AGGIORNAMENTO AL 19.02.2024 |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Paesaggio,
mai libera l’installazione di pannelli solari in area tutelata. Il Tar
Sardegna boccia la posa in opera senza comunicazione di un impianto sul
tetto di un condominio.
L’installazione di pannelli solari in aree soggette a vincolo non rientra
nella categoria di edilizia libera e necessita di comunicazione di inizio
lavori. Inoltre, se è in area vincolata necessita del parere dell’istituto
di tutela.
Con questa motivazione il TAR Cagliari, Sez. I, con la
sentenza
02.05.2023 n. 323 ha respinto il ricorso
presentato da una persona che nella copertura condominiale di una palazzina
di sei piani (che ricade in area sottoposta a vincolo urbanistico
paesaggistico determinato da delibera del Consiglio comunale) aveva
installato, senza autorizzazione, un impianto termico solare per la
produzione di acqua calda.
Tutto inizia quando la proprietaria dell’appartamento situato a sesto piano
presenta al Comune denuncia di abuso edilizio «al fine di valutare la
legittimità dell’opera». Segue sopralluogo dei funzionari comunali nel piano
di copertura dell’edificio da cui emerge che era stato «installato un
impianto tecnologico “solare termico”, sulla copertura condominiale al piano
settimo dell’edificio di uso esclusivo dell’unità immobiliare -sita al
terzo piano e destinata ad uso residenziale- di sua proprietà».
Il sopralluogo alla presenza della proprietaria e usufruttuaria
dell’appartamento al sesto piano dove è presente l’unico accesso alla
copertura piana del fabbricato. Non a caso, nell’esposto la proprietaria
lamenta il fatto «di essere costretta a consentire di far entrare in casa
mia persone per eseguire le manutenzioni di un pannello solare installato
abusivamente nel lastrico solare condominiale che è sopra la mia casa».
L’argomento era stato al centro anche di un’assemblea di condominio «con
richiesta di rimozione in quanto l’installazione del pannello non risultava ritualmente consentita dal Condominio». Dagli accertamenti risulta che le
opere sono state «realizzate in assenza di titolo abilitativo e in assenza
di autorizzazione paesaggistica».
C’è quindi l’ordinanza di demolizione e ripristino dei luoghi. Segue il
ricorso al Tar. Tra i motivi del ricorso «l’omessa comunicazione dell’avvio
di procedimento», il fatto che «le opere potevano essere dunque eseguite
senza alcun titolo abilitativo» e «l’installazione di pannelli solari
ricadrebbe nell’attività di edilizia libera ben potendo dunque essere
realizzati senza alcun titolo abilitativo».
Un altro elemento sollevato dal
ricorrente riguarda «il contesto urbano dell’area in questione,
caratterizzata proprio dalla presenza di molteplici pannelli solari e fotovoltaici nelle coperture degli edifici (e dunque la modifica di “lieve
entità” sotto il profilo della coerenza urbanistica che caratterizza la
zona».
A supporto della tesi secondo cui l’intervento ricade nell’ambito di
edilizia libera, il ricorrente, cita la sentenza del Tar del 2020. Tesi che,
secondo i giudici, non può essere accolta perché «diversamente da quanto
avvenuto nel caso deciso dal Tar Lazio, il ricorrente non ha neanche
inoltrato la comunicazione di inizio lavori».
Non solo, i giudici ricordano che «le disposizioni legislative subordinano
espressamente gli interventi menzionati al rispetto delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, comprese le disposizioni
contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni
culturali e del paesaggio)».
Quanto all’autorizzazione paesaggistica, i
giudici sottolineano che «i pannelli in questione, posizionati sul solaio
piano del palazzo, risultano evidentemente inclinati e nettamente visibili
dalle vie circostanti, con conseguente inapplicabilità -quanto meno con
riguardo alla normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento
impugnato- dell’invocata esenzione dal titolo autorizzatorio».
Ricorso infondato e respinto. Spese compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
26.09.2023).
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SENTENZA
11. Il nucleo centrale del ricorso è, a ben vedere, rinvenibile nel
secondo motivo di impugnazione.
12. Lamenta in primo luogo il sig. Fr. che nel caso di specie non si
sarebbe considerato che l’intervento in questione ricade nella categoria
dell’edilizia libera e pertanto sarebbe realizzabile senza necessità di
titolo abilitativo.
12.1 Richiama a supporto la sentenza del TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 11025
del 28.10.2020, per la quale “l’installazione di impianti solari
destinati alla produzione di acqua calda è considerata, ex combinato
disposto artt. 123, comma 1, 3, comma 1-b, del D.P.R. n. 380 del 2001,
estensione dell’impianto idrico-sanitario già in opera e, dunque, intervento
di manutenzione straordinaria; che le relative opere possono essere eseguite
senza alcun titolo abilitativo, ex art. 6, comma 1, lett. e-quater) (all’epoca art.
6, comma 2-d), del D.P.R. n. 380 del 2001; che non era necessario dunque
presentare la d.i.a., essendo all’uopo sufficiente l’inoltro
all’Amministrazione della comunicazione di avvio dei lavori”.
13. In relazione a tale richiamo giurisprudenziale il Collegio rileva, in
primo luogo, che diversamente da quanto avvenuto nel caso deciso dal TAR
Lazio, il ricorrente non ha neanche inoltrato la comunicazione di inizio
lavori.
14. Tale non può intendersi, invero, quella inoltrata in data 08.04.2013
dall’allora proprietario dell’immobile Fl.Fl. che non ha affatto
inserito nell’indicazione delle opere da eseguire l’installazione dei
pannelli solari per cui è causa, limitandosi a indicare l’esecuzione di ben
diverse (e specificate) opere interne.
15. Il ricorrente sostiene altresì che l’intervento in questione, eseguito
tra il 2012 e il 2013, rientrerebbe nell’edilizia libera e sarebbe
ammissibile anche in assenza della comunicazione di inizio lavori.
Richiama sul punto:
- l’art. 6 del DPR n. 380/2001, rubricato “attività libera
edilizia” che al comma 1, prevede tra gli interventi che non necessitano di
titolo abilitativo edilizio, al punto “e-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici”.
- l’art. 15 della l.r. n. 23/1985, rubricato “interventi di
edilizia libera”, che al comma 1, dispone che “i seguenti interventi sono
eseguiti senza alcun titolo abilitativo edilizio:
(…)
j-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici”.
16. L’argomento non è decisivo.
17. Come invero precisato nel provvedimento impugnato le citate disposizioni
legislative subordinano espressamente gli interventi menzionati al rispetto
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività
edilizia, comprese le disposizioni contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).
18. Orbene, l’art. 75 del Regolamento Edilizio vigente, rubricato “Coerenza
e compiutezza architettonica degli edifici”, vieta di posizionare nelle
pareti esterne (comprese quelle orizzontali) apparecchiature tecnologiche
(tra le quali rientrano senz’altro i pannelli solari) che non risultano in
armonia architettonica con le pareti del fabbricato ed il suo intorno,
visibili da altri spazi pubblici e prive di accorgimenti volti a mascherare
i macchinari.
18.1 Recita infatti testualmente: “Nelle nuove costruzioni o nella modifica
di edifici esistenti, tutte le pareti esterne prospettanti su spazi pubblici
e privati, anche se interni all'edificio, e tutte le opere ad esse attinenti
(finestre, parapetti, ecc.) devono essere realizzate con materiali e cura di
dettagli tali da garantire la buona conservazione nel tempo delle strutture
stesse. Nelle stesse pareti esterne è vietato sistemare tubi di scarico,
canne di ventilazione e canalizzazioni in genere, apparecchiature
tecnologiche a meno che il progetto non preveda armonicamente una loro
sistemazione nelle pareti, secondo accurate scelte di carattere funzionale
ed architettonico… Per le unità di condizionamento visibili dalla strada o
da altri spazi pubblici è prescritta l’adozione di accorgimenti volti a
mascherare il macchinario.”.
19.1 E come precisato nel provvedimento impugnato “L'impianto tecnologico
accertato al momento del sopralluogo non può essere ritenuto all'uopo
idoneo, perché non integrato nella configurazione della copertura e
posizionato in maniera tale da essere visibile dagli spazi pubblici”.
20. Sul punto l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato trova
conferma nelle produzioni fotografiche allegate al verbale di sopralluogo in
atti, dalle quali i pannelli in questione sono ben visibili da diverse
inquadrature prospettiche.
21. Né può ritenersi che la nuova normativa nel frattempo intervenuta, ossia
il DL n. 17 del 01.03.2022, richiamata nelle memorie difensive dal
ricorrente, sia sul punto decisiva, essendo essa non applicabile ratione
temporis alla valutazione di legittimità del provvedimento in esame e
restando -eventualmente- suscettibile di valutazione in caso di
presentazione di una nuova futura istanza da parte dello stesso ricorrente.
22. Nell’ordinanza impugnata si contesta altresì che l’intervento sia stato
realizzato in assenza di autorizzazione paesaggistica, necessaria per
abilitare quel tipo di interventi in ambito tutelato.
23. Sostiene invece il sig. Fr. che intervento rientrerebbe nella
categoria degli interventi “esclusi dall’autorizzazione paesaggistica” pur
in ambiti vincolati.
Ciò risulterebbe, in particolare, dall’apposita circolare regionale di
“Chiarimenti in merito al Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31 “Regolamento recante individuazione degli interventi
esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”.
24. L’argomento non è fondato, in quanto nel “quadro sinottico di raffronto”
(allegato a tale circolare) ove sono indicati gli “interventi ed opere non
soggette ad autorizzazione paesaggistica”, nella categoria “A.6.” che nella
tesi del ricorrente giustificherebbe l’esclusione di tale autorizzazione, è
inclusa “l’installazione di pannelli solari (termici o fotovoltaici) a
servizio di singoli edifici, laddove posti su coperture piane e in modo da
non essere visibili dagli spazi pubblici esterni”.
25. Quanto affermato dal ricorrente non trova dunque riscontro in fatto in
quanto, come evidenziato dalle produzioni fotografiche del Comune, i
pannelli in questione, posizionati sul solaio piano del palazzo, risultano
evidentemente inclinati e nettamente visibili dalle vie circostanti, con
conseguente inapplicabilità -quanto meno con riguardo alla normativa
vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato- dell’invocata
esenzione dal titolo autorizzatorio.
26. L’intervento in questione, sul punto, pare invece ricadere nell’ambito
del quadro b.8 dell’anzidetta circolare, relativo alla categoria degli
“interventi e opere soggette a procedimento semplificato”, che peraltro allo
stato non risulta essere stato avviato.
27. Neanche il rilievo che il notevole lasso di tempo intercorso dalla
realizzazione dell’opera all’adozione del provvedimento impugnato avrebbe
ingenerato un legittimo affidamento del ricorrente circa la liceità
dell’opera, il che richiederebbe una motivazione del provvedimento
rafforzata, merita accoglimento.
28. L’orientamento giurisprudenziale prevalente, più volte condiviso dal
Tribunale, ritiene che anche nel caso di abuso risalente nel tempo l’ordine
di demolizione di opere abusive costituisca atto dovuto, non potendo il
semplice decorso del tempo giustificare il legittimo affidamento del
contravventore poiché il potere di ripristino dello status quo non è
soggetto ad alcun termine di prescrizione, né è tacitamente rinunciabile
poiché il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione
di illegalità, né imporre all’amministrazione la necessità di una
comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con
l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito (Adunanza Plenaria n. 9
del 2017).
28.1 Pertanto, in presenza di un abuso edilizio la lesione degli interessi
pubblici urbanistici (e paesaggistici) è “in re ipsa”, senza necessità di
far precedere la repressione del predetto abuso dalla verifica
dell’effettiva compromissione in concreto del contesto circostante, con la
conseguente infondatezza del profilo di censura con cui si lamenta la
carenza di una adeguata motivazione da parte dall’amministrazione procedente
in ordine al rilievo minimale dell’opera. |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Quesito su mutamento composizione delle commissioni consiliari.
Sintesi/Massima
Sulla composizione delle commissioni consiliari si richiama il parere n.
771/2018 in cui il Consiglio di Stato osserva come il rispetto del criterio
proporzionale ex art. 38, c. 6, del d.lgs. n. 267/2000 potrebbe essere
garantito prevedendo l'istituto del voto plurimo piuttosto che capitario.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha trasmesso le
osservazioni formulate dal segretario comunale del comune di … in merito
alla questione segnalata da un consigliere di minoranza. Il predetto
consigliere ha evidenziato che, all'esito delle elezioni amministrative
dell'ottobre 2021, il consiglio comunale di … si componeva di 12 consiglieri
eletti per la lista "… e …" e di 5 consiglieri per la lista "…"
di cui fa parte il consigliere esponente.
In seno al consiglio comunale sono istituite le commissioni consiliari
permanenti, composte ciascuna da cinque consiglieri, di cui tre in
rappresentanza della maggioranza e due della minoranza. Nel corso del
mandato, due consiglieri di maggioranza sono passati all'opposizione
formando il gruppo misto.
A seguito di tale circostanza, i consiglieri di maggioranza hanno presentato
una delibera al fine -ad avviso del consigliere esponente- di nominare i
nuovi membri delle commissioni e modificare la composizione delle
commissioni consiliari permanenti per assegnare i due rappresentanti della
minoranza uno al gruppo "…" ed uno al gruppo misto. La proposta della
maggioranza pregiudicherebbe, quindi, la rappresentanza del gruppo "…"
nell'ambito delle commissioni consiliari, riducendone i componenti da due a
uno. I consiglieri del predetto gruppo, ritenendo la posizione della
maggioranza non coerente con il regolamento del consiglio comunale, hanno
deciso di non procedere alla elezione dei propri rappresentanti nelle
commissioni che, ad oggi, da quanto emerge dalla richiesta di parere, non
sarebbero state più convocate.
L'ente ritiene, invece, che l'istituzione del gruppo misto ha comportato
inevitabilmente un mutamento delle forze politiche in seno al consiglio
comunale; pertanto, è stato necessario adeguare, in coerenza con il
principio di proporzionalità, la composizione delle commissioni permanenti
ai nuovi assetti, attraverso l'attribuzione al gruppo misto di un proprio
rappresentante all'interno delle commissioni senza però intervenire sul
numero dei componenti l'organo.
Tanto premesso, è stato chiesto di conoscere se, a seguito dell'istituzione
del gruppo misto, le commissioni debbano mantenere la composizione iniziale,
oppure se i due rappresentanti assegnati alla minoranza debbano essere
considerati in ragione di un componente per ciascun gruppo dell'opposizione.
Al riguardo, in via preliminare, si precisa che le commissioni non sono
organi necessari dell'ente locale, cioè non sono componenti indispensabili
della sua struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli e,
in quanto tali, costituiscono componenti interne dell'organo assembleare. In
altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque
nell'ambito della competenza dei consigli.
Si rileva, in base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000, che le commissioni consiliari, se previste dallo
statuto, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con
l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del
criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in
consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche
nelle commissioni in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro
peso numerico e di voto.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo
38, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in
concreto; pertanto, spetta al consiglio comunale prevedere nel regolamento i
meccanismi idonei a garantirne il rispetto. Ai sensi dell'art. 33, comma 1,
del regolamento del consiglio comunale è previsto che ciascuna commissione
permanente è costituita da cinque consiglieri da ripartire fra i gruppi
consiliari, in proporzione alla consistenza dei gruppi stessi. Il terzo
comma del medesimo articolo 33 dispone che "eventuali modifiche dei
gruppi consiliari non determinano mutamenti nella composizione delle
commissioni, salvo il caso di dimissioni o di impedimento permanente".
