidere
sulla valutazione finale da parte del Sindaco in ordine alla fiducia
rispetto alla capacità del candidato di poter consentire all’amministrazione
di perseguire i propri obiettivi programmativi, posto che la procedura de
qua difetta in radice dei requisiti del concorso ed è connotata dal
carattere fiduciario della scelta da parte del sindaco operata nell’ambito
di un elenco di soggetti ritenuti idonei sulla base dei requisiti di
professionalità, in quanto detta procedura non consiste in una selezione
comparativa di candidati svolta sulla base dei titoli o prove di finalizzate
a saggiarne il grado di preparazione e capacità, da valutare (gli uni e le
altre) attraverso criteri predeterminati, essendo piuttosto finalizzata ad
accertare, tra coloro che hanno presentato domanda, quale sia il profilo
professionale maggiormente rispondente alle esigenze di copertura
dall’esterno dell’incarico dirigenziale (Consiglio di Stato, sez. V,
03/05/2019, n. 2867; Consiglio di Stato, sez. V, 04/04/2017, n. 1549;
Consiglio di Stato, sez. V, 29/05/2017, n. 2526; Cassazione civile, Sez. lav.
13/01/2014, n. 478; Cassazione civile, Sez. lav. 19/03/2015, n. 5516;
Cassazione civile Sez. Un. 04/09/2018, n. 21600; TAR Latina, (Lazio) sez. I,
10/03/2020, n. 108) (22.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Trattamento fiscale pagamento prestazioni di lavoro autonomo occasionale.
Quesiti
L’Ente deve pagare un musicista (non titolare di Partita IVA) per una
prestazione di lavoro autonomo occasionale. Il musicista ha presentato una
ricevuta fiscale con la sola ritenuta d'acconto del 20%.
Si chiede:
a) se sia corretto applicare la ritenuta d'acconto del 20%;
b) se debbano essere applicate anche le addizionali comunale e
regionale;
c) se il musicista deve dichiarare di non superare nell'anno
5.000,00 euro ai fini dell'obbligo contributivo INPS (ritenuta del 24%);
d) se il Comune dovrà rilasciare unicamente la Certificazione
Unica.
Risposta
Sulle prestazioni di lavoro autonomo occasionale di rende applicabile la
ritenuta IRPEF a titolo d’acconto del 20%, mentre non devono essere
applicate ritenute per le addizionali IRPEF (comunale e regionale).
Ai fini previdenziali è obbligatoria la dichiarazione circa il superamento o
meno della soglia dei 5.000 di compensi riferiti all’anno solare in quanto,
sulla eventuale eccedenza, si devono applicare le ritenute previdenziali
riferibili alla gestione separata INPS; si precisa che l’aliquota
previdenziale del 24% è applicabile solo in caso di soggetti pensionati o
titolari di altra copertura previdenziale.
Il comune, oltre ad assolvere gli obblighi di ritenuta fiscale e, in caso
previdenziale (quale sostituto d’imposta), dovrà rilasciare la
Certificazione Unica e inserire le ritenute effettuate ed i relativi
versamenti nel mod. 770 (dichiarazione annuale del sostituto d’imposta) (20.04.2022
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Ad un dipendente di questo Ministero a seguito di accesso al
pronto soccorso per evento traumatico di vita privata sono stati assegnati 7
giorni di malattia.
E’ prevista in tal caso l’effettuazione della trattenuta relativa ai primi
10 giorni di malattia?
La normativa da prendere in esame è sicuramente quella contenuta nell'art.
71, D.L. 25.06.2008 n. 112 convertito con modificazioni dalla L. 06.08.2008,
n. 133 (in SO n. 196, relativo alla G.U. 21/08/2008, n. 195) che
testualmente recita che "Per i periodi di assenza per malattia, di
qualunque durata, ad esclusione di quelli relativi al ricovero ospedaliero
in strutture del Servizio sanitario nazionale per l'erogazione delle
prestazioni rientranti nei livelli essenziali di assistenza, ai dipendenti
delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, nei primi dieci giorni di assenza è
corrisposto il trattamento economico fondamentale con esclusione di ogni
indennità o emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e
continuativo, nonché di ogni altro trattamento accessorio".
La richiamata norma dunque, esclude dalle trattenute relative ai primi dieci
giorni di malattia esclusivamente i periodi di assenza legati a ricovero
ospedaliero (e qualora il periodo di riposo o di convalescenza sia stato
ordinato dall'ospedale stesso e non, successivamente, dal medico curante in
quanto in questo caso non risulterebbe nessun legame ufficiale con il
periodo di ricovero o con il precedente infortunio).
Mentre il c.d. Day Hospital e la successiva convalescenza ordinata
dal presidio ospedaliero rientrano a pieno titolo nella casistica richiamata
in cui la decurtazione non deve essere effettuata, sul tema dell’accesso al
pronto soccorso possiamo richiamare anche una pronuncia della Cass. civ.
Sez. lavoro, 11.02.1998, n. 1436 ha stabilito che la nozione di "ricovero"
è limitata ai casi di lunga degenza e terapie riabilitative, con esclusione
pertanto delle situazioni contingenti.
Detto ciò pertanto, nel caso quindi un referto medico rilasciato dal Pronto
soccorso indichi dei giorni di malattia, questi saranno soggetti alle
ritenute economiche di cui all'art. 71, D.L. 25.06.2008 n. 112 convertito in
L. 06.08.2008, n. 133 .
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 25.06.2008 n. 112, art. 71 - L. 06.08.2008, n. 133 (20.04.2022
- tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Limite del "50% del trattamento economico complessivo annuo lordo" previsto
dall'art. 113, comma 3, D.Lgs. 50/2016.
Quesiti
Si chiede quali siano, nel dettaglio, le voci da considerare per il calcolo
del limite del "50% del trattamento economico complessivo annuo lordo"
previsto dall'art.
113, comma 3, D.Lgs. 50/2016.
Risposta
Secondo l’orientamento rappresentato nella pronuncia della Corte dei conti,
sezione regionale di controllo per la Regione Abruzzo,
parere 16.07.2021 n. 280, vanno considerati gli emolumenti,
fondamentali e accessori, per i quali maturi, nell’anno considerato, il
diritto alla percezione, non rilevando la fase del pagamento e cioè il
criterio di cassa.
Ai fini del calcolo del “trattamento economico complessivo annuo lordo”
non devono invece essere incluse le erogazioni derivanti da altri incentivi
per la progettazione che, invece, rientrano nella sommatoria degli incentivi
relativi agli incarichi eseguiti nel corso dell’anno da utilizzare per la
determinazione del valore del 50% del trattamento economico complessivo
annuo.
In sostanza, poiché il diritto all’incentivo matura quando l’attività è
svolta e compiuta, è da ritenersi che il limite del 50% del trattamento
economico complessivo annuo lordo debba essere calcolato tenendo conto del
principio di competenza e non di quello di cassa: l'incentivo è legato
all'attività svolta nell'anno ed è in quell'anno che va verificato il
rispetto del limite del 50% del trattamento annuo lordo, anche se
l'incentivo viene erogato nell'anno n+1.
Quindi se il trattamento economico complessivo annuo, escluse le erogazioni
a titolo di incentivi tecnici, è pari a 100.000 euro, a titolo di incentivi
tecnici in relazione ai diversi incarichi eseguiti non potrà essere erogato
un importo superiore a 50.000 euro per il medesimo anno. L’eventuale
eccedenza dell’incentivo rispetto al limite normativo costituisce economia
acquisita definitivamente al bilancio dell’ente e non è redistribuibile al
personale destinatario dell’incentivo né, tanto meno, alla medesima unità di
personale nell’anno successivo a quello di esecuzione dell’incarico.
Secondo la Corte dei Conti “la necessità che non vengano considerati
nell’individuazione del parametro del trattamento economico complessivo
annuo lordo,…, i corrispettivi percepiti a titolo di incentivi per la
progettazione, è data dal fatto che, altrimenti, verrebbe meno la funzione
di limite di spesa chiaramente ed espressamente assegnata allo stesso. Il
predetto limite, così calcolato, non sarebbe fisso, ma aumentando nella
misura corrispondente agli stessi compensi … maturati nell’anno di
riferimento, risulterebbe di fatto irraggiungibile in aperta e manifesta
contraddizione con la lettera e con la finalità della legge che prevede
espressamente un tetto retributivo individuale specifico” (19.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Periodo di prova.
Quesiti
Essendo stato in servizio per 5 mesi presso un Ente Locale (Comune) come
istruttore tecnico Cat. C con contratto a tempo determinato part-time, ad
oggi sono assunto presso un altro Ente Locale (Comune) come istruttore
tecnico Cat. C con contratto a tempo indeterminato full-time.
Visto che ho superato il periodo di prova consistente in 4 settimane presso
l'Ente che mi ha assunto a tempo determinato è possibile richiedere al nuovo
Ente l'esonero delle 4 settimane già superate?
Risposta
La risposta è negativa. Il periodo di prova non è richiesto soltanto nei
processi di mobilità (in quanto, e se, già superato con il precedente datore
di lavoro).
L’articolo 20, comma 2, CCNL 21.05.2018 prevede che possano essere esonerati
dal periodo di prova, con il consenso dell’interessato, i dipendenti che lo
abbiano già superato nella medesima categoria e profilo professionale oppure
in corrispondente profilo di altra amministrazione pubblica, anche di
diverso comparto.
Nel caso in esame, il primo rapporto di lavoro era a tempo determinato
mentre nel secondo rapporto, il contratto è a tempo indeterminato (19.04.2022
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APPALTI:
Fattura con CUP errato non rifiutata.
Quesiti
Si può pagare una fattura con CUP errato che non è stata rifiutata? Cosa
comporta al Comune?
Risposta
L’art. 1, co. 1, del Decreto MEF n. 132/2002, ha inserito tra le 5 possibili
cause di rifiuto della fatturaPA l’omessa indicazione del CIG e del CUP, da
riportare in fattura ai sensi dell’art.
25, co. 2, DL n. 66/2014.
Il successivo
co. 3 dell’art. 25 DL n. 66/2014 prevede che: “Le pubbliche
amministrazioni non possono procedere al pagamento delle fatture
elettroniche che non riportano i codici Cig e Cup ai sensi del comma 2.”
Dal tenore letterale del disposto normativo risulta quindi che non sia
possibile procedere al pagamento delle fatture senza indicazione del CUP;
tuttavia l’Agenzia delle entrate ha fornito un parere dal quale emerge
un’interpretazione “possibilista” riguardo l’assenza del CIG in
fattura, e la stessa soluzione dovrebbe essere valida anche per il CUP.
Infatti, l’Agenzia delle Entrate, con la risposta 436/2019, ha precisato che
“sebbene il codice identificativo di gara (CIG) non rientri tra gli
elementi indicati dall’art.
21 del DPR n. 633 del 1972, l’obbligo di indicare tale codice nella
fattura elettronica emessa verso la pubblica amministrazione è previsto
dall’art. 25, co. 2, del n. 66/2014”. Tuttavia, “l’omissione in
fattura di elementi che non pregiudicano la validità fiscale della stessa
(CIG errato o mancante) può essere sanata mediante l’invio di un nuovo
documento utile ad integrare i dati mancanti nel documento originario”.
Dal tenore letterale della risposta dell’Agenzia sembrerebbe quindi che la
presenza di un “nuovo documento” sia necessaria ad attestare la
connessione tra la fattura emessa e il CIG/CUP mancante; ciò potrebbe essere
effettuato –per esempio- con una PEC, a cui allegare la fattura elettronica
(oppure la ricevuta di esito contente l’identificativo SDI) e un documento
con la firma digitale del legale rappresentante con cui si attesti il
collegamento tra la fattura emessa e i relativi codici CIG/CUP (14.04.2022
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PATRIMONIO:
Concessione utilizzo temporaneo immobile comunale dismesso.
Quesiti
E' pervenuta da parte di un privato cittadino, la richiesta di poter
usufruire di un locale ex scuola dismessa, da utilizzare come deposito
momentaneo di mobili per eseguire dei lavori di ristrutturazione presso la
propria abitazione.
E' possibile accogliere tale richiesta e con quali modalità?
Risposta
La disciplina della gestione del patrimonio immobiliare patrimoniale e
demaniale è rimessa alla regolamentazione di ogni singolo ente, mentre la
disposizione, la valorizzazione e la concessione dei beni deve essere
contenuta nel piano delle alienazioni proposta dalla giunta comunale al
consiglio comunale in armonia con il DUP.
L’ente dovrà, attraverso i propri documenti di programmazione, chiarire e
precisare l’utilizzo del bene e fornire indirizzi attraverso gli organi di
governo al responsabile del servizio tecnico-patrimonio ai fini della
relativa gestione (14.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Indennità didisagio.
Quesiti
Una dipendente è passata da aiuto cuoca a semplice addetta delle pulizie, a
seguito di esternalizzazione del servizio.
L'indennità di disagio può essergli corrisposta?
Il regolamento dell’Ente è generico, in quanto richiama la normativa del
CCNL enti locali.
Nel caso è necessario comunque un atto di attribuzione successivo all'esternalizzazione
del servizio, con cui si da atto che si corrisponde l'indennità alla
dipendente?
Risposta
Nel Ccnl funzioni locali l’indennità di disagio è stata sostituita
dall’indennità condizioni di lavoro disciplinata dall’art. 70-bis e
comprendente il ristoro per lo svolgimento di attività disagiate, attività
esposte ai rischi ed attività implicanti il maneggio lavori.
Con il parere CF48 del 03.04.2019 l’ARAN, rispetto a questa nuova indennità
ha espresso i seguenti orientamenti. Si tratta di una unica indennità, che
vale a remunerare, anche complessivamente, tutte le diverse fattispecie ivi
considerate, nell’ambito di un importo massimo di € 10 giornalieri.
Pertanto, la circostanza che venga considerata solo una o più delle
condizioni legittimanti, può valere solo a determinare il concreto ammontare
dell’indennità di cui si tratta all’interno del tetto massimo di € 10.
Così, ad esempio, l’indennità potrebbe essere riconosciuta in un importo più
elevato a favore del lavoratore che, addetto al maneggio valori, si trovi ad
operare anche in una situazione di disagio, rispetto ad altro lavoratore
che, invece, renda solo la propria prestazione in una condizione di disagio.
La nuova indennità è commisurata ai giorni di effettivo svolgimento delle
attività legittimanti ed il suo ammontare è determinato in sede di
contrattazione integrativa, sulla base di specifici criteri individuati
direttamente dal CCNL e cioè:
a) l’effettiva sussistenza ed incidenza di ciascuna delle
condizioni legittimanti sulle attività svolte dal dipendente;
b) le caratteristiche istituzionali, dimensionali, sociali e
ambientali degli enti interessati e degli specifici settori di attività.
Ciò premesso l’indennità di condizioni di lavoro può essere riconosciuta
laddove alla prestazione lavorativa sia riconducibile una condizione di
disagio che rientri tra i criteri previsti dalla contrattazione integrativa.
La misura dell’indennità deve tenere conto dei seguenti 3 criteri
così definiti, ai sensi dell’art. 70-bis, comma 3, lett. a) e b), del nuovo
CCNL. Di seguito viene fornita una esemplificazione a puro scopo
orientativo:
1. effettiva incidenza di ciascuna delle causali erogative di cui al comma 1
dell’art- 70-bis che costituiscono presupposto applicativo dell’indennità,
nell’ambito delle attività svolte dal dipendente. Il sistema di ponderazione
dell’incidenza delle predette causali, ai sensi della lettera a) del
richiamato comma 3, deve essere strutturato su base numerica, assumendo,
nell’ipotesi proposta, la scala decimale ripartita su ciascun fattore di
esposizione, come di seguito indicato:
a. rischio ---> fino a 6 (scala sviluppata su 0,5 decimali)
b. disagio ---> fino a 3 (scala sviluppata su 0,5 decimali)
c. maneggio valori ---> fino a 1 (scala sviluppata su 0,5 decimali)
2. caratteristiche istituzionali, dimensionali, sociali ed ambientali
dell’amministrazione (benchmark esterno);
a. ente con competenze indirette in ambiti della sicurezza urbana,
della tutela dell’ambiente e sociale, con limitate problematiche sociali e
non rilevanti disagi socio–economici, di limitate dimensioni strutturali e
articolazioni organizzative interne ed esterne: indice 0,9
b. ente con competenze dirette in ambiti della sicurezza urbana,
della tutela dell’ambiente e sociale, con significative problematiche
sociali e con rilevanti disagi socio–economici, di medie dimensioni
strutturali e articolazioni organizzative interne ed esterne: indice 1,0
c. ente con rilevanti competenze dirette in ambiti della sicurezza
urbana, della tutela dell’ambiente e della tutela sociale, con elevate
problematiche sociali e con estesi disagi socio–economici, di rilevanti
dimensioni strutturali e articolazioni organizzative interne ed esterne:
indice 1,1;
3. caratteristiche istituzionali, dimensionali, sociali ed ambientali dello
specifico settore di attività (benchmark interno).
A. settore con competenze in materia di sicurezza sociale: indice
0,4
B. settore con competenze in materia di gestione e di maneggio di
valori: indice 0,2
C. settore con competenze in materia di tutela ambientale: indice
0,6
D. settore con competenze in materia di sicurezza urbana: indice
0,7
E. settore con competenze in materia di tutela sociale: indice 0,3
F. settore con competenze in materia di manutenzioni tecniche:
indice 0,8
G. settore con competenze in materia di …: indice 0,8
Si ipotizzi la valutazione della posizione funzionale che debba essere
valutata ai fini dell’applicazione dell’istituto in parola, come segue:
a. incidenza: rischio 4, disagio 1, maneggio valori 0, totale = 5
b. caratteristiche esterne: tipologia di ente b) = indice 1
c. caratteristiche interne: settore G. = indice 0,8
d. valore minino e massimo della misura giornaliera dell’indennità:
da 1 a 10 euro
e. valore di riferimento ai fini della misura dell’indennità per la
specifica posizione = 5 x 1 x 0,8 = 4,0
che corrisponde, nell’ambito della forbice economica contrattualmente
definita, ad un’indennità giornaliera di 4 euro.
Il valore dell’indennità giornaliera per la posizione interessata è
determinata, quindi, in € 4 per ciascuna giornata di presenza effettiva al
lavoro, dovendosi escludere, in ogni caso, dal computo dell’indennità, le
assenze giustificate dal lavoro, sia per intere giornate di attività che per
assenze ad ore che abbiano il carattere della prevalenza rispetto al debito
orario giornaliero del lavoratore in occasione della giornata di assenza, da
cui: € 4,0 per singola giornata moltiplicato le giornate lavorative medie
mensili pari a n. 22 giornate = € 88,00 mensili lordi per l’applicazione
dell’indennità di condizioni di lavoro (13.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Trattenuta primi 10 giorni di malattia.
Quesiti
Una dipendente a seguito di caduta (non su luogo di lavoro e non orario di
lavoro – motivi personali) ha effettuato accesso al pronto soccorso ed è
stata dimessa circa alle 02.00 di notte con assegnazione 5 giorni di
malattia.
Si chiede se in tal caso è prevista l’effettuazione della trattenuta
relativa ai primi 10 giorni di malattia.
Risposta
Nel caso in esame, si ritiene che debba essere effettuata la trattenuta
di cui all’articolo
71 del Decreto-legge 25.06.2008 n. 112.
Infatti, la norma esclude espressamente i periodi di assenza per malattia
dovuti a ricovero ospedaliero in strutture del Servizio sanitario nazionale
per l'erogazione delle prestazioni rientranti nei livelli essenziali di
assistenza (LEA). L’accesso al pronto soccorso non è ricovero ospedaliero (13.04.2022
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Vicesindaco e Presidente di Pro Loco. Eventuale incompatibilità.
1) Ai sensi dell’art. 63, comma 1, n. 1), seconda parte, del
D.Lgs. 267/2000, non può ricoprire la carica di consigliere comunale
l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la
parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle
entrate dell’ente.
Affinché insorga la causa di incompatibilità di cui trattasi si rende
necessaria la ricorrenza di un requisito soggettivo (il consigliere comunale
deve ricoprire, all’interno dell’ente sovvenzionato dal comune, il ruolo di
amministratore o di dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento) e di uno oggettivo (l’ente associativo deve ricevere dal
comune un’erogazione continuativa a titolo gratuito, dell’entità indicata
dalla norma).
2) Se l’associazione svolge un servizio nell’interesse dell’ente
locale, potrebbe configurarsi anche la causa di incompatibilità prevista
dall’art. 63, comma 1, n. 2), prima parte, del D.Lgs. 267/2000, il quale
prevede che non può ricoprire la carica di consigliere comunale colui che,
come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni
di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune.
Il Gruppo Consiliare chiede un parere in merito all’eventuale sussistenza di
una causa di incompatibilità per il Vicesindaco (consigliere comunale)
[1], il quale riveste
altresì la carica di Presidente della Pro Loco, giacché –secondo quanto
precisato– detta associazione “gode di numerosi canali di contribuzione e
collaborazione diretta con l’Amministrazione Comunale”.
Occorre, preliminarmente, ricordare che compito dello scrivente Ufficio è
quello di fornire attività di consulenza giuridico-amministrativa
consistente nell’esposizione, in generale, del quadro normativo e
giurisprudenziale concernente le questioni giuridiche poste dagli enti
locali, affinché questi ultimi possano trarre elementi utili per una loro
autonoma determinazione in ordine ai singoli casi concreti, in relazione
alle peculiarità che questi presentano.
Un tanto doverosamente premesso, sentito il Servizio elettorale e Consiglio
delle autonomie locali, si formulano le seguenti considerazioni.
Per poter valutare se sussista, nel caso di specie, una causa di
incompatibilità, occorre prendere le mosse dalle previsioni contenute
nell’art. 63, comma 1, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).
In particolare, ai sensi della statuizione recata dal n. 1), seconda parte,
della suddetta disposizione, non può ricoprire la carica di consigliere
comunale l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la
parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle
entrate dell’ente.
Occorre anzitutto rilevare che, secondo accreditata dottrina
[2], il termine “ente”
deve essere interpretato in senso lato, vale a dire comprensivo tanto degli
organismi forniti quanto di quelli privi di personalità giuridica.
In detti termini si è espressa anche la Corte di cassazione
[3], comprendendo nella
nozione di ente sovvenzionato le persone giuridiche sia pubbliche che
private e le associazioni non riconosciute che, pur sprovviste di
personalità giuridica, godano di autonomia amministrativa e patrimoniale.
Circa il requisito soggettivo, l’art. 63, comma 1, n. 1), del D.Lgs.
267/2000 lo identifica nel fatto che il consigliere comunale ricopra,
all’interno dell’ente sovvenzionato dal comune, il ruolo di amministratore o
di dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento: poiché, nel
caso di specie, il Vicesindaco riveste il ruolo di Presidente della Pro
Loco, nessun dubbio si pone in merito alla ricorrenza dell’elemento
soggettivo in parola.
Quanto all’elemento oggettivo necessario per l’insorgenza della causa di
incompatibilità in trattazione, esso consiste nel fatto che l’ente
associativo riceva dal comune una sovvenzione, consistente in un’erogazione
continuativa a titolo gratuito, affinché, grazie all’integrazione del
proprio bilancio, l’ente medesimo sia in grado di raggiungere le finalità in
vista delle quali è stato costituito.
La sovvenzione deve essere connotata dai seguenti tre caratteri:
- continuità, in quanto la sua erogazione non deve essere
occasionale o saltuaria;
- facoltatività totale o parziale, da interpretare nel senso che
l’intervento finanziario del comune non deve discendere da un obbligo,
oppure può essere in parte obbligatorio e in parte facoltativo
[4];
- notevole consistenza, intendendosi che, per la parte facoltativa,
l’apporto della sovvenzione deve risultare superiore al dieci per cento del
totale delle entrate annuali dell’ente sovvenzionato.
Poiché il Gruppo Consiliare afferma che la Pro Loco gode di “collaborazione
diretta con l’Amministrazione Comunale”, occorre stabilire se
l’associazione svolga un servizio nell’interesse del comune, posto che, in
caso affermativo, verrebbe in rilievo la causa di incompatibilità di cui
all’art. 63, comma 1, n. 2), prima parte del D.Lgs. 267/2000, ai sensi del
quale non può ricoprire la carica di consigliere comunale “colui che,
come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di
coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni
di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune”.
Al riguardo, il Ministero dell’interno
[5] ha chiarito
espressamente che “l’assenza della finalità di lucro non è sufficiente ad
escludere la sussistenza dell’incompatibilità. Il comma 2 dell’articolo 63
ha, infatti, escluso l’applicazione della suddetta ipotesi solo per coloro
che hanno parte in cooperative sociali, iscritte regolarmente nei registri
pubblici, dal momento che solo tali forme organizzative offrono adeguate
garanzie per evitare il pericolo di deviazioni nell’esercizio del mandato da
parte degli eletti ed il conflitto, anche solo potenziale, che la medesima
persona sarebbe chiamata a dirimere se dovesse scegliere tra l’interesse che
deve tutelare in quanto amministratore dell’ente che gestisce il servizio e
l’interesse che deve tutelare in quanto consigliere del comune che di quel
servizio fruisce”.
Va, infatti, rammentato che la finalità perseguita dalla disposizione è
quella di evitare che una stessa persona fisica rivesta contemporaneamente
la carica di amministratore comunale e la qualità di amministratore di un
soggetto che si trovi in rapporti giuridici con l’ente locale,
contraddistinti da una prestazione da effettuare all’ente o nel suo
interesse, posto che tale situazione potrebbe originare una posizione di
conflitto di interessi.
La norma di legge, utilizzando le locuzioni “ha parte” e “nell’interesse
del comune”, sottende all’antitesi esistente tra interesse “particolare”
del soggetto ed interesse “generale” (quanto alle funzioni
attribuitegli) del comune e, perciò, allude alla situazione di potenziale
conflitto di interessi in cui si trova tale soggetto, rispetto all’esercizio
imparziale della carica elettiva.
Inoltre, con l’espressione “servizi … nell’interesse del comune” il
legislatore intende fare riferimento a “qualsiasi rapporto intercorrente
con l’ente locale che, a causa della sua durata e della costanza delle
prestazioni effettuate, sia in grado di determinare conflitto di interessi”
[6].
In merito alla suddetta espressione, la giurisprudenza
[7] ha chiarito che essa
si riferisce “a tutte quelle attività che l’ente locale, nell’ambito dei
propri compiti istituzionali e mediante l’esercizio dei poteri normativi ed
amministrativi attribuitigli, fa e considera proprie”.
La disposizione di cui trattasi si riferisce, pertanto, al soggetto che,
rivestito di una delle predette qualità soggettive, partecipi ad un servizio
pubblico (nel senso ampio di cui si è detto) come portatore di un proprio
specifico interesse, opposto a quello generale dell’ente locale e, quindi,
per questo potenzialmente confliggente con l’esercizio imparziale della
carica elettiva.
In sintesi, la posizione del Vicesindaco dovrà essere esaminata in relazione
ai rapporti che concretamente legano l’ente locale alla Pro Loco:
- qualora il comune avesse instaurato con l’associazione un
rapporto di sovvenzione, la posizione del soggetto dovrebbe essere esaminata
alla luce del disposto di cui all’art. 63 citato, comma 1, n. 1);
- se invece sia stato stipulato un contratto per l’assolvimento di
un servizio nell’interesse del comune, in tale caso la medesima posizione
dovrebbe essere esaminata alla luce dell’art. 63, comma 1, n. 2).
Per completezza espositiva si richiama, inoltre, il disposto di cui all’art.
78, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, applicabile a tutti gli amministratori di
cui all’art. 77, comma 2, secondo il quale essi “devono astenersi dal
prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L’obbligo
di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere
generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e
specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado”.