Secondo il consigliere esponente tale ultima disposizione precluderebbe la
possibilità di modificare la composizione delle commissioni. Il segretario
del comune ha osservato, invece, come la composizione delle commissioni
consiliari con tre rappresentanti di maggioranza e un rappresentante per
ciascun gruppo di opposizione sia stata ritenuta rispettosa del criterio
proporzionale, precisando che la disposizione recata dall'articolo 33, comma
3, del regolamento del consiglio disciplina l'ipotesi di un'intervenuta
modifica dei gruppi già esistenti, quindi l'ipotesi prevista dalla predetta
norma non sarebbe applicabile al caso di specie trattandosi di costituzione
di un nuovo gruppo. È pur vero che il citato art. 33, comma 3, del
regolamento sembra presentare una formulazione ambigua.
Pertanto, il consiglio comunale potrebbe valutare la possibilità di
riformulare in modo più chiaro la disposizione regolamentare sopracitata. In
merito alla questione prospettata, si richiama il parere n. 771 del
07.03.2018 in cui il Consiglio di Stato ha avuto modo di osservare come il
rispetto del criterio proporzionale richiesto dall'art. 38, comma 6, del
decreto legislativo n. 267/2000 potrebbe essere garantito prevedendo
l'istituto del voto plurimo in luogo del voto capitario.
Con specifico riferimento all'istituto del voto plurimo, il Consiglio di
Stato-sez. V, con sentenza n. 4919 del 25.10.2017, ha osservato che "questa
modalità di voto, nel garantire il rispetto del principio di proporzionalità
ex art. 38, comma 6, d.lgs. n. 267 del 2000, non viola il principio di
parità tra i consiglieri".
Dall'esame delle osservazioni fornite dal segretario dell'ente, emerge che
il consiglio comunale starebbe valutando l'opportunità di introdurre
apposite modifiche normative tali da adeguare le fonti di autonomia locale
ai criteri indicati nella citata pronuncia del Consiglio di Stato del 2018.
Nelle more delle modifiche in parola, si richiama il consolidato avviso di
questo Ministero, espresso in altri casi analoghi, e cioè che l'oggettiva
impossibilità di insediare validamente le commissioni giustifica il
riespandersi della piena attribuzione delle competenze del consiglio
comunale, del quale le commissioni costituiscono articolazioni, essendo
prive di competenza autonoma (parere
17.02.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Questo
Comune sta procedendo alla nomina del nuovo revisore dei conti per il
triennio 2024/2027 ed ha provveduto a richiedere le prescritte dichiarazioni
alla persona estratta dalla prefettura. Dalle dichiarazioni è emersa a
carico dello stesso una condanna non definitiva per reato contro la PA.
È possibile procedere alla nomina?
Al fine di rispondere al quesito proposto dobbiamo discernere la nostra
analisi necessariamente dalle specifiche previsioni introdotte dal Testo
Unico degli Enti Locali in merito alle cause di incompatibilità dell’organo
di revisione.
L'art. 236, comma 1, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 con riferimento alle
ipotesi di incompatibilità dell’organo di revisione infatti stabilisce
testualmente che: "valgono per i revisori le ipotesi di incompatibilità
di cui al primo comma dell'articolo 2399 del codice civile, intendendosi per
amministratori i componenti dell'organo esecutivo dell'ente locale".
Tanto ciò premesso il citato art. 2399 c.c. rinvia, tra l'altro, all'art.
2382 c.c. che prevede che sono cause impeditive alla nomina (e se nominati,
causa di decadenza) le seguenti situazioni: interdetto; inabilitato;
fallito; chi è stato condannato ad una pena che comporta l'interdizione
anche temporanea dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici
direttivi.
Le ipotesi d'incompatibilità e d'ineleggibilità alla carica di revisore
degli enti locali, elencate all'art. 236 del Tuel, sono pertanto tipiche e
nominate e quindi non possono essere derogate, né estese per analogia ad
altri casi non espressamente individuati nella legge e pertanto finché il
revisore dei conti rimane iscritto nell’apposito registro dei revisori
legali e/o all'Albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili
(necessaria ai fini dell’iscrizione all’elenco dei revisori degli enti
locali).
Ad abundantiam segnaliamo che sul punto si è espresso anche il
Ministero dell’Interno - Dipartimento Finanza Locale con proprio Parere
24.01.2024 dove viene ribadito che "Il revisore sottoposto a giudizio
penale mantiene l'iscrizione nell'Elenco fino a quando permangono le
condizioni relative all'iscrizione all'ODCEC e/o al Registro dei revisori
legali e, di conseguenza, può essere nominato dall'ente".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 236 - Art. 2399 c.c. - Art. 2382 c.c.
Documenti allegati
Parere 24.01.2024 del Ministero dell’Interno - Dipartimento Finanza Locale
(14.02.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Chiarimento in merito al parere prot. QI/19070/2021 inerente “i
chioschi e i manufatti similari realizzati su suolo pubblico” - Indirizzi
per gli Uffici (Comune di
Roma,
nota 07.02.2024 n.
26731 di prot.).
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E’ pervenuta allo scrivente Dipartimento una richiesta di chiarimento in
merito all’oggetto, in particolare, facendo riferimento al
parere 03.02.2021 n. 19070 di prot. [1]
di questo dipartimento, se la realizzazione di chioschi e manufatti similari
su suolo pubblico sia sottoposta alla legislazione inerente le opere
pubbliche o al D.P.R. 380/2001, con riferimento sia ai chioschi di nuova
installazione che a quelli già preesistenti ma privi di titolo edilizio.
L’argomento dell’installazione dei chioschi è già stato ampiamente trattato
nei suoi vari aspetti anche in un altro parere di questo Dipartimento,
18.04.2018 n. 67434 di prot., ed in un ordine di servizio
interdipartimentale con il Dip. Sviluppo Economico Attività Produttive e
Agricoltura,
18.11.2015 n. 79383 di prot., richiamati e riportati in allegato
al suddetto parere parere
03.02.2021 n. 19070 di prot.,
pubblicati sul sito istituzionale all’indirizzo ..., ed alla cui lettura si
rimanda per brevità di trattazione. (...continua).
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[1] leggasi anche l'allegato 3 (Regione Lazio,
parere 12.05.2011 n. 127210 di prot.) e l'allegato 4
(Regione Lazio,
parere 19.05.2009 n. 91613 di prot.) |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Forma dei verbali del consiglio comunale.
Sintesi/Massima
La registrazione integrale dell'adunanza del consiglio non può avere
validità di un verbale, atteso che l'art. 97, c. 4, lett. a), del d.lgs. n.
267/2000 assegna al segretario dell'ente locale la cura della
verbalizzazione delle riunioni di consiglio.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha chiesto l'avviso
di quest'Ufficio in ordine al quesito posto da un consigliere di minoranza
del comune ... concernente la forma dei verbali del consiglio comunale.
In particolare, è stato chiesto se la registrazione integrale della seduta
del consiglio possa avere la stessa validità di un verbale e, quindi, se sia
possibile non procedere alla verbalizzazione da parte del segretario
comunale dell'ente, tenuto conto che l'art. 56, comma 8, del regolamento del
consiglio comunale di ... dispone che "Nel caso vengano utilizzati
sistemi di registrazione integrale della seduta, i supporti magnetici
rappresentano i verbali dell'adunanza".
Lo statuto dell'ente all'art. 34, comma 4, prevede che "… la
verbalizzazione delle sedute del Consiglio e della Giunta sono curate dal
Segretario Comunale, secondo le modalità ed i termini stabiliti dal
regolamento." Il successivo comma 5 dispone che i verbali delle sedute
sono firmati dal presidente e dal segretario.
Al riguardo, si rileva che, ai sensi dell'art. 97, comma 4, lett. a), del
d.lgs. n. 267/2000, il segretario dell'ente locale "partecipa con
funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e
della giunta e ne cura la verbalizzazione". Pertanto, è lo stesso
legislatore statale che ha previsto, nell'ambito delle competenze del
segretario, la cura della verbalizzazione delle riunioni di consiglio e di
giunta, e lo statuto dell'ente ribadisce tale funzione del segretario
comunale.
In merito alla natura e alla funzione del verbale, si fa presente che il
Consiglio di Stato - sez. IV, con sentenza n. 4373 del 2018, nell'esaminare
un caso diverso da quello in esame, ha osservato che "il verbale, atto
giuridico appartenente alla categoria degli atti certificativi, è il
documento preordinato alla descrizione di atti o fatti, rilevanti per il
diritto, compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante, appositamente
incaricato di tale compito."
L'Alto Consesso ha, altresì, evidenziato che "negli organi collegiali,
dove la funzione di verbalizzazione e il verbale assumono rilievo decisivo e
necessità indefettibile, il tratto di collegamento tra esternazione
dell'atto amministrativo (che normalmente avviene in forme diverse dalla
scritta) e documentazione dell'atto (ad esempio, deliberazione) è
rappresentato dal verbale della seduta, che costituisce la 'memoria' di
quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta stessa, affinché
questi possano essere successivamente (ed ulteriormente) documentati,
secondo le modalità di volta in volta prescritte. Come affermato dalla
giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato - sez. IV, 25.07.2001, n. 4074),
il verbale ha il compito di attestare il compimento dei fatti svoltisi al
fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e
di permettere il controllo delle attività svolte, senza che sia peraltro
necessario indicare minutamente le singole attività compiute e le singole
opinioni espresse."
Si soggiunge che il TAR Sicilia – Sez. di Catania, con sentenza n. 1311 del
14.07.2009, ha sottolineato che il verbale della seduta "costituisce
l'elemento essenziale della esternazione e della documentazione delle
determinazioni amministrative degli organi collegiali, nonché la condizione
necessaria perché le determinazioni stesse acquistino valore di espressione
di potestà amministrative."
Inoltre, dalla sentenza del Consiglio di Stato del 04.06.2020, n. 3544, si
evince che "… l'atto di verbalizzazione ha una funzione di certificazione
pubblica, contiene e rappresenta i fatti e gli atti giuridicamente rilevanti
che è necessario siano conservati per le esigenze probatorie con fede
privilegiata -dal momento che sono redatti da un pubblico ufficiale- che si
sostanzia essenzialmente nella attendibilità in merito alla provenienza
dell'atto, alle dichiarazioni compiute innanzi al pubblico ufficiale ed ai
fatti innanzi a lui accaduti (cfr. Cass. sez. I, 03.12.2002, n. 17106)".
Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sopra citato, si ritiene
che il consiglio comunale, nell'esercizio della propria autonomia funzionale
ed organizzativa di cui all'articolo 38, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000,
abbia la possibilità di regolamentare la registrazione del dibattito e delle
votazioni con mezzi audiovisivi, ma le norme statutarie e quelle
regolamentari dell'ente locale devono, comunque, trovare una necessaria
armonizzazione con le norme statali.
Nel caso di specie, si osserva che l'articolo 56, comma 8, del regolamento
del consiglio comunale non risulta coerente con il disposto dell'art. 97,
comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, in quanto la verbalizzazione è attività
propria del segretario comunale, il quale, oltre a riportare gli interventi
dei singoli consiglieri e degli altri partecipanti alla seduta, può
segnalare fatti e circostanze avvenuti che non emergano dalla registrazione
vocale. Inoltre, la forma scritta fornisce certezza in ordine alla modalità
della deliberazione maturata in sede di riunioni degli organi collegiali
(parere 07.02.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
personale di questo comune ha ricevuto una istanza di congedo parentale da
parte di una dipendente che terminerà il periodo di maternità obbligatorio
il prossimo 25 gennaio.
Secondo le disposizioni introdotte dalla legge di bilancio 2024, qual è il
trattamento economico previsto?
Come richiamato nel quesito proposto, la legge di bilancio per il 2024 (L.
30.12.2023, n. 213) ha previsto ulteriori disposizioni agevolative per i
genitori in tema di congedi parentali di cui all'art. 34, D.Lgs. 26.03.2001,
n. 151.
La norma di cui trattasi (art. 1, comma 179, L. 30.12.2023, n. 213) recita
infatti testualmente che:
“All'articolo 34, comma 1, primo periodo, del testo unico delle
disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e
della paternità, di cui al decreto legislativo 26.03.2001, n. 151, le
parole: «elevata, in alternativa tra i genitori, per la durata massima di un
mese fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell'80 per cento
della retribuzione» sono sostituite dalle seguenti: «elevata, in
alternativa tra i genitori, per la durata massima complessiva di due mesi
fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell'80 per cento della
retribuzione nel limite massimo di un mese e alla misura del 60 per cento
della retribuzione nel limite massimo di un ulteriore mese, elevata all'80
per cento per il solo anno 2024». L'articolo 34, comma 1, del testo unico di
cui al decreto legislativo n. 151 del 2001, come modificato dal presente
comma, si applica con riferimento ai lavoratori che terminano il periodo di
congedo di maternità o, in alternativa, di paternità, di cui rispettivamente
al capo III e al capo IV del medesimo testo unico di cui al decreto
legislativo n. 151 del 2001, successivamente al 31.12.2023.”
Secondo le nuove disposizioni, pertanto, è stato previsto che il congedo
parentale di due mesi, previsto fino al compimento del sesto anno di età del
figlio, venga retribuito:
- per il primo mese all'80% (ma per gli enti locali tale
trattamento è assorbito da quello più favorevole previsto dall'art. 45,
comma 3, CCNL 16.11.2022 che prevede la retribuzione dei primi 30 giorni
pari al 100% - si veda la Circ. 16.05.2023, n. 45 dell'INPS);
- per il secondo mese al 60% (per il solo 2024, la retribuzione al
60% del secondo mese è elevata all'80%).
- per i restanti periodi continua ad applicarsi la disciplina
attualmente vigente con indennità pari al 30%
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
Circ. 16.05.2023, n. 45 dell'INPS
- L. 30.12.2023, n. 213, art. 1, comma 179
(07.02.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI:
Questa amministrazione comunale ha verificato di aver commesso un
errore materiale in merito alla corretta indicazione del fondo di cassa
nell'approvazione del rendiconto 2022.
E' possibile procedere nelle prossime settimane ad una riapprovazione dello
stesso?
Il tema della modificabilità o meno del rendiconto approvato deriva da una
atavica diatriba sul concetto della intangibilità o immodificabilità del
rendiconto codificata per il bilancio dello Stato (che approva il rendiconto
con legge ordinaria) dall'art. 150, R.D. 23.05.1924 n. 827.
Per ciò che concerne gli enti locali (che naturalmente approvano il
rendiconto con proprio atto -delibera Consiliare- e non con legge)
l'intangibilità e l'immodificabilità del rendiconto sono state più volte
confermate dalla magistratura contabile (ad esempio Corte dei Conti, Sez.
regionale di controllo per il Piemonte, Deliberazione n. 117/2018/PRSE) in
quanto secondo i giudici "modificare il rendiconto con effetto
retroattivo sulla gestione di competenza pregressa significherebbe
vanificare la funzione di veridicità "storica" insita nel rendiconto stesso".
Ad aiutarci nella risposta al quesito dobbiamo però registrare il recente
intervento della stessa magistratura contabile ed in particolare della Sez.
regionale di controllo per il Veneto che con propria Deliberazione n. 1/2024
ha affrontato nuovamente con dovizia di particolari il tema della
modificabilità o meno del rendiconto approvato.
All'esito dell'indagine della Corte, viene concluso che non si rinvengono
nell'ordinamento elementi ostativi alla rettifica di specifici allegati del
rendiconto, in presenza di meri errori materiali e che pertanto "L'Ente
potrà dunque, mediante opportuna delibera dell'organo consiliare, procedere
senza indugio alla rettifica dell'allegato previsto dall'art. 11, comma 4,
lett. a), del d.lgs. n. 118/2011, concernente il risultato di
amministrazione, trasmettendo tempestivamente il rendiconto aggiornato alla
banca dati delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 13 della
legge 31.12.2009, n. 196 e rappresentando l'esito di tali variazioni nel
primo documento di bilancio utile".
Sulla scorta di quanto innanzi, riteniamo che l'errore sulla corretta
indicazione del fondo di cassa non può che essere ricondotto alla categoria
degli errori materiali e che pertanto l'Ente potrà procedere alla
riapprovazione del rendiconto 2022 con successiva ritrasmissione dello
stesso alla BDAP.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
R.D. 23.05.1924 n. 827, art. 150
Documenti allegati
Sezione regionale di controllo per il Veneto, Deliberazione n. 1/2024 -
Sezione regionale di controllo per il Piemonte, Deliberazione n. 117/2018/PRSE (31.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Assegnazione di poteri gestionali ad organi politici.
Quesiti
Nei comuni sotto i 5.000 abitanti sussiste la possibilità di
attribuire la Responsabilità dirigenziale ai politici.
Tuttavia questa facoltà è riconosciuta solo se ricorrono dei
presupposti. Come indicato da varie pronunce ANAC, l’ultima
con Delibera ANAC 291 del 20.06.2023, i presupposti sono:
1) Comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti,
2) Indicazione sullo statuto comunale della possibilità di deroga
al principio di distinzione delle funzioni tra organi
tecnici,
3) Attribuzione delle funzioni tecniche prioritariamente al
Segretario Comunale,
4) Dimostrazione che l’attribuzione all’organo politico comporta il
contenimento della spesa, mediante delibera allegata al
bilancio.
Premesso quanto sopra, si chiede se in mancanza dei predetti
requisiti (ad eccezione di quello concernente il numero di
abitanti) è possibile che le competenze dirigenziali vengano
attribuite ad un politico, nonostante nell’ente vi sia in
pianta organica un dipendente D4 e se sia possibile che tale
competenza dirigenziale venga attribuita tramite un’“auto-attribuzione”
sindacale.
Risposta
La normativa così come interpretata dall’ANAC e dalla
giurisprudenza fissa i presupposti indicati nel quesito,
ferma restando che "è necessario che le relative
disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma
“regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in
un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del
consiglio comunale (art.
42 TUEL) o della giunta (articolo
48, comma 3, TUEL, relativamente al regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi)” (cfr. TAR
Liguria sez. I,
sentenza 31.03.2021 n. 284).
Anche il Ministero dell’Interno (parere
del 18.12.2014) ha ritenuto che il carattere
speciale della norma richieda necessariamente il rispetto
delle condizioni poste dalla norma medesima per la sua
legittima applicazione, essendo necessaria sia la
sussistenza di un apposito atto di giunta o regolamentare
che disciplini la fattispecie, sia la documentazione annuale
del risparmio di spesa in sede di approvazione del bilancio.
In merito all’applicazione dell’istituto derogatorio oggetto
della presente trattazione, invero, lo stesso Ministero
dell’Interno (si veda, ad esempio parere sopra citato) ha
evidenziato che, in base all’art. 15 del CCNL 22.01.2004,
negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i
responsabili delle strutture apicali secondo l’ordinamento
organizzativo dell’ente sono titolari delle posizioni
organizzative disciplinate dagli articoli 8 e seguenti del
CCNL 31.03.1999.
Pertanto, alla luce delle citate disposizioni, è apparso
evidente al Ministero che negli enti privi di qualifiche
dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di
posizione organizzativa. Pur dovendosi ritenere tuttora
applicabile l’articolo
53, comma 23, della legge 388/2000 il ricorso a tale
disposizione resta, comunque, limitato e subordinato alla
non concessione della posizione organizzativa al personale
in possesso della qualifica apicale dell’ente, al fine del
conseguimento di un effettivo risparmio di spesa. Peraltro,
secondo la Corte dei conti, sez. reg. di contr. per l’Emilia
Romagna,
deliberazione
14.09.2023 n. 124, non
è neppure necessario dimostrare la assoluta carenza,
all’interno dell’Ente, di professionalità adeguate, in
quanto la norma non subordina tale possibilità a siffatta
condizione, che invece è richiesta per il conferimento di
incarichi ad esterni.
L’esercizio di eventuali poteri gestionali da parte del
Sindaco (o degli assessori) non può basarsi né sulla
prerogativa sindacale di potere sindacale di affidare con
proprio decreto le funzioni e la responsabilità dei servizi
prevista dall’articolo
50, comma 10, TUEL, ma richiede necessariamente che sia
preceduto da una apposita deliberazione di Giunta avente
valenza ed efficacia regolamentare.
Infatti, la previsione della precitata disposizione dell’articolo
50, comma 10, TUEL, per il suo stesso tenore e per il
contesto in cui è contenuta, non regola il potere di cui
all’articolo
53 della legge n. 388/2000, ma riguarda semplicemente il
potere di nomina dei responsabili degli uffici e dei
servizi.
Stante la deroga ad un principio generale, allora, occorre
che la modifica organizzativa interna all’ente –assegnando
agli organi politici anche l’esercizio di poteri gestionali–
sia espressa e inequivoca.
Di questi principi ha fatto applicazione, infatti, il TAR
Liguria, sez. II, nella sentenza n. 83 del 03.02.2022, che
ha accolto il ricorso di un cittadino avverso una ordinanza
sindacale adottata ai sensi dell’articolo
27 del D.P.R. n. 380/2001, che attribuisce ai dirigenti
la vigilanza in materia edilizia e urbanistica, che aveva
ingiunto ex
articolo 31 D.P.R. n. 380/2001 “di provvedere entro
il termine di 90 giorni dalla data di notifica della
presente ordinanza a ripristinare lo stato dei luoghi
originario mediante rimozione di tutti i materiali abbancati
in assenza di alcun titolo edilizio …”.
Il TAR Liguria, infatti, non avendo rilevato il rigoroso
rispetto della preventiva regolazione derogatoria
dell’assetto organizzativo interno da parte della giunta
comunale ha ritenuto, in via derivata, l’illegittimità
dell’ordinanza emessa dal Sindaco.
In particolare, nella citata sentenza i giudici hanno
ritenuto illegittima, in quanto viziata da incompetenza,
l’ordinanza sindacale impugnata che aveva disposto
l’immediata rimozione di alcuni materiali abbancati, idonei
a configurare la realizzazione di deposito di materiale,
rientrante, ex
art. 3, comma 1, lett. e.7), D.P.R. n. 380/2001 nella
definizione di “interventi di nuova costruzione”, che
necessitano del preventivo rilascio del permesso di
costruire ex
articolo 10, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001.
Ciò in quanto, come detto, il Sindaco si era autonomamente
attribuito il potere di natura gestionale ai sensi dell’articolo
107 del TUEL, senza una preventiva, necessaria,
disposizione regolamentare o, quantomeno, di una apposita
deliberazione di Giunta in tal senso
(23.01.2024 - tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
GIURISPRUDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Legittime le prove concorsuali svolte con carta e penna.
Le nuove regole sulle modalità di accesso agli impeghi nella pubblica
amministrazione introdotte dal Dpr 82/2023 non hanno carattere impositivo.
Le nuove regole sulle modalità di accesso agli impieghi nella pubblica
amministrazione introdotte dal Dpr 82/2023, seppur finalizzate a promuovere
l’utilizzo dello strumento informatico nelle prove scritte, non hanno
carattere impositivo e, pertanto, gli enti possono in determinati contesti
scegliere se svolgerle alla vecchia maniera ovvero con l’uso della classica
carta e penna.
Nel preferire questa soluzione, le amministrazioni sono tenute a motivare la
loro scelta (dimostrandone la coerenza con il fine di assicurare il migliore
e
più efficiente metodo di selezione) e ad indicare nei bandi di concorso
tutte
le prescrizioni volte ad assicurare l'imparzialità e l'efficienza della
procedura.
È quanto viene affermato dal TAR Lazio-Roma, Sez II-bis, con la
sentenza
13.02.2024 n. 2948, che vede protagonista un
comune laziale.
La
procedura concorsuale indetta da un ente locale è stata impugnata, da un
candidato innanzi al giudice amministrativo, ritenuta illegittima in ragione
dell'espletamento della prova scritta in modalità cartacea e non
informatizzata.
La norma violata, per il ricorrere, è l'articolo 13, comma
2, del
Dpr 487/1994, nella versione aggiornata dall'articolo 1, comma 1, lettera n),
del Dpr 82/2023, laddove si stabilisce che «gli elaborati sono redatti in
modalità digitale attraverso la strumentazione
fornita per lo svolgimento delle prove».
Raffrontando la precedente versione
testuale della norma e quella attuale, il
Tar sottolinea come nel testo previgente (utilizzando l'avverbio
«esclusivamente») era sancita l'obbligatorietà della
redazione degli elaborati delle prove scritte mentre nella nuova
formulazione tale obbligatorietà (venendo meno
l'utilizzo di tale avverbio) non è più rinvenibile.
La disposizione in
esame, se letta con il disposto contenuto
all'articolo 1, comma 3, dello stesso (secondo la quale è essenziale
garantire lo svolgimento del concorso pubblico
in modo da assicurarne l'imparzialità e l'efficienza, rendendo possibile e
non doveroso l'ausilio di sistemi
informatici), porta a ritenere che, pur registrandosi una preferenza
legislativa per promuovere l'utilizzo dello
strumento informatico, le modalità di svolgimento delle selezioni pubbliche
sono rimesse alla discrezionalità della
pubblica amministrazione e devono rispondere a logiche di razionalità ed
efficienza organizzativa.
Per il giudice
amministrativo laziale, dunque, l'uso della tradizionale forma di redazione
degli elaborati mediante supporto
cartaceo non è illegittima, ma non gode più di quella presunzione di
imparzialità e di efficacia che era immanente
nella previsione regolamentare originale, con la conseguenza che
l'amministrazione è tenuta a motivare
opportunamente circa la preferenza delle prove in detta modalità,
dimostrandone la coerenza con il fine di
assicurare il migliore e più efficiente metodo di selezione nel caso
concreto.
Allo stesso modo nel bando di
concorso devono essere indicate le prescrizioni volte ad assicurare
l'imparzialità e l'efficienza della procedura (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 16.02.2024).
---------------
SENTENZA
I profili di rito possono essere tralasciati perché il ricorso è
infondato nel merito, come puntualmente argomentato dal Comune di Fiumicino
nelle proprie memorie difensive.
La disposizione di cui all’art. 1, comma 1, lettera n), del DPR 16.06.2023,
nr. 82, ha sostituito l’art. 13, comma 2, del DPR 487/1994, che nel testo
previgente sanciva l’obbligatorietà della redazione degli elaborati delle
prove di concorso (come reso palese dall’avverbio “esclusivamente”) “su
carta portante il timbro dell’ufficio e la firma di un componente della
commissione esaminatrice….”, con il testo che adesso prevede la
redazione degli elaborati “in modalità digitale attraverso la
strumentazione fornita per lo svolgimento delle prove”, specificandone
le condizioni (tempo aggiuntivo per malfunzionamento, non modificabilità del
documento salvato dal candidato, disabilitazione della connessione
internet).
Sia l’esegesi testuale operata nel raffronto tra la precedente versione
testuale della norma e quella attuale (che non include più l’avverbio “esclusivamente”),
sia l’interpretazione sistematica in rapporto all’art. 1, comma 3, D.P.R.
487/1994 a norma del quale è essenziale garantire lo svolgimento del
concorso pubblico in modo da assicurarne l’imparzialità e l’efficienza,
rendendo possibile (e non doveroso) l’ausilio di sistemi informatici (“Il
concorso pubblico si svolge con modalità che ne garantiscano l'imparzialità,
l'efficienza, l'efficacia nel soddisfare i fabbisogni dell'amministrazione
reclutante e la celerità di espletamento ricorrendo, ove necessario,
all'ausilio di sistemi automatizzati diretti anche a realizzare forme di
preselezione e a selezioni decentrate per circoscrizione territoriali”)
inducono il Collegio a condividere la tesi del Comune di Fiumicino, secondo
la quale pur registrandosi una preferenza legislativa per promuovere
l’utilizzo dello strumento informatico, le modalità di svolgimento delle
selezioni pubbliche sono rimesse alla discrezionalità della P.A. e devono
rispondere a logiche di razionalità e efficienza organizzativa.
Ciò comporta due importanti conseguenze.
La prima è che, a mente dell’art. 13, comma 2, del DPR 487/1994, nel
testo modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera n), del D.P.R.
16.06.2023, n. 82, l’uso della tradizionale forma di redazione degli
elaborati mediante supporto cartaceo non è illegittima, ma non gode più di
quella presunzione di imparzialità e di efficacia che era immanente nella
previsione regolamentare originale, con la conseguenza che l’Amministrazione
è tenuta a motivare opportunamente circa la preferenza delle prove in detta
modalità, dimostrandone la coerenza con il fine di assicurare il migliore e
più efficiente metodo di selezione nel caso concreto.
La seconda è che, rispetto all’uso nelle prove scritte di supporti
informatici, la redazione degli elaborati su carta dovrà essere disciplinata
specificatamente dall’Ente, non potendosi più contare sulle garanzie formali
che erano precedentemente previste dall’art. 13, comma 2, del DPR 487/1984
(e dunque spetterà all’Ente indicare nel bando di concorso le prescrizioni
volte ad assicurare in concreto l’anonimato dell’elaborato durante la sua
correzione ai fini dell’assegnazione del punteggio, la sua effettiva
riferibilità al candidato, che quest’ultimo lo abbia redatto durante le
prove e così via).
Siccome nessuno dei due aspetti sin qui elencati è oggetto di censura e la
doglianza formulata si fonda solo sulla ritenuta obbligatorietà della prova
scritta in modalità informatica (principio che va escluso), il gravame è
infondato nel primo motivo e come tale va respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo, e non determina
l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lettera
b), del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
condizionato
all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a
ricondurre il manufatto abusivo
nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in
quanto detta subordinazione
contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria,
collegabile alla già
avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale
rispondenza alla disciplina urbanistica.
---------------
3. Il ricorso è inammissibile.
L'unico motivo -con il quale si censurano la violazione di
legge ed il vizio della
motivazione del provvedimento impugnato relativamente
all'inosservanza degli
artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001- è inammissibile.
Diversamente da quanto
prospettato dal ricorrente, il Tribunale, nel motivare il
rigetto dell'istanza di
sospensione o revoca dell'ordine di demolizione, non ha
imperniato la propria
decisione sul solo diniego tacitamente espresso dalla
Pubblica Amministrazione
competente sulla richiesta di permesso in sanatoria -pur
molto significativo- ma
ha valorizzato altri elementi, come le dichiarazioni
della teste Ca., la quale ha
riferito che la demolizione comunque non è stata effettuata
e che a causa dei
vincoli insistenti sulla zona ove l'immobile è costruito si
tratta di una costruzione
non sanabile.
Inoltre, lo stesso consulente di parte ha
aderito a tali conclusioni
sottolineando che la sopraelevazione oltre il terzo piano
non è sanabile;
circostanza ammessa e non contestata dallo stesso
ricorrente, il quale afferma di avere proposto un'istanza di
sanatoria condizionata alla demolizione di parte
dell'edificio.