La disposizione non inserisce alcuna causa di incompatibilità, ma individua
alcune fattispecie generatrici di conflitto di interesse, in presenza delle
quali l’amministratore locale che si trovi in una delle situazioni
contemplate dal legislatore è tenuto ad astenersi.
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[1] Si ricorda che le cause di incompatibilità previste in capo ai
consiglieri comunali valgono, in ogni caso, anche per gli assessori (tra cui
il Vicesindaco), ai sensi dell’art. 47, commi 3 e 4, del D.Lgs. 267/2000,
atteso che gli stessi devono possedere i “requisiti di candidabilità,
eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere”.
[2] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione locale, Vol. 3,
ed. Giuffrè, II ed. 1994, pagg. 78 e segg.; R.O. Di Stilo – E. Maggiora,
Ineleggibilità e incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985,
pag. 73; E. Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità
nell’ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[3] Con sentenza 22.06.1972, n. 2068.
[4] Sul concetto di facoltatività si sono formati due orientamenti: l’uno,
più rigoroso, volto a ricomprendervi le sovvenzioni che non trovano origine
in un obbligo stabilito dalla legge (Ministero dell’interno, pareri del
18.03.2021 e del 30.12.2010; Regione Val d’Aosta, parere dell’08.03.2002; F.
Pinto e S. D’Alfonso, Incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità e
status degli amministratori locali, Maggioli editore, 2003, pag. 196);
l’altro, secondo cui la sovvenzione è facoltativa nel senso che
“l’intervento finanziario dell’ente locale non deve derivare da un obbligo
di legge o da un obbligo convenzionale” (così ANCI, pareri del 04.02.2019,
del 17.09.2014 e del 28.04.2014; R.O. di Stilo, ‘Gli organi regionali,
provinciali, comunali e circoscrizionali’, Maggioli editore, 1982, pag. 140
ed E. Maggiora, ‘Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente
locale’, Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV., ‘L’ordinamento comunale’,
Giuffrè editore, 2005, pag. 138).
[5] Nei pareri del 12.05.2011 e dell’11.01.2011.
[6] Saporito, Pisciotta, Albanese, ‘Elezioni regionali ed amministrative’,
Bologna, 1990, pag. 115.
[7] Cassazione civile, sez. I, sentenza 16.01.2004, n. 550 (12.04.2022
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Diritto di accesso agli atti di un amministratore locale. Conflitto di
interessi.
1) Il diritto di accesso riconosciuto ai
consiglieri comunali è strettamente funzionale all'esercizio delle loro
funzioni, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi
istituzionali decisionali dell'ente locale ai fini della tutela degli
interessi pubblici e si configura come peculiare espressione del principio
democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della
collettività.
2) La giurisprudenza ha costantemente sottolineato che, nel
valutare se concedere l’accesso alle informazioni richieste dai consiglieri
comunali, l’Amministrazione deve considerare l’esercizio, in tutte le sue
potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascuno di essi è individualmente
investito, in quanto membro del consiglio.
Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede un parere relativo ad una
richiesta di accesso agli atti avanzata da un consigliere comunale. Più in
particolare, riferisce dell’esistenza di un contrasto tra privati cittadini
frontisti, uno dei quali è parente in linea collaterale dell’amministratore
locale, relativamente ad una questione che interessa la natura giuridica di
una strada.
Atteso che, in relazione alla vicenda in essere, stante l’avvenuto
coinvolgimento dell’Amministrazione comunale, questa sta valutando di
affidare un incarico ad un legale, e considerato che il consigliere ha
inoltrato richiesta di accesso al fascicolo relativo alla pratica in
riferimento, “in cui è contenuto l’avvio della procedura di affidamento
di incarico legale”, il Comune desidera sapere se “i
rapporti familiari possano costituire un limite all’interesse del munus
pubblico” ai fini dell’ostensibilità
dei documenti richiesti dall’amministratore locale.
Risulta nota la particolare ampiezza che caratterizza il diritto di accesso
agli atti dei consiglieri comunali, il quale trova il proprio fondamento
giuridico nell’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267 ai sensi del quale “i consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e
le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio
mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati
dalla legge.” [1]
Come già rilevato in diversi pareri rilasciati da questo Ufficio
sull’argomento [2],
la giurisprudenza ha costantemente sottolineato che, nel valutare se
concedere l’accesso alle informazioni richieste dai consiglieri comunali,
l’Amministrazione deve considerare l’esercizio, in tutte le sue potenziali
esplicazioni, del munus di cui ciascuno di essi è individualmente
investito, in quanto membro del consiglio.
Anche di recente è stato ribadito che: “Il diritto di accesso
riconosciuto ai consiglieri comunali ha una ratio diversa da quella che
contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi
riconosciuto alla generalità dei cittadini ovvero a chiunque sia portatore
di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso: infatti, mentre in linea generale il diritto di accesso è
finalizzato a permettere ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti
per la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello
riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente funzionale all'esercizio
delle loro funzioni, alla verifica e al controllo del comportamento degli
organi istituzionali decisionali dell'ente locale ai fini della tutela degli
interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si
configura come peculiare espressione del principio democratico
dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività”
[3].
Sul consigliere comunale non può gravare alcun onere di motivare le proprie
richieste di informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiedere
le specifiche ragioni sottese all’istanza di accesso, né a compiere alcuna
valutazione circa l’effettiva utilità della documentazione richiesta ai fini
dell’esercizio del mandato [4].
Peraltro, il diritto di accesso spettante agli amministratori locali, pur
essendo più ampio di quello riconosciuto alla generalità dei cittadini ai
sensi del Capo V della legge 07.08.1990, n. 241, incontra il divieto di
usare i documenti per fini privati o comunque diversi da quelli
istituzionali, in quanto i dati acquisiti in virtù della carica ricoperta
devono essere utilizzati esclusivamente per le finalità collegate
all’esercizio del mandato (presentazione di mozioni, interpellanze,
espletamento di attività di controllo politico-amministrativo ecc.). Il
diritto di accesso, inoltre, non deve essere emulativo, in quanto riferito
ad atti palesemente inutili ai fini dell’espletamento del mandato
[5].
Premesso in generale quanto sopra, in relazione alla fattispecie in esame,
si ritiene necessario porre particolare attenzione alla ratio che giustifica
la particolare ampiezza del diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri
comunali, la quale “riposa nel principio democratico dell’autonomia
locale e della rappresentanza esponenziale, sicché tale diritto è
direttamente funzionale non tanto all’interesse del consigliere comunale ma
alla cura dell’interesse pubblico connessa al mandato conferito,
controllando il comportamento degli organi decisionali del Comune”
[6].
La giurisprudenza, al riguardo, ha avuto modo di precisare che «il
bisogno di conoscenza del titolare della carica elettiva debba porsi in
rapporto di strumentalità con la funzione "di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo", di cui nell'ordinamento dell'ente locale è
collegialmente rivestito il consiglio comunale (art. 42, comma 1, t.u.e.l.),
e alle prerogative attribuite singolarmente al componente dell'organo
elettivo (art. 43). La strumentalità del diritto di accesso del consigliere
comunale ora evidenziata è stata di recente ribadita da questa Sezione nel
precedente di cui alla sentenza del 13.08.2020, n. 5032, [...], laddove si è
sottolineato che lo scopo del diritto di accesso del consigliere comunale è
quello "di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole
sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere tutte le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale"» [7].
Ancora è stato affermato che il diritto di accesso “non attribuisce al
singolo consigliere comunale un generale diritto di accesso in ragione del
sol fatto di rivestire detta carica istituzionale, bensì, strumentalmente,
lo riconnette all’esercizio delle sue funzioni all’interno dell’assemblea di
cui fa parte. Detto in altri termini, non appare sufficiente rivestire la
carica di consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso,
ma occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata
all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare. Del resto, la
finalizzazione dell'accesso ai documenti in relazione all'espletamento del
mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello
stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del
consigliere (Cons. Stato, V, 26.09.2000, n. 5109)” [8].
Altra giurisprudenza amministrativa, richiamando il Consiglio di Stato sopra
riportato ha ulteriormente precisato che “l’istanza di accesso del
consigliere comunale non può essere sorretta dalla sola allegazione della
carica ricoperta ma deve, altresì, essere riconnessa ad un concreto
esercizio delle prerogative consiliari […]” [9].
Con riferimento alla fattispecie in esame non può sottacersi il dubbio circa
l’esistenza di una finalizzazione del diritto di accesso alle “esigenze
del mandato”: si ribadisce, al riguardo, che l’accesso agli atti
riconosciuto agli amministratori locali trova il proprio fondamento e limite
nel fatto che esso pertenga all’attività istituzionale svolta, dovendosi
ritenere inammissibili richieste di accesso agli atti dettate da interessi
personali.
Pur riconoscendo che le pronunce giurisprudenziali in materia di accesso
agli atti da parte degli amministratori locali fanno riferimento al termine
“utili”, contemplato nel citato articolo 43 del D.Lgs. 267/2000, in
maniera particolarmente estensiva, con lo scopo di non fare conseguire
alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, “poiché
tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni”
[10], al contempo non si
può tralasciare il sospetto circa la natura personale e non istituzionale
dell’interesse sotteso all’istanza proposta nonché la posizione di conflitto
di interessi in cui parrebbe versare l’amministratore locale, atteso il
vincolo di parentela che lo lega a uno dei privati cittadini coinvolti nella
vicenda.
A tale ultimo riguardo si evidenzia come l’articolo 78 del D.Lgs. 267/2000,
al comma 1, prevede che “il comportamento degli amministratori,
nell'esercizio delle proprie funzioni, deve essere improntato
all'imparzialità e al principio di buona amministrazione […]”. Trattasi
di un principio generale di imparzialità [11]
che verrebbe compromesso ogni qual volta un amministratore locale si trovi
in posizione di conflitto di interessi. Anche se con riferimento all’obbligo
di astensione dal prendere parte alle delibere comunali, sancito al
successivo comma 2 dell’articolo 78 in commento, la giurisprudenza ha
definito il concetto di conflitto di interessi, il quale «nei suoi
termini essenziali valevoli per ciascun ramo del diritto, si individua nel
contrasto tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali
di tipo “istituzionale” ed un altro di tipo personale
[12].». Con
l’ulteriore precisazione che l’interesse può definirsi personale sia se
riguardante in proprio il consigliere sia nel caso che inerisca a persone a
lui legate da vincoli di parentela.
Concludendo, rientra nell’autonoma valutazione dell’Ente la decisione di
concedere o meno l’accesso ai dati richiesti dal consigliere comunale, alla
luce del quadro giuridico sopra delineato, nella consapevolezza che solo un
giudice, eventualmente investito della questione, potrebbe esprimersi in
merito alla specifica questione in essere, accogliendo o meno l’eventuale
ricorso del consigliere che si vedesse negato l’accesso agli atti, richiesto
in forza del disposto di cui all’articolo 43 TUEL.
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[1] Nello stesso senso depone l’articolo 16, comma 5, dello statuto
comunale il quale recita: “Per l’esercizio delle proprie attribuzioni,
ciascun Consigliere ha diritto di ottenere senza particolari formalità dagli
uffici comunali dalle aziende e dagli enti dipendenti, copia di atti,
notizie ed informazioni utili ai fini dell’espletamento del mandato.”.
Inoltre, il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale contiene
una puntuale disciplina sul “diritto di visione dei provvedimenti” (articolo
11); sul “diritto d’informazione” (art. 12) e sul “diritto alla
consultazione di atti” (art. 12-bis) dei consiglieri. Delle norme citate,
quella maggiormente aderente alla fattispecie in esame potrebbe essere
l’articolo 12 il quale recita:
“I Consiglieri comunali hanno diritto di avere dal Sindaco, dalla Giunta,
dal Segretario Comunale e dai Dirigenti dei settori ed uffici comunali le
informazioni necessarie all’esercizio del loro mandato.
A tal fine i predetti possono rivolgere richiesta d’informazione,
verbalmente, ai soggetti indicati, al comma precedente i quali sono
autorizzati, nell’ambito delle loro competenze, a fornire tutte le notizie
ufficialmente a loro conoscenza su ciascuna pratica trattata per competenza
dal loro Assessorato, settore od ufficio, salvo quelle per le quali
ritengano sussistere speciali motivi di riservatezza, tali da giustificare
l’obbligo del segreto d’ufficio anche verso i Consiglieri Comunali.
Omissis”.
[2] Così, pareri del 23.06.2021 (prot. n. 15034) e del 03.11.2020 (prot. n.
32153).
[3] TAR Sicilia, Catania, sez. I, sentenza del 04.05.2020, n. 926.
[4] A tale riguardo il Ministero dell’Interno ha evidenziato che “Il
consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni,
poiché, diversamente opinando, la P.A. assumerebbe il ruolo di arbitro delle
forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il
nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate
da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi
espletato” (Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017).
[5] Tra le altre, TAR Lombardia, Milano, sez. III, sentenza del 23.09.2014,
n. 2363.
[6] G. Sola, “Il diritto di accesso del consigliere comunale e il vincolo al
segreto d’ufficio”, 26.02.2021, in federalismi.it
[7] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell’11.03.2021, n. 2089. Nello
stesso senso si veda, anche Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del
22.06.2021, n. 4792.
[8] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.01.2019, n. 12.
[9] TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, sentenza del 20.01.2020, n. 16.
[10] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 13.08.2020, n. 5032. Nello
stesso senso si veda, anche, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del
02.03.2018, n. 1298 ove si afferma che «La locuzione aggettivale "utile",
contenuta nell'art. 43 del t.u.e.l., non vale ad escludere il carattere
incondizionato del diritto (soggettivo pubblico) di accesso del consigliere,
ma piuttosto comporta l'estensione di tale diritto a qualsiasi atto
ravvisato "utile" per l'esercizio delle funzioni».
[11] In questo senso Consiglio di Stato, sez. II, sentenza del 10.09.2020,
n. 5423.
[12] Consiglio di Stato, sentenza 5423/2020, citata in nota 11 (12.04.2022 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Certificazione giustificativa assenza per malattia.
Quesiti
Con la presente si chiede assistenza al fine della gestione di una pratica
di un nostro dipendente che fino al 31.03.2022 è stato in aspettativa non
retribuita e ci ha comunicato l'impossibilità di riprendere servizio a
partire dal 01.04.2022 per motivi di salute.
Il dipendente ci ha trasmesso la documentazione medica che gli hanno
rilasciato, sia in lingua originale sia tradotta in italiano. Attualmente il
dipendente si trova in un paese estero, ovvero in Costa Rica, e non
rientrerà in Italia fino a quando non sarà guarito. L’INPS dichiara che per
tale certificato medico è necessaria l'apostille affinché sia valido. Il
dipendente ad oggi non l'ha presentata.
Ci chiede se la documentazione che ci ha inviato è sufficiente per avere
diritto alla malattia.
Risposta
Si ritiene che la risposta debba essere negativa.
Infatti, la corresponsione dell’indennità di malattia può aver luogo solo
dopo la presentazione all’INPS della certificazione originale, legalizzata a
cura della rappresentanza diplomatica o consolare all'estero.
Ove la suddetta certificazione di malattia non risulti ancora legalizzata al
momento del rientro in patria del lavoratore, la regolarizzazione potrà
avvenire, a cura dello stesso, anche in un momento successivo, purché
ovviamente entro i termini di prescrizione annuale.
Sono esenti da legalizzazione i Paesi aderenti alla Convenzione dell'Aja del
05.10.1961 –tra cui è annoverato il Costa Rica– a condizione che gli atti e
i documenti rilasciati da suddetti Paesi rechino “l’Apostille”, ossia
un tipo di legalizzazione semplificata che certifica la veridicità della
firma, la qualità del firmatario e l’autenticità del sigillo o timbro
apposto (12.04.2022
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Graduatoria concorsuale.
Quesiti
Questo Comune deve bandire un concorso per coprire due posti a tempo
indeterminato di categoria C, posizione economica C1, profilo professionale
di Istruttore Amministrativo, di cui un posto a tempo pieno e
l’altro a tempo parziale al 50% (18 ore settimanali).
Si chiede se sia necessario disciplinare nel bando di concorso (nel vigente
regolamento interno non è previsto nulla in merito) la modalità
dell’eventuale scorrimento della graduatoria.
Si riporta un esempio per meglio esplicitare la questione.
Al primo classificato si assegna il posto a tempo pieno ed al
secondo classificato si assegna il posto a tempo parziale.
Il secondo classificato non supera il periodo di prova oppure si
dimette dopo pochi giorni, ecc…
Pertanto, al terzo classificato viene chiesto di coprire il posto a
tempo parziale: il terzo classificato accetta.
Il giorno dopo, il primo classificato si dimette durante il periodo
di prova: a questo punto sarebbe corretto chiedere al terzo classificato
oppure al quarto classificato di coprire il posto a tempo pieno?
Inoltre, il terzo classificato avrebbe potuto rifiutare in precedenza
il posto a tempo parziale?
Risposta
Si deve ritenere che non sia corretto attivare un'unica procedura
concorsuale per posizioni lavorative non omogenee, laddove la omogeneità
deve riguardare sia il profilo professionale e la categoria di inquadramento
che il profilo giuridico (tempo pieno o tempo parziale).
L’omogeneità della posizione lavorativa è funzionale a garantire che i
partecipanti siano esattamente interessati ad una specifica posizione
lavorativa. Infatti, coloro che partecipano ad un concorso a tempo pieno
potrebbero non essere interessati ad una posizione lavorativa a tempo
parziale e viceversa. Un'unica graduatoria per le due posizioni lascerebbe
in una condizione di incertezza i partecipanti e lederebbe i principi cui
devono adeguarsi le procedure di reclutamento e gli scorrimenti delle
graduatorie che sono possibili nella misura in cui la posizione per la quale
la graduatoria si è formata sia esattamente corrispondente a quella del
posto da coprire.
A tal proposito in giurisprudenza è stato ribadito, con riferimento al “profilo
e alla categoria professionale del posto che si intende coprire”, che
devono essere del tutto corrispondenti a quelli per i quali è stato bandito
il concorso la cui graduatoria si intende utilizzare.
La stessa omogeneità deve sussistere anche per ogni altro elemento che
connota e caratterizza i posti in comparazione (quello da coprire e quello
messo a concorso), come il regime giuridico dei profili, che ha riflessi
anche sulla partecipazione dei canditati e, quindi, sul numero dei
concorrenti.
In particolare, il raffronto delle caratteristiche dei posti da coprire deve
essere effettuato sulla base della categoria e del profilo professionale,
prestando attenzione ai contenuti della prestazione e alle competenze
richieste. Si devono, pertanto, verificare attentamente le declaratorie
associate ai due profili per escludere che vi siano aspetti differenziali
sia con riferimento alle competenze richieste che con riferimento al
contenuto della prestazione esigibile; in caso, invece, che questi aspetti
differenziali siano presenti è da escludere che i due profili possano essere
considerati equivalenti.
Pertanto, si ritiene che una graduatoria formatasi per assunzioni a tempo a
tempo pieno non possa essere utilizzata per assunzioni a tempo parziale, in
quanto in questo modo potrebbe essere stata impedita la partecipazione alla
procedura concorsuale a coloro che fossero interessati solo ad un rapporto
di lavoro a tempo parziale (11.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarico di lavoro autonomo a dipendente di ruolo di un comune che venga
utilizzato nell’ambito di una gestione associata.
Quesiti
Il nostro Comune è in gestione associata, insieme ad altri tre Comuni,
per il servizio tecnico settore Lavori Pubblici.
Un dipendente part-time di uno degli altri tre Comuni aderenti all'Area
Tecnica Unica, svolge anche attività di geometra in libera professione.
Quando ancora questa persona non era stata assunta dalla PA, le era stato
affidato da questo Comune un incarico per una progettazione di fattibilità
di un intervento di ristrutturazione.
Si chiede se possibile affidare alla stessa persona un ulteriore incarico
per la prosecuzione della progettazione definitiva-esecutiva dell'intervento
in questione.
Risposta
Un dipendente di ruolo di un comune che venga utilizzato nell’ambito di una
gestione associata non può essere destinatario di un incarico di lavoro
autonomo da parte di uno dei comuni convenzionati. L’incarico di lavoro
autonomo realizzerebbe una condizione di conflitto potenziale che dovrebbe
essere immediatamente rilevata dalle strutture preposte.
Non può invece essere escluso che, nell’ambito del ruolo svolto quale
dipendente assegnato alla gestione associata del servizio tecnico, lo stesso
dipendente venga incaricato della progettazione di un intervento; in questo
caso si configura una prestazione esigibile nell’ambito del profilo
professionale di inquadramento.
L’esercizio della libera professione, possibile solo nella ipotesi di
rapporto di lavoro a tempo parziale non superiore al 50%, non deve generare
conflitti d’interesse (11.04.2022
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assoggettamento a TFR o a TFS nuovo dirigente da assumere.
Quesiti
L’Ente deve assumere un nuovo dirigente ma ha un dubbio. Questa persona
inizialmente era un dipendente sempre dell'ente ed era in regime di TFS.
Successivamente gli sono stati dati dei ruoli da dirigente a tempo
determinato e quindi è stato assoggetto a TFR. Adesso tale dipendente ha
vinto il concorso e deve essere assunto a tempo indeterminato.
Si chiede di sapere se deve assoggettarlo a TFR o a TFS.
Risposta
La stessa
circolare INPDAP n. 30 del 01.08.2002 così recita:
“1) PERSONALE IN REGIME DI TFR
Sono obbligatoriamente in regime di TFR:
a) tutti i dipendenti assunti con contratto di lavoro a tempo
determinato in essere al 30/05/2000 (data di entrata in vigore del D.P.C.M.
20/12/1999) o stipulato successivamente;
b) tutti i dipendenti assunti con contratto di lavoro a tempo
indeterminato dopo il 31/12/2000 (cfr. D.P.C.M. 02/03/2001).”
Nel caso in esame, trattandosi di ulteriore nuova assunzione, tale rapporto
di lavoro sarà assoggettato al regime di fine servizio TFR.
Vale la pena di ricordare che qualora tra un rapporto di lavoro assoggettato
a TFR ed il successivo, ci sia anche un solo giorno di stacco, occorre
presentare all’INPS richiesta di liquidazione del Trattamento di Fine
Rapporto relativamente al contratto di lavoro appena cessato (08.04.2022
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APPALTI SERVIZI:
Appalto servizio gestione biblioteca - Importo a base d'asta.
Quesiti
Appalto novennale con possibilità di proroga di ulteriori anni tre servizio
di gestione biblioteca.
Nell'ambito dell'appalto in oggetto da aggiudicare all'offerta
economicamente più vantaggiosa, è legittimo determinare come importo a base
d'asta il costo dell'intero servizio al netto delle spese al personale che
devono rispettare le tariffe prestabilite dal contratto nazionale
federculture o è obbligatorio determinare come importo a base di gara
l'intero costo del servizio?
Risposta
L’importo a base di gara deve essere quello complessivo corrisposto
all’operatore economico comprensivo del costo del personale. L’importo a
base di gara risulta omnicomprensivo dei costi di personale, costi di
gestione, spese ed utile dell’operatore economico.
I bandi di gara per l’affidamento di appalti pubblici di lavori, forniture e
servizi devono prevedere un prezzo a base d’asta, cioè l’importo del valore
complessivo dell’appalto stimato dalla stazione appaltante in relazione ai
prezzi di mercato.
Pertanto, il bando di gara che prevede prezzi a base d’asta palesemente
incongrui, non aggiornati ed oggettivamente inferiori a quelli di mercato è
illegittimo per violazione degli artt.
89 e
133, comma 8, del Codice, che impongono di utilizzare prezzi ancorati
all’effettivo andamento del mercato.
In merito all’argomento della proroga o rinnovo è bene ricordare quanto
stabilito nel Chiarimento al Quesito n. 364/2018 del Servizio Supporto
Giuridico del MIMS: L’espressione “’importo massimo stimato come valore
contrattuale dell’appalto” di cui all’art.
35, comma 4, del Codice si riferisce al valore stimato di un appalto
pubblico. Tale valore non è lo stesso dell’importo a base d’asta (che a sua
volta si compone dell’importo a base d’asta soggetto a ribasso e
dell’importo a base d’asta non soggetto a ribasso).
Ai sensi dell’art.
35 del Codice, il valore stimato di un appalto da prendere in
considerazione al fine di valutare l’eventuale superamento della soglia
comunitaria è quello derivante dalla somma dell’importo a base di gara (al
netto di Iva e/o di altre imposte e contributi di legge, nonché degli oneri
per la sicurezza dovuti a rischi da interferenze non soggetti a ribasso) e
di eventuali opzioni, rinnovi, premi e pagamenti. Tra le opzioni rientrano
anche i servizi analoghi di cui all’art.
63, comma 5, del Codice.
Pertanto, per determinare il valore stimato dell’appalto, all’importo a base
d’asta devono esser aggiunti –eventualmente- opzioni, rinnovo, premi e
pagamenti. Al contrario, come correttamente rappresentato, nell’importo a
base d’asta non occorre tener conto di eventuali opzioni.
Si precisa, infine, che l’importo a base d’asta è il valore di riferimento
per la presentazione delle offerte economiche da parte dei concorrenti. Il
valore complessivo dell’appalto di cui all’art.
35, invece, è fondamentale soprattutto per individuare la corretta
procedura da seguire nell’aggiudicazione di un appalto con relativi obblighi
di pubblicità (contratto di rilevanza europea oppure contratto sotto
soglia), nonché per verificare gli obblighi previsti dall’art.
21 del Codice di inserire, rispettivamente, i lavori nella
programmazione triennale dei lavori e le forniture/servizi nel programma
biennale di forniture e servizi (è, infatti, obbligatorio l’inserimento dei
lavori il cui valore stimato dell’appalto è pari o superiore a € 100.000 o
l’inserimento delle forniture/servizi d’importo unitario stimato pari o
superiore a € 40.000) (07.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Titolo di studio specifico per l'assunzione presso alcune aree dell'ente.
Quesiti
Esiste una norma di legge che preveda la necessità di uno specifico titolo
di studio per l'assunzione presso alcune aree dell'ente? Oppure è tutto
rimesso alla discrezionalità dell'amministrazione che con atto di giunta
approva il regolamento dei concorsi?
In particolare il nostro regolamento prevede il diploma di geometra, perito
industriale, maturità tecnica etc. per le posizioni di categoria C area
tecnica ed il diploma di ragioneria o analista contabile per l'area
finanziaria: qual è la norma a monte che sottende a tale previsione?
Risposta
La giurisprudenza amministrativa riconosce in capo all'amministrazione «un
potere discrezionale nell'individuazione della tipologia dei titoli
richiesti per la partecipazione, da esercitare tenendo conto della
professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da
ricoprire» (cfr., Cons. Stato, Sez. V, 18.10.2012, n. 5351; Cons. Stato,
Sez. VI, 03.05.2010, n. 2494).
Nondimeno, la stessa giurisprudenza ha chiarito che: «in assenza di una
fonte normativa che stabilisca autoritativamente il titolo di studio
necessario e sufficiente per concorrere alla copertura di un determinato
posto o all’affidamento di un determinato incarico, la discrezionalità
nell’individuazione dei requisiti per l’ammissione va esercitata tenendo
conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il
posto da ricoprire o per l’incarico da affidare, ed è sempre naturalmente
suscettibile di sindacato giurisdizionale sotto i profili della illogicità,
arbitrarietà e contraddittorietà» (Cfr. Consiglio di Stato sez. V,
28.02.2012, n. 2098).