Ed è sufficiente ricordare che è illegittimo, e non
determina
l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lettera
b), del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
condizionato
all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a
ricondurre il manufatto abusivo
nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in
quanto detta subordinazione
contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria,
collegabile alla già
avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale
rispondenza alla disciplina
urbanistica (ex plurimis, Sez. 3,
15.10.2020 n. 28666, Rv. 280281).
Nel caso di specie, dunque, non è ravvisabile alcuna ipotesi
di violazione di
legge, avendo operato il Tribunale nel rispetto dell'art.
36, comma 3, d.P.R. n. 380
del 2001, con adeguata e coerente motivazione in punto di
fatto, a fronte di una
prospettazione difensiva manifestamente infondata (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
07.02.2024 n. 5486). |
EDILIZIA PRIVATA:
Aree vincolate, la presenza di altri edifici non basta a
giustificare il condono.
Con questa motivazione il Tar di Roma ha respinto il ricorso contro
un’ordinanza di demolizione.
La presenza di altri edifici in un’area vincolata non è motivo sufficiente
per consentire la sanatoria di un’opera realizzata abusivamente.
Con questa
motivazione il TAR Lazio-Roma, Sez. IV-quater con la
sentenza
07.02.2024 n.
2422, ha respinto il ricorso di una persona che aveva impugnato
l’ordinanza di demolizione di Roma Capitale per la realizzazione di
un“immobile posto al piano terra con destinazione abitazione”, per 73 metri
quadrati e un cubatura fuori terra di 247,00 metri cubi.
La vicenda inizia nell'aprile del 2013 quando dal Comune
viene inviato l'avviso di rigetto alla domanda di condono, «in quanto
l'edificio
ricadrebbe in area sottoposta a tutela dei beni paesaggistici e al quale
seguiva (malgrado le osservazioni del ricorrente) il provvedimento di
rigetto
definitivo». Quindi il ricorso al Tar.
Tra i motivi «travisamento dei fatti,
in
quanto l'edificio ricadrebbe nell'ambito della c.d. zona 02 (recupero
urbanistico) e nel perimetro del piano di recupero urbanistico Nucleo 19.12b
Pian del Marmo che riguarda un vasto quartiere ormai edificato e
urbanizzato». Poi altre argomentazioni che riguardano la classificazione
dell'area.
Per il Collegio il ricorso è infondato.
«Sono da respingere i
primi due
motivi con i quali si sostiene l'insussistenza del vincolo paesaggistico, in
quanto l'immobile ricadrebbe in un'area
oramai urbanizzata -scrivono i giudici-, rientrando nel perimetro del
piano di recupero urbanistico Nucleo 19.12b
Pian del Marmo che riguarda un quartiere ormai edificato, che non avrebbe
nulla delle caratteristiche delle aree
vincolate». I giudici sottolineano il fatto che «l'istanza di condono
riguarda un abuso che ha determinato la
realizzazione di un'intera unità immobiliare, con aumento di superficie
utile e volumetria e adibita a civile
abitazione».
Per i giudici «è evidente che non rileva l'avvenuta
urbanizzazione dell'area e, ciò, considerando che il
vincolo paesaggistico è fondato com'è su una valutazione complessiva del
paesaggio e dell'area circostante, che
presuppone un giudizio di prevalenza dell'interesse pubblico che, in quanto
tale, può essere superato solo da un
successivo provvedimento di revoca o di rimozione del vincolo stesso che, al
termine di una nuova istruttoria,
determini il venir meno delle circostanze e dei presupposti originari».
I
giudici ricordano che l'applicabilità del terzo
condono in riferimento alle opere realizzate in zona vincolata limitata alle
sole opere di restauro e risanamento
conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se
ed in quanto conformi alle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Non solo: «Il
fatto che si sia in presenza di una zona
urbanizzata non fa venire meno l'esigenza di scongiurare la realizzazione di
ulteriori interventi abusivi -sottolineano i
giudici-, risultando evidente come il vincolo paesaggistico non sia
suscettibile di venir meno solo perché in passato
sia stato disatteso, imponendosi al contrario un maggiore rigore per il
futuro per prevenire ulteriori danni all'ambiente
e salvaguardare quel poco di integro che ancora residua».
Ricorso respinto (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
13.02.2024).
---------------
SENTENZA
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
1.1 Sono da respingere i primi due motivi con i quali si sostiene
l’insussistenza del vincolo paesaggistico, in quanto l’immobile ricadrebbe
in un’area oramai urbanizzata, rientrando nel perimetro del piano di
recupero urbanistico Nucleo 19.12b "Pian del Marmo" che riguarda un
quartiere ormai edificato, che non avrebbe nulla delle caratteristiche delle
aree vincolate.
1.2 Contrariamente a quanto dedotto, va evidenziato come sia stato lo stesso
ricorrente a confermare (nel secondo motivo) che la zona in cui è situato
l’immobile del ricorrente è inclusa nel piano territoriale paesistico n.
15/b “Valle del Tevere”, circostanza ulteriormente ribadita dall’avvenuto
deposito del certificato di destinazione urbanistica che conferma la
sussistenza dei vincoli individuati dall’Amministrazione.
1.3 Si consideri, peraltro, che l’istanza di condono riguarda un abuso che
ha determinato la realizzazione di un’intera unità immobiliare, con aumento
di superficie utile e volumetria e adibita a civile abitazione.
1.4 E’ altrettanto evidente che non rileva l’avvenuta urbanizzazione
dell’area e, ciò, considerando che il vincolo paesaggistico è fondato com’è
su una valutazione complessiva del paesaggio e dell’area circostante, che
presuppone un giudizio di prevalenza dell’interesse pubblico che, in quanto
tale, può essere superato solo da un successivo provvedimento di revoca o di
rimozione del vincolo stesso che, al termine di una nuova istruttoria,
determini il venir meno delle circostanze e dei presupposti originari.
1.5 E’ noto, peraltro, che l’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 4 e
l’art. 3, comma 1, lett. b), della L.Reg. n. 12/2004, prevede che per le aree
soggette a vincolo siano sanabili esclusivamente le opere di restauro,
risanamento conservativo e manutenzione straordinaria (tipologie nn. 4, 5 e
6 dell'allegato "1" alla legge 24.11.2003, n. 326), tipologie queste
ultime che escludono gli incrementi volumetrici e di superficie.
1.6 Un costante orientamento giurisprudenziale ha evidenziato che
“l'applicabilità del c.d. terzo condono in riferimento alle opere realizzate
in zona vincolata ..(sia) limitata alle sole opere di restauro e risanamento
conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se
ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici" e, ancora, che "ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett.
d), del decreto legge su menzionato come convertito sul terzo condono, ...
(siano) sanabili le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a
specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, solo se ricorrono
congiuntamente le seguenti condizioni:
a) si tratti di opere realizzate
prima della imposizione del vincolo;
b) seppure realizzate in assenza o in
difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni
urbanistiche;
c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro,
risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
d) che vi sia il
previo parere dell'Autorità preposta al vincolo" (Cons. St., Sez. VI,
18.05.2015 n. 2518; Cons. Stato, sez. VI, 16/08/2023, n. 7779 Cons. Stato,
Sez. VI, 03.02.2023 n. 1182, 29.07.2022 n. 6684, 22.04.2022 n.
3088 e 17.03.2020 n. 1902).
1.7 Anche la successiva giurisprudenza di merito ha confermato che “in
materia edilizia ed urbanistica, in aree sottoposte a vincolo paesaggistico,
non può essere ammessa a sanatoria un'opera abusivamente realizzata qualora
comporti l'edificazione di nuove superfici abitabili e un conseguente
aumento volumetrico, seppur minimo, non rilevando in tal senso l'entità del
vincolo stesso (assoluto o relativo) (TAR Lazio Roma, Sez. II-bis,
23/01/2018, n. 828)”.
1.8 Il fatto che si sia in presenza di una zona urbanizzata non fa venire
meno l’esigenza di scongiurare la realizzazione di ulteriori interventi
abusivi, risultando evidente come il vincolo paesaggistico non sia
suscettibile di venir meno solo perché in passato sia stato disatteso,
imponendosi al contrario un maggiore rigore per il futuro per prevenire
ulteriori danni all’ambiente e salvaguardare quel poco di integro che ancora
residua (TAR Lazio sez. IV-ter, 01/02/2023 n. 18076).
1.9 Da respingere è anche la terza e ultima censura con la quale si sostiene
che sarebbe illegittima una qualunque ulteriore sanzione demolitoria o
pecuniaria e, ciò, considerando che il Comune non risulta aver adottato i
provvedimenti di carattere repressivo e sanzionatorio, essendosi quindi in
presenza di poteri amministrativi ancora inespressi. |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Sui motivi aggiunti in appello, sull’invalidità derivata e
sull'avvalimento.
---------------
Giustizia amministrativa – Motivi aggiunti – Grado di
appello – Inammissibilità – Impugnazione di atti nuovi
sopravvenuti.
Possono essere proposti motivi
aggiunti in grado d'appello, al solo fine di dedurre vizi
ulteriori degli atti già censurati in primo grado, e non
anche nella diversa ipotesi in cui con essi s'intenda
impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di primo
grado.
Sono inammissibili i motivi aggiunti proposti, allorché gli
atti sopravvenuti non sono in grado di integrare un vizio
del provvedimento di aggiudicazione, oggetto di impugnativa
in prime cure, sub specie di illegittimità sopravvenuta, e
non vi sia ragione per derogare al principio del doppio
grado di giudizio. (1)
---------------
Atto
amministrativo – Annullabilità – Impugnazione – Nullità –
Effetto caducante – Rapporto di presupposizione tra atti.
Si distingue tra invalidità a effetto
caducante e invalidità a effetto viziante, atteso che nel
primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende
automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo
non sia stato impugnato; mentre nel secondo caso l'atto
conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e
pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di
rito.
La prima ipotesi ricorre nel caso in cui l'atto successivo
venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale a guisa di inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore.
Si realizza, pertanto, l'effetto caducante solo qualora il
rapporto di presupposizione che avvince i due provvedimenti
sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto
successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto
procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto
all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di
interessi. (2)
---------------
Contratti pubblici
e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di
servizi – Avvalimento – Avvalimento tecnico-operativo –
Tratti caratterizzanti.
Nella fattispecie di avvalimento tecnico
operativo, sussiste sempre l'esigenza della concreta messa a
disposizione di mezzi e risorse specifiche, indispensabili
per l'esecuzione dell'appalto che l'ausiliaria ponga a
disposizione del concorrente.
L'indagine in ordine agli elementi essenziali dell'avvalimento
operativo deve essere svolta sulla base delle generali
regole sull'ermeneutica contrattuale e in particolare
secondo i canoni enunciati dal codice civile di
interpretazione complessiva e secondo buona fede delle
clausole contrattuali.
Il contratto di avvalimento, pertanto, non deve quindi
necessariamente spingersi sino alla rigida quantificazione
dei mezzi d'opera, all'esatta indicazione delle qualifiche
del personale messo a disposizione ovvero all’indicazione
numerica dello stesso personale.
L'assetto negoziale deve consentire l'individuazione delle
esatte funzioni che l'impresa ausiliaria andrà a svolgere,
direttamente o in ausilio all'impresa ausiliata, nonché i
parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione.
Quando si tratti di avvalimento tecnico-operativo, può
essere previsto l’impiego non di un singolo elemento della
produzione, bensì dell’azienda intesa come complesso
produttivo unitariamente considerato o di un ramo di essa.
Di questa l’ausiliaria non perde la detenzione, pur
mettendola adisposizione, in tutto o in parte, per
l’utilizzazione dell’ausiliata, secondo le previsioni del
contratto di avvalimento, approvate dalla stazione
appaltante. (3)
---------------
(1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 04.05.2020, n. 2792;
Cons. Stato, sez.VI, 02.01.2018, n. 21.
(2) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2611 e
20.01.2015, n. 163; Cons. Stato, sez. IV, 06.12.2013, n.
5813, idem, 13.06.2013, n. 3272; idem, 24.05.2013, n. 2823;
Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2012, n. 5986; idem, 05.09.2011,
n. 4998; Cons. Stato, sez. V, 25.11.2010, n. 8243.
(3) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 04.10.2021, n. 6619;
Cons. Stato, sez. V, 21.07.2021, n. 5485; Cons. Stato, sez.
V, 12.02.2020, n. 1120; Cons. Stato, sez. V, 20.07.2021, n.
5464; Cons. Stato, sez. III, 04.01.2021, n. 68; Ad. plen.,
14.11.2016, n. 23; Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2017, n.
3682; Cons. Stato, sez. III, 30.06.2021, n. 4935; Cons.
Stato, sez. V, 10.01.2022, n. 169; Cons. Stato, sez. V,
22.02.2021 n. 1
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.02.2024 n. 1263 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
13. In limine litis vanno delibate le eccezioni di
inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti in appello
sollevata da LaB. e dal Comune di Milano e quella
di improcedibilità del presente giudizio formulate da
LaB., principiando in ordine logico da quella di
inammissibilità.
13.1. Ed invero secondo quanto affermato dal Consiglio di
Stato, nella sua più autorevole composizione (Ad. Plen. n. 4
del 2011 e di recente ribadito da Ad. Plen. n. 9 del 2014),
la norma positiva enucleabile dal combinato disposto degli
artt. 76, co. 4, c.p.a. e 276, co. 2, c.p.c., impone di
risolvere le questioni processuali e di merito secondo
l'ordine logico loro proprio, assumendo come prioritaria la
definizione di quelle di rito rispetto a quelle di merito, e
fra le prime la priorità dell'accertamento della ricorrenza
dei presupposti processuali (nell'ordine, giurisdizione,
competenza, capacità delle parti, ius postulandi,
ricevibilità, contraddittorio, estinzione), rispetto alle
condizioni dell'azione (tale fondamentale canone processuale
è stato ribadito da Ad. Plen. n. 10 del 2011).
13.2. L’eccezione è fondata alla luce di quanto di seguito
specificato.
13.2.1. E’ noto che ai sensi dell’art. 104, comma 3, c.p.a.,
nel giudizio di appello possono essere proposti motivi
aggiunti qualora la parte ricorrente venga a conoscenza di
nuovi documenti, dopo la conclusione del primo grado di
giudizio, e da detti documenti emergano vizi degli atti già
impugnati, senza che gli stessi siano stati prodotti dalle
altre parti nel giudizio di primo grado (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 17.07.2023, n. 6933; Cons. giust. amm. Sicilia
sez. giurisd., 04.10.2022, n. 996).
Da tale disposto normativo è dato agevolmente inferire che
la proposizione di motivi aggiunti è consentita nei limiti
in cui essi siano proposti avverso i medesimi atti già
impugnati in prime cure.
Questo Consiglio ha avuto modo a
sua volta di osservare che "ai sensi dell'art. 104, co. 3,
del d.lgs. n. 104 del 2010 le parti possono proporre motivi
aggiunti in grado d'appello al solo fine di dedurre
ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado,
dovendo rilevarsi come non ci si trovi in tale evenienza
nell'ipotesi in cui con essi si intenda impugnare nuovi atti
sopravvenuti alla sentenza di prime cure" (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 04.05.2020, n. 2792; id., sez. VI, 02.01.2018, n. 21).