A fronte del riconoscimento in capo all'amministrazione banditrice del
concorso pubblico di un ampio potere discrezionale nell'individuazione dei
titoli di studio ritenuti indispensabili per l'ammissione ad una procedura
selettiva, lo stesso non può tuttavia trasmodare in manifesta inadeguatezza,
irragionevolezza, illogicità od arbitrarietà della scelta compiuta, con i
conseguenti vulnera sotto il profilo della legittimità, come avviene nel
caso in cui, tenendo conto della professionalità e della preparazione
culturale richiesta per il posto da ricoprire, la previsione del bando
ecceda nella previsione dei titoli culturali richiesti.
Pertanto, una volta che l’Ente abbia esercitato detta facoltà di determinare
i titoli di accesso, il tema sarà quello di eventuale equipollenza rispetto
ai titoli previsti. L’equipollenza fra titoli di studio in vista della
partecipazione a pubblici concorsi può essere stabilita dalle norme,
primarie o secondarie, ma non dall’amministrazione o dal giudice; in
particolare, quando un bando richieda tassativamente il possesso di un
determinato titolo di studio per l’ammissione ad un pubblico concorso, senza
prevedere il rilievo del titolo equipollente, non è consentita la
valutazione di un titolo diverso, salvo che l’equipollenza non sia stabilita
da una norma di legge.
Ai sensi dell'art.
9, comma 6, l. n. 341 del 1990, il giudizio di equipollenza tra i titoli
di studio ai fini dell'ammissione ai pubblici concorsi –proseguono i
giudici- appartiene esclusivamente al legislatore e, di conseguenza, l'unico
parametro cui fare corretto riferimento è quello fissato dalla legge e
dall'ordinamento della pubblica istruzione, secondo il quale i titoli di
studio sono diversi tra loro e le equipollenze costituiscono eccezioni non
suscettibili di interpretazione estensiva ed analogica; in quest’ottica, un
marginale ruolo di integrazione può essere riconosciuto all’amministrazione
solo ove espressamente previsto dal bando di concorso, che dello stesso
costituisce lex specialis.
Ove il bando ammetta come requisito di ammissione un determinato diploma di
laurea o titolo equipollente tout court, l’amministrazione potrà procedere
ad una valutazione di equipollenza sostanziale; se invece il bando richieda
un determinato titolo di studio o quelli ad esso equipollenti ex lege,
siffatta determinazione deve essere intesa in senso tassativo, con
riferimento alla valutazione di equipollenza formulata da un atto normativo
e non può essere integrata da valutazioni di tipo sostanziale compiute ex
post dall'Amministrazione (06.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assenza per visite specialistiche o esami diagnostici.
Quesiti
Si chiede come deve essere trattata l'assenza nel caso in cui il dipendente
presenti un certificato medico per l'espletamento di visite specialistiche o
esami diagnostici. In particolare, se va trattata alla stessa maniera della
malattia con conseguente decurtazione.
Si chiede inoltre coma va considerata l'assenza nel caso in cui per
l'espletamento di tali visite venga richiesto solo un permesso orario. E'
soggetto a decurtazione e le ore usufruite devono essere recuperate?
Risposta
L’art. 35, comma 9, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
stabilisce che i permessi per l’espletamento di visite sono assimilati alle
assenze per malattia ai fini del computo del periodo di comporto e sono
sottoposti al medesimo regime economico delle stesse ma non sono
assoggettati alla decurtazione del trattamento economico accessorio prevista
per le assenze per malattia nei primi 10 giorni.
Non è invece previsto che le ore di permesso vengano recuperate (06.04.2022
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EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere in merito alla disciplina da applicare
nell’ipotesi di realizzazione di una veranda, attraverso la chiusura di
balcone o loggia (Regione Emilia Romagna,
nota
05.04.2022 n. 339144 di prot.).
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Viene richiesto parere in merito alla qualificazione giuridica di un
intervento di chiusura di una loggia o un balcone, con l’installazione di un
infisso in vetro, con la conseguente definizione del titolo abilitativo
richiesto e della onerosità dello stesso. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Rinuncia a titolo edilizio e comunicazione di fine lavori
parziali (Regione Emilia Romagna,
nota 05.04.2022
n. 338915 di prot.).
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1. Si
risponde ai chiarimenti richiesti con e-mail del 07.02.2022 circa
l’ammissibilità della rinuncia dei soggetti interessati a completare i
lavori iniziati con una SCIA.
L’intervento in questione,relativo al restauro di un immobile vincolato ai
sensi della parte II del Dlgs. n. 42 del 2004, è stato realizzato al grezzo
e non è intenzione dei titolari concludere l’attività edilizia abilitata con
SCIA, stante la comunicazione di rinuncia e di archiviazione dello stesso
titolo trasmessa dal proprietario al Comune in indirizzo.
Da ciò il quesito comunale volto a sapere se detta rinuncia sia ammissibile
e, in caso di esito positivo, quali siano gli adempimenti dovuti
dall’interessato e dal tecnico professionista sia per il profilo edilizio
sia per quello sismico, in quanto lo stesso immobile è interessato anche da
un intervento locale strutturale,abilitato con deposito del progetto e
denunciato ai sensi dell’art. 65 del DPR 380 del 2001. (...continua). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nomina rappresentante RSU a segretario commissione concorso.
Quesiti
Un dipendente dell'Ente assegnato all'Ufficio del Personale e che riveste
all'interno dello stesso Ente la carica di RSU può essere nominato
segretario di una commissione di concorso oppure per lo stesso ricorre
l'incompatibilità di cui all'art.
35, comma 3, lett. e), del D.Lgs. n. 165/2001?
Risposta
Non è consentita la nomina a componente di una commissione di concorso di un
rappresentante sindacale. Ciò vale anche per il segretario di una
commissione di concorso (04.04.2022
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EDILIZIA PRIVATA:
Immobile in condizioni precarie e pericolose al pubblico transito.
Quesiti
Si chiede come e se sia possibile procedere in ordine ad un immobile che si
presenta in condizioni precarie e pericolose al pubblico transito e
prospiciente la via pubblica ma che è gravato da ipoteca bancaria e con
procedura di vendita all'asta in itinere.
E’ possibile emanare l'ordinanza di messa in sicurezza e/o demolizione? A
chi va notificata? Eventuale giurisprudenza in merito.
Risposta
L’adozione di un provvedimento edilizio di messa in sicurezza e/o
demolizione risponde ad esigenze pubbliche rilevanti.
Tanto premesso, il quesito pone tre diversi aspetti rilevanti.
In primo luogo, la presenza di una procedura di vendita non può considerarsi
preclusiva rispetto all’adozione di provvedimenti edilizi dovuti: a tal
proposito, il TAR Piemonte, sez. II, nella sent. 27.06.2018, n. 791, ha
affermato che “la pendenza di una azione esecutiva su iniziativa privata
non può a sua volta essere di ostacolo alla doverosa e vincolata azione di
repressione dell’abusivismo edilizio, che risponde ad un superiore interesse
pubblico e si intesta alla pubblica amministrazione”.
Tale sentenza è utile per giustificare l’adozione di un’ordinanza di
demolizione avente ad oggetto un immobile per il quale è in corso un
procedimento esecutivo immobiliare; a maggior ragione, non può essere di
ostacolo per l’adozione di un’ordinanza di messa in sicurezza, considerato
che detta tipologia di ordinanza è meno invasiva di un’ordinanza di
demolizione.
In secondo luogo, e parimenti, la presenza di un’ipoteca bancaria non
rappresenta un ostacolo all’adozione di provvedimenti edilizi che, si
ribadisce, sono atti dovuti: ed infatti, il TAR Valle d’Aosta, sez. unica,
nella sent. 12.10.2018, n. 48, con riferimento all’impugnazione di
un’ordinanza di rimozione di difformità, ha affermato che “il creditore
ipotecario, non rientrando tra i soggetti che possono disporre
giuridicamente e materialmente del bene in modo da rimuovere le difformità
edilizie, non può ritenersi inciso in via diretta dal provvedimento in esame”
[appunto, un’ordinanza di rimozione di difformità edilizie]. Peraltro, i
giudici hanno anche ricordato che la garanzia ipotecaria ha natura reale, in
quanto afferente il bene immobile, ma di fatto la stessa non garantisce
alcun diritto di disposizione sul bene garantito, che rimane nella piena e
totale disponibilità del debitore.
Rimane il terzo aspetto, certamente non meno importante, ossia
l’individuazione del destinatario dell’ordinanza di messa in
sicurezza/demolizione: è il proprietario, visto che, secondo la
giurisprudenza, il custode, nell’ambito di un procedimento di esecuzione
immobiliare, non assume il ruolo di detentore del bene (Tribunale Napoli,
ord. 05.03.2021, allegata per comodità). Nella prassi, tuttavia, non è
infrequente che venga individuato come destinatario anche il custode (04.04.2022
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Rilascio informazioni anagrafiche richieste per la ricostruzione dell'albero
genealogico.
Quesiti
E’ possibile rilasciare informazioni anagrafiche quando sono richieste da
parenti per la ricostruzione dell'albero genealogico?
Il riferimento è l'art.
22, comma 1, lettera b, della legge 241/1990 e, quindi, è necessario un
interesse diretto, concreto ed attuale collegato ad una situazione
giuridicamente tutelata o quanto previsto dal
D.lgs. 33/2013 FOIA e, quindi, la richiesta deve essere sempre accolta
ed evasa?
Risposta
L'accesso generalizzato non trova alcuna applicazione agli atti anagrafici,
altrimenti in ogni ufficio anagrafe chiunque potrebbe chiedere accesso e
copia dei dati di tutta la popolazione residente. L'esclusione rientra,
infatti, tra i casi indicati all'art.
5-bis del D.lgs. 33/2013, in cui si prevede che l'accesso generalizzato
è rifiutato "quando l'accesso è subordinato dalla "disciplina vigente al
rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti" (lett. m).
Le modalità di accesso ai dati anagrafici sono definite dal regolamento
anagrafico. Il rilascio della certificazione storica (perché l’ufficiale
d’anagrafe non può che rilasciare certificati, oltre a garantire l’accesso
ai dati personali del solo richiedente, la cosiddetta visura, possibile
anche su ANPR) è subordinata all’art.
35 del DPR 223/1989, che prevede la necessità di richiesta motivata.
Il concetto di motivazione non può che far riferimento all'interesse
giuridicamente rilevante previsto dalla
legge n. 241/1990 in materia di procedimento amministrativo: l'istante
deve pertanto far riferimento a un interesse tutelabile dal nostro
ordinamento giuridico e non a un mero interesse di ricostruzione genealogica
che non dovrebbe rientrare tra le motivazioni accettabili (04.04.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Stabilizzazione personale in somministrazione.
Il comma 9 dell’art. 20 del d.lgs. 75/2017, all’ultimo
periodo, prevede espressamente che le procedure di stabilizzazione riservate
al personale con contratto di lavoro flessibile non trovano applicazione nei
confronti dei contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche
amministrazioni.
L’Ente chiede se le procedure di stabilizzazione previste dalla normativa
statale vigente riguardino anche il personale che abbia prestato servizio
esclusivamente con contratto di somministrazione lavoro.
L’art. 20 [1],
comma 2, del d.lgs. 75/2017 prevede che, fino al 31.12.2022, le
amministrazioni possono bandire, in coerenza con il piano triennale dei
fabbisogni, e ferma restando la garanzia dell’adeguato accesso dall’esterno,
previa indicazione della relativa copertura finanziaria, procedure
concorsuali riservate, in misura non superiore al cinquanta per cento dei
posti disponibili, al personale non dirigenziale che possegga tutti i
seguenti requisiti:
a) risulti titolare, successivamente alla data di entrata in vigore
della l. n. 124/2015, di un contratto di lavoro flessibile presso
l’amministrazione che bandisce il concorso;
b) abbia maturato, alla data del 31.12.2022, almeno tre anni di
contratto, anche non continuativi, negli ultimi otto anni, presso
l’amministrazione che bandisce il concorso.
Si rappresenta che il comma 9 dell’articolo in esame, all’ultimo periodo,
prevede espressamente che l’articolo stesso “non si applica altresì ai
contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni”.
La Corte costituzionale [2]
ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata in ordine al citato art. 20, comma 9, del d.lgs. 75/2017, nella
parte in cui esclude i lavoratori somministrati dalla possibilità,
riconosciuta ai lavoratori titolari di rapporto di lavoro a tempo
determinato, di essere assunti dalle pubbliche amministrazioni utilizzatrici
con contratti di lavoro a tempo indeterminato.
Tale esclusione –ha ritenuto la Consulta– non appare irragionevole, non
comportando il contratto di somministrazione a tempo determinato
l’instaurazione di un rapporto di lavoro diretto tra lavoratore
somministrato ed ente utilizzatore. Detto contratto costituisce, infatti, “una
fattispecie negoziale complessa, in cui due contratti si combinano per
realizzare la dissociazione tra datore di lavoro e fruitore della
prestazione di lavoro, secondo una interposizione autorizzata
dall’ordinamento in quanto soggetta a particolari controlli e garanzie,
quali condizioni per prevenire il rischio che l’imputazione del rapporto a
persona diversa dall’effettivo utilizzatore si presti a forme di elusione
delle tutele del lavoratore. Nell’ambito di tale fattispecie negoziale
complessa risulta pertanto che il rapporto di lavoro è quello instaurato tra
agenzia e lavoratore e, rispetto ad esso, non rilevano le vicende del
contratto concluso tra agenzia ed utilizzatore.”.
Per completezza, con riferimento alla possibilità per il Comune di
riutilizzare lo stesso lavoratore somministrato dopo il compimento del
periodo massimo di durata previsto per il contratto tra agenzia di
somministrazione e lavoratore (stabilito in 36 mesi), si rinvia ad un parere
recentemente espresso dallo scrivente Servizio [3].
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[1] Superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni.
[2] Cfr. sentenza 21.12.2021, n. 250.
[3] Cfr. parere del 24.03.2022, prot. n. 13182, consultabile al
seguente link (01.04.2022 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI:
Responsabile della conservazione dei documenti informatici.
Quesiti
Nomina del responsabile della conservazione dei documenti informatici ai
sensi dell'art.
44, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione
Digitale).
Può il Sindaco ricoprire questo ruolo, se riveste anche il ruolo di
responsabile del servizio amministrativo?
Risposta
In base alle linee guida AGID, il responsabile della conservazione digitale
è un dirigente o un funzionario che possiede idonee competenze giuridiche,
informatiche ed archivistiche. È colui che coordina il sistema di
conservazione sia in un’azienda privata sia nella Pubblica Amministrazione e
lo fa in autonomia e con piena responsabilità.
Fra i suoi compiti, il principale è il monitoraggio di tutti i flussi di
documenti in entrata e in uscita per garantirne la validità giuridica e
probatoria nel tempo attraverso la conservazione.
Pertanto, il profilo specialistico richiesto non appare compatibile con la
figura sindacale, salvo che in concreto non si tratti di persona fisica che
abbia detti requisiti e si possa avvalere della disposizione sotto i 5.000
abitanti secondo quanto disposto dall’articolo
53, comma 23, della legge 388/2000 e s.m.i. (01.04.2022
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Monetizzazione ferie.
Quesiti
Si chiede se è possibile liquidare le ferie ad una educatrice di asilo nido
assunta a tempo determinato dal 06.09.2021, prorogata già 3 volte fino al
31.03.2022.
Siccome l’Ente deve probabilmente effettuare un'ulteriore proroga, si vuole
calcolare con esattezza la scadenza che varia nel caso in cui le ferie
residue (circa 13 giorni), possano essere pagate oppure devono essere fatte.
L’Ente è vicino alla scadenza del contratto.
Risposta
Le ferie non possono essere monetizzate, ai sensi dell’articolo
5, comma 8, Decreto-legge 06.07.2012 n. 95. Infatti, anche per il
personale a tempo determinato, il datore di lavoro pubblico è tenuto alla
programmazione delle stesse prima della conclusione del rapporto di lavoro.
I casi di monetizzazione sono riportati nel parere del Dipartimento della
funzione pubblica –
prot. n. 40033 del 08.10.2012 (31.03.2022
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
APPALTI:
Stipula contratti.
Quesiti
Nel caso di sottoscrizione di lettera commerciale che disciplina i rapporti
tra Comune e Impresa per un importo lavori pari ad Euro 58.000, è necessario
che la scrittura venga repertoriata nel registro delle scritture private o è
sufficiente formalizzare assegnando un protocollo?
Risposta
Ai sensi dell’art.
32, comma 14, Codice dei contratti, il contratto è stipulato, a pena di
nullità, con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità
elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, in
forma pubblica amministrativa a cura dell'Ufficiale rogante della stazione
appaltante o mediante scrittura privata; in caso di procedura negoziata
ovvero per gli affidamenti di importo non superiore a 40.000 euro (al netto
dell’iva) mediante corrispondenza secondo l’uso del commercio consistente in
un apposito scambio di lettere, anche tramite posta elettronica certificata
o strumenti analoghi negli altri Stati membri.
Nel caso della scrittura privata, ove l’Ente abbia istituito apposito
registro, potrà essere registrata in quello oppure, per dare data certa,
essere registrata al protocollo dell’Ente. Non si tratta di obblighi, ma di
mere esigenze di conservazione e di certezza di datazione della scrittura,
non essendo utilizzato l’atto pubblico (30.03.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Ripetizione indebito nei confronti di un lavoratore.
Quesiti
Dovendo procedere al recupero dello stipendio e tredicesima erogato a
novembre 2018 a dipendente cessato in data 31/10/2018, si chiede di sapere
come procedere correttamente sotto il profilo fiscale e contributivo ed i
relativi risvolti di competenza del dipendente interessato.
Risposta
La ripetizione dell'indebito nei confronti del lavoratore deve avere ad
oggetto esclusivamente le somme da quest'ultimo “percepite”, cioè
soltanto quanto effettivamente sia entrato nella sua sfera patrimoniale.
In riferimento alle ritenute e ai versamenti fiscali erroneamente disposti
dal datore quale sostituto di imposta, lo stesso può provvedere alla
richiesta di rimborso direttamente nei confronti del Fisco.
Per quanto riguarda l’aspetto contributivo, invece, se viene accertato il
versamento di contributi non dovuti da lavoro dipendente, in base alla legge
deve essere disposto il rimborso, senza interessi, limitatamente ai
contributi relativi ai 5 anni precedenti, ovvero quelli non prescritti:
restano invece acquisiti e validi ai fini della pensione i contributi
precedenti (29.03.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Smart working dal 01/04/2022.
Quesiti
Si chiede quale è la modalità di svolgimento dello smart working dei
dipendenti pubblici, dopo la fine dello stato di emergenza del 31.03.2022.
Risposta
Dalla data della cessazione dell’emergenza epidemiologica non costituirà più
titolo prioritario per i dipendenti pubblici per l’accesso al lavoro agile
il fatto di avere almeno un figlio in condizioni di disabilità grave
riconosciuta ai sensi della
legge 05.02.1992, n. 104, o almeno un figlio con bisogni educativi
speciali. Cessa, infatti, di avere efficacia l’art.
5-ter del D.L. n. 1/2022.
Per il resto non vi sono novità in materia di lavoro agile per dipendenti
pubblici per cui continuano ad applicarsi le regole vigenti. Si ricorda che
il dPCM 23.09.2021 ha stabilito che dal 15.10.2021 la modalità ordinaria di
svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni è
quella svolta in presenza per cui il lavoro agile non è più uno strumento
per fronteggiare l’emergenza pandemica.
In particolare, l’accesso al lavoro agile potrà essere autorizzato nel
rispetto delle seguenti condizionalità:
- non deve in alcun modo pregiudicare o ridurre la fruizione dei
servizi resi all’amministrazione a favore degli utenti;
- l’amministrazione deve garantire un’adeguata rotazione del
personale che può prestare lavoro in modalità agile, dovendo essere
prevalente, per ciascun lavoratore, l’esecuzione della prestazione in
presenza;
- l’amministrazione mette in atto ogni adempimento al fine di
dotarsi di una piattaforma digitale o di un cloud o comunque di strumenti
tecnologici idonei a garantire la più assoluta riservatezza dei dati e delle
informazioni che vengono trattate dal lavoratore nello svolgimento della
prestazione in modalità agile;
- l’amministrazione deve aver previsto un piano di smaltimento del
lavoro arretrato, ove sia stato accumulato;
- l’amministrazione, inoltre, mette in atto ogni adempimento al
fine di fornire al personale dipendente apparati digitali e tecnologici
adeguati alla prestazione di lavoro richiesta;
- l’accordo individuale deve definire, almeno:
1. gli specifici obiettivi della prestazione resa
in modalità agile;
2. le modalità e i tempi di esecuzione della
prestazione e della disconnessione del lavoratore dagli apparati di lavoro,
nonché eventuali fasce di contattabilità;
3. le modalità e i criteri di misurazione della
prestazione medesima, anche ai fini del proseguimento della modalità della
prestazione lavorativa in modalità agile;
- le amministrazioni assicurano il prevalente svolgimento in
presenza della prestazione lavorativa dei soggetti titolari di funzioni di
coordinamento e controllo, dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti
amministrativi;
- le amministrazioni prevedono, ove le misure di carattere
sanitario lo richiedano, la rotazione del personale impiegato in presenza,
nel rispetto di quanto stabilito dal citato dPCM.
Il lavoro agile rimane, quindi, condizionato ai requisiti attualmente
previsti (non prevalenza, messa a disposizione dei dispositivi, accordo
individuale, nessun effetto sui servizi al pubblico ecc.) (28.03.2022
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
APPALTI SERVIZI:
Anticipo contrattuale.
Quesiti
La ditta aggiudicataria di un appalto di igiene urbana e rifiuti può
chiedere l'anticipo contrattuale una volta iniziato il servizio anche se
negli atti di gara non era previsto?
L'anticipo contrattuale è un diritto soggettivo o interesse legittimo della
ditta?
In caso di risposta positiva la percentuale del 20% può essere ridotta e
come va calcolata considerato che la durata contrattuale è di 5 anni?
Risposta
L’art.
35, comma 18, del Codice dei contratti pubblici dispone che sul valore
del contratto di appalto viene calcolato l'importo dell'anticipazione del
prezzo pari al 20 per cento da corrispondere all'appaltatore entro quindici
giorni dall'effettivo inizio della prestazione. L'erogazione
dell'anticipazione, consentita anche nel caso di consegna in via d’urgenza,
è subordinata alla costituzione di garanzia fideiussoria bancaria o
assicurativa di importo pari all'anticipazione maggiorato del tasso di
interesse legale applicato al periodo necessario al recupero
dell'anticipazione stessa secondo il cronoprogramma della prestazione.
Per le procedure indette entro il 30.06.2023 la misura dell'anticipazione «può»
essere incrementata fino al 30% (compatibilmente con le disponibilità
finanziarie) ai sensi dell'art.
207, comma 1, della legge n. 77 del 2020, come modificato dall'art.
13, comma 1, della legge n. 21 del 2021, poi dall'art.
3, comma 4, del decreto-legge n. 228 del 2021.
La norma codicistica prevede l’anticipazione obbligatoria del 20% per la
stazione appaltante negli appalti pubblici di lavori servizi e forniture
anche sotto soglia come specificato da ANAC con delibera n. 1050 del
14/11/2018.
L’anticipazione costituisce un diritto soggettivo cui corrisponde un obbligo
legale, a condizione che sia effettivamente iniziata la prestazione, entro
15 giorni dall’effettivo inizio della prestazione (di qui l’applicazione non
solo ai lavori ma anche a servizi e forniture) e sempre che sia costituita
una fidejussione pari all’importo corrisposto maggiorato dagli interessi
legali calcolati in ragione dell’arco temporale programmato per
l’adempimento. L’importo della garanzia andrà gradualmente ed
automaticamente ridotto nel corso della prestazione, in rapporto al
progressivo recupero dell’anticipazione da parte delle stazioni appaltanti
secondo il cronoprogramma della prestazione.
In relazione alle somme a disposizione della stazione appaltante, essendo
l’anticipazione dovuta almeno nella misura del 20%, in quanto obbligatoria,
tale importo deve essere previsto nel quadro economico dell’intervento (28.03.2022
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ATTI AMMINISTRATIVI:
L’accesso agli atti della Pa è legittimo se sussista un interesse diretto e
non leda la privacy.
DOMANDA:
Con nota pervenuta al protocollo comunale un privato precisamente
identificato chiede di prendere visione e estrarre copia nel formato
detenuto da codesta amministrazione dei dati dei committenti, descrizione
dell’intervento, località del cantiere e tecnico progettista di tutte le
SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) e delle CILA
(Comunicazione Inizio Lavori Asseverata) concernenti le attività degli
interventi edili da attuarsi nel territorio comunale presentate in un
determinato periodo/mese del 2022.
Nella istanza di accesso le motivazioni sono le seguenti:
- non lede l'interesse privato alla protezione dei dati personali;
- non necessita di alcuna motivazione;
- non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione
soggettiva del richiedente;
- contiene le complete generalità del richiedente e identifica con
precisione i dati richiesti;
- non risulta l'esistenza di soggetti controinteressati;
- non ricorre, nel caso di specie, alcun motivo di esclusione o
limitazione all'esercizio dell'accesso generalizzato.
Considerate le discordanti conclusioni sull’ammissibilità di tale richiesta
rinvenibili nei normali canali informativi, si chiede di voler esprimere un
Vostro parere soprattutto con riferimento alle esigenze di tutela e
protezione dei dati personali e dell’esistenza o meno di un loro concreto
pregiudizio conseguente all’evasione di cui trattasi.
RISPOSTA:
La legge 241/1990 e segnatamente l’art. 22, lett. b), riconosce il diritto
di accesso agli atti e documenti della pubblica amministrazione purché
l’istante sia portatore di un interesse “diretto, concreto ed attuale”
corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso.
Dato che l’interesse deve assumere tali caratteristiche la legittimazione
all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque
possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano
dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei
suoi confronti. Non a caso la richiesta di accesso, come previsto
dall’articolo 25, comma 2, della legge citata, deve poi essere motivata, nel
senso che devono essere indicate le ragioni che spingono l’interessato a
prendere visione degli atti amministrativi.
In buona sostanza per ottenere l’ostensione degli atti e/o documenti
richiesti l’interessato deve dimostrare di essere titolare di una posizione
qualificata e differenziata e non meramente emulativa o preordinata ad un
controllo generalizzato sull’operato dell’amministrazione. Del resto la
fattispecie del “controllo generalizzato” è espressamente prevista
come ipotesi di esclusione del diritto d’accesso ex art. 24, comma 3, Legge
241/1990. Ne consegue che gli atti richiesti per essere correlati ad un
interesse concreto ed attuale devono necessariamente essere individuati
dalla parte richiedente.
In questo senso la giurisprudenza (TAR Campania Napoli, sez. VIII, Ordinanza
18.09.2020 n. 3888) ha affermato che “l'istanza di accesso a documenti
amministrativi deve riferirsi a ben specifici documenti e non può comportare
la necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto
destinatario della richiesta; inoltre, l'ostensione degli atti non può
costituire uno strumento di controllo generalizzato sull'operato della
Pubblica Amministrazione”.
Dalle informazioni desumibili dal quesito in questione sembra escludersi che
l’istante sia portatore di un interesse “diretto, concreto ed attuale”
ma, anzi, dalla formulazione del quesito sembra che lo stesso ammetta il
carattere “generalizzato” della richiesta di accesso seppur ritenendo
(erroneamente secondo quanto disposto dall’art. 24, co. 3, legge 241/1990)
che non sussistano motivi di esclusione o limitazione.
In particolare sotto il profilo della tutela e protezione dei dati personali
si deve rilevare che le pratiche edilizie detenute dagli enti locali sono da
considerarsi “documenti amministrativi” oggetto di diritto di accesso
ai sensi della legge 241/1990 (articoli 22 e seguenti): tale diritto non
trova ostacolo nel codice in materia di protezione di dati personali (Testo
unico 196/2003) che, anzi, considera di rilevante interesse pubblico le
attività finalizzate all’applicazione della disciplina in materia di accesso
ai documenti amministrativi (articolo 59).
Ma anche nel caso delle pratiche edilizie l’accesso è consentito a tutti
coloro “che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso” (articolo 22, comma 1, lettera
b, legge 241/1990). Quindi, anche nel caso di specie, l’istante avrebbe
dovuto fornire alla pubblica amministrazione idonea motivazione atta a
suffragare, nei termini di legge (“interesse diretto, concreto e attuale”)
e, perciò, la fondatezza giuridica della richiesta.
A sua volta, la pubblica amministrazione –deputata a vagliare i profili di
legittimazione– è tenuta, prima ancora di pronunciarsi in merito alla
richiesta, a dare comunicazione dell’istanza a tutti coloro che “individuati
o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto,
dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza” (cosiddetta “controinteressati” ex articolo 22,
comma 1, lettera c, legge 241/1990). Costoro possono eventualmente proporre
opposizione motivata alla richiesta di accesso (articolo 3 Dpr 184/2006).
Pertanto, sotto il profilo della tutela dei dati personali, come primo
aspetto andrebbe notificata ai controinteressati la richiesta di accesso in
modo che essi possano rappresentare all’amministrazione eventuali motivi
ostativi dal momento che non basta la mera affermazione dell’istante che la
richiesta “non lede l'interesse privato alla protezione dei dati
personali”.
Diversamente è chiaro che stante il principio di bilanciamento tra diritto
di accesso e diritto di riservatezza l’ostensione illegittima di un
documento rischierebbe di determinare seri pregiudizi in capo ai
controinteressati (04.03.2022
- tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Indennità Sindaco e Consiglieri.
Quesiti
In virtù dell'ultima manovra
art. 1, commi 583-587, della L. 234/2021, questo ente ha proceduto
all'aumento dell'indennità del sindaco e dei consiglieri. Nel fare il
calcolo del differenziale si è partiti dall'indennità che lo stesso sindaco
riceveva nel 2021 ossia euro 1.563,65 e non già euro 1.659,38 come previsto
sulle tabelle in vigore, poiché lo scorso anno (in virtù del decreto del
23.07.2020) il sindaco aveva rinunciato all'aumento dell'indennità a carico
dell'ente prevedendo solo l'aumento relativo all'importo ricevuto dallo
stato pari a 2.365,85.
Dovendo arrivare all'aumento di 2.208,00 entro il 2024 e non partendo dalla
stessa base prevista di euro 1.659,38, come bisogna agire?
Risposta
Per l’anno 2022 l’incremento deve essere pari al 45% della differenza tra
l’importo a regime (anno 2024) e l’importo erogato nel 2021.
Per l’anno 2023 l’importo dell’indennità verrà ulteriormente incrementata di
un valore pari al 68% di tale differenza che include l’incremento già
riconosciuto nel 2022.
Con riferimento agli importi riportati nel quesito, nel 2023 il 45% deve
essere calcolato sulla differenza tra l’importo a regime (2.208,00) e
l’importo erogato attualmente (1.563,65). Il 45% di tale differenza (644,35)
è pari a 289,96 che costituisce l’incremento da attribuire per il 2023 (28.02.2022
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Visto contabile del ragioniere nelle determine di impegno/liquidazione.
Quesiti
Si chiede se l'apposizione del visto contabile del ragioniere nelle
determine di impegno/liquidazione sia corretto apporlo prima della
numerazione generale e della firma dell'atto da parte del responsabile del
settore. Tutte le firme ovviamente sono apposte digitalmente.
Risposta
Ad avviso dello scrivente, il numero di registro generale dovrebbe essere
preso dalla determinazione con la sottoscrizione finale del responsabile del
procedimento che l’ha introdotta, dopo che l’atto è stato vistato dal
responsabile finanziario e restituito al proponente. Ciò per essere sicuri
che il procedimento è andato a buon fine.
Se, al contrario, l’iter prendesse avvio con il numero di registro generale,
sia pure in via provvisoria, potrebbe accadere che l’iter non si completi
positivamente: ad es., mancanza del visto di regolarità contabile attestante
la copertura finanziaria sulla determinazione di liquidazione proposta.
In questo caso, allora avremmo un numero generale rispetto ad un atto
rimasto interno e privo di rilevanza esterna. Oppure si supponga il caso di
una determina di liquidazione che, sottoscritta dal responsabile del
servizio proponente, con tutti i relativi documenti giustificativi ed i
riferimenti contabili, venga trasmessa al servizio finanziario per i
conseguenti adempimenti e che quest’ultimo non la ritenga regolare,
rimandandola.
Anche in tale caso avremmo un atto rimasto allo stadio interno all’ente con
un numero generale (28.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assenza per vaccino contro il Covid-19.
Quesiti
L'articolo
2-bis del decreto legge 26/11/2021, n. 172 (convertito in legge, con
modificazioni, dalla
Legge 21/01/2022, n. 3), stabilisce che, dal 26/01/2022, l'assenza del
dipendente pubblico ai fini della somministrazione del vaccino contro il
Covid-19 è giustificata e non determina alcuna decurtazione del trattamento
economico, né fondamentale né accessorio.
Si chiede:
a) se il permesso in questione copra l'intera giornata oppure se
sia fruibile ad ore;
b) nel caso in cui sia fruibile ad ore, se ricomprenda il tempo di
spostamento per il tragitto lavoro-centro vaccinale (andata e ritorno);
c) dato che siamo venuti a conoscenza solamente oggi del nuovo
permesso di cui trattasi, se è possibile convertire i permessi utilizzati
dai dipendenti dal 26/01/2022 ad oggi per effettuare la vaccinazione contro
il Covid-19 previa consegna di idoneo giustificativo.
Risposta
In riferimento al quesito a), si ritiene che il permesso possa essere fruito
per l’intera giornata, considerato che la eventuale decurtazione economica
per malattia sarebbe applicabile soltanto per una assenza pari all’intera
giornata. La norma prevede la “non decurtazione”, motivo per cui si
propende per una assenza fruita in modalità giornaliera.
Se l’ente intendesse riconoscere l’assenza in modalità oraria, fattispecie
comunque ammessa, si ritiene possibile riconoscere anche il tempo legato al
tragitto.
In merito al punto c), si ritiene possibile convertire i giustificativi di
assenza, visto che il Comune non è soggetto al Libro Unico del Lavoro (25.02.2022
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APPALTI:
Verifiche ex art. 48-bis, D.P.R. n. 602/1973.
Quesiti
Si chiede se, nel caso di pagamento ad un soggetto di più fatture il cui
importo totale superi i 5 mila euro, occorre procedere alla verifica di
equitalia anche se hanno CIG diverso.
Risposta
A partire dal 01.09.2021 ha ripreso vita l'obbligo per i contribuenti di
provvedere ai pagamenti delle cartelle esattoriali e ciò ha conseguentemente
riattivato l'attività di verifica da parte delle Amministrazioni Pubbliche,
all'atto del pagamento, della regolarità fiscale, ai sensi dell'art.
48-bis, D.P.R. n. 602/1973.
Le disposizioni sui pagamenti delle pubbliche amministrazioni sono dettate
dall’articolo
48-bis, D.P.R. 602/1973, in base al quale le Pa e le società a
prevalente partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo,
il pagamento di un importo superiore a 5mila euro (il precedente limite era
di 10mila euro), verificano, anche telematicamente, se il beneficiario è
inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più
cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale
importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la
circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, per
l’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo.
Le relative disposizioni di attuazione sono state dettate dal
decreto Mef n. 40, del 18.01.2008.
La norma, introdotta ad opera del
D.L. n. 262/2006 con lo scopo di tutelare le finanze pubbliche, prevede
che un soggetto creditore della Pubblica Amministrazione possa ricevere il
pagamento solamente se non ha crediti iscritti a ruolo scaduti e non pagati
di importo superiore a 5.000 euro (limite introdotto dall'art.
1, comma 986, Legge n. 205/2017).
Al ricorrere di tale circostanza, viene sospeso il pagamento e si attiva una
procedura che consente all'Agenzia delle entrate-Riscossione di pignorare il
credito stesso presso il terzo ente debitore.
La Ragioneria generale dello Stato, con la circolare n. 13, del 21.03.2018,
ricorda che deve ritenersi in contrasto con la disciplina dell’articolo
48-bis il frazionamento dei pagamenti, la cui finalità ben può essere di
natura elusiva.
Alla luce del divieto di artificioso frazionamento:
• nessuna rilevanza può avere un’istanza del beneficiario
finalizzata a dilazionare nel tempo il pagamento a fronte di un credito
unitario;
• allo stesso modo, è da ritenersi senza effetto l’esigenza
dell’amministrazione, in presenza di una liquidazione unica, di procedere a
una suddivisione dei pagamenti.
Si ritiene, pertanto, che il riferimento al CIG differente sia irrilevante
ai fini dei controlli ex
art. 48-bis del DPR 602/1973 nei confronti dello stesso soggetto (24.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Deroghe al limite di spesa per i contratti a tempo determinato.
Quesiti
In riferimento ai contratti
art. 1, comma 557, Legge 311/2004, svolti da dipendenti di altra PA, si
chiede quali deroghe sono previste in merito al limite di spesa per i
contratti a tempo determinato.
Risposta
I magistrati contabili della sezione delle Autonomie, con la deliberazione
23/2016, pubblicata sul sito il 22 giugno, hanno chiarito che l’utilizzo di
un dipendente di un altro ente locale per esigenze temporanee non
costituisce lavoro flessibile e pertanto non rientra nei limiti di spesa
disciplinati dall’articolo
9, comma 28, del d.l. 78/2010.
In caso di utilizzo ex
articolo 1, comma 557, della legge 311/2004 di un dipendente di un ente
da parte di un’altra amministrazione nei limiti delle 48 ore settimanali non
viene alterata la titolarità del rapporto di impiego, che rimane in capo
all’Amministrazione di provenienza del dipendente, ma soltanto l’oggetto del
rapporto, atteso che il dipendente viene inserito, sotto il profilo
organizzativo e funzionale, anche all’interno dell’Amministrazione di
destinazione (24.02.2022
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COMPETENZE GESTIONALI:
P.A., QUALUNQUE DIPENDENTE PUO' EFFETTUARE COMUNICAZIONI CHE NON ABBIANO
NATURA DI CERTIFICATO.
DOMANDA:
Si chiede di sapere se le comunicazioni di informazione agli utenti o
comunque meramente attuative di provvedimenti amministrativi (delibere/determine,
regolarmente firmati dalla posizione organizzativa incaricata, ad esempio:
comunicazioni di ammissione a servizi per l'infanzia o relative informazioni
in merito, trasmissione di atti, comunicazioni alle associazioni degli
importi assegnati di contributi definiti con determine, ecc...) debbano
essere firmate esclusivamente dal Titolare di posizione organizzativa,
avendo comunque un valore esterno, oppure possano essere firmate
semplicemente anche da un istruttore direttivo o da istruttore semplice, o
comunque da un dipendente appartenente al Settore interessato, nell'ambito
dell'ufficio di competenza, trattandosi di comunicazioni che non implicano
alcuna discrezionalità/responsabilità in quando meramente attuative di atti
a firma del Titolare di posizione organizzativa in riferimento al Settore
stesso.
Si chiede, inoltre, di conoscere se per la firma di tali comunicazioni sia
necessaria ed obbligatoria l'attribuzione formale della responsabilità di
procedimento ai sensi della L. n. 241/1990 e s.m., da parte della P.O. verso
il proprio collaboratore di Settore, oppure se sia sufficiente ricoprire un
ruolo nel Settore interessato.
RISPOSTA:
Le comunicazioni di informazione agli utenti o l’effettuazione di
comunicazioni meramente attuative di provvedimenti amministrativi, che non
abbiano natura di certificato, possono essere effettuate da qualunque
dipendente.
La semplice comunicazione di avvenuta assunzione di una delibera o di
avvenuta emanazione di una determina, anche qualora contengano l’indicazione
di alcune informazioni tratte dagli atti amministrativi di riferimento, non
hanno natura certificativa e pertanto non devono essere firmate da soggetti
cui sia stato attribuito il potere di certificazione, che ex art. 107 D.Lgs.
n. 267/2000 spetta ai dirigenti e quindi ai titolari di posizioni
organizzative cui siano attribuite funzioni dirigenziali (ed è eventualmente
delegabile).
Rientrano tra le semplici comunicazioni quelle indicate a titolo di esempio
nel quesito: le comunicazioni di avvenuta ammissione a servizi per
l'infanzia disposta dal soggetto titolato ad assumere tale provvedimento; la
trasmissione di atti amministrativi; le comunicazioni alle associazioni
degli importi loro assegnati, etc.
Si suggerisce di indicare sempre, nelle comunicazioni di cui sopra, gli
estremi dell’atto amministrativo (organo, data di emanazione e numero
identificativo) di riferimento: in tal modo sarà più chiaro che non si
tratta di atti amministrativi ma di semplici comunicazioni (24.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Diritto alla conservazione del posto.
Quesiti
Quesito su aspettativa a seguito di rapporto di lavoro a tempo determinato.
Un dipendente dell’Ente a tempo pieno ed indeterminato verrà assunto da un
altro Ente locale, tramite un Contratto di Formazione Lavoro ai sensi
dell’art. 3, comma 4, lett. a), del C.C.N.L. 14.09.2000.
Considerato che il C.F.L., prima dell’eventuale assunzione a tempo
indeterminato, prevede l’assunzione a tempo determinato per 2 anni, si
chiede se vi sia una previsione contrattuale e/o di legge che preveda per il
dipendente la possibilità di richiedere l’aspettativa senza assegni per tale
periodo.
Si chiede se in alternativa all’aspettativa vi sia un diritto in capo al
dipendente alla conservazione del posto, presso questo ente, per tutto il
periodo di assunzione a tempo determinato.
Risposta
Il diritto alla conservazione del posto è previsto nella ipotesi di
assunzione in un altro ente e limitatamente al periodo di prova. Si ritiene
nel caso specifico che sussista il diritto alla conservazione del posto per
il periodo di 2 mesi che costituisce il periodo di prova sulla base
dell’art. 3, comma 12, del Ccnl 14.09.2000.
Infatti, la formulazione dell’art. 20, comma 10, del Ccnl 21.05.2018 non
distingue tra le diverse tipologie di assunzioni, richiedendo, invece, che
il dipendente abbia un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’ente
presso il quale si ha il diritto alla conservazione del posto e rinviando,
quanto alla durata del periodo di prova, alle disposizioni contrattuali
applicate nell’amministrazione di destinazione.
In caso di mancato superamento della prova o per recesso di una delle parti,
il dipendente stesso rientra, a domanda, nella categoria e profilo
professionale di provenienza (23.02.2022
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APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI:
Pubblicazione atti di liquidazione.
Quesiti
Con la presente si richiede se l'atto di liquidazione deve essere pubblicato
all'albo pretorio on-line come le determinazioni dirigenziali.
Risposta
Si, anche se spesso si ricorre a semplici visti o atti interni, la
disciplina del TUOEL è chiara.
L’art.
151, comma 4, TU citato, infatti, non annovera tra le disposizioni
derogabili dai regolamenti di contabilità l’art. 184 che riguarda il
provvedimento di liquidazione che, ai sensi del
comma 3 del citato articolo, è sottoscritto dal responsabile del
servizio proponente, con tutti i relativi documenti giustificativi ed i
riferimenti contabili è trasmesso al servizio finanziario per i conseguenti
adempimenti.
La pubblicazioni di detti atti risponde, d'altronde, a principi di
trasparenza dell'azione amministrativa (23.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarico vice economo a responsabile settore e indennità maneggio valori.
Quesiti
All'interno del settore finanziario sono presenti n. 4 figure: 1D con
posizione organizzativa-responsabile del settore, 2 figure di categoria C e
una figura di categoria B.
Tenuto conto che a una delle figure di categoria C è affidato il compito di
economo comunale, è possibile che il compito di vice economo sia affidato al
responsabile del settore, che avrebbe già il ruolo di controllo?
E, nel caso, questi può ottenere l'indennità di maneggio valori?
Risposta
L’articolo
153 del d.lgs. 267/2000 dispone che gli enti locali debbano disciplinare
con proprio regolamento l’istituzione e il funzionamento del servizio di
economato cui viene preposto un responsabile addetto alla gestione di cassa
delle spese di ufficio urgenti e di non rilevante ammontare. Dovrebbe
essere, quindi, tale regolamento a disciplinare la casistica delle assenze e
delle sostituzioni dell’economo con relativa nomina, responsabilità e
indennità.
In linea di principio si dovrebbe evitare che il ruolo di economo coincida
con quello di responsabile del servizio finanziario, in quanto viene a
mancare la cosiddetta alterità tra il ruolo del controllore e il ruolo del
controllato; nel caso sia comunque necessario procedere in tal senso,
soprattutto negli enti di minore dimensione con mancanza cronica di figure
amministrative idonee, sarà necessario far sottoscrivere tanto il conto
giudiziale n. 23 dell’allegato al
d.p.r. 194/1996, quanto la parifica dei conti, al Segretario comunale.
Rispetto all’ultima parte del quesito, si rammenta che l’indennità di
maneggio valori prevista dall’articolo 36 del CCNL 14.09.2000 era destinata
al personale che in via continuativa risultava addetto a servizi che
comportassero il maneggio di valori di cassa al fine evidente di remunerare
la particolare responsabilità che caratterizza l’attività svolta dal
suddetto personale.
Detta indennità è stata inglobata dell’indennità condizioni lavoro (articolo
70-bis CCNL 21.05.2018) e non spetta ai titolari di posizione organizzativa (23.02.2022
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TRIBUTI:
Accertamento per area edificabile contestato dal contribuente perché
ritenuta pertinenziale all'abitazione.
Quesiti
Un Ente ha notificato un accertamento per un’area edificabile ma il
contribuente contesta la pertinenza dell'abitazione di quest'area
edificabile.
Si parla di proprietari di una villetta posizionata in un terreno di 500
metri quadri. Nel 2016 il contribuente ha acquistato un terreno edificabile
di 2400 metri quadri. L’Ente ha notificato gli accertamenti imu-tasi per
questo terreno ma i contribuenti sostengono che, trattandosi del giardino
dell'abitazione, non sono tenuti al pagamento del tributo
Nelle circolari n. 38/e del 12.08.2005 e n. 32/e del 13.02.2016, emerge la
necessità di unire i due terreni ma il contribuente sostiene che ciò è
valido solo dal 2020 in poi secondo quanto previsto dall’art.
1, comma 741, legge 160/2019.
Si precisa infine che il contribuente inoltre non ha presentato nessuna
denuncia Imu nel 2016.
Si chiede un parere in merito.
Risposta
La
legge 160/2019 ha sicuramente risolto ogni dubbio interpretativo,
stabilendo espressamente la non tassabilità delle aree urbanisticamente
pertinenziali, ovvero accatastate unitamente all’abitazione. Per gli anni
precedenti, la giurisprudenza consolidata ha sostenuto l’obbligatorietà
della opportuna dichiarazione di pertinenzialità dell’area, oltre che la
dimostrazione dell’effettivo vincolo tra i due immobili.
Secondo la
Sentenza di Cassazione n. 27573 del 30/10/2018, infatti, “l’accertamento
dell’esistenza del vincolo pertinenziale, postula anche quello
dell’esistenza dell’ulteriore requisito della non suscettibilità del bene
costituente pertinenza di una diversa destinazione senza una radicale
trasformazione: altrimenti sarebbe agevole per il proprietario di un
immobile godere dell’esenzione attraverso una destinazione pertinenziale
rispetto ad un fabbricato pur se detta destinazione possa facilmente
cessare, senza una radicale trasformazione dell’immobile stesso”.
Per quanto detto, l’assenza della dichiarazione o della dimostrazione
dell’effettivo vincolo di pertinenzialità tra area e abitazione, pregiudica
il riconoscimento della esenzione per tali aree anche per gli anni
precedenti il 2020 (23.02.2022
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APPALTI:
Data scadenza fattura.
Quesiti
Nell'acquisizione di una fattura d'acquisto il sistema chiede se sia
opportuno variare la data prevista dal fornitore per il pagamento della
stessa nei casi in cui non coincida con i 30 giorni dalla ricezione della
pec.
Si chiede se esiste una legge che consenta l'Amministrazione ricevente di
modificare una scadenza del pagamento inferiore a 30 giorni data ricezione
pec. Se sì qual è?
Risposta
I termini di pagamento per la PA sono “trenta giorni dalla data di
ricevimento da parte del debitore della fattura o di una richiesta di
pagamento di contenuto equivalente” ex
art. 4. D.Lgs. 231/2002, salvo diversa pattuizione tra le parti.
Pertanto qualora i termini di pagamento concordati con il fornitore siano
diversi dai 30 ordinari si potrà intervenire modificando la data di scadenza (23.02.2022
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EDILIZIA PRIVATA:
Demolizione immobile abusivo in presenza di opposizione al relativo
provvedimento.
Quesiti
Questo Ente, dopo aver rilevato un abuso edilizio di una casa di civile
abitazione, realizzata in assenza di permesso di costruire, ha emesso
ordinanza di demolizione. Avverso tale provvedimento il privato interessato
ha promosso un ricorso al TAR.
Si chiede se il Comune, trascorsi i 90 giorni dalla notifica dell'ordinanza,
anche in pendenza di ricorso al TAR, può comminare la sanzione
amministrativa.
Risposta
Presumendo che la sanzione cui fa riferimento il quesito sia quella di cui
all’art.
31, comma 4-bis, del Testo Unico Edilizia (DPR n. 380/2001), la mera
proposizione del ricorso non è ostativa alla relativa adozione.
Tale affermazione trova il suo fondamento nella giurisprudenza: infatti, il
TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, nella sent. n. 1355 del 10.02.2012, ha
ritenuto che il meccanismo di automaticità di cui all’art.
31 (ordinanza – inottemperanza nei 90 giorni – acquisizione al
patrimonio comunale e adozione sanzione amministrazione) rende “irrilevante”
la “pendenza del gravame avverso l’ordinanza di demolizione”, visto
che l’art.
31 non prevede la circostanza dell’impugnazione quale ostativa
all’esplicazione degli effetti conseguenti all’inottemperanza.
Tuttavia, se nel ricorso l’interessato ha presentato istanza di sospensiva
ed il giudice amministrativo l’ha concessa, la sanzione pecuniaria non potrà
adottarsi, perché verrebbe meno il presupposto della sanzione pecuniaria:
non essendo efficace l’ordinanza di demolizione, l’interessato non sarà
considerato inottemperante alla demolizione e, quindi, non sarà
assoggettabile alla sanzione pecuniaria di cui al
comma 4-bis del citato art. 31 (22.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Verifica inidoneità psico-fisica dipendente comunale.
Quesiti
Quesito su verifica inidoneità psico-fisica per i dipendenti comunali.
Un dipendente di questo ente a tempo pieno ed indeterminato ha terminato il
periodo di assenza per malattia di 18 mesi.
Prima della riammissione in servizio, in mansione diversa da quella di
provenienza, questo ente lo ha sottoposto a visita presso il Medico del
Lavoro ai sensi del
Dlgs 81/2008 che lo ha giudicato inidoneo permanentemente alla mansione.
Ai sensi dell’art. 36, comma 3, del C.C.N.L. 2016-2018 questo ente può
sottoporlo ad ulteriore visita medico-collegiale per l’accertamento delle
sue condizioni di salute al fine di stabilire la sussistenza di eventuali
cause di assoluta e permanente inidoneità psico-fisica a svolgere qualsiasi
proficuo lavoro?
In caso di risposta affermativa si chiede inoltre:
a. Quale sia, secondo la dizione di cui all’art. 36, comma 3, del
CCNL 2016-2018, l’organo medico competente ai sensi delle vigenti
disposizioni al quale indirizzarlo alla visita,
b. Se la richiesta di sottoposizione a visita medico collegiale
debba essere finalizzata ad accertare l’assoluta e permanente inidoneità
psico-fisica a svolgere qualsiasi proficuo lavoro o debba essere limitata
all’accertamento della inidoneità allo svolgimento della mansione specifica.
Risposta
Al fine di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro, l’ente è
tenuto a richiedere apposita visita medico-collegiale all’organismo
competente, non essendo sufficiente –al riguardo– il giudizio del medico
competente.
In riferimento al quesito posto alla lettera a), l’inabilità a qualsiasi
tipo di proficuo lavoro nonché l’inidoneità alla mansione possono essere
accertate dalla Commissione medica della ASL territorialmente competente,
sulla base della sede legale del datore di lavoro.
In riferimento al quesito posto alla lettera b), la richiesta potrà essere
unica e finalizzata all’accertamento della inidoneità alla mansione e, in
subordine, all’inabilità a qualsiasi tipo di proficuo lavoro (21.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Calcolo ferie e festività soppresse dipendente dimissionario.
Quesiti
Nel caso di dipendente a tempo pieno che lavora su 5 giorni che rassegna le
dimissioni a partire da marzo, per il calcolo delle ferie e festività
soppresse è corretto assegnare 5 giorni di ferie (28/12*2=4,6) e 1 giorno di
festività soppresse (4/12*2=0,6)?
Se si effettua un calcolo "complessivo", sommando ferie e festività,
il risultato sarebbe 5, arrotondando per difetto (28+4)/12*2= 5,3.
Quale è il ragionamento corretto da seguire?
Risposta
Il ragionamento da seguire è il primo. Infatti, le festività soppresse –a
differenza delle ferie– non possono essere riportate nell’anno successivo,
ai sensi dell’articolo 28, comma 6, CCNL 21.05.2018.
Pertanto, considerato che la disposizione contrattuale prevede
l’attribuzione di 28 giorni di ferie (art. 28, comma 2, CCNL 2018) e di 4
giorni di festività soppresse in commi distinti, non appare possibile
effettuare una sommatoria dei due istituti giuridici (21.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Conferimento incarichi ex art. 110 del TUEL.
Quesiti
In un comune con popolazione inferiore ai 3000 abitanti e con un numero
di dipendenti in P.O. pari a 22 unità è possibile conferire due incarichi ex
art. 110 del TUEL ciascuno per 18 ore settimanali?
Risposta
La Corte dei Conti controllo della Regione Abruzzo, nella deliberazione
5/2021, ha ritenuto che l’incarico (non dirigenziale) ex
art. 110 Tuel sia possibile nei limiti del 20% (ex
d.lgs. 81/2015) della dotazione organica relativa ai dipendenti a tempo
indeterminato.
La Corte dei conti, Sez. Reg. Controllo per il Lazio, 10.10-18.12.2018, n.
85, ritiene che la definizione in concreto dei limiti assunzionali è rimessa
alle valutazioni generali dall’Ente chiamato a gestire il proprio fabbisogno
di personale a tempo determinato in sede regolamentare complessivamente
considerato, nei limiti del 20% di quello a tempo indeterminato (salva
diversa percentuale definita in sede di contrattazione collettiva).
Pertanto, il parametro fissato le posizioni di responsabile degli
uffici/servizi nonché di alta amministrazione a tempo determinato non è
confrontabile con quello dei dirigenti, stante la diversità dei termini di
calcolo delle percentuali, i primi rispetto al personale a tempo
indeterminato, i secondi rispetto all’organico di diritto della dirigenza.
In base ai suddetti indirizzi, si può applicare il 20% ai posti a tempo
indeterminato, con facoltà di stabilire 18 o un monte ore maggiore in base
alle possibilità dell’ente in ordine al sostenimento della spesa (16.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Rifiuto esibizione green pass.