La norma de qua ha pertanto codificato il pregresso
orientamento giurisprudenziale che ammette i motivi aggiunti
in grado d'appello al solo fine di dedurre vizi ulteriori
degli atti già censurati in primo grado, e non anche nella
diversa ipotesi in cui con essi s'intenda impugnare nuovi
atti sopravvenuti alla sentenza di primo grado (cfr.
Consiglio di Stato sez. VI 02.01.2018, n. 21).
La norma, costituendo un'eccezione alla regola del divieto
dei nova nel giudizio di secondo grado, non si presta ad una
lettura estensiva, che peraltro finirebbe per sovvertirne la
stessa formulazione posta dal legislatore in termini
inequivocabilmente negativi. Inoltre l'impugnazione dei
nuovi atti sopravvenuti per la prima volta e direttamente in
sede di appello violerebbe il principio del doppio grado di
giudizio (Cons. Stato, sez. IV, 16.06.2011 n. 3662).
...
14. Deve per contro essere disattesa l’eccezione di
improcedibilità dell’odierno giudizio, avanzata da
LaB., fondata sul rilievo che gli atti di presa
d’atto dell’aggiudicazione in favore del soggetto
incorporante, che si sostanzierebbero in una
riaggiudicazione, non sarebbero stati oggetto di rituale
impugnativa in prime cure, trattandosi di profilo
sconfessato non solo da Sa. ma dallo stesso Comune di
Milano.
14.1. Né si può ritenere, alla luce di quanto innanzi
rappresentato, circa la riaggiudicazione (implicita) in
favore di LaB., che l’interesse al ricorso debba
intendersi completamente traslato avverso le note di presa
d’atto e di comunicazione, oggetto di impugnativa innanzi al
Tar Lombardia, posto che, ferma la necessità che sui vizi
denunciati con il ricorso per motivi aggiunti in appello –afferenti i requisiti di partecipazione di ordine generale
del soggetto incorporante- si pronunci il giudice di prime
cure, l’eventuale illegittimità del provvedimento di
aggiudicazione in favore di Eu., oggetto dell’odierno
giudizio, non potrebbe che determinare comunque in via
automatica la caducazione della riaggiudicazione in favore
del soggetto incorporante LaB..
14.2. Può pertanto applicarsi alla fattispecie de qua la
giurisprudenza in materia secondo la quale, pur in presenza
di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi
tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi, quella
appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza
in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della
medesima sequenza procedimentale a guisa di inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, il che comporta, dunque, la
necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato,
V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e
05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Detto rapporto di presupposizione è invero ravvisabile tra
l’atto presupposto –aggiudicazione in favore del soggetto
incorporato Eu.– e l’atto consequenziale –riaggiudicazione a favore del soggetto incorporante
LaB., nella parte in cui quest’ultimo presuppone
l’esistenza e la validità del primo -non oggetto di
successivo ed autonomo vaglio- ferma restando per contro la
necessità di autonoma impugnativa della riaggiudicazione per
i profili afferenti esclusivamente ai requisiti di
partecipazione del soggetto incorporante LaB., nei
termini suindicati, in quanto non suscettibili di retroagire
sul primo atto, determinandone una sorta di illegittimità
sopravvenuta.
14.3. Pertanto, applicando tali coordinate ermeneutiche nei
termini suesposti, si ravvisa l’indicato vincolo di
presupposizione, in grado di comportare, in ipotesi di
annullamento del provvedimento oggetto del presente
contenzioso, da qualificarsi quale atto presupposto, un
effetto caducante automatico dell’atto consequenziale,
ovvero dell’implicita riaggiudicazione in favore del
soggetto incorporante LaB., per la parte avente ad
oggetto la previa aggiudicazione in favore di Eu. (atto
presupposto).
...
17.3. Il motivo è infondato, dovendosi il disciplinare di
gara interpretare in senso conforme alla previsione
dell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016 cui expressis verbis
fa rinvio.
17.4. Non ignora il collegio che secondo orientamento ormai
consolidato in giurisprudenza, a seconda che si tratti di
avvalimento c.d. garanzia ovvero di avvalimento c.d. tecnico
o operativo, diverso è il contenuto necessario del contratto
concluso tra l'operatore economico concorrente e
l'ausiliaria; in particolare, in caso di avvalimento c.d.
tecnico operativo sussiste sempre l'esigenza della concreta
messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche, e
specificamente indicate nel contratto, indispensabili per
l'esecuzione dell'appalto che l'ausiliaria ponga a
disposizione del concorrente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.10.2021, n. 6619; V, 21.07.2021, n. 5485; V, 12.02.2020, n. 1120 e le sentenze ivi richiamate; le
ragioni alla base del predetto orientamento
giurisprudenziale sono in Cons. giust. amm. Sicilia, sez.
giuris., 19.07.2021, n. 722).
E' peraltro altrettanto noto il principio (ex multis, cfr.
Cons. Stato, sez. V, 20.07.2021, n. 5464; III, 04.01.2021, n. 68, ma fissato dall'Adunanza plenaria nella
sentenza del 14.11.2016, n. 23) secondo cui l'indagine
in ordine agli elementi essenziali dell'avvalimento c.d.
operativo deve essere svolta sulla base delle generali
regole sull'ermeneutica contrattuale e in particolare
secondo i canoni enunciati dal codice civile di
interpretazione complessiva e secondo buona fede delle
clausole contrattuali (artt. 1363 e 1367 cod. civ.).
17.5. Il contratto di avvalimento pertanto non deve quindi
necessariamente spingersi, ad esempio, sino alla rigida
quantificazione dei mezzi d'opera, all'esatta indicazione
delle qualifiche del personale messo a disposizione ovvero
alla indicazione numerica dello stesso personale. Tuttavia,
l'assetto negoziale deve consentire quantomeno
"l'individuazione delle esatte funzioni che l'impresa
ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio
all'impresa ausiliata, e i parametri cui rapportare le
risorse messe a disposizione" (Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2017, n. 3682); deve cioè prevedere, da un lato, la
messa a disposizione di personale qualificato, specificando
se per la diretta esecuzione del servizio o per la
formazione del personale dipendente dell'impresa ausiliata,
dall'altro i criteri per la quantificazione delle risorse
e/o dei mezzi forniti (cfr. Cons. Stato, sez. III, 30.06.2021, n. 4935 Cons. Stato Sez. V, Sent., 10.01.2022, n.
169).
17.5.1. Inoltre questa Sezione ha altresì affermato il
principio ( Consiglio di Stato, sez. V. 22/02/2021 n. 1514)
per cui “L’elemento caratterizzante [l’avvalimento] non è
limitato a un mero “prestito” formale di personale e/o di
macchinari e/o di beni strumentali necessariamente,
sganciato dalla relativa organizzazione aziendale […] anche
se il suo effetto –relativamente al rapporto di appalto-
consiste nell’imputazione giuridica ed economica delle
prestazioni che ne sono oggetto direttamente all’impresa
concorrente, che, a tal fine, si avvale dell’ausiliaria” (Cons.
Stato, V, 16.03.2018, n. 1698) e che pertanto nel caso di
ricorso all’istituto dell’avvalimento, è ben possibile “che,
nel singolo contratto, sia previsto, quando si tratti di
c.d. avvalimento tecnico-operativo, l’impiego non di un
singolo elemento della produzione, bensì dell’azienda intesa
come complesso produttivo unitariamente considerato (o di un
ramo di essa). Di questa l’ausiliaria non perde la
detenzione, pur mettendola a disposizione, in tutto o in
parte, per l’utilizzazione dell’ausiliata, secondo le
previsioni del contratto di avvalimento, approvate dalla
stazione appaltante” (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 07.02.2024 n. 1263 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una scala in ferro per
consentire l'accesso ad un terrazzo costituisce intervento
per il quale non è richiesto il preventivo rilascio del
permesso di costruire.
Infatti, tale opera, finalizzata a consentire l'utilizzo del
solaio di copertura di un immobile, non determina una
significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, ma si configura piuttosto come mera pertinenza,
essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio
principale, funzionalmente inserita al servizio dello
stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e
caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire
una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio
dell'immobile al quale accede e, comunque, tale da non
comportare un aumento del carico urbanistico.
Nel caso in esame la scala di cui è contestata la
realizzazione è costituita da una struttura mobile, ossia
priva di un collegamento strutturale con l’abitazione,
inidonea a modificarne la sagoma e il prospetto, e, in
ragione della sua conformazione, destinata ad essere
agevolmente spostata, essendo ancorata ad una pedana dotata
di ruote: le caratteristiche ora evidenziate inducono,
pertanto a ritenere che non necessitasse di un permesso di
costruire, come invece adombrato dall’amministrazione che ha
emesso l’ingiunzione ai sensi dell’art. 31, d.P.R. 380/2001.
---------------
... per l'annullamento dell’ingiunzione di demolizione di
una scala esterna - provvedimento del 09.08.2023, prot. n.
0508, del responsabile del settore IV “Urbanistica ed
edilizia - Attività produttive” del Comune di Santa
Marinella;
...
1. Con ordinanza prot. n. 508 del 09.08.2023, il Comune di
Santa Marinella ingiungeva alle ricorrenti di effettuare la
demolizione di opere realizzate abusivamente (“scala a
chiocciola, in ferro zincato di colore bianco, di larghezza
pari a mt. 1,40 ed altezza pari a mt. 3,50, ancorata con
piastre in ferro e bulloni ad una pedana in ferro montata su
ruote, che consente di accedere dal giardino al solaio di
copertura del portico prospiciente l’ingresso
dell’abitazione”) e di rimettere in pristino lo stato dei
luoghi presso l’immobile ubicato al lungomare ... n. 9,
distinto in catasto al foglio 22, p.lla 28, sub. 501.
2. Con ricorso notificato in data 24.10.2023 e depositato in
data 02.11.2023, le ricorrenti esponevano:
- che De Ma.Da. e le figlie Sa.Lu. e Sa.Gi. sono proprietarie della suddetta unità immobiliare,
risalente agli anni ‘30, alla quale si accede
dall’antistante giardino pertinenziale attraverso un portico
a copertura piana;
- che la copertura del portico ed il tetto a tegole sono
raggiungibili, per qualunque esigenza, esclusivamente dal
giardino;
- che De Ma.Da. aveva posizionato nel giardino una
scala a piattaforma mobile e di arredo, con struttura autoportante, realizzata con elementi di esigua dimensione
(tubolari in ferro verniciato di diametro 8 cm con altezza
variabile, 3 mt. nel punto più alto) dotata di ruote e fermi
di sicurezza a vite che ne consentono, all’occorrenza,
l’agevole spostamento all’interno dell’ampio giardino
pertinenziale (di circa mq. 1.300).
Tanto premesso, impugnavano la suddetta ordinanza, sulla
base dei seguenti motivi di diritto.
...
2.2. “Violazione di legge (violazione e
falsa applicazione artt. 3, 6, co. 1, lett. e-bis), 22, 31, 36 e
37 del d.P.R. n. 380 del 2001). Eccesso di potere per
sviamento e travisamento dei fatti, difetto di istruttoria,
illogicità e contraddittorietà degli atti, motivazione
incongrua e contraddittoria, manifesta ingiustizia.
Violazione del procedimento: artt. 10 e 11 della L. n.
241/1990”.
Evidenziava la parte ricorrente che la scala su piattaforma
mobile in questione (diretta a soddisfare esigenze
contingenti e temporanee, e destinata ad essere
immediatamente spostata al cessare della necessità di
accesso) non costituisce manufatto o intervento edilizio e,
contrariamente a quanto assunto dall’amministrazione
resistente mediante il richiamo all’art. 31 del D.P.R.
380/2001, non necessita del rilascio del permesso di
costruire.
Denunciava comunque che la suddetta ingiunzione denotava una
valutazione affrettata ed errata, ed era affetta da carenza
di motivazione.
Allegava che l’ordine di demolizione non era stato preceduto
dalla notifica di un accertamento motivato, tale da
consentire un preventivo contraddittorio in sede
amministrativa.
...
5. Ritiene il Collegio di poter esaminare anzitutto il
secondo motivo di ricorso, in base all’orientamento
secondo cui «Il principio della ragione più liquida
consente di derogare all'ordine logico di esame delle
questioni portate al vaglio dell'organo giurisdizionale e,
qualora le questioni vagliate esauriscano la vicenda
sottoposta al giudice amministrativo, aderendo al principio
sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato,
gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati
vengono ritenuti non rilevanti ai fini della decisione»
(Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2023, n. 951).
6. Il motivo è fondato.
È condivisibile infatti l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa secondo cui la realizzazione di una scala in
ferro per consentire l'accesso ad un terrazzo costituisce
intervento per il quale non è richiesto il preventivo
rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tale opera, finalizzata a consentire l'utilizzo del
solaio di copertura di un immobile, non determina una
significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, ma si configura piuttosto come mera pertinenza,
essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio
principale, funzionalmente inserita al servizio dello
stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e
caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire
una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio
dell'immobile al quale accede e, comunque, tale da non
comportare un aumento del carico urbanistico. (TAR
Campania-Salerno, sez. I, 24/07/2013, n. 1680).
Nel caso in esame la scala di cui è contestata la
realizzazione è costituita da una struttura mobile, ossia
priva di un collegamento strutturale con l’abitazione,
inidonea a modificarne la sagoma e il prospetto, e, in
ragione della sua conformazione, destinata ad essere
agevolmente spostata, essendo ancorata ad una pedana dotata
di ruote (cfr. fotografie depositate in atti): le
caratteristiche ora evidenziate inducono, pertanto a
ritenere che non necessitasse di un permesso di costruire,
come invece adombrato dall’amministrazione che ha emesso
l’ingiunzione ai sensi dell’art. 31, d.P.R. 380/2001 (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 06.02.2024 n. 2261 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Parere di regolarità tecnica espresso dal responsabile del
servizio ex art. 49 TUEL – Natura – Parere non vincolante –
Collocazione endoprocedimentale – Impugnazione –
Inammissibilità.
Va dichiarata l’inammissibilità del
ricorso proposto avverso il parere formulato dal
responsabile del competente servizio comunale.
Tale parere risulta acquisito ai sensi dell’art. 49 del DLgs
18.08.2000, n. 267, a mente del quale: “1. Su ogni proposta
di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che
non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il
parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del
responsabile del servizio interessato e, qualora comporti
riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del
responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile. [omissis] 4. Ove la Giunta o il Consiglio non
intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo,
devono darne adeguata motivazione nel testo della
deliberazione”.
Oltre a rammentare che per consolidata giurisprudenza questi
pareri rilevano solo sul piano interno (tant’è che la loro
assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in
un vizio di legittimità), è dirimente rimarcare la natura
non vincolante del parere tecnico, dal quale (come la norma
precisa) la Giunta e il Consiglio possono discostarsi, sia
pure fornendo idonea motivazione.
Trattasi, quindi, di un parere che, per la sua collocazione
endoprocedimentale e per l'assenza di efficacia esterna, è
inidoneo a concretizzare quella lesione della situazione
giuridica soggettiva facente capo alla ricorrente necessaria
per la nascita dell'interesse a ricorrere.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
(per quanto riguarda il ricorso introduttivo):
1) della nota prot. n. 3442 del 15/03/2019 del Dirigente del
Servizio Urbanistica del Comune di Cardito, con la quale,
con riferimento alla pratica edilizia 623/2017 del
05.05.2017 relativa ad approvazione di PUA presentata dalla
ricorrente, si esprime diniego definitivo;
...