Quesiti
Un dipendente entra in ufficio prima dell'arrivo dei colleghi ed a
seguito di richiesta da parte del proprio datore di lavoro comunica di non
possedere la certificazione verde COVID-19 (green pass) o si rifiuta di
esibirla. Il rifiuto di esibire il green pass avviene anche nei confronti
della richiesta formulata da parte degli agenti di Polizia Locale.
Il datore di lavoro redige un atto di accertamento nel quale tra l'altro
risulta che il dipendente viene informato del fatto che:
- non avendo prodotto tale certificazione non gli è consentito
l'accesso ai luoghi di lavoro in assenza di green pass;
- non potrà accedere al luogo di lavoro per prestarvi l'attività
lavorativa fino alla presentazione della certificazione verde COVID-19;
- sarà considerato assente ingiustificato fino alla presentazione
della certificazione verde COVID-19.
Il dipendente si rifiuta di firmare l’atto di accertamento e rimane
all'interno degli uffici per l’orario di lavoro previsto. È corretto non
corrispondergli la retribuzione?
Risposta
Il dipendente deve essere considerato assente ingiustificato, ai sensi dell’articolo
9-quinquies, comma 6, Decreto-legge 22.04.2021 n. 52.
Per i giorni di assenza ingiustificata di cui al primo periodo non sono
dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati.
Pertanto, prescindendo dal comportamento tenuto dal dipendente, non dovrà
essere corrisposta la retribuzione.
Il dipendente è soggetto alla sanzione amministrativa prevista dall’articolo
4, comma 1, Decreto-legge 25.03.2020 n. 19, stabilita in euro da 600,00
a 1.500,00, ferme le conseguenze disciplinari conseguenti a tale violazione.
L’Amministrazione provvederà a trasmettere tempestivamente alla Prefettura
competente per territorio, idonea informativa circa la violazione di cui
sopra.
Per la mancata firma dell’atto di accertamento, se ne darà menzione nel
verbale stesso (15.02.2022
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APPALTI:
Stipula contratti che seguono a procedure ristrette.
Quesiti
Nell'ambito di un appalto di servizio di cui all'allegato IX del
d.lgs. 50/2016 da aggiudicarsi all'offerta economicamente più
vantaggiosa, a seguito di procedura ristretta con 5 operatori economici, con
importo a base d'asta sotto soglia che non supera 1.000.000,00 di euro, è
obbligatorio per la stipula del contratto adottare la forma pubblica
oppure è legittimo ed ammissibile adottare anche la forma privata da
registrare in caso d'uso, trattandosi di procedura ristretta e non aperta?
Risposta
Ai sensi dell’art.
32, comma 14, del Dlgs 50/2016 “Il contratto è stipulato, a pena di
nullità, con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità
elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, in
forma pubblica amministrativa a cura dell'Ufficiale rogante della stazione
appaltante o mediante scrittura privata; in caso di procedura negoziata
ovvero per gli affidamenti di importo non superiore a 40.000 euro mediante
corrispondenza secondo l’uso del commercio consistente in un apposito
scambio di lettere, anche tramite posta elettronica certificata o strumenti
analoghi negli altri Stati membri”.
Pertanto è facoltà della stazione appaltante scegliere quella ritenuta più
idonea.
Si rammenda che i capitolati e il computo estimativo metrico, richiamati nel
bando o nell'invito, fanno parte integrante del contratto (14.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Utilizzo prestazioni di lavoro di un dipendente comunale in servizio presso
altro Comune limitrofo.
Quesiti
Il Comune ha necessità di utilizzare prestazioni di lavoro di un dipendente
comunale in servizio presso altro Comune limitrofo. Entrambi i Comuni hanno
una popolazione inferiore a 5.000 abitanti ma sembrerebbe escludersi la
possibilità di utilizzo del
comma 557 della Legge 311/2004 in quanto il dipendente, pur provenendo
da una graduatoria concorsuale a tempo pieno, ha un contratto part-time
66,66% (24 ore settimanali).
Anche la convenzione ex art. 14 CCNL 2004 sembrerebbe una soluzione
inapplicabile in quanto l'Ente di provenienza, datore di lavoro, pur avendo
già espresso il proprio nulla osta per 6 ore settimanali e per 6 mesi, non è
disponibile alla stipula di convenzione in tal senso, probabilmente per non
accollarsi l'onere di anticipare le spese per le ore aggiuntive che l'Ente
scrivente dovrebbe poi rimborsare.
Posto che l'art.
92, comma 1, seconda parte, del D.L.gs.vo n. 267/2000 prevede che "I
dipendenti degli enti locali a tempo parziale, purché autorizzati
dall'amministrazione di appartenenza, possono prestare attività lavorativa
presso altri enti", quale soluzione potrebbe applicarsi al caso di
specie?
Inoltre si fa presente che il dipendente, che come già detto presta servizio
per 24 ore settimanali nell'Ente di provenienza, presta inoltre anche
servizio per 6 ore settimanali presso un terzo Comune.
È corretto quindi affermare che residuano esclusivamente 6 ore da
autorizzare/prestare al nostro comune oppure può applicarsi il limite
generale delle 48 ore settimanali?
Risposta
La possibilità di applicare l’art.
92, comma 1, del TUEL è condizionata all’autorizzazione
dell’amministrazione di appartenenza, così come la convenzione ex art. 14
CCNL 2004 implica che vi sia un accordo tra le due amministrazioni che non
può certo essere imposto; lo stesso art. 14 richiede la convenzione e il “previo
assenso dell’ente di appartenenza”. Il
comma 557 dell’art. 1 della legge 311/2004 si applica ai dipendenti a
tempo pieno per cui non è ipotizzabile l’utilizzo nel contesto cui si
riferisce il quesito.
Per i dipendenti a tempo parziale, l’utilizzo dello “scavalco condiviso”
può avvenire “per una parte del tempo di lavoro d’obbligo”, per cui è
corretto quanto riportato nell’ultimo quesito. Nell’ipotesi, invece,
consentita dal
comma 557 citato, si darebbe luogo ad un contratto di lavoro
completamente sganciato da quello con l’amministrazione di appartenenza del
dipendente che consentirebbe di arrivare complessivamente alle 48 ore
settimanali; ma non è applicabile al caso prospettato nel quesito (14.02.2022
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APPALTI SERVIZI:
Affidamento diretto servizio pulizia uffici comunali.
Quesiti
Visto l'articolo 1 (in particolare i commi 1 e 4) del decreto del
presidente del consiglio dei ministri 24.12.2015 emanato ai sensi dell’articolo
9, comma 3, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con
modificazioni, dalla
legge 23.06.2014, n. 89, si richiede se è possibile affidare annualmente
il servizio di pulizia dei locali del palazzo municipale, di un importo
complessivo inferiore a 5.000,00, mediante affidamento diretto senza ricorso
al MEPA (CONSIP) ai sensi del
comma 450, articolo 1, della legge 296/2006 e del
comma 1 dell’articolo 37 del D.Lgs. n. 50/2016.
Risposta
Essendo un servizio inferiore ai 5.000 euro non è neanche richiesto
l’acquisto mediante i mercati elettronici (MePA) come previsto dall’art.
1, comma 130 della legge 30.12.2018, n. 145, che infatti ha modificato
l'art.
1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, che prevede: “Fermi
restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del presente
articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all’articolo
1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le autorità
indipendenti, per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore
a 5.000 euro e inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a
fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad
altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328
ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale
di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure”.
Pertanto alla luce di quanto sopra si potrà procedere, ai sensi delle Linee
Guida ANAC 4.4.1, anche mediante “apposito scambio di lettere, anche
tramite posta elettronica certificata”.
Occorre però che sia rispettato il principio della rotazione. Il Principio
di rotazione ha infatti l’obiettivo di evitare la formazione di rendite di
posizione e persegue l’effettiva concorrenza, poiché consente la turnazione
tra i diversi operatori nella realizzazione del servizio, consentendo alla
P.A. di cambiare per ottenere un miglior servizio (Cons. Stato, VI,
04.06.2019, n. 3755) (14.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Straordinari effettuati dai vigili.
Quesiti
Vorrei sapere come comportarmi con gli straordinari effettuati dai vigili
nel caso specifico: se dovesse succedere che gli stessi li svolgono non
tenendo conto della pausa di mezz'ora, facendo più di 6 ore lavorative
consecutive, perché sono su un incidente, l'ente come deve comportarsi?
Risposta
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene opportuno
evidenziare che l’art. 26 del CCNL del 21.05.2018, in coerenza con le
previsioni del
D.Lgs. n. 66/2003, configura la pausa come obbligatoria in presenza di
una prestazione di lavoro giornaliera che ecceda le sei ore, qualunque sia
la ragione giustificativa di tale prolungata durata dell’orario di lavoro.
Un’eventuale e limitata deroga all’obbligo della pausa, sotto il solo
profilo della durata, è consentita solo nelle specifiche fattispecie
considerate nell’art. 13 del CCNL del 09.05.2006 in materia di buono pasto:
Art. 13 - Disposizioni in materia di buoni pasto
1. Nell’ambito della complessiva disciplina degli artt. 45 e 46 del
CCNL del 14.09.2000, gli enti individuano, in sede di contrattazione
decentrata integrativa, quelle particolari e limitate figure professionali
che, in considerazione dell’esigenza di garantire il regolare svolgimento
delle attività e la continuità dell’erogazione dei servizi e anche
dell’impossibilità di introdurre modificazioni nell’organizzazione del
lavoro, con specifico riferimento a quelli connessi all’area della
protezione civile, all’area della vigilanza e all’area scolastica ed
educativa ed alla attività delle biblioteca, fermo restando l’attribuzione
del buono pasto, possono fruire di una pausa per la consumazione dei pasti
di durata determinata in sede di contrattazione decentrata integrativa, che
potrà essere collocata anche all’inizio o alla fine di ciascun turno di
lavoro.
Per completezza informativa, si ricorda anche che la medesima pausa non può
essere neppure soppressa o dichiarata rinunciabile dalla contrattazione
integrativa (non figurando questo profilo tra le materie ad essa demandate
dal CCNL) o da atti unilaterali dell’Ente (per evidente contrasto con la
legge e con il contratto collettivo nazionale di lavoro).
Da quanto sopra, consegue, pertanto, che la sussistenza di un autonomo
spazio decisionale (fermo restando che la pausa non può essere soppressa o
rinunciata) utilizzabile da ogni ente in relazione alla particolare natura
di talune prestazioni di lavoro, consente di andare ad individuare quelle
particolari figure professionali che sono tenute a svolgere la loro
prestazione lavorativa con modalità diverse da quelle indicate dalla norma
di riferimento, senza alcun automatismo di sorta.
Da ciò si ricava che non è elemento sufficiente la sola appartenenza
all'area, bensì è necessario l'intervento dell'amministrazione che dovrà
determinarsi in tal senso qualora abbia adottato, nell'ambito della propria
autonomia organizzativa, una particolare articolazione dell'orario di
servizio tale da poter essere ricompresa nelle ipotesi previste dalla
normativa contrattuale (14.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Retribuzione di posizione.
Quesiti
Abbiamo assunto il responsabile dell'area urbanistica al 50%, in quanto
libero professionista. Abbiamo fatto la valutazione delle posizioni
organizzative e definito l'ammontare dell'indennità.
Dobbiamo corrisponderla al 50% o possiamo corrisponderla al 100%?
Il tecnico e anche l'Amministrazione ritengono che vada corrisposta al 100%
in quanto una riduzione dell'orario non comporta una riduzione di
responsabilità.
Risposta
Il valore della retribuzione di posizione da corrispondere deve essere
proporzionato alla percentuale di prestazione lavorativa prevista, quindi al
50%.
Si tratta di un principio generale che trova riscontro anche nelle norme
contrattuali e negli orientamenti applicativi ARAN (CFL40
del 03.04.2019,
CFL49 del 03.04.2019).
L’art. 53, comma 3, del CCNL funzioni locali 21.05.2018 nel consentire ai
comuni privi di dirigenza “in relazione alle specifiche esigenze
organizzative derivanti dall’ordinamento vigente” di individuare “le
posizioni organizzative che possono essere conferite anche al personale con
rapporto a tempo parziale di durata non inferiore al 50% del rapporto a
tempo pieno”, stabilisce in modo inequivocabile che “Il principio del
riproporzionamento del trattamento economico trova applicazione anche con
riferimento alla retribuzione di posizione”.
Il riproporzionamento è un principio di carattere generale che governa gli
istituti giuridici ed economici del rapporto di lavoro a tempo parziale.
Se si ammettesse che il tempo parziale non determini una riduzione delle
responsabilità connesse e quindi sia corretto retribuire per intero la
posizione organizzativa si dovrebbe allora pervenire alla conclusione che
non possa essere ammesso il tempo parziale per tale tipo di prestazione (14.02.2022
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COMPETENZE GESTIONALI:
Incarico economo ad assessore nominato responsabile area economico
finanziaria.
Quesiti
In un Comune con popolazione inferiore a 5000 abitanti, sono state
attribuite le funzioni di responsabile dell'area economico-finanziaria ad un
componente della Giunta comunale.
Può tale responsabile essere nominato Economo, laddove il posto di
istruttore dell'ufficio ragioneria risulti vacante?
Il regolamento di contabilità dell'Ente, che contiene la sezione relativa
alla disciplina del servizio economato stabilisce "Il servizio economato
affidato al Responsabile dell'Area Economico-Finanziaria e allo scopo assume
la qualifica di economo comunale".
Risposta
L’articolo
53, comma 23 della l. 388/2000 ha consentito ai comuni fino a 3.000
abitanti, in mancanza di figure professionali idonee nell'ambito dei
dipendenti, di adottare disposizioni in deroga all'articolo 107 del d.lgs.
267/2000, mirate ad attribuire ai componenti dell'organo esecutivo la
gestione degli uffici e il potere di adottare atti di natura tecnica
gestionale.
Successivamente la
l. 448/2001 ha esteso detta facoltà agli enti fino a 5.000 abitanti,
senza necessità di dimostrare la mancanza non rimediabile di figure
professionali idonee.
Per tale ragione, a stretta lettura del quesito e in base al regolamento di
contabilità del Comune, il membro della Giunta comunale a cui risulta
affidata l’area economico-finanziaria, ricopre automaticamente la qualifica
di economo comunale.
Si suggerisce, ad ogni buon conto, di valutare attentamente la possibilità
di una siffatta scelta organizzativa, in quanto viene completamente a
mancare l’attività di vigilanza del responsabile del servizio finanziario e
la terzietà della Giunta comunale nei rapporti con la Corte dei conti
(l’economo, in quanto agente contabile, è assoggettato alla responsabilità
connessa al maneggio di denaro pubblico).
Sarebbe maggiormente opportuno identificare quale economo comunale un altro
dipendente dell’Ente con qualifica di istruttore, anche al di fuori
dell’ufficio ragioneria.
Si ricorda, infine, che con
deliberazione 09.06.2015 n. 219 la Corte dei conti sezione
Lombardia ha ritenuto in contrasto con l’ordinamento vigente la prassi di
attribuire al Sindaco anche la responsabilità del servizio finanziario
dell’Ente e che è illegittimo assegnare la presidenza delle commissioni di
concorso agli organi di direzione politica nominati responsabili dei servizi
ai sensi dell'articolo
53, comma 23, della l. 388/2000 (11.02.2022
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ENTI LOCALI:
Realizzazione murales. Impatto con normativa privacy.
Quesiti
Questo ente ha intenzione di realizzare dei murales su edifici o
infrastrutture (al fine di riqualificarle e di aumentarne il decoro) con
immagini di persone maggiorenni nate nel comune e divenute famose in vari
campi (in particolare campioni di calcio e di altri sport).
Alla luce delle normative vigenti in materia di privacy e di riproduzione
delle immagini si chiede quali autorizzazioni debbano essere ottenute e chi
sono i soggetti interessati a rilasciarle (i diretti interessati, le società
sportive alle quali sono legati da contratto ecc).
Risposta
Il murale assume rilevanza per l’ordinamento giuridico solo dopo aver
acquisito valore economico e, questo, a sua volta, presuppone l’intervenuto
riconoscimento di qualità artistiche o culturali al prodotto in questione.
Realizzate tali condizioni, il murale assume specifica rilevanza giuridica,
in ragione del suo ingresso nella categoria dei beni e nelle logiche di
scambio, tenuto conto delle prerogative dell’artista e delle prerogative
proprietarie sul bene (il supporto materiale) al quale l’opera accede.
Ciò detto, il diritto di autore nel nostro ordinamento è regolato dalla
legge n. 633 del 1941. Detta legge è espressamente destinata a
proteggere (art.
1) “Le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla
letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro
e dalla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione”.
È proprio quest’ultima espressione –“qualunque ne sia il modo o la forma
di espressione”– che conferma come anche le “opere di strada”
possano ambire ad essere protette da detta legge.
Pertanto, l’art.
2 della legge sul diritto d’autore, che presenta una lista non esaustiva
di opere protette, può far rientrare sotto la sua tutela anche una qualsiasi
opera di street art. Essa deve comunque essere meritevole di protezione,
presentando il requisito della creatività previsto dall’art. 1, raggiungendo
un livello di originalità sufficiente. Non tutte le opere di street art,
qualunque ne sia il modo o la forma di espressione, infatti possono essere
oggetto di tutela, ma solo quelle che hanno un livello di creatività seppur
minimo, così come previsto dalla Corte di Cassazione (cfr. Cassazione
civile, sez. I, 27/10/2005, n. 20925). Quindi, dal riconoscimento del
diritto d’autore sulla street art nasce l’attribuzione, in capo all’autore
dell’opera, di alcuni diritti esclusivi di carattere patrimoniale e morale.
Inoltre, gli
artt. 13 e seguenti della “Legge sul diritto di autore”
riconoscono all’autore i diritti esclusivi di sfruttamento economico che
comprendono il diritto di riproduzione, di distribuzione e di elaborazione
della propria opera. La “legge sul diritto d’autore”, all’art.
20, determina, poi, i diritti morali secondo il quale l’autore conserva
il diritto di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualsiasi
modificazione, alterazione o atto a danno dell’opera che siano
pregiudizievoli per la sua reputazione o per il suo onore.
D’altra parte, la legge sul diritto d’autore espressamente stabilisce (art.
109) che neppure la cessione dell’opera comporta, salvo patto contrario,
la cessione dei relativi diritti di utilizzazione economica; così come
espressamente attribuisce all’autore (art.
13) il diritto esclusivo e incondizionato di riproduzione dell’opera.
Inoltre, poter “riprodurre” concettualmente significa anche
sfruttamento economico dell’opera della quale l’artista è autore; anzi,
talvolta i murales possono funzionare da promozione e pubblicità:
raggiunto il giusto livello di notorietà, sono le copie o le opere nuove che
consentono all’artista di sfruttare economicamente, secondo le logiche
proprie del mercato dell’arte, la propria creatività.
Fatto questa doverosa disamina che serve a porre in evidenza come il murale
in sé possa assurgere ad opera protetta, occorrerà un’autorizzazione al
trattamento dell’immagine qualora il soggetto sia riconoscibile e non sia un
soggetto “noto”. In questo ultimo caso, potrebbe essere necessario
comunque ottenere un’autorizzazione per la cessione dei diritti di
sfruttamento economico da parte dei diritti interessati.
Il concetto di base è espresso nell’articolo
96 della legge sul diritto d’autore secondo cui “il ritratto di una
persona non può essere esposto, riprodotto e messo in commercio senza il
consenso di questa…”.
Salvo le disposizioni dell’art.
97 “non occorre il consenso della persona ritrattata quando la
riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio
pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi
scientifici, didattici o culturali o quando la riproduzione è collegata ad
avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico svoltisi in pubblico. Il
ritratto non può tuttavia essere esposto, o messo in commercio, quando
l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla
reputazione o anche al decoro della persona ritrattata”.
Inoltre, l’articolo 10 del codice civile dispone che “qualora l’immagine
di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia esposta, o
pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla
legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della
persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta
dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei
danni”.
Quindi, il volto di una persona ritratto è considerato dato personale, per
cui è necessaria, in linea generale, l’informativa privacy di cui all’art.
13 del regolamento europeo 679/2016.
La regola è che l’artista, affinché possa esporre, riprodurre o mettere in
commercio il ritratto, deve ottenere il consenso della persona ritratta o
dei genitori nel caso di minori. In casi particolari, l’immagine potrebbe
diventare addirittura dato sensibile, in quanto e se fornisca informazioni
sullo stato di salute della persona, se ritratta in ospedale, oppure sul suo
orientamento religioso, se ritratta ad una funzione religiosa; in tali casi,
per essere trattato, il dato necessita del consenso scritto e informato
della persona ritratta.
La Corte di Cassazione ha chiarito, sul punto, che il consenso alla
pubblicazione della propria immagine costituisce un negozio unilaterale
avente ad oggetto non il diritto all'immagine, personalissimo ed
inalienabile, ma soltanto il suo esercizio. Ne consegue che il consenso alla
pubblicazione è sempre revocabile, anche in difformità di quanto pattuito
contrattualmente, salvo il diritto dell'altra parte al risarcimento del
danno eventualmente occorsogli a seguito della revoca.
Quindi, nel caso in cui siano ritratte le persone, anche in un luogo
pubblico (ritratte in luogo pubblico ma isolate dal contesto e in evidenza),
allora si tratta di ritratto e occorre il consenso delle persone ritratte
per la pubblicazione e questo indipendentemente dalla dimensione del
personaggio.
Ovviamente se il volto non è riconoscibile, non sussiste problema di privacy
e il ritratto potrà essere pubblicato senza alcuna autorizzazione. Questa
conclusione vale anche se, della persona, è ritratta una parte del corpo,
poiché la tutela della privacy riguarda la riconoscibilità della figura.
Poi, come si è già accennato, esistono alcune eccezioni dovute alla
notorietà o all’ufficio pubblico del personaggio ritratto, a necessità di
giustizia, a scopi scientifici, didattici o culturali, oppure al fatto se la
riproduzione sia collegata ad avvenimenti o cerimonie di interesse pubblico,
ovvero se si eserciti un diritto di cronaca o di satira (11.02.2022
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Delega funzione a consigliere comunale.
Quesiti
Si chiede se è possibile conferire la delega di funzione al bilancio ad
un Consigliere Comunale eletto, che logicamente non implica la possibilità
di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione
spettanti agli organi burocratici.
Risposta
Come evidenziato in vari pareri espressi dal Min. Interno sulla scorta della
giurisprudenza (ad es., parere del 12.08.2019), nell'ambito dell'autonomia
statutaria dell'ente locale, sancita dall'art.
6 del citato decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la
disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia
coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie e di
compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni
particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza
esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Nel caso del bilancio la delega esterna può essere data per le attività
anzidette di studio o circoscritte ma non genericamente sull'intera materia
della contabilità e questioni correlate ad essa d'interesse dell'ente
locale. E' del tutto evidente che, sostanzialmente, le attività di indirizzo
e di controllo, tipicamente assessorili non potranno essere esercitate nella
predetta materia sulla base di una mera delega al consigliere comunale, ma
solo limitate per modo e per fine (10.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Titoli partecipazione concorso.
Quesiti
Dobbiamo fare un concorso per ricoprire il posto di responsabile ufficio
urbanistica: una laurea triennale conseguita on-line, e riconosciuta dal
MUIR, può essere ritenuta idonea?
Risposta
Come ritenuto dalla giurisprudenza (ad es. Consiglio di Stato - VI sez. -
sentenza n. 676 del 22.01.2021), sussiste in capo all’amministrazione che
indice la procedura selettiva «un potere discrezionale
nell’individuazione della tipologia dei titoli richiesti per la
partecipazione, da esercitare tenendo conto della professionalità e della
preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire».
Pertanto «in assenza di una fonte normativa che stabilisca
autoritativamente il titolo di studio necessario e sufficiente per
concorrere alla copertura di un determinato posto o all’affidamento di un
determinato incarico, la discrezionalità nell’individuazione dei requisiti
per l’ammissione va esercitata tenendo conto della professionalità e della
preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire o per l’incarico
da affidare, ed è sempre naturalmente suscettibile di sindacato
giurisdizionale sotto i profili della illogicità, arbitrarietà e
contraddittorietà».
Ciò premesso, si osserva che in linea genera (anche secondo la
giurisprudenza: v. Tar Umbria, sez. I, 29.10.2009, n. 657), nell’attuale
ordinamento che prevede due livelli di laurea, quando un bando di concorso
richiede il possesso di una “laurea” senza ulteriori specificazioni
si deve intendere che sia sufficiente la laurea triennale; in caso contrario
il bando dovrebbe richiedere la laurea “specialistica” o “magistrale”.
Pertanto, se il bando chiedesse anche le lauree triennali di tipo tecnico
(urbanistica, architettura, pianificazione Territoriale e Scienze e Tecniche
dell'Edilizi ecc.), legalmente riconosciute, la previsione sarebbe
legittima, come, del resto, si registra nella prassi in numerosi bandi
pubblicati da vari enti locali (10.02.2022
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INCARICHI PROGETTUALI:
Calcolo onorario professionale.
Quesiti
Si fa l'ipotesi dell'affidamento d'incarico a professionista esterno per
redigere un progetto di un'opera pubblica, il cui compenso deve essere
determinato sulla base di quanto prescritto dal Decreto del Ministero della
Giustizia del 17.06.2016.
Il progetto da redigere consiste nella progettazione definitiva ed
esecutiva, ma il tutto raggruppato in un unico progetto, ai sensi dell'art.
23, comma 4, del D.Lgs. 50/2016, che permette l'omissione di uno o di
entrambi i primi due livelli di progettazione, purché il livello successivo
contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso.
Di fatto, però, molti degli elaborati progettuali corrispondenti alle
singole prestazioni previste dal D.M. 17/06/2016 verranno prodotti una sola
volta: è il caso, per esempio, della relazione progettuale, del computo
metrico estimativo, del Capitolato Speciale d'Appalto, così come degli
elaborati grafici e di tutto quello che, analogamente, comporrà il progetto.
Esistono invece prestazioni che devono essere incluse (in ossequio al
principio enunciato dall'art.
23, c. 4, del D.lgs. 50/2016 secondo cui il livello successivo deve
contenere tutti gli elementi previsti per il livello omesso) e che, nella
fattispecie, sono presenti solo fra quelle del progetto definitivo. Si
consideri, per esempio, il caso della prestazione "rilievi dei manufatti".
A parere dello scrivente, le singole prestazioni professionali da applicare
devono essere considerate una sola volta. Per es., nel caso della Relazione
progettuale, nel calcolo, si ritiene di considerare solo il parametro QbIII.01
(Relazione generale e specialistiche. Elaborati grafici. Calcoli esecutivi),
della Fase Prestazionale "Progettazione esecutiva", in quanto il
professionista redigerà un'unica relazione e, quindi, si ritiene corretto
che il calcolo economico sia fatto una sola volta. Analogamente per tutto
quant'altro compone il progetto, riconoscendo comunque eventuali prestazioni
contemplate esclusivamente nella Fase Prestazionale "Progettazione
Definitiva" (come ad es. nel caso delle attività di rilievo dei
manufatti).
Il professionista afferma, invece, che, pur producendo degli elaborati
progettuali una sola volta, dovendo inglobare in tali elaborati anche gli
elementi previsti per il livello omesso, il calcolo della sua parcella debba
essere fatto come se egli dovesse realmente produrre i due progetti
(definitivo ed esecutivo). Ciò comporta una grande diversità nel calcolo
dell'onorario professionale.
Si richiede, quindi, un parere e l'indicazione di eventuali fonti
giurisprudenziali che siano intervenute a dirimere la questione.