1 - Il ricorso introduttivo ha ad oggetto la legittimità del
parere contrario espresso dal Dirigente del servizio
urbanistica del Comune di Cardito in merito all’adozione e
approvazione da parte della Giunta Comunale del PUA ad
iniziativa privata presentato dalla società ricorrente (di
seguito, “Vi.”) con istanza n. prot. 5931/2017, con
riferimento alla realizzazione di edificazione residenziale
su lotto di sua proprietà in ct. al fg. 2, p.lle nn. 897 e
899 (zona C2, lato ovest).
La proposta di piano segue una precedente proposta
presentata dalla ricorrente nel 2011 e respinta
dall’Amministrazione con d.G.C. n. 164/2012, la quale ha
resistito all’impugnativa esperita dalla Vi. (cfr. sent. n.
967/2016 in atti).
...
6 - In limine litis, va dichiarata l’inammissibilità
del ricorso introduttivo proposto avverso il parere
formulato dal responsabile del competente servizio comunale.
Tale parere risulta acquisito ai sensi dell’art. 49 del
Decreto Legislativo 18.08.2000, n. 267, a mente del quale: “1.
Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e
al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere
richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica,
del responsabile del servizio interessato e, qualora
comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del
responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile. [omissis] 4. Ove la Giunta o il Consiglio non
intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo,
devono darne adeguata motivazione nel testo della
deliberazione”.
Oltre a rammentare che per consolidata giurisprudenza questi
pareri rilevano solo sul piano interno (tant’è che la loro
assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in
un vizio di legittimità - cfr. Cons. Stato, Sez. V,
11.06.2013 n. 3236 che richiama quali precedenti conformi
Cons. St., sez. IV, 26.01.2012, n. 351; sez IV, 22.06.2006,
n. 3888; n. 1567 del 2001; 23.04.1998, n. 670), è dirimente
rimarcare la natura non vincolante del parere tecnico, dal
quale (come la norma precisa) la Giunta e il Consiglio
possono discostarsi, sia pure fornendo idonea motivazione.
Trattasi, quindi, di un parere che, per la sua collocazione
endoprocedimentale e per l'assenza di efficacia esterna, è
inidoneo a concretizzare quella lesione della situazione
giuridica soggettiva facente capo alla ricorrente necessaria
per la nascita dell'interesse a ricorrere (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2024 n. 919 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI:
Accesso civico, illegittimo il «no» all’istanza sull’esecuzione
di un’opera pubblica.
Consentito a chiunque di conoscere atti e decisioni della Pa anche ulteriori
rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria.
Fatti salvi i limiti (di stretta interpretazione) sanciti dall’articolo
5-bis del Dlgs 39/2013, l’accesso civico generalizzato consente a chiunque
di conoscere atti e decisioni della Pa anche ulteriori rispetto a quelli
oggetto di pubblicazione obbligatoria per consentire la partecipazione al
dibattito pubblico e il controllo democratico dell’attività amministrativa,
senza necessità di verificare la legittimazione del soggetto richiedente.
Di conseguenza, nel caso di un'istanza riguardante l'accesso alle fasi di un
procedimento di esecuzione di un'opera pubblica, il Comune non può
evocare l'ipotesi di abuso del diritto all'accesso civico generalizzato e
opporre un diniego all'istanza per il fatto di ritenerla strumentale,
pretestuosa
e d'intralcio al buon funzionamento degli uffici dell'ente.
Lo ha stabilito
il
Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza
02.02.2024 n. 1117.
Il fatto
Nel caso
in esame alcuni cittadini si erano rivolti a un Comune campano per acquisire
una fitta mole di documentazione relativa alla progettazione ed esecuzione
di un intervento di riqualificazione di un edificio storico, parzialmente
finanziato dal ministero dell'Interno.
I cittadini si dolevano di una
presunta e
improvvisa trasformazione delle modalità dell'intervento (da miglioramento
sismico e messa in sicurezza a integrale
demolizione e successiva ricostruzione del plesso), per cui formulavano
istanza all'ente locale per ottenere
l'estrazione di copia di tutti i documenti relativi all'intervento in
questione, e in particolare:
- i pareri allegati al progetto
definitivo ed esecutivo;
- la corrispondenza intercorsa tra il Comune
beneficiario del finanziamento e il ministero che
lo erogava;
- le attestazioni e/o dichiarazioni rese dal sindaco o dal Rup in
merito all'ottenimento del finanziamento;
-
l'accordo/convenzione/contratto stipulato tra il Comune e l'ente
finanziatore.
A fronte di una siffatta istanza il
Comune opponeva un reiterato diniego evocando la figura giuridica dell'abuso
del diritto all'accesso civico
generalizzato in quanto il gruppo di cittadini, ad avviso
dell'amministrazione, fondava le proprie richieste
esclusivamente su mere e indimostrate illazioni circa la possibile perdita
del finanziamento ministeriale.
L'ente
aggiungeva poi che l'ampia e ingiustificata ostensione documentale sarebbe
stata causa di intralcio al buon
funzionamento della Pa. Al che gli interessati impugnavano il diniego
dell'ente e il Tar Campania (Sezione II,
decisione n. 1618/2023) accoglieva il ricorso censurando in toto l'operato
comunale.
La carenza di motivazione
I
giudici hanno osservato che la motivazione addotta dall'ente nel
provvedimento di diniego non ha indicato le ragioni
ostative all'accesso generalizzato, tenuto conto del fatto che, in relazione
all'articolo 5-bis «il legislatore non opera,
come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva
individuazione di esclusioni all'accesso
generalizzato, ma rinvia ad una attività valutativa che deve essere
effettuata dalle amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per
caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di
altrettanti validi interessi presi in considerazione dall'ordinamento» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
13.02.2024).
---------------
SENTENZA
L’appello non è fondato.
Con un primo mezzo di gravame il comune appellante deduce: “error
in judicando - violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. l.
07.08.1990 n. 241 e s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e
s.m.i. - difetto e, comunque, erroneita’ della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, il giudice di primo grado avrebbe errato
nel disattendere l’eccezione di inammissibilità, formulata dal comune in
primo grado e fondata sul rilevo della mancata impugnazione, nei termini di
legge, dell’unico e solo provvedimento di diniego espresso, emesso dal
Responsabile dell’U.T.C. con nota prot. del 24.11.2022, atteso che la
successiva nota del Responsabile dell’U.T.C. prot. n. 786 del 14.02.2023
costituirebbe, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, un
atto meramente confermativo del precedente diniego prot. n. 6138 del
24.11.2022.
La premessa, da cui muove il comune appellante, è quella secondo cui la mera
reiterazione di una richiesta di accesso agli atti, già oggetto di un
provvedimento di rifiuto, che non sia basata su elementi nuovi rispetto alla
richiesta originaria o su una diversa prospettazione dell’interesse a base
della posizione legittimante l’accesso, non vincola l’amministrazione ad un
riesame della stessa e rende legittimo e non autonomamente impugnabile il
provvedimento meramente confermativo del precedente rigetto.
Dall’accoglimento di tale premessa la parte appellante fa pertanto
discendere l’inammissibilità del ricorso di primo grado, essendo stato lo
stesso esperito a fronte di un atto meramente confermativo del primo
diniego, non impugnato.
L’assunto della parte appellante, pur essendo astrattamente condivisibile,
in quanto conforme alla constante giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons.
St., Sez. IV, 13.01.2020 n. 279 e, nello stesso senso, Cons. St., Sez. IV,
22.09.2020 n. 5549), non può trovare applicazione alla fattispecie oggetto
del presente giudizio, in relazione alla quale, contrariamente a quanto
ritenuto nel primo motivo di appello, non viene in rilievo una mera
reiterazione della prima richiesta di accesso documentale, in assenza di
nuovi elementi, ma una nuova richiesta di accesso basata sul diverso
istituto dell’accesso civico generalizzato.
L’accesso civico generalizzato, come noto, costituisce un diritto
fondamentale che contribuisce al miglior soddisfacimento degli altri diritti
fondamentali che l’ordinamento giuridico riconosce alla persona.
La natura fondamentale del diritto di accesso generalizzato rinviene,
infatti, fondamento, oltre che nella Carta costituzionale (artt. 1, 2, 97 e
117) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 42),
anche nell’art. 10 della CEDU, in quanto la libertà di espressione include
la libertà di ricevere informazioni e le eventuali limitazioni, per tutelare
altri interessi pubblici e privati in conflitto, sono solo quelle previste
dal legislatore, risultando la disciplina delle eccezioni coperta da riserva
di legge.
L’accesso civico generalizzato si traduce nel diritto della persona a
ricercare informazioni, quale diritto che consente la partecipazione al
dibattito pubblico e di conoscere i dati e le decisioni delle
amministrazioni al fine di rendere possibile quel controllo “democratico”
che l’istituto intendere perseguire.
La conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative
consente, infatti, la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza
tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione
(accountability) della classe politica e dirigente del Paese.
Ai fini dell’accesso civico generalizzato, inoltre, non occorre verificare,
così come per l’accesso documentale, la legittimazione dell’accedente, né è
necessario che la richiesta di accesso sia supportata da idonea motivazione.
L’accesso civico “generalizzato”, infatti, consente, contrariamente a
quello documentale, a “chiunque” di visionare ed estrarre copia
cartacea o informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto
di pubblicazione obbligatoria (articolo 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n.
33).
Per effetto dell’adesione dell’ordinamento al modello di conoscibilità
generalizzata delle informazioni amministrative proprio dei cosiddetti
sistemi FOIA (Freedom of information act), l’interesse conoscitivo
del richiedente è elevato al rango di un diritto fondamentale (cosiddetto “right
to know”), non altrimenti limitabile se non in ragione di contrastanti
esigenze di riservatezza espressamente individuate dalla legge, mentre
l’accesso documentale (e ancor di più quello difensivo) risponde al
paradigma del “need to know”, con tutto ciò che ne consegue in punto
di
Dalle considerazioni che precedono emerge la netta distinzione, sul piano
strutturale e funzionale, tra l’istituto dell’accesso documentale e quello
civico generalizzato, da cui ulteriormente discende la legittima facoltà di
azionare il secondo anche quando non sussistono ( o non sussistono più) i
presupposti per esercitare il primo.
Con un secondo mezzo di gravame il comune appellante deduce: “error
in judicando - violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. l.
07.08.1990 n. 241 e s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e
s.m.i. - difetto e, comunque, erroneità della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, la sentenza di primo grado sarebbe erronea
per avere il giudice di primo grado apoditticamente ritenuto “sussistenti”
tutti i presupposti per l’accoglimento dell’istanza di accesso ai sensi
dell’art. 5, d.lgs. n. 33/2013.
Ciò, in quanto l’istanza di accesso del 02.02.2023 e, ancor di più, la
successiva domanda giurisdizionale, lungi dal raggiungere un benché minimo
grado di concretezza, sarebbero fondate soltanto su mere e indimostrate “illazioni”
circa la possibile perdita del finanziamento e come tali si rileverebbero
del tutto pretestuose.
Inoltre, tali richieste di accesso sarebbero state formulate in modo del
tutto disfunzionale rispetto alla finalità che si propongono di realizzare,
trasformandosi, in ragione dell’ampia e ingiustificata ostensione
documentale, in una causa di intralcio al buon funzionamento della P.A.,
tale da compromettere lo svolgimento degli ordinari compiti di ufficio che
già spettano al funzionario comunale
Il motivo non è fondato.
Per individuare l’ambito di estensione e gli eventuali limiti dell’accesso
civico generalizzato si possono richiamare i principi espressi nel parere
della sez. I del Consiglio di Stato 30.03.2021, n. 545.
È stato in precedenza ricordato che l’accesso civico “generalizzato”
consente a “chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o
informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione obbligatoria (art. 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
L’accesso civico generalizzato è azionabile da chiunque, senza previa
dimostrazione di un interesse, concreto e attuale in relazione con la tutela
di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal
senso (tra le tante, Cons. Stato,
sez. V, 04.01.2021, n. 60; sez. VI, 05.10.2020, n. 5861).
E’ stato precisato (Cons. Stato, sez. VI, 05.10.2020, n. 5861) che
con l’accesso civico generalizzato il legislatore ha inteso superare
il divieto di controllo generalizzato sull’attività delle pubbliche
amministrazioni, su cui è incentrata la disciplina dell’accesso di cui agli
artt. 23 e ss., l. 07.08.1990, n. 241, così che l’interesse individuale alla
conoscenza è protetto in sé, ferme restando le eventuali contrarie ragioni
di interesse pubblico o privato di cui alle eccezioni espressamente
stabilite dalla legge a presidio di determinati interessi ritenuti di
particolare rilevanza per l’ordinamento giuridico.
E’ stato altresì puntualizzato che il rapporto tra le due
discipline (dell’accesso documentale e dell’accesso civico generalizzato,
oltre il rapporto tra tali due discipline generali e quelle settoriali) deve
essere interpretato non già secondo un criterio di esclusione reciproca,
quanto piuttosto di inclusione/completamento, finalizzato all’integrazione
dei diversi regimi in modo che sia assicurata e garantita, pur nella
diversità dei singoli regimi, la tutela preferenziale dell’interesse
coinvolto che rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia
delle singole discipline (cfr.
Adunanza Plenaria 10/2020).
La regola della generale accessibilità è peraltro temperata
dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati
che possono subire un pregiudizio dalla diffusione generalizzata di talune
informazioni.
Tali eccezioni, previste dall'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, sono
state classificate in assolute e in relative e al loro
ricorrere le Amministrazioni devono (nel primo caso) o possono (nel secondo)
rifiutare l'accesso.
Le eccezioni assolute al diritto di accesso generalizzato sono quelle
individuate all'art. 5-bis, comma 3
(segreto di Stato e altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti
dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti,
inclusi quelli di cui all'art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990),
mentre quelle relative sono previste ai commi 1 e 2 del
medesimo articolo (la sicurezza
pubblica e l'ordine pubblico; la sicurezza nazionale; la difesa e le
questioni militari; le relazioni internazionali; la politica e la stabilità
finanziaria ed economica dello Stato; la conduzione di indagini sui reati e
il loro perseguimento; il regolare svolgimento di attività ispettive; la
protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa
in materia; la libertà e la segretezza della corrispondenza; gli interessi
economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la
proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali).
Nel caso delle eccezioni relative, nelle Linee guida
Anac, adottate con deliberazione n. 1309 del 28.12.2016
(recanti le indicazioni operative e le esclusioni e i limiti all'accesso
civico generalizzato), è stato chiarito che il legislatore
non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva
individuazione di esclusioni all'accesso generalizzato, ma rinvia ad una
attività valutativa che deve essere effettuata dalle Amministrazioni con la
tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l'interesse pubblico alla
disclosure generalizzata e la tutela di altrettanti validi interessi
presi in considerazione dall'ordinamento.
L'Amministrazione deve pertanto verificare, una volta
accertata l'assenza di eccezioni assolute, se l'ostensione degli atti
possa comunque determinare un pericolo di concreto pregiudizio agli
interessi indicati dal Legislatore.
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, il Collegio rileva che dalla
analisi della motivazione del provvedimento di diniego si ricava l’assenza
di qualsivoglia riferimento ad una delle suindicate ragioni che precludono i
diritti all’accesso generalizzato.
Più in radice, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, in
riferimento all’istanza presentata ai sensi dell’accesso civico
generalizzato, di fatto, il comune non si è proprio pronunciato. Il che
appare già sufficiente per la conferma della sentenza impugnata.
Peraltro, nemmeno può essere condiviso l’assunto che, nel caso in esame, si
verserebbe nell’ipotesi di abuso del diritto all’accesso civico
generalizzato.