Risposta
L’art. 24 comma 4, recita “La stazione appaltante, in rapporto alla
specifica tipologia e alla dimensione dell’intervento indica le
caratteristiche, i requisiti e gli elaborati progettuali necessari per la
definizione di ogni fase della progettazione. E’ consentita, altresì,
l’omissione di uno o di entrambi i primi due livelli di progettazione,
purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il
livello omesso, salvaguardando la qualità della progettazione.”
Pertanto il progetto esecutivo dovrà contenere tutti gli elementi previsti
per il livello omesso (rilevi etc.) ed il relativo calcolo della parcella
effettuato ai sensi del DM del 17.06.2016, dovrà tener conto di tutti gli
elaborati progettuali del progetto esecutivo e di quelli previsti per il
livello omesso.
Infatti, ai sensi dell’art. 4 del DM 17.06.2016, Il compenso “CP” è
determinato dalla sommatoria dei prodotti tra il costo delle singole
categorie componenti l’opera” V”, il parametro “G” corrispondente al grado
di complessità delle prestazioni, il parametro “Q” corrispondente alla
specificità della prestazione distinto in base alle singole categorie
componenti l'opera e il parametro base “P”, secondo l'espressione che segue:
CP = ∑(V × G × Qi × P)
Pertanto gli elaborati progettuali previsti nel progetto definitivo e non
previsti nel progetto esecutivo potranno essere oggetto di compenso, mentre
quelli previsti sia nel progetto definitivo che esecutivo dovranno essere
liquidati per la specifica singola prestazione.
Fondamentale è esplicitare nell’elaborato allegato agli atti di gara del
procedimento attraverso il quale si è giunti alla definizione dei
corrispettivi da porre a base di gara in particolare rappresentare nel
calcolo della parcella, le singole specifiche prestazioni Qi in modo tale da
mettere a conoscenza il progettista sulle esclusive prestazioni specifiche
richieste.
Inoltre preme sottolineare l’importanza della qualità progettuale che esula
dal redigere uno stesso elaborato con due diversi livelli di
approfondimento, infatti la lettura del combinato disposto dell’art. 24,
comma 4, e l’art. 1, comma 3, del DM 17/06/2016 prevede che i corrispettivi
del DM 17/06/2016 possono essere utilizzati dalle stazioni appaltanti, ove
motivatamente ritenuti adeguati, quale criterio o base di riferimento ai
fini dell'individuazione dell'importo dell'affidamento e che è’ consentita
l’omissione di uno o di entrambi i primi due livelli di progettazione,
purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il
livello omesso, salvaguardando la qualità della progettazione.
A maggior tutela del RUP è possibile richiedere, inoltre, un parere di
congruità sulla parcella, da parte del Consiglio dell'ordine professionale
ai sensi della
legge n. 1395/1923 (08.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarico di consulenza ad ex dipendente in pensione.
Quesiti
Questo ente ha intenzione di conferire un incarico di consulenza per seguire
un evento culturale (mostra), dietro pagamento di un corrispettivo, ad un ex
dipendente (Responsabile durante l'attività lavorativa delle attività
culturali dell'ente) e collocato a riposo nel secondo semestre 2020.
Alla luce delle normative vigenti si chiede:
1) se l'incarico, dietro corrispettivo, possa essere legittimamente
conferito all'ex dipendente e in caso negativo se comunque si possa
procedere ad un incarico a titolo gratuito;
2) se siano previsti limiti alla durata massima dell'incarico e
all'ammontare massimo del corrispettivo.
Risposta
In riferimento al primo quesito, si ritiene che l’incarico remunerato non
possa essere conferito, ai sensi dell’articolo
25 della Legge 23.12.1994 n. 724, ove si vieta l’instaurazione di
rapporto di consulenza con soggetti cessati per pensionamento anticipato.
Ulteriore divieto è previsto dall’articolo
5, comma 9, del Decreto-legge 06.07.2012 n. 95.
A ciò deve aggiungersi che, l’instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro
dipendente con il medesimo soggetto, qualora fosse di derivazione o di
continuazione del precedente, comporterebbe la revoca del trattamento
pensionistico.
Rimane salva la possibilità di conferire incarico annuale a titolo gratuito,
previsto dall’articolo
5, comma 9, del citato DL 95/2012 (08.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Possibilità recupero ore eccedenti straordinario consentito.
Quesiti
Si chiede se le ore di straordinario che eccedono il numero di ore
massime annuali effettuabili dal dipendente (esempio max 180 eccedenza 22
ore) possono essere recuperate dal dipendente. Si precisa che non è
istituita la banca ore.
Risposta
Le ore di straordinario autorizzato devono essere corrisposte, pur se in
misura superiore alle 180. Infatti, il sinallagma tra prestazione lavorativa
e remunerazione non può venir meno. È il datore di lavoro che dovrebbe
evitare l’autorizzazione in misura superiore a quella prevista dall’articolo
14, comma 4, CCNL 01.04.1999.
L’articolo 38, comma 3, CCNL 14.09.2000, prevede che, per esigenze
eccezionali -debitamente motivate in relazione all’attività di diretta
assistenza agli organi istituzionali riguardanti un numero di dipendenti non
superiore al 2 percento dell’organico- il limite massimo individuale di cui
all’art. 14, comma 4, del CCNL 01.04.1999 possa essere elevato in sede di
contrattazione decentrata integrativa, fermo restando il limite delle
risorse previste dallo stesso art. 14 (08.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarico di particolare responsabilità a personale part-time.
Quesiti
Al personale part-time 50% in prova può essere affidato un incarico di
particolare responsabilità per la realizzazione di obiettivi misurabili a
fine anno con lo strumento della performance individuale?
Lo stesso personale può essere inserito nello svolgimento dello
straordinario elettorale? In che misura?
Risposta
Non vi sono ragioni che possano escludere il personale a tempo determinato
dall’assegnazione di obiettivi ai fini della valutazione della performance
individuale, fermo restando che il periodo di prova è funzionale all’
accertamento del possesso delle attitudini necessarie per l’espletamento dei
compiti esigibili nell’ambito della categoria di inquadramento e del profilo
professionale attribuito. Analogamente per lo straordinario elettorale.
La suprema Corte ha avuto modo di precisare che il periodo di prova mira,
inoltre, ad accertare anche la personalità del lavoratore nonché l’idoneità
dello stesso ad adempiere gli obblighi di fedeltà, diligenza e correttezza (Cass.,
n. 20916 del 05.08.2019, e giurisprudenza nella stessa richiamata).
Questo orientamento dei giudici di legittimità da un lato consente un’ampia
discrezionalità dell’amministrazione nel decidere se considerare conclusa
positivamente o meno la prova e dall’altro implica che l’esercizio del
potere di recesso deve essere correlato ad una modalità di svolgimento della
prova adeguato a tali verifiche che certamente non si riscontra nell’ipotesi
in cui al prestatore vengano assegnate mansioni diverse da quelle per le
quali era pattuita la prova.
Alla luce delle suesposte considerazioni nulla osta all’affidamento di un
incarico di responsabilità, che rientra nell’ambito delle prestazioni
esigibili nell’ambito del rapporto di lavoro (07.02.2022
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ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO -
VARI:
Scorrimento graduatoria per fronteggiare emergenza assunzionale successiva
all'indizione del concorso.
Quesiti
L'ente ha una graduatoria in essere per Istruttore Amministrativo C1. Ha
già provveduto ad assumere la vincitrice a tempo pieno e indeterminato da
maggio 2021.
Occorre conoscere, stante l'attuale mancanza di personale, se invece di
bandire un ulteriore concorso con conseguenti spese gravanti sul bilancio,
se può procedere ad attingere dalla graduatoria in essere l'idonea
successiva alla vincitrice non essendo stata prevista la figura di cui oggi
necessita prima dell'indizione del concorso in argomento.
Si specifica che sul punto ci sono orientamenti giurisprudenziali
contrastanti della Corte dei Conti: un primo orientamento (minoritario)
riferisce che è possibile procedere, il secondo orientamento (maggioritario)
invece sostiene di no, in quanto il posto doveva essere previsto in pianta
organica prima dell'indizione del concorso, ma l'Ente non poteva prevederlo
prima.
Risposta
L’art.
17, comma 1-bis, del milleproroghe 2020, DL 162/2019, dispone che “1-bis.
Per l’attuazione del piano triennale dei fabbisogni di personale di cui
all’articolo 6 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, gli enti locali
possono procedere allo scorrimento delle graduatorie ancora valide per la
copertura dei posti previsti nel medesimo piano, anche in deroga a quanto
stabilito dal comma 4 dell’articolo 91 del testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo
18.08.2000, n. 267”.
Secondo l’ANCI, la disciplina prima richiamata consente agli enti locali,
che intendano procedere ad assunzioni in attuazione del piano triennale dei
fabbisogni di personale, di procedere allo scorrimento delle graduatorie
ancora valide per la copertura dei posti previsti nel medesimo piano in
deroga all'art.
91, comma 4, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali
(di cui al d.lgs. n. 267/2000), ai sensi del quale per gli enti locali
le graduatorie concorsuali rimangano efficaci per tre anni dalla data di
pubblicazione per l'eventuale copertura dei posti che si venissero a rendere
successivamente vacanti e disponibili, con eccezione per i posti istituiti o
trasformati successivamente all'indizione del concorso medesimo.
Secondo la Corte dei conti (ad es., sez. contr. Sardegna, deliberazione n.
85/2020), il disposto normativo richiamato, consentendo agli Enti locali di
disapplicare la disposizione dell’art.
91, comma 4, del TUEL, apre le porte alla possibilità di utilizzare le
graduatorie anche per la copertura dei “posti istituiti o trasformati
successivamente all’indizione del concorso”; possibilità che urta con
quella ratio tesa a scongiurare il pericolo di scorrimenti (e, di riflesso,
di assunzioni) “ad personam”, la cui caratura non è sfuggita alla
giurisprudenza contabile (tra le tante, deliberazione n. 28/2018/PAR Sezione
regionale di controllo Umbria e deliberazione n. 72/2019/PAR Sezione
regionale di controllo Puglia che rimarca come “la flessibilità annuale
del fabbisogno del personale non appare inconciliabile con il divieto dell’art.
91, comma quarto, TUEL”) e ha indotto la giurisprudenza
amministrativa a ritenere che “La regola (del divieto di procedere allo
scorrimento delle graduatorie per la copertura di posti istituiti o
trasformazione dopo l’indizione del concorso posta dall’art.
91 in commento) sebbene contenuta nella disciplina degli enti locali,
risulta espressiva di un principio generale e, pertanto, trova applicazione
comune anche alle altre amministrazioni pubbliche” (Consiglio di Stato –
Adunanza Plenaria n. 14/2011) essendo preminente l’esigenza di evitare che “le
pubbliche amministrazioni possano essere indotte a modificare la pianta
organica, al fine di assumere uno dei candidati inseriti in una determinata
graduatoria, i cui nomi siano già conosciuti” (Consiglio di Stato, Sez.
III, n. 4119/2014 e, in senso conforme, Consiglio di Stato, Sez. IV, n.
5089/2018 nonché Cassazione Civile, Sezione lavoro, n. 2316/2020, entrambe
preziose per l’interpretazione dell’art.
91 del TUEL).
In base a detta deliberazione, dunque, la (eventuale) “deroga” ai
limiti dell’art.
91, comma 4, TUEL, renderà pertanto ancora più pregnante l’obbligo
motivazionale che dovrà sorreggere le determinazioni inerenti il
reclutamento del personale.
Peraltro, la previsione di posti in dotazione organica cozza con la
soppressione di quel modello a vantaggio di quello della programmazione. Le
recenti riforme del
TUPI d.lgs. n. 165/2001 hanno fortemente depotenziato la dotazione
organica, mentre viene accresciuto il ruolo assegnato al piano triennale del
fabbisogno di personale, per cui la dotazione organica discende a questo
punto dal documento di programmazione del fabbisogno di personale.
In tema di utilizzazione di una graduatoria di un pubblico concorso per
attribuire agli idonei i posti di organico resisi successivamente
disponibili, il consolidato indirizzo giurisprudenziale (tra le tante,
Consiglio di Stato, Sez. V, 15.10.2009, n. 6332) ritiene che, sul piano
dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la sostanziale inversione
del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di
scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace. Quest’ultima
modalità di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre
l’indizione del nuovo concorso costituisce l’eccezione e richiede
un’apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio imposto
ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico (TAR
Campania, Napoli, con la sentenza 16.01.2017, n. 366).
La PA, dunque, una volta che abbia deciso di provvedere alla copertura di
posti vacanti, è tenuta a motivare in ordine alle ragioni che la inducono ad
optare per una o l’altra forma di reclutamento, e cioè il concorso pubblico
ovvero lo scorrimento di graduatoria ancora efficace, ma tenendo nel debito
conto che l’ordinamento attuale afferma un generale favore per
l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei, avente anche una chiara
finalità di contenimento della spesa pubblica che il concorso pubblico
comporta (Consiglio di Stato, Sez. III, 20.12.2012, n. 6560).
In materia di assunzione di nuovo personale nelle pubbliche amministrazioni,
l’indizione del concorso pubblico rappresenta modulo di provvista residuale,
utilizzabile condizionatamente alla definizione negativa delle procedure di
mobilità e all’inesistenza di valide ed efficaci graduatorie di procedura
concorsuale afferente alle medesime figure professionali, sempre che
speciali discipline settoriali o particolari circostanze di fatto o ragioni
di interesse pubblico, da motivare adeguatamente, depongano per l’opzione
prioritaria del nuovo concorso (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 14 del
2011; TAR CAMPANIA–NAPOLI, SEZ. V – sentenza 29.03.2021 n. 2103) (07.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Scorrimento graduatorie ancora vigenti.
Quesiti
Volevo chiedere se, ai sensi del decreto cd milleproroghe, che prevede,
all’art.
17, comma 1-bis, quanto segue: “1-bis. Per l’attuazione del piano
triennale dei fabbisogni di personale di cui all’articolo
6 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, gli enti locali possono
procedere allo scorrimento delle graduatorie ancora valide per la copertura
dei posti previsti nel medesimo piano, anche in deroga a quanto stabilito
dal
comma 4 dell’articolo 91 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali, di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267”, è
possibile utilizzare, previa convenzione, una graduatoria per istruttore amm.vo
part-time, per un'assunzione full-time.
Risposta
Secondo l’ANCI, la disciplina richiamata nel quesito consente agli enti
locali, che intendano procedere ad assunzioni in attuazione del piano
triennale dei fabbisogni di personale, di procedere allo scorrimento delle
graduatorie ancora valide per la copertura dei posti previsti nel medesimo
piano in deroga all'art.
91, comma 4, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali
(di cui al d.lgs. n. 267/2000), ai sensi del quale per gli enti locali
le graduatorie concorsuali rimangano efficaci per tre anni dalla data di
pubblicazione per l'eventuale copertura dei posti che si venissero a rendere
successivamente vacanti e disponibili, con eccezione per i posti istituiti o
trasformati successivamente all'indizione del concorso medesimo.
Secondo la Corte dei conti (ad es., sez. contr. Sardegna, deliberazione n.
85/2020), il disposto normativo richiamato, consentendo agli Enti locali di
disapplicare la disposizione dell’art.
91, comma 4, del TUEL, apre le porte alla possibilità di utilizzare le
graduatorie anche per la copertura dei “posti istituiti o trasformati
successivamente all’indizione del concorso”; possibilità che urta con
quella ratio tesa a scongiurare il pericolo di scorrimenti (e, di riflesso,
di assunzioni) “ad personam”, la cui caratura non è sfuggita alla
giurisprudenza contabile (tra le tante, deliberazione n. 28/2018/PAR Sezione
regionale di controllo Umbria e deliberazione n. 72/2019/PAR Sezione
regionale di controllo Puglia che rimarca come “la flessibilità annuale
del fabbisogno del personale non appare inconciliabile con il divieto dell’art.
91, comma quarto, TUEL”) e ha indotto la giurisprudenza
amministrativa a ritenere che “La regola (del divieto di procedere allo
scorrimento delle graduatorie per la copertura di posti istituiti o
trasformazione dopo l’indizione del concorso posta dall’art. 91 in commento)
sebbene contenuta nella disciplina degli enti locali, risulta espressiva di
un principio generale e, pertanto, trova applicazione comune anche alle
altre amministrazioni pubbliche” (Consiglio di Stato – Adunanza Plenaria
n. 14/2011) essendo preminente l’esigenza di evitare che “le pubbliche
amministrazioni possano essere indotte a modificare la pianta organica, al
fine di assumere uno dei candidati inseriti in una determinata graduatoria,
i cui nomi siano già conosciuti” (Consiglio di Stato, Sez. III, n.
4119/2014 e, in senso conforme, Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 5089/2018
nonché Cassazione Civile, Sezione lavoro, n. 2316/2020, entrambe preziose
per l’interpretazione dell’art.
91 del TUEL).
In base a detta deliberazione, dunque, la (eventuale) “deroga” ai
limiti dell’art.
91, comma 4, TUEL, renderà pertanto ancora più pregnante l’obbligo
motivazionale che dovrà sorreggere le determinazioni inerenti il
reclutamento del personale (04.02.2022
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Indennità di carica assessore dipendente part-time.
Quesiti
Un assessore di questo ente ha sottoscritto un contratto di lavoro a tempo
indeterminato presso un altro ente locale con rapporto di lavoro part-time
al 50%, decorrente dall'01.02.2022.
Si chiede se l'indennità di carica che l'assessore attualmente percepisce
vada ridotta della metà oppure se, trattandosi di un rapporto di lavoro
part-time al 50%, l'interessato continuerà a percepire la sua indennità di
carica in misura intera.
Risposta
Per quanto riguarda l'aspetto generale della questione, si rappresenta che
l'art.
82, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000 dispone la
corresponsione dell'indennità di funzione in misura dimezzata agli
amministratori lavoratori dipendenti che non abbiano richiesto il
collocamento in aspettativa.
Tale norma, che stabilisce un principio d'ordine generale di valore cogente,
non può essere disattesa sebbene in concomitanza venga svolta attività
lavorativa autonoma.
Ad avviso del Ministero dell'Interno (v. ad es. parere del 17.10.2005) la
disposizione si applica anche alla fattispecie del lavoratore dipendente in
part-time, in quanto la predetta norma conserva la propria autonomia a
prescindere dalla tipologia oraria del rapporto di lavoro, sia lo stesso a
tempo pieno oppure parziale, semprechè lo specifico contratto di lavoro
preveda l'istituto dell'aspettativa, tipico di un rapporto di dipendenza (02.02.2022
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INCARICHI PROFESSIONALI:
Incarico di consulenza.
Quesiti
Il mio Comune fa parte di un consorzio, la situazione economica di tale
consorzio non è molto buona e l'amministrazione vorrebbe dare un incarico ad
un esperto al fine di valutare se sia meglio uscire dal consorzio oppure
trasformarlo in un altro istituto.
E' possibile dare una consulenza ad un professionista che ci segua in questa
valutazione?
Il Responsabile avrebbe individuato la persona adatta: può affidare
l'incarico direttamente? L'importo sarebbe di 3.000,00 euro.
Risposta
In riferimento alla valutazione da parte di un esperto di aspetti economici
di cui nel quesito, è possibile, di fatto, richiedere un servizio di
valutazione economica/giuridica secondo la disciplina del codice dei
contratti in riferimento all’acquisto di servizi, rientrando nella
fattispecie dell’art.
36 D.lgs. 50/2016 “contratti sotto soglia” ed inferiore ai 40.000
euro.
In particolare essendo un servizio inferiore ai 5.000 euro non è neanche
richiesto l’acquisto mediante i mercati elettronici (MePA) come previsto
dall’art.
1, comma 130 della legge 30.12.2018, n. 145 ha, infatti, modificato l'art.
1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, prevede che: “Fermi
restando gli obblighi e le facoltà previsti al
comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di
cui all’articolo
1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le autorità
indipendenti, per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore
a 5.000 euro e inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a
fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad
altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328
ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale
di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure”.
Pertanto alla luce di quanto sopra si potrà procedere, ai sensi delle Linee
Guida ANAC 4.4.1, anche mediante “apposito scambio di lettere, anche
tramite posta elettronica certificata” (02.02.2022
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SEGRETARI COMUNALI:
Indennità di accesso relativa alla stipula e registrazione degli atti
pubblici amministrativi da parte del segretario comunale quale ufficiale
rogante.
Quesiti
Con la presente desidero conoscere la fonte normativa che consente di
esigere la cd. indennità di accesso relativa alla stipula e registrazione
degli atti pubblici amministrativi da parte del segretario comunale come
ufficiale rogante.
Come calcolare detta indennità?
Risposta
L’art.
10, comma 2, del D.L. n. 90/2014, convertito con
Legge n. 114/2014 ha sostituito l’art.
30, comma 2, della legge n. 734/1973, stabilendo in via generale che “il
provento annuale dei diritti di segreteria è attribuito al comune” e al
comma 2-bis ha stabilito che negli enti locali privi di dipendenti con
qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non
hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al
comune ai sensi dell’art.
30, secondo comma della Legge 734/1973, per gli atti di cui ai numeri 1,
2, 3, 4 e 5 della Tabella D allegata alla
Legge 604/1962, è attribuita al segretario comunale rogante, in misura
non superiore a un quinto dello stipendio in godimento.
Inoltre, va ricordato l’art.
97, comma 4, lett. c), del D.Lgs. 267/2000, affida al segretario
comunale il compito di rogare, su richiesta dell'ente, i contratti nei quali
l'ente è parte e autentica scritture private ed atti unilaterali
nell'interesse dell'ente.
Precisata la fonte normativa il calcolo deve essere effettuato sulla base
della tabella D allegata alla
Legge 604/1962, fermo restando il limite massimo del quinto dello
stipendio in godimento; la quota eccedente viene acquisita dall’ente.
I diritti di rogito sono calcolati come somma di un valore base, dipendente
dal valore del contratto rogato, e da un valore dipendente dal numero di
pagine del contratto (02.02.2022
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APPALTI SERVIZI:
Proroga tecnica contratto d'appalto.
Quesiti
Nel caso di applicazione dell'istituto di proroga tecnica in deroga
all'operatore uscente, di un contratto d'appalto speciale (servizio
biblioteca - allegato IX del
d.lgs. 50/2016) in scadenza, causa emergenza covid per interruzione del
servizio durante la pandemia, per il tempo necessario per l'espletamento
della nuova gara, qualora l'importo/costo servizio per la prosecuzione per
120 gg. successivi alla scadenza è al di sopra dei 5.000 euro è obbligatorio
effettuare l'affidamento su piattaforma elettronica o trattandosi comunque
di prosecuzione di appalto già espletato sul MEPA nel 2017, basta una
determinazione di proroga tecnica firmata digitalmente e successiva
comunicazione dell'affidamento in proroga al soggetto affidatario con
modalità elettronica?
E’ sufficiente una comunicazione via pec?
Risposta
L'art.
1, comma 130, della legge 30.12.2018, n. 145 ha, infatti, modificato l'art.
1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, prevede che: “Fermi
restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del presente
articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all’articolo
1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le autorità
indipendenti, per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore
a 5.000 euro e inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a
fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad
altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328
ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale
di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure”.
Pertanto la soglia per non incorrere nell’obbligo di ricorrere al MEPA è
stata innalzata da 1.000 euro a 5.000 euro. Dall'01.01.2019, infatti, le
pubbliche amministrazioni sono obbligate a ricorrere al MePA o altri mercati
elettronici (non strumenti elettronici come la pec) per forniture di beni e
l'acquisto di servizi di importo superiore ai 5.000 euro.
In merito al CIG come previsto dall’ANAC, non è prevista la richiesta di un
nuovo codice CIG nei casi di proroga del contratto ai sensi dell’art.
106, comma 11, del Codice dei contratti pubblici, concessa per garantire
la prosecuzione delle prestazioni nelle more dell’espletamento delle
procedure necessarie per l’individuazione di un nuovo soggetto affidatario.
Inoltre è bene ricordare che la proroga tecnica, in funzione alla
giurisprudenza amministrativa ed alle indicazioni fornite da ANAC, affinché
sia legittima devono ricorrere i seguenti presupposti:
• la proroga deve rivestire carattere eccezionale temporaneo,
utilizzabile solo quando non sia possibile attivare i necessari meccanismi
concorrenziali, nei soli casi in cui vi sia l’effettiva necessità di
assicurare precariamente il servizio nelle more del reperimento di un nuovo
contraente (Cons. St., V, 11.05.2009 n. 2882; delibere ANAC n. 36 del
10.09.2008; n. 86/2011; n. 427 del 02.05.2018);
• la nuova gara deve essere già stata avviata al momento della
proroga (Parere Anac AG n. 33/2013);
• la proroga tecnica trova giustificazione solo nei casi in cui,
per ragioni obiettivamente non dipendenti dall’amministrazione, vi sia
l’effettiva esigenza di assicurare il servizio nelle more del reperimento di
un altro contraente (TRGA di Trento, sentenza n. 382 del 20.12.2018). In
altre parole, la proroga tecnica è ammessa solo nei casi eccezionali in cui,
per ragioni oggettive estranee all’amministrazione, vi sia l’effettiva
necessità di assicurare precariamente il servizio nelle more del reperimento
di un nuovo contraente (Cons. Stato, sez. V, 11.05.2009, n. 2882; Parere ex
Avcp AG 38/2013);
• l’opzione di proroga tecnica deve essere stata prevista
nell’originario bando di gara e di conseguenza nel contratto di appalto” (02.02.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità volontaria ai sensi dell'art. 30, c. 2-bis, D.Lgs. 165/2001.
Quesiti
Un dipendente EE.LL. cat. C, con 20 anni di servizio, in comando presso
il nostro Ente dopo un anno chiede di essere trasferito nei ruoli della
nostra Amministrazione; noi chiediamo all'Ente di appartenenza (Comune con
più di 500 dipendenti) l'assenso al trasferimento per mobilità volontaria ai
sensi dell'art.
30, c. 2-bis, D.Lgs. 165/2001, anche alla luce delle modifiche apportate
dalla
L. 113/2021.
Trascorrono 60 giorni e non si riceve risposta, cosa bisogna o si può fare?
Risposta
L’art.
30 del d.lgs. n. 165/2001 dispone che è richiesto il previo assenso
dell'amministrazione di appartenenza nel caso in cui si tratti di posizioni
dichiarate motivatamente infungibili dall'amministrazione cedente o di
personale assunto da meno di tre anni o qualora la mobilità determini una
carenza di organico superiore al 20 per cento nella qualifica corrispondente
a quella del richiedente.
La disposizione non si applica al personale degli enti locali con un numero
di dipendenti a tempo indeterminato non superiore a 100 per i quali è
comunque richiesto il previo assenso dell'amministrazione di appartenenza.
Quindi, se l’ente di che trattasi ha meno di 100 dipendenti, occorre il
consenso espresso e nel silenzio il dipendente interessato potrà
eventualmente diffidare ed agire legalmente per avere comunque una risposta,
ferma restando la piena autonomia decisionale al riguardo (01.02.2022
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ENTI LOCALI:
Conservazione e scarto documenti d'archivio.
Quesiti
Sono il responsabile Anagrafe-Polizia locale. All'interno del ns. municipio
abbiamo 2 stanze adibite ad archivio di documenti cartacei; poiché le stanze
ci servono e l'archivio scoppia, vorremmo smaltire un po' di documenti; c'è
di tutto: verbali del codice della strada di tanti anni fa, registri di
stato civile, pratiche edilizie, fotocopie di fotocopie ecc.
Chiedo come fare per eliminare o ridurre l'archivio e se c'è una normativa
in merito.
Risposta
Ogni Ente approva un piano di conservazione e di scarto sulla scorta di
regole ormai consolidate sintetizzate nell'allegato. Si rammenta che
l'archiviazione si distingue in corrente, di deposito e storico.
Per “archivio corrente” s’intende l’archivio che è attualmente in uso
ed è in continuo accrescimento; per necessità pratiche, i fascicoli che
compongono l’archivio corrente vengono conservati in locali facilmente
accessibili o nella stessa stanza degli impiegati che li utilizzano. I
fascicoli relativi alle pratiche ormai concluse non servono più alle
attività quotidiane e si possono quindi spostare in locali di minor facile
accesso (cantine, soffitte, magazzini decentrati).
In questa fase, gli archivi vengono definiti “di deposito” o “intermedi”:
si tratta infatti di una fase intermedia del ciclo di vita degli archivi,
tra quella dell’archivio corrente e quella dell’archivio storico. In questo
stadio si conservano documenti che un domani potranno magari essere
scartati, ma che per il momento occorre conservare perché possono ancora
essere utili (ad esempio per accertamenti fiscali).
Infine, dopo un certo numero di anni –che per gli archivi dello Stato è
definito dalla legge in 30 anni– si selezionano i fascicoli che vale la pena
di conservare per sempre, e si scartano gli altri. Si costituisce così
l’archivio storico, che ha un interesse prevalentemente storico-culturale,
ma che comunque può ancora servire anche per fini pratici. Si pensi, ad
esempio, che per risolvere dispute sui confini, bisogna a volte ricorrere a
documenti vecchi di secoli (01.02.2022
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Rimborso delle spese legali ad amministratori assolti con formula piena.
Quesiti
Si chiede si sapere se per il rimborso delle spese legali ad
amministratori assolti con formula piena sia necessaria la preventiva
delibera di condivisione della nomina del difensore.
Risposta
L’art.
86 del D.lgs. n. 267/2000 (come sostituito dall’articolo
7-bis, comma 1, del Decreto legge n. 78/2015, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 125 del 06.08.2015) stabilisce che “Gli
enti locali di cui all’articolo
2 del presente testo unico, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica, possono (nota di chi scrive, quindi non costituiscono spese
obbligatorie) assicurare i propri amministratori contro i rischi conseguenti
all’espletamento del loro mandato. Il rimborso delle spese legali per gli
amministratori locali è ammissibile, senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica, nel limite massimo dei parametri stabiliti dal decreto di
cui all’articolo
13, comma 6, della legge 31.12.2012, n. 247, nel caso di conclusione del
procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento
di archiviazione, in presenza dei seguenti requisiti: a) assenza di
conflitto di interessi con l’ente amministrato; b) presenza di nesso causale
tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di dolo
o colpa grave”.
L’intervento legislativo di cui sopra è intervenuto su una materia
caratterizzata, sino ad allora, da differenti orientamenti
giurisprudenziali, anche di legittimità: “Al quesito circa
l’applicabilità del citato
art. 67 del d.P.R. n. 268/1987 agli amministratori degli enti locali
deve darsi risposta negativa, conformemente alla giurisprudenza di questa
Corte. Infatti il diritto al rimborso delle spese legali relative ai giudizi
di responsabilità civile, penale o amministrativa a carico di dipendenti di
amministrazioni statali o di enti locali per fatti connessi all’espletamento
del servizio o comunque all’assolvimento di obblighi istituzionali, conclusi
con l’accertamento dell’esclusione della loro responsabilità, non compete
all’assessore comunale, né al consigliere comunale o al sindaco, non essendo
configurabile tra costoro (i quali operano nell’amministrazione pubblica ad
altro titolo) e l’ente un rapporto di lavoro dipendente, non potendo
estendersi nei loro confronti la tutela prevista per i dipendenti, né
trovare applicazione la disciplina privatistica in tema di mandato (v. Cass.
n. 25690/2011, n. 20193/2014, Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza
11.02.– 17.03.2015, n. 5264)".
A seguito dell’intervento normativo che ha definitivamente rimediato
all’incertezza creatasi, fissando il principio (di civiltà giuridica) della
rimborsabilità delle spese legali agli amministratori, la giurisprudenza ha
avuto modo di precisare che la materia del ristoro delle spese legali agli
amministratori comporta scelte discrezionali con “vantaggi economici per
gli stessi amministratori” che beneficiano del rimborso medesimo, “gli
enti dovrebbero regolare tale materia con appositi regolamenti, per
“garantire l’imparzialità dell’azione amministrativa”, ex
art. 12 della legge n. 241/1990. Le disposizioni di tali regolamenti,
infatti, dovrebbero stabilire i “criteri e (le) modalità cui le
amministrazioni stesse (dovrebbero) attenersi (v. ancora il precitato
art. 12) per l’assegnazione o il riparto dello stanziamento”, e
dunque per i singoli provvedimenti di rimborso.
In assenza di regolamenti ad hoc, le amministrazioni devono attenersi
alle regole generali sull’esercizio delle potestà discrezionali pubbliche,
mediante provvedimenti di rimborso, rimessi alle loro responsabili
determinazioni, in adesione ai consueti canoni di legalità, imparzialità e
buon andamento dell’azione amministrativa, così da evitare anche ogni
possibile conflitto di interesse (cfr. sez. reg. contr. Campania n.
102/2019).
I requisiti previsti dalla legge ai fini dell’ammissibilità al beneficio,
oltre che la conclusione del procedimento penale con sentenza di assoluzione
o con l’emanazione di un provvedimento di archiviazione, in assenza di
ulteriori previsioni regolamentari, sono, quindi:
a) assenza di conflitto di interessi con l’ente amministrato;
b) presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti
giuridicamente rilevanti;
c) assenza di dolo o colpa grave.
Chiarimenti in relazione al rispetto e alla corretta declinazione dei
suddetti requisiti sono contenuti nel parere reso dal Ministero dell’Interno
il 18.03.2021.
Come osservato dalla Corte dei Conti Molise, delibera n. 133 del 20.12.2018:
“in ordine alla questione dell’applicabilità, agli Amministratori degli
Enti Locali, delle disposizioni contrattuali in materia di rimborso delle
spese legali relative ai giudizi di responsabilità a carico di dipendenti
per fatti connessi all’assolvimento di obblighi istituzionali, nei casi di
definizione con l’accertamento dell’esclusione della loro responsabilità, la
Corte di Cassazione con la Sentenza n. 5264/2015, ha ritenuto che non possa
“estendersi nei loro confronti la tutela prevista per i dipendenti”.
In altri termini la citata norma contenuta nell’art.
86 del D.lgs. n. 267/2000 non richiede il requisito della previa
individuazione del legale di comune gradimento, contenuta nella diversa
disposizione contrattuale dedicata ai dipendenti che, per quanto sopra
esposto, non è analogicamente applicabili a coloro che esercitino funzioni
onorarie.
Devono, ovviamente, sussistere tutti gli altri presupposti citati dal
richiamato
art. 86 e dalla normativa specifica sul tema (si ricorda tra gli altri,
la preventiva programmazione delle spese in bilancio, nel rispetto del
principio di invarianza, in quanto non sono spese obbligatorie, il rispetto
del limite massimo dei parametri stabili dall’art.
13, comma 6, della legge 31.12.2012, n, 247 e la predeterminazione, ex
articolo 12 della legge n. 241/1990, nelle forme previste dal rispettivo
ordinamento, dei criteri e delle modalità cui l’ente deve attenersi per
l’assegnazione o il riparto dello stanziamento) (31.01.2022
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APPALTI:
Principio di rotazione negli appalti pubblici.
Quesiti
Il nostro comune dovrà espletare una nuova gara per l'affidamento, a mezzo
procedura negoziata con cinque operatori economici che presenteranno
manifestazione d'interesse per primi alla pec del comune, del servizio
biblioteca.
Come va applicato il principio di rotazione in presenza di un nuovo progetto
di gestione che vede rispetto al passato incrementato l'importo a base
d'asta, il numero delle risorse umane da impiegare, la durata dell'appalto?
Se su nostra richiesta di 5 operatori, fossimo di fronte a n. 6 domande di
manifestazione d'interesse dovremo invitarli tutti compresa la ditta
cessante oppure come predisposto solo 5 escludendo l'operatore uscente?
Oppure trattandosi di un appalto diverso nelle modalità di gestione non
dovremmo escludere i primi 5 che fanno richiesta anche se tra questi c'è
l'operatore uscente?
Risposta
Il nuovo appalto, di fatto, anche se cambia il numero delle risorse umane da
impiegare e la durata dell’appalto, l’oggetto del servizio risulta invariato
rispetto al precedente. Il principio di rotazione, ai sensi del
Dlgs 50/2016 e delle Linee guida ANAC n. 4 è teso ad evitare il
consolidamento di rapporti per lo stesso oggetto di appalto solo con alcune
imprese, riducendo l’opportunità di altri operatori economici di essere
affidatari di un contratto pubblico.
Il principio di rotazione si applica nei casi in cui si proceda mediante
affidamento diretto (non preceduto da una fase selettiva) ovvero, nelle
ipotesi di procedura negoziata quando la P.A. operi discrezionalmente la
scelta dei concorrenti da invitare, in quanto esso “costituisce
necessario contrappeso alla notevole discrezionalità riconosciuta
all’amministrazione nel decidere gli operatori economici da invitare in caso
di procedura negoziata (Cons. Stato, V, 12.09.2019, n. 6160).
Il Principio di rotazione ha infatti l’obiettivo di evitare la formazione di
rendite di posizione e persegue l’effettiva concorrenza, poiché consente la
turnazione tra i diversi operatori nella realizzazione del servizio,
consentendo alla P.A. di cambiare per ottenere un miglior servizio (Cons.
Stato, VI, 04.06.2019, n. 3755).
In questa ottica, non è casuale la scelta del legislatore di imporre il
rispetto del principio della rotazione già nella fase dell’invito degli
operatori alla procedura di gara; lo scopo, infatti, è quello di evitare che
il gestore uscente, forte della conoscenza della strutturazione del servizio
da espletare acquisita nella precedente gestione, possa agevolmente
prevalere sugli altri operatori economici pur se anch’essi chiamati dalla
stazione appaltante a presentare offerta e, così, posti in competizione tra
loro (Cons. Stato, V, 12.06.2019, n. 3943; 05.03.2019, n. 1524; 13.12.2017,
n. 5854)” (Cons. Stato, Sez. V, 15.12.2020, n. 8030).
Alla luce di quanto sopra una possibile soluzione operativa potrebbe essere
il sorteggio di 5 operatori successivamente la fase di manifestazione di
interesse, in modo tale da eliminare la discrezionalità di scelta degli
operatori economici lasciando alla sorte l’esito così come previsto dal
punto 5.2.3 delle Linee guida n. 4 ANAC (31.01.2022
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sostituzione dipendente no vax sospeso dal servizio.
Quesiti
Un dipendente no vax è stato sospeso dal servizio senza
stipendio. Essendo l'unico dipendente del Servizio polizia locale-Suap è
necessario sostituirlo.
La sostituzione deve rispettare i limiti del lavoro flessibile?
Risposta
La normativa vigente non prevede la possibilità di derogare ai limiti in
tema di lavoro flessibile, per cui l’ente deve valutare come neutralizzare
gli effetti della mancanza del lavoratore attraverso interventi di
riorganizzazione interna, coutilizzi di personale con altri enti ex art. 14
CCNL 2004, appalti di servizi e/o ricorso al lavoro temporaneo, derogando ai
limiti solo ove si dimostri che altre soluzioni non sono giuridicamente e
materialmente possibili a fronte di situazioni gestionali necessariamente
tutelabili rispetto a interessi pubblici primari e prevalenti in rapporto
alla norma finanziaria da rispettare (28.01.2022
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INCARICHI PROFESSIONALI:
Compenso a professionista che ha cessato l’attività professionale.
Quesiti
Il comune sta per stipulare un atto transattivo per chiudere un
contenzioso. La transazione ha per oggetto una prestazione avvenuta molto
tempo addietro, pattuendo un importo netto di euro 5000.
Il beneficiario ha chiuso la partita iva: essendo in pensione, come bisogna
gestire questo "credito"?
Non può configurarsi risarcimento danni ma neppure come prestazione
occasionale in quanto si supera il tetto dei 5000. Ho supposto che debba
riaprire la p.iva. è corretto?
Risposta
In tema di compensi a professionisti che abbiano cessato l’attività
professionale esistono ancora dubbi e comportamenti non allineati.
Da un lato l’agenzia delle entrate con circolare 11/E/2007 (paragrafo 7.1)
stabilisce che l’attività del professionista non si può considerare cessata
fino all’esaurimento di tutte le operazioni professionali e che detta
cessazione non coincide necessariamente con il momento in cui si astiene dal
porre in essere le prestazioni professionali ma avviene quando chiude i
rapporti professionali, fatturando tutte le prestazioni svolte e dismettendo
i beni strumentali. Conseguentemente il lavoratore autonomo deve conservare
la partita IVA fino a quando non porta a conclusione tutte le operazioni
relative alla riscossione dei crediti e al pagamento dei debiti.
In alternativa il lavoratore avrebbe dovuto fatturare comunque tutti i
compensi (compreso quello oggetto della transazione) e, poi cessare la
partita IVA.
Dato per assodato che l’accordo transattivo non rientri in nessuna delle due
fattispecie, propenderei per l’applicazione dell’IVA all’accordo transattivo
(come sancito da ultimo dall’Agenzia delle Entrate con risposta n. 145 del
03.03.2021) con contestuale split payment dell’IVA a favore dell’Erario non
essendo percorribile, a mio parere, la richiesta di riapertura della partita
IVA con un aggravio di costi probabilmente insostenibile per il pensionato.
Il documento a sostegno dell’operazione diventa perciò la transazione stessa
e non la fattura, non più emettibile (27.01.2022
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ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzione dipendente che ha deciso di mantenere l'iscrizione all'Albo dei
geometri.
Quesiti
A seguito della comunicazione di assunzione successiva a concorso
pubblico, il futuro dipendente di questo Comune ha deciso di mantenere
l'iscrizione all'Albo dei Geometri, ha chiuso la Partita IVA e ha chiesto la
cancellazione dalla Cassa Geometri.
Quest'ultima, come da allegato, chiede un'attestazione, rilasciata da questo
Ente in qualità di datore di lavoro, "di non utilizzo del timbro, né
della firma, in atti professionali aventi rilevanza esterna".
Si chiede se il futuro dipendente potrà firmare progetti inerenti
esclusivamente lavori e opere dello scrivente Comune.
Risposta
Ai sensi dell’art.
53 del d.lgs. n. 165/2001 il dipendente pubblico non può svolgere
attività non autorizzate dall’ente né esercitare la libera professione (sia
pure nel massimo del 50% dell'orario di lavoro), sempre che siano possibili
e non in conflitto con le esigenze di servizio dell’ente.
Pertanto, il dipendente potrà lavorare esclusivamente per l’Ente e in base
alle linee guida ANAC quale RUP potrà svolgere, per uno o più interventi e
nei limiti delle proprie competenze professionali, anche le funzioni di
progettista o di direttore dei lavori, a condizione che sia in possesso dei
seguenti requisiti:
a. titolo di studio richiesto dalla normativa vigente per
l’esercizio della specifica attività richiesta;
b. esperienza almeno triennale o quinquennale, da graduare in
ragione della complessità dell’intervento, in attività analoghe a quelle da
realizzare in termini di natura, complessità e/o importo dell’intervento;
c. specifica formazione acquisita in materia di programmazione,
progettazione, affidamento ed esecuzione di opere e servizi pubblici, da
parametrare, ad opera del dirigente dell’unità organizzativa competente, in
relazione alla tipologia dell’intervento.
Come rilevato nella delibera Anac 103472019, ripercorrendo la disciplina sul
punto, se l’art.
24 del d.lgs. n. 50 del 2016 dispone che: “1. Le prestazioni relative
alla progettazione di fattibilità tecnica ed economica, definitiva ed
esecutiva di lavori (…) sono espletate: a) dagli uffici tecnici delle
stazioni appaltanti; (…). 3. I progetti redatti da soggetti di cui al comma
1, Lettere 1), b), e c), sono firmati da dipendenti delle amministrazioni
abilitati all’esercizio della professione”, il successivo
art. 216, al comma 27-septies, precisa che: “con riferimento all’articolo
24, comma 3, i tecnici diplomati che siano stati in servizio presso
l’amministrazione aggiudicatrice alla data di entrata in vigore della
legge 18.11.1998, n. 415, in assenza dell’abilitazione, possono firmare
i progetti, nei limiti previsti dagli ordinamenti professionali, qualora
siano in servizio presso l’amministrazione aggiudicatrice ovvero abbiano
ricoperto analogo incarico presso un’altra amministrazione aggiudicatrice,
da almeno cinque anni e risultino inquadrati in un profilo professionale
tecnico e abbiano svolto o collaborato ad attività di progettazione”.
Con orientamento ormai consolidato, tuttavia, “Può ritenersi ormai
acquisito in giurisprudenza che, in mancanza di ogni ulteriore
specificazione da parte del citato
art. 16, lett. m), R.D. n. 274 del 1929, il discrimine della competenza
dei geometri nel campo delle costruzioni civili è dato dalla “modestia”
dell’opera. Criterio questo da intendere in senso tecnico-qualitativo e con
riguardo ad una valutazione della struttura dell’edificio e delle relative
modalità costruttive, che non devono implicare la soluzione di problemi
tecnici particolari, devoluti esclusivamente alla competenza professionale
degli ingegneri e degli architetti. Altri criteri, come quello quantitativo,
delle dimensioni e della complessità, nonché quello economico possono
soccorrere quali elementi complementari di valutazione, in quanto indicativi
delle caratteristiche costruttive e delle difficoltà tecniche presenti nella
realizzazione dell’opera (cfr. Corte Cost. 27.04.1993 n. 199). Per valutare
l’idoneità del geometra a firmare il progetto di un’opera di edilizia
civile, occorre, quindi, considerare le concrete caratteristiche
dell’intervento” (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 5208 del
03.10.2002).
Per definire i limiti di competenza dei tecnici diplomati in materia occorre
quindi, da un canto, valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e
l’esecuzione comportano, dall’altro, le capacità occorrenti per farvi fronte (28.01.2022
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APPALTI:
Modifica contrattuale ex art. 106, comma 2, nella misura del 15%
dell'importo contrattuale.
Quesiti
La modifica contrattuale ai sensi dell'art.
106, comma 2, nella misura del 15% dell'importo contrattuale è sempre
consentita?
Risposta
I contratti possono essere modificati senza necessità di una nuova procedura
a norma del presente codice, se il valore della modifica è al di sotto di
entrambi i seguenti valori:
a) le soglie fissate all'articolo
35;
b) il 10 per cento del valore iniziale del contratto per i
contratti di servizi e fornitura sia nei settori ordinari che speciali
ovvero il 15 per cento del valore iniziale del contratto per i contratti di
lavori sia nei settori ordinari che speciali.
Tuttavia la modifica non può alterare la natura complessiva del contratto o
dell'accordo quadro. In caso di più modifiche successive, il valore è
accertato sulla base del valore complessivo netto delle successive
modifiche.
Qualora la necessità di modificare il contratto derivi da errori o da
omissioni nel progetto esecutivo, che pregiudichino in tutto o in parte la
realizzazione dell'opera o la sua utilizzazione, essa è consentita solo nei
limiti quantitativi di cui al presente comma, ferma restando la
responsabilità dei progettisti esterni.
Una modifica di un contratto è considerata sostanziale se una o più delle
seguenti condizioni sono soddisfatte:
a) la modifica introduce condizioni che, se fossero state contenute
nella procedura d'appalto iniziale, avrebbero consentito l'ammissione di
candidati (o di offerenti) diversi da quelli inizialmente selezionati o
l'accettazione di un'offerta diversa da quella inizialmente accettata,
oppure avrebbero attirato ulteriori partecipanti alla procedura di
aggiudicazione;
b) la modifica cambia l'equilibrio economico del contratto o
dell'accordo quadro a favore dell'aggiudicatario in modo non previsto nel
contratto iniziale;
c) la modifica estende notevolmente l'ambito di applicazione del
contratto;
d) se un nuovo contraente sostituisce quello cui l'amministrazione
aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore aveva inizialmente aggiudicato
l'appalto in casi diversi da quelli previsti al
comma 1, lett. d), dell’art. 106 Cod. (26.01.2022
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INCENTIVO FUNZIONI PUBBLICHE:
Incentivi tecnici al Sindaco cui è affidato l'incarico di RUP.
Quesiti
In un comune inferiore ai 5.000 abitanti il Sindaco ricopre anche il ruolo
di responsabile dell'Ufficio tecnico-Lavori pubblici ai sensi dell'art.
53, c. 23, della L. 388/2000. Pertanto, in tale veste, egli è anche il
RUP di alcune procedure.
Si richiede dunque se, in presenza di apposito regolamento, gli incentivi
tecnici di cui all'art.
113 del D.Lgs. 50/2016 possano essere riconosciuti al Sindaco che
ricopre anche il ruolo di RUP di procedure ad evidenza pubblica.
Risposta
In merito agli incarichi di che trattasi deve rammentarsi la posizione ANAC
di cui alle Linee guida 3 di seguito riportata.
Sulla base di tale previsione, infatti, le amministrazioni hanno la facoltà
di affidare l’incarico di RUP ai componenti della giunta. La deroga di cui
all’art.
53, comma 23, della legge 388/2000 prevede la possibilità di attribuire
ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei
servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale, «se
necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo
3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni, e all’articolo
107 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali».
Con specifico riferimento al conferimento dell’incarico di RUP, il
presupposto della “necessità” impone che la deroga sia applicata
soltanto in caso di carenza in organico di figure idonee a ricoprire la
funzione e qualora detta carenza non possa essere altrimenti superata senza
incorrere in maggiori oneri per l’amministrazione.
Pertanto, in caso di carenza in organico di figure idonee a ricoprire
l’incarico di RUP, la stazione appaltante deve verificare, in via
prioritaria, la possibilità di attribuire l’incarico ad un qualsiasi
dirigente o dipendente amministrativo in possesso dei requisiti o, in
mancanza, ad una struttura di supporto interna formata da dipendenti che,
anche per sommatoria, raggiungano i requisiti minimi richiesti dalle Linee
guida n. 3/2016 o, ancora, di svolgere la funzione in forma associata con
altri Comuni, senza incorrere in maggiori oneri.
In sostanza, si ipotizza che soltanto quando l’unica alternativa
percorribile nel caso concreto per superare la carenza in organico di figure
idonee a ricoprire l’incarico di RUP sia rappresentata dalla costituzione di
una struttura di supporto esterna formata da membri scelti con procedure di
evidenza pubblica, potrà ritenersi configurato il presupposto della
necessità richiesto dall’art.
53, comma 23, della legge 388/2000 per l’applicazione della deroga ivi
prevista.
Ciò premesso, si ritiene di dare risposta negativa in quanto la normativa fa
riferimento ai dipendenti e ad apposito fondo ad essi dedicato, ma nel caso
di specie lo svolgimento della responsabilità non integra un rapporto di
dipendenza con l’ente come previsto dall’art.
113 citato nel quesito, che peraltro al
comma 3 fa riferimento alla contrattazione decentrata cui è destinato
appunto il personale in rapporto di dipendenza a cui si applica il CCNL
Funzioni locali e le relative disposizioni che rinviano alla contrattazione
decentrata (21.01.2022
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APPALTI:
Impegno di spesa privo dell'indicazione del CUP.
Quesiti
E' stata emessa una determina dirigenziale con impegno di spesa sul titolo
II. Ho sospeso il visto in quanto manca il CUP. Il Responsabile del Servizio
asserisce che il CUP può essere richiesto anche successivamente. Il punto è
che l'impegno di spesa che viene assunto è privo del CUP e si dovrebbe
integrare in data successiva.
Chiedo il parere dell'esperto al riguardo.
Risposta
Gli obblighi di tracciabilità presentano tre adempimenti principali:
a. l’utilizzo di conti correnti bancari o postali dedicati alle
commesse pubbliche, anche in via non esclusiva;
b. l’effettuazione dei movimenti finanziari relativi alle commesse
pubbliche esclusivamente mediante lo strumento del bonifico bancario o
postale ovvero attraverso l’utilizzo di altri strumenti di pagamento idonei
a consentire la piena tracciabilità delle operazioni;
c. l’indicazione negli strumenti di pagamento relativi ad ogni
transazione del codice identificativo di gara (CIG) e, ove obbligatorio ai
sensi dell’art.
11 della legge 16.01.2003, n. 3, del codice unico di progetto (CUP).
Ai sensi della deliberazione ANAC n. 1/2017 le stazioni appaltanti che
intendono avviare una procedura di selezione del contraente sono tenute ad
acquisire il relativo CIG (e ove obbligatorio di CUP), per il tramite del
RUP, anche in modalità Smart, in un momento antecedente all’indizione della
procedura di gara.
In particolare:
a. per le procedure che prevedono la pubblicazione del bando o
avviso di gara, il CIG va acquisito prima della relativa pubblicazione, in
modo che possa essere ivi riportato;
b. per le procedure che prevedono l’invio della lettera di invito,
il CIG va acquisito prima dell’invio delle stesse in modo che possa essere
ivi riportato;
c. per gli acquisti effettuati senza le modalità di cui ai punti a)
e b), il CIG va acquisito prima della stipula del relativo contratto in modo
che possa essere ivi riportato e consentire il versamento del contributo da
parte degli operatori economici selezionati (ad esempio nel caso di
affidamenti in somma urgenza il CIG va riportato nella lettera d’ordine).
Infine, come stabilito dalla delibera CIPE 24/2004, il CUP deve essere
indicato su tutti i documenti amministrativi e contabili relativi allo
specifico progetto cui esso corrisponde (atti di gara, provvedimenti di
finanziamento, mandati di pagamento, ecc.).
Si ritiene, quindi, che nella fase di impegno di spesa, seppur non
specificato tra gli elementi costituivi dello stesso di cui all’articolo
183, comma 1, del d.lgs. 267/2000, il CIG (e ove obbligatorio il CUP)
siano sempre da richiamare (12.01.2022
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APPALTI:
Adozione impegno di spesa prevista in una determina del 2015.
Quesiti
Nell'anno 2015 il Responsabile Ufficio Tecnico ha emesso determina
dirigenziale di incarico professionale per la redazione di un progetto
preliminare e definitivo dell'importo di 26.000,00, dando atto nel
dispositivo che si sarebbe proceduto ad impegnare la spesa con successivo
atto all'atto dell'affidamento dei lavori alla ditta che avrebbe realizzato
i lavori.
E' possibile impegnare ora la spesa? Con quale iter?
Risposta
Nel quesito non vengono indicati elementi che risultano necessari per un
compiuto inquadramento della situazione, e cioè se la determina del 2015 sia
stata a suo tempo trasmessa al responsabile del servizio finanziario e se la
stessa risulti eventualmente corredata del visto di regolarità contabile (ex
articolo 183, comma 7, del TUEL) e se comunque alla stessa sia stata
data effettiva esecuzione (con ciò intendendosi la redazione del progetto da
parte del soggetto incaricato): dalla formulazione del quesito sembra
potersi dedurre che l’ente dovrebbe ora procedere all’affidamento dei lavori
(ovviamente sulla base di un progetto al riguardo redatto), dal che sembra
che la obbligazione nei riguardi del soggetto incaricato sia stata comunque
assunta.