Come noto, l’abuso del diritto, secondo la definizione più
accreditata anche in dottrina, consiste nella deviazione dell'esercizio del
diritto rispetto allo "scopo" per il quale il diritto stesso è stato
riconosciuto.
Orbene, dalla natura degli atti richiesti al Comune di Cotrone (relativi al
procedimento di riqualificazione di un edificio storico) emerge,
contrariamente a quanto ritenuto dal comune appellante, non solo la
ragionevole esigenza conoscitiva dei ricorrenti in primo grado, ma, venendo
in rilievo l’utilizzo di risorse pubbliche, anche la conformità della
richiesta documentale alle finalità cui è preordinata la previsione dello
strumento dell’accesso civico generalizzato, che, come anticipato, mira, a
favorire forme di diffuse di controllo sull’ esercizio dei pubblici poteri.
Il riferimento, infine, alla possibile paralisi dell’ufficio tecnico
comunale a fronte della massiva richiesta di accesso, costituisce, ad avviso
del Collegio, una inammissibile integrazione in giudizio della motivazione
del provvedimento di diniego dell’accesso.
Il maggioritario e condivisibile indirizzo interpretativo
del Consiglio di Stato assume, infatti, l’inammissibilità della motivazione
postuma (specie quando, come nel caso in esame, avviene per il tramite degli
scritti difensivi), ritenendola in contrasto anche con le regole del giusto
procedimento amministrativo.
Tale condivisibile orientamento trae ulteriore argomento
dalla condivisibile considerazione per cui «il difetto di motivazione nel
provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di
norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, un presidio di
legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento
ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non
invalidanti» (ex plurimis,
Consiglio di Stato, sezione terza, 07.04.2014, n. 1629; sezione sesta,
22.09.2014, n. 4770; sezione terza, 30.04.2014, n. 2247; sezione quinta,
27.03.2013, n. 1808).
L’indirizzo giurisprudenziale in esame ha ricevuto, inoltre, l’autorevole
avallo della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato, con l’ordinanza
26.05.2015, n. 92, la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 21-octies, comma 2, della n. 241 de
1990, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo
comma, della Costituzione, da una sezione giurisdizionale regionale della
Corte dei conti, motivando, tra l’altro, che la rimettente si era sottratta
al doveroso tentativo di sperimentare l’interpretazione costituzionalmente
orientata della disposizione censurata, chiedendo un improprio avallo a una
determinata interpretazione della norma censurata.
Dalle considerazioni che precedono discende il respingimento dell’appello
con conseguente conferma della sentenza impugnata. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Obbligo per la Pa di adottare il provvedimento espresso anche quando gode di
ampia discrezionalità.
Non può si può applicare la preclusione prevista per gli atti amministrativi
generali.
L’amministrazione può essere condannata all’adozione di un provvedimento
espresso anche laddove il potere sia connotato da ampia discrezionalità.
Lo
afferma la III Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza 01.02.2024 n. 1061.
Il caso
A seguito della carenza di organico presso un ufficio del giudice di
pace, alcuni enti e avvocati hanno rivolto istanza al ministero della
giustizia
affinché coprisse i posti in pianta organica e avviasse la procedura di
rideterminazione della stessa.
Non avendo il ministero fornito risposta,
hanno impugnato il silenzio-inadempimento, che il Tar Toscana ha dichiarato
inammissibile perché si tratta di attività ampiamente discrezionale in
quanto
diretta a verificare l'adeguatezza delle risorse assegnate.
Il Consiglio di
Stato,
a cui è passata la vertenza, ricorda in premessa il costante orientamento
giurisprudenziale, che costituisce principio generale, secondo cui è obbligo
della Pa adottare un provvedimento espresso sull'istanza del soggetto
interessato anche se si ritiene che la domanda sia irricevibile,
inammissibile,
improcedibile o infondata, non potendo la Pa rimanere inerte.
La
discrezionalità
L'applicazione al caso di specie di tali coordinate
ermeneutiche induce i giudici di Palazzo Spada a dichiarare fondato
l'appello. Non può infatti essere applicata la
preclusione prevista per gli atti amministrativi generali, che non deve
essere intesa in senso assoluto, acritico e
generalizzato, posto che la sua ratio risiede nella impossibilità di
individuare specifici destinatari in capo ai quali
possa radicarsi una posizione giuridica qualificata e differenziata di
interesse legittimo.
Non è questo il caso
proposto dall'appello, riferito a specifiche interruzioni dei servizi
giudiziari che avevano precluso l'efficace esercizio
della professione forense.
D'altro canto, l'articolo 2 del Dlgs 165/2001 impone alle Pa di determinare
le dotazioni
organiche inspirando la loro organizzazione al criterio di funzionalità
rispetto ai compiti e ai programmi di attività;
l'articolo 6 inoltre dispone che in sede di definizione del piano dei
fabbisogni di personale l'amministrazione indichi la
consistenza della dotazione organica e la sua eventuale rimodulazione in
base ai fabbisogni programmati.
È del
tutto evidente, dunque, che sull'istanza l'amministrazione avrebbe dovuto
pronunciarsi con un provvedimento
espresso, ancorché connotato da ampio margine di discrezionalità.
Ma in virtù di tale margine, il giudice non può
spingersi a verificare l'adeguatezza delle risorse assegnate agli uffici
amministrativi, può solo ordinare al ministero di
dare pieno riscontro all'istanza originaria. Ed è quello che fa
nell'accogliere l'appello: accerta il silenzio-inadempimento
del ministero e lo condanna a provvedere sull'istanza nel termine di trenta
giorni (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024).
---------------
SENTENZA
1. A seguito di una situazione di carenza di organico presso l’ufficio del
giudice di pace di Prato, che ha condotto ad una sensibile riduzione dei
servizi (sospensione del servizi di iscrizione a ruolo dei decreti per
ingiunzione di pagamento), gli enti e i singoli avvocati indicati in
epigrafe hanno rivolto istanza al Ministero della Giustizia affinché
coprisse i posti in pianta organica ed avviasse la procedura di
rideterminazione della stessa.
Non avendo il Ministero fornito risposta, hanno impugnato davanti al TAR
della Toscana il silenzio-inadempimento.
Il TAR della Toscana, con la sentenza gravata nel presente giudizio, ha
dichiarato “inammissibile
l’azione proposta”, sia perché
trattasi di attività “ampiamente discrezionale” (la prima), sia
perché, ove si volesse intendere l’istanza come rivolta “all’emanazione
dei cd. atti di gestione del rapporto di lavoro pubblico”, si
profilerebbe un difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
I ricorrenti hanno impugnato la sentenza con ricorso in appello.
...
2. Il gravame censura la sentenza di primo grado anzitutto per travisamento
dell’atto di diffida, in punto di qualificazione data alla pretesa dal primo
giudice, il che ha reso la pronuncia “incomprensibile ed illogica”.
Il TAR avrebbe quindi male inteso ed applicato il precedente in termini
costituito dalla sentenza del TAR Abruzzo n. 46 del 2023, non impugnata
dall’amministrazione e passata in autorità di cosa giudicata, che ha accolto
analogo ricorso.
3. Per quanto riguarda l’istanza volta alla copertura dei posti in pianta
organica, il TAR, richiamando la citata sentenza n. 46 del 2023 del TAR
dell’Abruzzo, ha affermato che “il precedente giurisprudenziale sopra
richiamato ha, infatti, concluso per la natura ampiamente discrezionale
della verifica in ordine all’adeguatezza delle risorse amministrative
assegnate all’Organo giudiziario e la conseguenziale impossibilità di
ordinare al Ministero la copertura degli organici: “poiché la verifica
dell’adeguatezza delle risorse assegnate agli uffici amministrativi
costituisce esercizio di attività ampiamente discrezionale e avviene con
cadenza periodica, il collegio non può ordinare, come richiesto dal
ricorrente, al Ministero di provvedere alla copertura della dotazione
organica cristallizzata nel d.m. 05.11.2009” (TAR Abruzzo L’Aquila,
21.03.2023, n. 46).
Con tutta evidenza, siamo pertanto nel solco della giurisprudenza citata
nella memoria dell’Amministrazione resistente e che ha escluso il possibile
ricorso al processo speciale in materia di silenzio della p.a. con
riferimento a provvedimenti generali o pianificatori caratterizzati dalla
natura ampiamente discrezionale (Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2017, n. 6096;
sez. V, 09.03.2015, n. 1182; sez. IV, 05.03.2013, n. 1349) e dalla mancanza
di un conseguenziale obbligo di provvedere giudizialmente coercibile”.
Nello stesso ordine di idee l’amministrazione appellata in memoria ha
affermato che la domanda di copertura della pianta organica “è atto
complesso ad alto contenuto discrezionale, implicante non soltanto atti di
gestione, come assunto nell’appello”; analogamente, “il silenzio
sulla domanda di modifica della pianta organica —domanda che emerge dagli
atti, anche se praticamente abbandonata nel corso del giudizio introduttivo
e non coltivata nell’appello— non è azionabile in ragione della natura
giuridica degli atti di rideterminazione delle piante organiche”.
4. Va in proposito osservato che -contrariamente ai più risalenti arresti,
soprattutto di primo grado, richiamati in senso opposto dalla motivazione
della sentenza gravata- per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio
di Stato (da ultimo sentenze n. 4415/2023, n. 5206/2023 e n. 7912/2023) “il
rito previsto dagli artt. 31 e 117 c.p.a. rappresenta infatti sul piano
processuale lo strumento rimediale per la violazione della regola
dell'obbligo di agire in via provvedimentale sancita dall'art. 2, L. n. 241
del 1990”.
La violazione della citata disposizione che, sul piano sostanziale, ha
sancito l’obbligo per l’amministrazione di agire in via provvedimentale,
costituisce pertanto il presupposto del rimedio processuale in questione.
L’obbligo per la pubblica amministrazione di agire in via provvedimentale,
discendente dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, ha ad oggetto anche
l’attività discrezionale (ad eccezione delle categorie di provvedimenti che
solitamente la giurisprudenza esclude non già in quanto discrezionali, ma
perché sottratti per altre caratteristiche strutturali o funzionali
all’obbligo di provvedere: sul punto si tornerà al successivo punto 5.).
5. La sentenza di questa Sezione n. 7548/2022 ha in proposito precisato che
“Per costante orientamento giurisprudenziale,
costituisce principio generale, riconducibile ai canoni di trasparenza e
buona amministrazione ex art. 97 Cost. ed alla disposizione normativa di cui
all'art. 2, comma 3 della L. n. 241 del 1990, quello secondo cui è obbligo
della Pubblica Amministrazione adottare un provvedimento espresso
sull'istanza del soggetto interessato
(cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, 14.12.2004, n. 7955).
Ciò anche al fine di assicurare la trasparenza dell'azione
e dei comportamenti dell'Amministrazione e favorire lo svolgimento
imparziale del procedimento (cfr.
Cons. Giust. Amm. Sicilia, 08.11.2005, n. 747).
L'obbligo dell'amministrazione pubblica di provvedere sulle
istanze del privato con un provvedimento formale corrisponde ad un principio
di civiltà giuridica, codificato dalla legge generale sul provvedimento
amministrativo 07.08.1990, n. 241 art. 2, che trasmette un forte segnale in
ordine alla doverosità dell'espresso agire della pubblica amministrazione,
collegato al necessario raggiungimento della definizione, in senso positivo
o negativo, di quella quota di interesse sostanziale concretamente messo in
moto dall'atto di impulso del privato ed in esso soggettivizzata
(cfr. TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, 04.10.2010, n. 32659).
In presenza di una formale istanza l'Amministrazione è
tenuta a concludere il procedimento, e ciò anche se ritiene che la domanda
sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo
rimanere inerte. Il legislatore, infatti, ha imposto al soggetto pubblico di
rispondere alle istanze private, sancendo l'esistenza di un dovere che
rileva ex se quale diretta attuazione dei principi di correttezza, buon
andamento e trasparenza, consentendo altresì alle parti, attraverso
l'emanazione di un provvedimento espresso, di tutelare in giudizio i propri
interessi a fronte di provvedimenti ritenuti illegittimi
(cfr. Cons. Stato, Sez. III, 23.02.2022, n. 1283; Cons. Stato, Sez. III,
13.07.2021, n. 5284; Cons. Stato. Sez. III, 19.04.2018, n. 2370; Cons.
Stato, Sez. III, 18.05.2020, n. 3118)”.
In senso analogo si è espressa la sentenza della VI sezione di questo
Consiglio di Stato, n. 2420/2022: “Ogniqualvolta la
realizzazione della pretesa sostanziale vantata dal privato dipenda
dall'intermediazione del pubblico potere, l'Amministrazione, in particolare,
è tenuta ad assumere una decisione espressa, anche qualora si faccia
questione di procedimenti ad istanza di parte e l'organo procedente ravvisi
ragioni ostative alla valutazione, nel merito, della relativa domanda:
l'attuale formulazione dell'art. 2, comma 1, L. n. 241 del 1990, pure in
caso di "manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità … della
domanda", impone l'adozione di un provvedimento espresso, consentendosi in
tali ipotesi soltanto una sua redazione in forma semplificata, ma non
giustificandosi una condotta meramente inerte.
Il silenzio-inadempimento non può, invece, configurarsi in presenza di
posizioni giuridiche di diritto soggettivo, aventi ad oggetto un'utilità
giuridico economica attribuita direttamente dal dato positivo, non
necessitante dell'intermediazione amministrativa per la sua acquisizione al
patrimonio giuridico individuale della parte ricorrente”.
6. L’applicazione alla fattispecie dedotta di tali coordinate ermeneutiche
depone nel senso della fondatezza del gravame. |
APPALTI:
Gare telematiche e malfunzionamenti delle piattaforme: le
indicazioni del Tar.
È tutto da verificare l’impatto positivo sul contenzioso delle competizioni
digitali: resta la ancora la prassi che trasforma ogni gara in una sorta di
“caccia all’errore” e sulla disomogeneità degli orientamenti
giurisprudenziali.
Due recenti sentenze del Tar Sicilia e del Tar Campania hanno affermato
alcuni importanti principi in relazione allo svolgimento delle gare
telematiche, con particolare riferimento alle ipotesi di malfunzionamento
delle piattaforme digitali e dell’individuazione delle relative conseguenze.
Nello
specifico, il TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 01.02.2024
n. 383 [1], ha affermato che il
meccanismo di sospensione e proroga del termine di presentazione
telematica dell'offerta previsto dalle norme opera soltanto nel caso in cui
il
malfunzionamento della piattaforma sia imputabile alla stazione appaltante
ovvero vi sia un'incertezza assoluta in ordine alle cause che hanno
determinato il ritardo nell'invio dell'offerta.
Al contrario, la sospensione
o la
proroga non trovano spazio nel caso in cui sia provata la negligenza del
concorrente il quale, ancorché messo a conoscenza delle modalità tecniche
di presentazione dell'offerta telematica e dell'opportunità di operare con
congruo anticipo, non si sia attivato tempestivamente.
Il TAR Campania-Napoli, Sez.
I,
sentenza 01.02.2024 n. 800 [2],ha invece sancito l'illegittimità
dell'esclusione del
concorrente che abbia operato il caricamento della documentazione di gara
sulla piattaforma telematica entro l'orario prefissato ma non sia riuscito a
finalizzarne l'invio a causa di un
rallentamento del sistema, non imputabile al concorrente stesso.