Ove le cose siano nei termini sopra esposti, vengono in evidenza le seguenti
disposizioni del TUEL:
- il
comma 5 dell’articolo 183, secondo cui “Tutte le obbligazioni passive
giuridicamente perfezionate devono essere registrate nelle scritture
contabili quando l’obbligazione è perfezionata, con imputazione
all’esercizio in cui l’obbligazione viene a scadenza ...… Non possono essere
riferite ad un determinato esercizio finanziario le spese per le quali non
sia venuta a scadere nello stesso esercizio finanziario la relativa
obbligazione giuridica ..….”;
- il
comma 1 dell’articolo 191, in forza del quale “Gli enti locali
possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul
competente programma del bilancio di previsione e l'attestazione della
copertura finanziaria di cui all’articolo 153, comma 5.”.
Ne deriva che nel caso esposto si è in presenza di una acquisizione di
servizi avvenuta in violazione degli obblighi di cui al citato
comma 1 dell’articolo 191, stante la mancanza dell’impegno relativo alla
determina del 2015: in altri termini la spesa suddetta configura un debito
fuori bilancio rientrante nella fattispecie di cui all’articolo
194, comma 1, lett. e), del TUEL, per la cui regolarizzazione dovrà
essere seguito il procedimento previsto da quest’ultima norma (11.01.2022
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Autorizzazione aspettativa da Ente di appartenenza acquisita preventivamente
in caso di contratto art. 110.
Quesiti
Nel caso di un contratto ai sensi dell'art. 110, alla luce della
giurisprudenza più recente, al fine di procedere alla proroga,
l'autorizzazione all'aspettativa da parte dell'amministrazione di
appartenenza può essere acquisita successivamente o è necessario che
intervenga preventivamente?
L'Ente vorrebbe evitare di interrompere il rapporto di lavoro per poi
procedere al rinnovo con conseguente perdita delle ferie maturate e non
godute da parte del lavoratore.
Risposta
L’aspettativa in materia di incarichi a contratto ex art. 110 TUOEL è già
prevista dalla citata disposizione che al comma 5 stabilisce che per il
periodo di durata degli incarichi di cui ai commi 1 e 2 del predetto
articolo, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in
aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell’anzianità di servizio
(comma così sostituito dall'art. 11, comma 1, legge n. 114 del 2014).
In base al parere della Funzione Pubblica DFP-0025780-P-16/04/2021 la
valutazione dell’aspettativa dovrebbe essere preventiva da parte
dell’amministrazione di appartenenza, per le motivazioni di seguito
indicate.
Si legge, infatti, nel citato parere, che “…Con la citata novella del
comma 5 dell’articolo 110 è stata individuato per legge -in analogia con
quanto già previsto dal comma 6 dell’articolo 19 del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165 per le amministrazioni dello Stato e per gli enti
pubblici- il regime giuridico che, in armonia con la disciplina in materia
di esclusività del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni e di
divieto di cumulo di impieghi pubblici di derivazione costituzionale, possa
consentire l’attivazione dei rapporti di lavoro di natura subordinata a
tempo determinato con gli enti locali, ai sensi della disposizione in
argomento e dell’articolo 108 dello richiamato decreto legislativo.
Anche in relazione alle modifiche apportate al comma 1 del medesimo articolo
110, la norma mira ad agevolare il ricorso negli enti locali agli incarichi
a contratto attraverso il superamento della cessazione obbligata del
rapporto di lavoro e del conseguente rischio dell’impossibilità della
successiva riassunzione nell’amministrazione di provenienza, garantendo,
quindi, ai diretti interessati un quadro regolatorio certo.
La previsione di un istituto giuridico ad hoc, volto ad assicurare la
compatibilità tra il rapporto di lavoro a tempo indeterminato presso un ente
locale e il contemporaneo svolgimento di un incarico conferito ai sensi
della medesima disposizione e dell’articolo 108, non esclude, tuttavia, che
l’Ente destinatario della richiesta di aspettativa possa valutare
ponderatamente se, in relazione al fabbisogno di personale necessario per il
perseguimento dei fini istituzionali, sussistano le condizioni per il suo
accoglimento.
A tale conclusione si perviene sulla base di una lettura sistematica del
medesimo comma 5 dell’articolo 110 che, nell’introdurre un regime giuridico
precedentemente non contemplato, ne prescrive l’obbligatorietà allo scopo di
consentire la coesistenza di un contratto stipulato in base a tale
disposizione in costanza di altro rapporto con la pubblica amministrazione,
senza fornire tuttavia prescrizioni in ordine ad un eventuale affievolimento
nell’esercizio dei poteri datoriali dell’amministrazione chiamata a disporre
l’aspettativa.
Del resto, una diversa chiave di lettura della locuzione utilizzata dal
legislatore (… “i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati
in aspettativa…”), secondo cui in questi casi l’amministrazione di
appartenenza potrebbe limitarsi solo a prendere atto della volontà del
dipendente interessato di fruire dell’aspettativa, non appare condivisibile.
Infatti, sul punto, occorre tener presente la ratio della norma che è da
ricercare nella volontà di definire in modo univoco la disciplina
applicabile a valle dell’instaurazione del rapporto di lavoro ai sensi del
più volte citato articolo 110, e non nel configurare a monte un diritto del
dipendente ad ottenere l’aspettativa de qua.
Peraltro, in un’ottica di sistema, non può essere trascurato l’impatto che
la concessione obbligata dell’aspettativa prevista dal comma 5 dello stesso
articolo 110 potrebbe comportare sull’organizzazione dell’Ente e sullo
svolgimento delle funzioni istituzionali, soprattutto negli enti di ridotte
dimensioni organizzative. La temporanea assenza del dipendente interessato
potrebbe rendere infatti necessario il ricorso ad assunzioni di durata
temporanea con contratti di lavoro flessibile nell’osservanza della
normativa vigente in materia, per assicurare in tempi rapidi la sostituzione
di figure professionali talvolta infungibili.
Alla luce delle considerazioni sopra illustrate ed in assenza di previsioni
espresse sull’obbligatorietà della concessione dell’aspettativa in
questione, deve quindi ritenersi che, nel dare applicazione al comma 5
dell’articolo 110, agli Enti non sia preclusa la verifica in concreto della
ricorrenza di esigenze organizzative opportunamente motivate che determinano
l’impossibilità di un suo accoglimento nell’ottica del perseguimento
dell'interesse istituzionale e del buon funzionamento dell'amministrazione.”
Ovviamente, ove venga comunicata con congruo preavviso (almeno quindici
giorni prima) l'aspettativa prima della fine del periodo in corso e non
pervenga alcuna motivata obiezione in concreto da parte dell'amministrazione
interessata, il rapporto potrà proseguire presso l'attuale amministrazione.
In caso negativo, il dipendente potrà contestare la decisione negativa della
propria amministrazione (03.01.2022
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: Esclusione ok se è vietato aggiudicare più lotti.
In caso di appalto in più lotti con divieto di aggiudicazione plurima allo
stesso operatore, è possibile escludere nel caso si provi che le offerte
aggiudicate siano provenienti ad un «unico centro decisionale».
Lo
afferma il TAR Abruzzo-Pescara con la
sentenza 26.01.2022 n. 44.
La vicenda riguardava una procedura per l'affidamento temporaneo delle
spiagge libere di un comune e della gestione delle attività connesse alla
balneazione; la gara era suddivisa in cinque lotti, corrispondenti a servizi
da svolgere su cinque tratti di spiaggia differenti.
Negli atti di gara si
precisava nell'avviso che «ciascun concorrente può presentare offerta per un
solo lotto o per tutti i cinque lotti, ma potrà aggiudicarsi un solo lotto;
pertanto, nel caso in cui un concorrente risulti aggiudicatario in uno dei
lotti, sarà escluso dai successivi lotti per i quali ha presentato offerta.
Si precisa che nel caso in cui un concorrente sia aggiudicatario di uno dei
lotti ma sia anche l'unico concorrente ammesso in altri lotti potrà
aggiudicarsi anche i restanti lotti per i quali ha presentato offerta».
Si
discuteva quindi della legittimità dell'esclusione prevista nel caso di cui
all'articolo 80, comma 5, lett. m), del codice degli appalti pubblici. I
giudici chiariscono che l'esclusione non scatta nel caso di appalti
suddivisi in lotti plurimi (valutati in giurisprudenza come tante gare
distinte) e dunque il collegamento sostanziale (riferibilità delle offerte
ad un «unico centro decisionale») o formale tra due partecipanti in due
distinti lotti non integra il divieto della offerta plurima nella medesima
gara che tale disposizione mira a rendere effettivo. Ben diverso è invece il
caso in cui i distinti lotti siano tra loro collegati attraverso la
previsione del divieto di aggiudicazione plurima di più di un lotto per
operatore economico.
In questa ipotesi, dicono i giudici abruzzesi, la
regola del codice (e quindi l'esclusione) deve trovare applicazione «in
quanto ne riemerge la ratio di preservare condotte elusive
anticoncorrenziali, che nella specie si sostanziano nell'aggirare il divieto
di aggiudicazione plurima imposto dalla stazione appaltante» (articolo ItaliaOggi del 04.02.2022).
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SENTENZA
- il ricorso è infondato;
- come recentemente chiarito in giurisprudenza (Consiglio di Stato
6481 del 2021), la esclusione prevista nel caso di cui all’articolo 80,
comma 5, lett. m), del nuovo codice degli appalti pubblici, non trova
applicazione nel caso di appalti suddivisi in lotti plurimi, atteso che essi
sono valutati in giurisprudenza come tante gare distinte, e dunque il
collegamento sostanziale o formale tra due partecipanti in due distinti
lotti non integra il divieto della offerta plurima nella medesima gara che
tale disposizione mira a rendere effettivo;
- tuttavia, nel caso, come quello di specie, in cui i distinti
lotti siano tra loro collegati attraverso la previsione del divieto di
aggiudicazione plurima di più di un lotto per operatore economico, la regola
in esame deve trovare di nuovo applicazione, in quanto ne riemerge la ratio
di preservare condotte elusive anticoncorrenziali, che nella specie si
sostanziano nell’aggirare il divieto di aggiudicazione plurima imposto dalla
stazione appaltante (Consiglio di Stato sentenza 6481 del 2021);
- passando alla ulteriore questione, il Collegio rileva che sono
emersi, come si rileva dal verbale n. 9 della commissione di gara, elementi
indiziari plurimi e concordanti che depongono per la riferibilità, delle
offerte presentate dalla ricorrente e ad ASP associazione studentesca, a un
unico centro decisionale;
- è stato infatti rilevato che: le offerte hanno la medesima
impaginazione e impostazione grafica; le relazioni tecnico descrittive hanno
contenuti per gran parte identici e si utilizzano spesso espressioni
sovrapponibili; sono stati allegati convenzioni e protocolli d’intesa con
gli stessi soggetti; hanno in allegato una medesima brochure; le tavole
allegate alle offerte hanno la stessa grafica e formato; la cauzione
prevista dall’avviso di gara è stata rilasciata dalla medesima compagnia
assicurativa e a distanza di soli 10 minuti l’una dall’altra; lo statuto
dall’ASP risulta depositato presso la sede ARCI; entrambe aderiscono
all’associazione nazionale ARCI aps;
- ad avviso del Collegio si tratta di elementi sufficienti per
dedurre, attraverso un ragionamento probabilistico e presuntivo, la
provenienza di entrambe le offerte da un unico centro decisionale, tenendo
conto del fatto che, secondo la giurisprudenza, ai fini dell'individuazione
del collegamento sostanziale tra imprese di cui all'art. 80, c. 5, lett. m),
D.Lgs. n. 50/2016, i relativi indizi devono essere valutati nel loro insieme
per riscontrare i requisiti di gravità, precisione e concordanza idonei a
legittimare la sanzione, e che la valutazione operata dalla stazione
appaltante, circa l'unicità del centro decisionale, postula semplicemente
l'astratta idoneità a determinare un concordamento delle offerte, non
essendo necessario che l'alterazione del confronto concorrenziale si sia
effettivamente realizzata nel caso concreto, essendo quella delineata dal
legislatore una fattispecie di pericolo (Tar Milano, sentenza 517 del 2021);
e la riconducibilità delle offerte a un unico centro decisionale deve essere
quindi valutata con un ragionamento presuntivo e probabilistico (Consiglio
di Stato sentenza 393 del 2021);
- del resto la ricorrente non contesta le riferite circostanze in
fatto ma si limita a farle rientrare nel normale inserimento di entrambi gli
enti nella medesima organizzazione associativa nazionale, da cui
discenderebbe l’utilizzo dei medesimi professionisti, riferimenti e tecnici
di fiducia;
- tali deduzioni, tuttavia, lungi dal negare l’oggettività del
riscontrato collegamento, tentano di giustificarlo per tutti i casi in cui
si tratti di operatori riconducibili ad associazioni confederate, ipotesi
che non è assolutamente esclusa dalla fattispecie normativa in questione;
- passando dunque all’ultima questione, ai sensi del comma 4
dell’articolo 77 del d.lgs. 50 del 2016, “4. I commissari non devono aver
svolto ne' possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta. La
nomina del RUP a membro delle commissioni di gara e' valutata con
riferimento alla singola procedura”;
- è bene vero che il RUP ha predisposto gli atti di gara e poi ha
nominato sé stesso presidente della commissione, tuttavia, in concreto, e
nei limiti delle censure esposte nel caso di specie, gli viene contestata
l’applicazione non di punteggi e criteri predisposti nel bando da egli
stesso confezionato, ma l’applicazione di una norma di legge (l’articolo 80
cit.) ai fini della ricorrenza dei presupposti per l’esclusione di offerte
riconducibili al medesimo centro decisionale;
- in sostanza nel cono di valutazione sottoposto allo scrutinio del
giudice non si ravvisano ragioni di incompatibilità in relazione alle
concrete determinazioni contestate al RUP/presidente della commissione (Tar
Firenze, sentenza 927 del 2021); |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Dal Tar Lazio nuovi paletti al risarcimento danni per
annullamento dell'atto amministrativo.
Il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica dell'annullamento
di un provvedimento amministrativo, ma richiede la verifica di tutti i
requisiti dell'illecito e l'illegittima compressione della situazione
giuridica lesa, talché non ricorre allorché il giudice abbia individuato
spazi residui per l'esercizio del potere in senso nuovamente sfavorevole al
ricorrente.
Lo afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, nella
sentenza
21.01.2022 n. 725.
La richiesta
A seguito dell'annullamento di un provvedimento innanzi al Consiglio di
Stato, un operatore economico ha chiesto la condanna dell'amministrazione al
risarcimento del danno, ritenendo evidenti l'ingiustizia del danno
(accertata dalla sentenza) e il nesso causale tra l'adozione dell'atto e la
perdita economica subita (impossibilità di svolgere la sua attività) e non
ricorrendo la necessità di indagare la ricorrenza dell'elemento soggettivo
in ragione dell'operatività del principio di responsabilità oggettiva.
Dal corpo della sentenza si evidenzia che l'annullamento dell'atto era stato
disposto in accoglimento della censura con la quale era stato lamentato il
difetto di motivazione riguardo al tipo di provvedimento adottato.
La
sentenza ha affermato che l'accoglimento dell'appello non risultava in alcun
modo dipendente dalla fondatezza delle ulteriori censure nel merito,
riconoscendo legittimamente esercitato il potere di intervento e che il
vizio del provvedimento atteneva lo specifico profilo del difetto della
necessaria motivazione quanto alla giustificazione della scelta sul tipo di
misura ritenuta da adottare tra quelle possibili.
Il bene della vita
Il punto centrale del ragionamento dei giudici amministrativi capitolini è
che, in questi casi, la domanda di risarcimento non può trovare accoglimento
in quanto l'annullamento di un provvedimento amministrativo per vizi formali
(quali il difetto di istruttoria o di motivazione) o procedimentali (come il
vizio di incompetenza), in quanto non contiene alcun accertamento in ordine
alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento impugnato,
non consente di accogliere la domanda finalizzata al risarcimento del danno:
mentre la caducazione dell'atto per vizi sostanziali vincola
l'amministrazione ad attenersi, nella successiva attività, alle statuizioni
del giudice, l'annullamento fondato su profili formali non elimina né riduce
il potere della stessa di provvedere in ordine allo stesso oggetto dell'atto
annullato e lascia ampio potere in merito all'amministrazione, con il solo
limite negativo di riesercizio nelle stesse caratterizzazioni di cui si è
accertata l'illegittimità.
Quindi, non ricorre l'ingiustizia del danno nel
caso in cui la pronuncia di annullamento, intervenuta per vizi formali,
abbia espressamente individuato spazi residui per un corretto esercizio del
potere in senso nuovamente sfavorevole al ricorrente, così da non contenere
alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene.
Il risarcimento
Il Tar Lazio afferma che il risarcimento del danno non è una conseguenza
automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale di un provvedimento
amministrativo, ma richiede la verifica di tutti i requisiti dell'illecito
(condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso), nonché la riscontrata
ricorrenza, pur in presenza di un interesse legittimo oppositivo, di un
accertamento in ordine all'illegittima compressione della situazione
giuridica lesa.
E ancora: ai fini del riconoscimento della spettanza del
risarcimento dei danni, l'illegittimità del provvedimento di per sé non può
fare riscontrare la colpevolezza-rimproverabilità dell'amministrazione,
rilevando invece altri elementi, quali il grado di chiarezza della normativa
applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato
della statuizione amministrativa, l'ambito più o meno ampio della
discrezionalità dell'amministrazione.
Con specifico riferimento all'elemento psicologico, la colpa della pubblica
amministrazione viene individuata non nella mera violazione dei canoni di
imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ma quando vi siano state
inescusabili gravi negligenze od omissioni, oppure gravi errori
interpretativi di norme, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto
di colui che instaura un rapporto con l'amministrazione.
Pertanto, la responsabilità deve essere negata quando l'indagine conduce al
riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti
giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la
complessità della situazione di fatto
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 09.02.2022).
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SENTENZA
Osserva il Collegio come in entrambi i casi si è in presenze di sentenze
di annullamento per (parziale) difetto di motivazione, in nessuna delle
quali si afferma la spettanza alla ricorrente del bene della vita, così che
nessun accertamento giudiziale si è formato in ordine all’illegittima
lesione dell’interesse oppositivo a tutela del quale la società ha agito con
le domande di annullamento a suo tempo proposte.
Tali essendo i limiti oggettivi dell’accertamento contenuto nella sentenza,
le due domande di risarcimento oggi in esame non possono trovare
accoglimento in conformità del consolidato indirizzo giurisprudenziale alla
stregua del quale “l’annullamento di un provvedimento amministrativo per
vizi tralatiziamente definiti formali, quali il difetto di istruttoria o di
motivazione, o procedimentali (come il vizio di incompetenza), in quanto non
contiene alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita
coinvolto dal provvedimento impugnato, non consente di accogliere la domanda
finalizzata al perseguimento della pretesa sostanziale, quale è il
risarcimento del danno. Infatti mentre la caducazione dell’atto per vizi
sostanziali vincola l’amministrazione ad attenersi, nella successiva
attività, alle statuizioni del giudice, l’annullamento fondato su profili
formali non elimina né riduce il potere della stessa di provvedere in ordine
allo stesso oggetto dell’atto annullato e lascia ampio potere in merito
all’amministrazione, con il solo limite negativo di riesercizio nelle stesse
caratterizzazioni di cui si è accertata l’illegittimità, sicché non può
ritenersi condizionata o determinata in positivo la decisione finale"
(così Consiglio di Stato sez. V, 21.04.2020, che richiama, le sentenze del
medesimo Consiglio, sezione V, 22.11.2019, n. 7977, sezione III, 17.06.2019,
n. 4097 e sez. V, 14.12.2018, n. 7054).
Il risarcimento del danno, infatti, non è una conseguenza automatica e
costante dell’annullamento giurisdizionale di un provvedimento
amministrativo, ma richiede la verifica di tutti i requisiti dell’illecito
(condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso), nonché la riscontrata
ricorrenza, pur in presenza di un interesse legittimo oppositivo, di un
accertamento in ordine all’illegittima compressione della situazione
giuridica lesa (con riferimento alla applicabilità, anche agli interessi
oppositivi, del principio secondo cui “per danno ingiusto risarcibile ai
sensi dell’art. 2043 Cod. civ. si intende non qualsiasi perdita economica,
ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità
contrarie al diritto; ne consegue quindi la necessità, per chiunque pretenda
un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero
la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma
giuridica, del bene della vita che ha perduto od al quale anela, e di cui
attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l’equivalente economico”,
cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 28.09.2021, n. 6538, che conferma Tar
Piemonte, 03.01.2014, n. 2).
Ne discende che pur in presenza di interessi oppositivi non ricorre
l’ingiustizia del danno nel caso in cui la pronuncia di annullamento,
intervenuta per vizi formali, abbia espressamente individuato gli spazi
residui per un corretto esercizio del potere in senso nuovamente sfavorevole
al ricorrente, così da non contenere alcun accertamento in ordine alla
spettanza del bene.
Il detto accertamento di spettanza è del tutto assente nei casi in esame,
atteso che la sentenza n. 840/2018 lo ha espressamente escluso (avendo
riscontrato la ricorrenza di tutti i presupposti per l’esercizio del potere,
uno solo dei quali, pur sussistendo, non era stato trasfuso nella
motivazione), mentre la successiva sentenza n. 2188/2018 lo ha logicamente
presupposto, avendo fatto nuovamente salva la possibilità di riedizione del
potere, così rimettendo all’Amministrazione la valutazione discrezionale in
ordine al futuro riesercizio, anche in senso sfavorevole al privato
destinatario, pur nel rispetto del principio conformativo discendente dal
giudicato.
Dalla motivazione delle due sentenze, inoltre, emerge come difetti, con
riferimento ad entrambe le domande risarcitorie formulate dalla ricorrente,
pure l’ulteriore presupposto della colpa dell’amministrazione,
l’accertamento della ricorrenza della quale, diversamente da quanto
sostenuto in ricorso, è invece necessaria condizione del domandato
risarcimento, non applicandosi in materia di atti delle Autorità
indipendenti il modello di responsabilità oggettiva dettato per la sola
materia degli appalti pubblici.
Con riferimento all’assenza di colpa in capo all’Ivass occorre considerare
che entrambe le sentenze sono state adottate in riforma di statuizioni di
rigetto di primo grado, l’appello cautelare avverso le quali era stato
respinto dal medesimo Consiglio di Stato, ciò che già fornisce un indice
significativo in ordine alle difficoltà connesse all’interpretazione della
normativa della quale è stata fatta applicazione.
La non agevole soluzione dei profili ermeneutici in rilievo, inoltre, è
espressamente riconosciuta dal giudice dell’annullamento che, sia pure nella
parte in cui motiva in ordine alla compensazione delle spese, riconosce, in
tutte e due i casi, “la novità e complessità delle questioni”
affrontate.
Le citate novità e complessità emergevano, in ogni caso, dall’intero
impianto motivazionale delle due sentenze, attese le particolari difficoltà
interpretative poste dalla disposizione applicata e dagli articolati
accertamenti connaturati al tipo di provvedimento adottato.
Le circostanze indicate, considerate nel loro insieme, escludono quindi, a
giudizio del Collegio, che l’Amministrazione abbia agito in violazione delle
regole di correttezza e buona fede, così che non può essere ravvisata la
ricorrenza di una condotta colposa della stessa (cfr. Consiglio di Stato,
sez. III, 17.09.2019, n. 4097).
In proposito è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, “ai
fini del riconoscimento della spettanza del risarcimento dei danni,
l'illegittimità del provvedimento amministrativo di per sé non può fare
riscontrare la colpevolezza-rimproverabilità dell'Amministrazione, rilevando
invece altri elementi, quali il grado di chiarezza della normativa
applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato
della statuizione amministrativa, l'ambito più o meno ampio della
discrezionalità dell'amministrazione; con specifico riferimento all'elemento
psicologico la colpa della pubblica amministrazione viene individuata non
nella mera violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona
amministrazione, ma quando vi siano state inescusabili gravi negligenze od
omissioni, oppure gravi errori interpretativi di norme, in ragione
dell'interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con
l'amministrazione; pertanto, la responsabilità deve essere negata quando
l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la
sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo
di riferimento o per la complessità della situazione di fatto” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 20.08.2021, n. 5963 e, con specifico
riferimento all’Ivass, sez. VI, 08.09.2020, n. 5409).
Ciò è tanto più vero nel caso in esame, atteso che all’Ivass si applica la
previsione di cui all’art. 24, comma 6-bis, della legge n. 232/2005, secondo
cui "l’Autorità, i componenti dell’organo e i dipendenti della stessa
rispondono dei danni cagionati da atti o comportamenti posti in essere con
dolo o colpa grave” (con riferimento all’individuazione del coefficiente
psicologico necessario per il risarcibilità dei danni derivanti dall’operato
dell’Ivass, cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II-ter, 18.12.2019, n. 14517).
La carenza della prova sulla spettanza del bene della vita e la non
ravvisabilità della colpa consentono al Collegio di respingere la domanda
risarcitoria senza esaminare la questione relativa alla prova del danno. |
EDILIZIA PRIVATA: Sussiste
un consolidato orientamento che ribadisce, unitamente alla sussistenza in
capo all'amministrazione dell'obbligo di concludere il procedimento demolitorio, l'attribuzione al
proprietario confinante della facoltà di impulso all'esercizio del medesimo
potere demolitorio in ragione della vicinitas tra la sua proprietà e quella
dell'autore dell'abuso edilizio.
Invero il proprietario confinante, nella cui sfera giuridica incida
dannosamente il mancato esercizio dei poteri repressivi degli abusi edilizi
da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse legittimo
all'esercizio di detti poteri e può, dunque, ricorrere avverso l'inerzia
dell'organo preposto alla repressione di tali abusi edilizi sollecitando
l'esercizio dei poteri repressivi degli abusi ovvero al fine di provocare
una verifica dell'ottemperanza alle ordinanze demolitorie degli abusi
edilizi precedentemente adottate dalla stessa amministrazione.
Tuttavia, la repressione del supposto abuso non può essere conseguita
attraverso l’azione di impugnazione di un diverso provvedimento adottato
dall’amministrazione, bensì a mezzo dell'accertamento dell'illegittimità del
silenzio serbato dal Comune rispetto a specifica istanza dell’interessato,
utilizzando lo strumento processuale dell’art. 117 c.p.a. e fermo restando
che non è configurabile un'inerzia amministrativa impugnabile con il ricorso
avverso il silenzio della P.A. nel caso in cui il Comune, a seguito di
un'istanza di repressione di abusi edilizi presentata da un vicino, abbia
concluso il relativo procedimento manifestando una volontà dispositiva
ostativa alla demolizione delle opere.
In ogni caso, la questione
oggetto della controversia, considerato che l’amministrazione intimata ha
manifestato di ritenere possibile la sanatoria dell’abuso, assume natura di
lesione del diritto dominicale del ricorrente al quale l’ordinamento assegna
le forme di tutela previste dal diritto privato dinanzi al giudice
ordinario, in particolare una eventuale domanda di riduzione in pristino del
un manufatto la cui costruzione sarebbe priva dell’autorizzazione del
proprietario o dei sui danti causa.
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Espone il ricorrente di essere proprietario di una unità abitativa sita
all’ultimo piano del “Re.Co.” ubicato in Sirmione, Via ...,
corredato di un terrazzo/lastrico solare di proprietà esclusiva.
Su tale terrazzo è stata realizzata una canna fumaria di oltre un metro di
altezza, che sporge dalla sagoma dell’edificio e che non risulterebbe dai
titoli di acquisto dell’unità immobiliare.
Il Comune di Sirmione, previo accesso ai locali, accertava che detto
comignolo era stato realizzato “in assenza dei prescritti titoli abilitativi
e in difformità dal regolamento di igiene Tipo, Titolo III art. 3.4.43”,
seguendone una comunicazione di avvio procedimento per il ripristino dello
stato dei luoghi indirizzata al Condominio Corona che si assumev | | |