Ciò anche
in considerazione dell'esiguo ritardo (8
secondi) con cui l'invio è stato finalizzato rispetto all'orario ultimo
indicato nel disciplinare di gara.
Il Tar Sicilia: il
malfunzionamento della piattaforma
Un ente appaltante aveva indetto una
procedura aperta per l'affidamento di un
accordo quadro relativo al servizio di gestione di centri di accoglienza per
cittadini stranieri.
Il disciplinare di gara
prevedeva che l'intera procedura si svolgesse attraverso una procedura
telematica che prevedeva che la
documentazione di offerta dovesse essere trasmessa tramite una piattaforma
informatica messa a disposizione
dall'ente appaltante. Un concorrente ricorreva al giudice amministrativo
denunciando che non era stato messo nelle
condizioni di partecipare alla procedura di gara.
Evidenziava infatti che
entro l'orario indicato nel disciplinare di gara
era riuscito a caricare la documentazione richiesta, ma che successivamente
non aveva potuto presentare l'offerta
in ragione di un blocco della piattaforma, che aveva dato luogo a una
momentanea indisponibilità del servizio
telematico. In considerazione di tale circostanza il concorrente presentava
istanza all'ente appaltante per la
riapertura del termine di presentazione dell'offerta.
Tale istanza veniva
respinta sulla base dell'assunto secondo cui
lo stesso disciplinare di gara stabiliva che l'inserimento della
documentazione nel sistema rimaneva a rischio
esclusivo del concorrente e che, in questa logica, i concorrenti erano
tenuti ad avviare le attività di caricamento della
documentazione di gara con congruo anticipo rispetto alla scadenza prevista,
proprio per non trovarsi
nell'impossibilità di completare la trasmissione dell'offerta nel termine
prescritto.
In sede di ricorso il concorrente replicava a queste argomentazioni
evidenziando che nessuna censura poteva
essere mossa al suo comportamento, posto che lo stesso aveva provveduto al
caricamento della documentazione
nei termini previsti, e che esclusivamente l'invio dell'offerta non era
avvenuto entro la scadenza stabilita a causa di
un malfunzionamento del sistema.
Di conseguenza la scelta dell'ente
appaltante di non procedere a una proroga del
termine di presentazione dell'offerta doveva considerarsi illegittima, in
quanto assunta in violazione da un lato di
un'esplicita previsione del disciplinare di gara che la consentiva, e
dall'altro dei principi generali di tutela
dell'affidamento, raggiungimento del risultato, accesso al mercato e di
buona fede richiamati negli articoli di
apertura del D.lgs. 36/2023. La proroga del termine di presentazione
dell'offerta.
Il Tar Sicilia ricorda preliminarmente
il quadro normativo di riferimento.
Con previsioni sostanzialmente analoghe,
sia il D.lgs. 50/2016 (articolo 79,
comma 5-bis) che il D.lgs. 36/2023 (articolo 25, comma 2), stabiliscono che
nel caso di malfunzionamento anche
temporaneo delle piattaforme informatiche le stazioni appaltanti devono
garantire la partecipazione alla gara dei
concorrenti, anche eventualmente disponendo la sospensione del termine di
presentazione delle offerte per il
periodo di tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento e la
proroga dello stesso per una durata
proporzionale alla gravità del malfunzionamento.
In relazione a queste
previsioni è indubbio che se il concorrente
non riesce a trasmettere l'offerta entro il termine prestabilito a causa di
un malfunzionamento del sistema
informatico imputabile alla stazione appaltate ha diritto di essere
riammesso in termini ai fini della presentazione
dell'offerta. Tale diritto sussiste anche nell'ipotesi in cui vi siano
incertezze in merito alla causa del mancato invio,
nel senso che non si riesca a determinare se lo stesso dipenda
effettivamente dalla stazione appaltante o dal
concorrente che non si è attivato per tempo al fine di rispettare il
termine, considerati i meccanismi di
funzionamento delle piattaforme informatiche.
In sostanza, se la rimessione
in termini è naturalmente dovuta nel
caso di malfunzionamento del sistema oggettivamente ascrivibile alla
stazione appaltante, su quest'ultima ricade
anche il rischio della causa ignota del malfunzionamento. Al contrario,
nessun diritto alla rimessione in termini sorge
in capo al concorrente nel caso in cui il ritardo nella presentazione
dell'offerta sia ascrivibile a una comprovata
negligenza dello stesso.
In questo senso la giurisprudenza amministrativa ha
ripetutamente evocato il principio
dell'autoresponsabilità dei concorrenti nelle gare telematiche, secondo cui
gli stessi sopportano le conseguenze di
eventuali errori commessi nella presentazione della documentazione di
offerta.
In applicazione di tale principio la
stessa giurisprudenza ha precisato che grava sul concorrente l'onere di
attivarsi tempestivamente ai fini della
presentazione della documentazione di gara e in particolare dell'offerta, in
modo da capitalizzare i tempi. Più nello
specifico, è stato affermato che nelle gare telematiche è richiesta ai
concorrenti una particolare diligenza, nel senso
che la sua capacità informatica e l'attenta lettura delle istruzioni sul
funzionamento della piattaforma, nonché i
fisiologici rallentamenti del traffico informatico, devono indurre i
concorrenti stessi a gestire e per quanto possibile
prevenire i possibili e limitati inconvenienti di malfunzionamento della
piattaforma.
Applicando questi principi al caso di specie, il Tar Sicilia ha
ritenuto che il concorrente non avesse assolto all'onere di attivazione
tempestiva
e con la dovuta diligenza ai fini della presentazione dell'offerta su
piattaforma informatica. Infatti, lo stesso non ha
mai generato e caricato il documento contenente l'offerta economica, e
proprio per questo il sistema lungi
dall'essersi bloccato ha più volte segnalato allo stesso concorrente
l'impossibilità di procedere.
In sostanza, l'analisi
di quanto avvenuto ha portato il Tar Sicilia a ritenere che non vi sia stato
un blocco o malfunzionamento del sistema,
quanto piuttosto la corretta segnalazione al concorrente dell'impossibilità
di procedere a causa del mancato
caricamento di un documento da parte dello stesso.
Ne consegue che la
mancata presentazione dell'offerta nei
termini previsti è imputabile esclusivamente al comportamento tenuto dal
concorrente, non sussistendo quindi i
presupposti per la rimessione in termini, che è stata legittimamente negata
dall'ente appaltante.
Il Tar Campania: lo
sforamento (minimale) del termine di presentazione delle offerte
La vicenda
esaminata dal Tar Campania riguarda
una procedura di gara telematica per l'affidamento di un appalto integrato
di lavori.
La stazione appaltante aveva
disposto l'esclusione di un concorrente in quanto non aveva provveduto al
completo caricamento della
documentazione di gara entro il termine previsto dal disciplinare.
L'esclusione veniva impugnata davanti al giudice
amministrativo dal concorrente, che evidenziava come nonostante l'avvenuto
caricamento della documentazione di
offerta nel termine prestabilito il sistema non aveva consentito il
completamento della procedura attraverso la
ricezione positiva dell'invio con il tasto conferma poiché risultava
superato il termine di soli otto secondi.
Secondo il
ricorrente l'esiguità del ritardo rilevato avrebbe imposto all'ente
appaltante di adottare il principio di proporzionalità
nella valutazione dell'evento, evitando quindi di procedere all'esclusione.
Il Tar Campania ha accolto il ricorso.
Il
giudice amministrativo ha infatti in primo luogo osservato che nel termine
indicato nel disciplinare di gara il
ricorrente aveva provveduto a caricare sulla piattaforma l'intera
documentazione di offerta, in adempimento agli
obblighi procedurali imposti ai concorrenti.
Al riguardo, non può essere
imputato al concorrente di essersi attivato
per iniziare il caricamento con solo due ore di anticipo rispetto all'orario
di scadenza. Infatti il disciplinare non
prevedeva alcun termine iniziale, e d'altro canto il tempo residuo per
completare il caricamento doveva considerarsi
congruo rispetto all'ordinario funzionamento delle piattaforme informatiche.
Di conseguenza, non può essere
imputato al concorrente il mancato ricevimento della conferma all'invio nel
termine ultimo stabilito per la
presentazione dell'offerta, poiché si tratta di un ritardo del sistema
presumibilmente dovuto al notevole traffico di
dati verificatosi nella fase finale della procedura di caricamento.
Peraltro, attribuire un effetto escludente a un ritardo
di soli otto secondi risulta contrario al principio di proporzionalità, in
quanto produce il massimo della sanzione
l'esclusione dalla gara nei confronti di un concorrente che in realtà aveva
completato il caricamento nei tempi
dovuti, ma non era riuscito a finalizzarlo (per soli otto secondi) a causa
di un rallentamento del sistema.
Il
contenzioso nelle gare telematiche Le due pronunce esaminate offrono
interessanti indicazioni sulle modalità di
svolgimento delle gare telematiche, tanto più importanti in un momento in
cui il ricorso alle stesse rappresenta la scelta ordinaria per procedere
agli affidamenti.
Le stesse pronunce fanno tuttavia
emergere un dato. Le gare telematiche dovrebbero accelerare e rendere più
fluido lo svolgimento delle procedure di
gara, anche assicurando una più efficace tracciabilità dei relativi
adempimenti. Sotto questo profilo, la funzione che
si immaginava potessero assolvere era anche quella di una auspicabile
riduzione del contenzioso. In realtà
quest'ultimo obiettivo sembra raggiunto solo in parte. Ne sono evidenza le
due pronunce esaminate, che giungono a
conclusioni diverse in relazione a due casi sostanzialmente analoghi.
Ciò
che muta è piuttosto la natura del
contenzioso, che viene a concentrarsi essenzialmente sul funzionamento (o
malfunzionamento) della piattaforma
informatica. Ma è tutto da verificare quanto ciò riuscirà ad incidere sulla
consolidata prassi che trasforma ogni gara
in una sorta di caccia all'errore e sulla disomogeneità degli orientamenti
giurisprudenziali (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
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[1] TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 01.02.2024
n. 383
10. Si può prescindere
dall’esame delle eccezioni preliminari sollevate dalla difesa erariale,
atteso che il ricorso è infondato e va rigettato.
Per la loro connessione logica e funzionale le censure articolate con il
mezzo di tutela all’esame possono essere esaminate congiuntamente.
Osserva preliminarmente il Collegio che l’art 79, comma 5-bis, del D.lgs.
50/2016 prevedeva che "Nel caso di presentazione delle offerte attraverso
mezzi di comunicazione elettronici messi a disposizione dalla stazione
appaltante ai sensi dell'articolo 52, ivi incluse le piattaforme telematiche
di negoziazione, qualora si verifichi un mancato funzionamento o un
malfunzionamento di tali mezzi tale da impedire la corretta presentazione
delle offerte, la stazione appaltante adotta i necessari provvedimenti al
fine di assicurare la regolarità della procedura nel rispetto dei principi
di cui all'articolo 30, anche disponendo la sospensione del termine per la
ricezione delle offerte per il periodo di tempo necessario a ripristinare il
normale funzionamento dei mezzi e la proroga dello stesso per una durata
proporzionale alla gravità del mancato funzionamento. Nei casi di
sospensione e proroga di cui al primo periodo, la stazione appaltante
assicura che, fino alla scadenza del termine prorogato, venga mantenuta la
segretezza delle offerte inviate e sia consentito agli operatori economici
che hanno già inviato l'offerta di ritirarla ed eventualmente sostituirla.
La pubblicità di tale proroga avviene attraverso la tempestiva pubblicazione
di apposito avviso presso l'indirizzo Internet dove sono accessibili i
documenti di gara, ai sensi dell'articolo 74, comma 1, nonché attraverso
ogni altro strumento che la stazione appaltante ritenga opportuno. In ogni
caso, la stazione appaltante, qualora si verificano malfunzionamenti, ne dà
comunicazione all'AGID ai fini dell'applicazione dell'articolo 32-bis del
decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, recante codice dell'amministrazione
digitale".
L’art. 25, comma 2, del D.lgs. 31.03.2023 n. 36 stabilisce invece che “Le
stazioni appaltanti e gli enti concedenti utilizzano le piattaforme di
approvvigionamento digitale per svolgere le procedure di affidamento e di
esecuzione dei contratti pubblici, secondo le regole tecniche di cui
all'articolo 26. Le piattaforme di approvvigionamento digitale non possono
alterare la parità di accesso degli operatori, né impedire o limitare la
partecipazione alla procedura di gara degli stessi ovvero distorcere la
concorrenza, né modificare l'oggetto dell'appalto, come definito dai
documenti di gara. Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti assicurano
la partecipazione alla gara anche in caso di comprovato malfunzionamento,
pur se temporaneo, delle piattaforme, anche eventualmente disponendo la
sospensione del termine per la ricezione delle offerte per il periodo di
tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento e la proroga dello
stesso per una durata proporzionale alla gravità del malfunzionamento”.
L’art. 92, comma 2, lettera c), del D.lgs. n. 36/2023 stabilisce infine che
i termini di presentazione delle domande di partecipazione sono prorogati “in
misura adeguata e proporzionale”, nei casi di cui all'articolo 25, comma
2, terzo periodo.
Tanto premesso, alla luce delle citate disposizioni, non è revocabile in
dubbio che se l'operatore economico -il quale si avvale dei mezzi di
comunicazione elettronica messi a disposizione dalla stazione appaltante-
non riesce a trasmettere la propria offerta entro il termine prestabilito a
causa di un malfunzionamento informatico imputabile alla stazione
appaltante, lo stesso ha evidentemente diritto da essere rimesso in termini
per la presentazione dell'offerta.
Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che anche ove non
sia possibile stabilire con certezza se vi sia stato un errore da parte del
singolo operatore economico, ovvero se la trasmissione dell'offerta sia
stata impedita da un vizio del sistema informatico imputabile alla stazione
appaltante, le conseguenze degli esiti anormali del sistema non possono
andare a detrimento dei partecipanti, stante la natura meramente strumentale
del mezzo informatico (Consiglio di Stato, sezione III, 28.12.2020, n. 8348,
Consiglio di Stato, sezione III, 07.01.2020, n. 86 e Consiglio di Stato,
sezione V, 20.11.2019, n. 7922), nonché i principi di par condicio e
di favor partecipationis.
Ne discende che il diritto alla rimessione in termini del singolo operatore
economico (il quale non sia riuscito ad inviare in tempo l'offerta o la
domanda di partecipazione) sorge, non soltanto in caso di comprovato
malfunzionamento della piattaforma digitale della stazione appaltante, ma
anche in caso di incertezza assoluta circa la causa del tardivo invio (e
cioè se per colpa della stazione appaltante oppure del singolo operatore
economico che non si è attivato per tempo).
In definitiva, il rischio della "causa ignota" del malfunzionamento
informatico ricade sulla stazione appaltante.
Nessun diritto alla rimessione in termini può essere riconosciuto, invece,
in caso di comprovata negligenza del singolo operatore economico.
In proposito, la giurisprudenza amministrativa ha più volte evocato il
principio di autoresponsabilità, e ciò con specifico riguardo alla
partecipazione alle procedure di evidenza pubblica che si svolgono mediante
la presentazione telematica dell'offerta. In linea generale, il Consiglio di
Stato ha avuto modo di statuire che ciascuno dei concorrenti "sopporta le
conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell'offerta e
nella presentazione della documentazione" (Consiglio di Stato, Adunanza
Plenaria, 25.02.2014 n. 9).
A tal proposito, la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sezione III,
02.07.2014, n. 3329, 03.07.2017, n. 3245, 03.07.2018, n. 4065 e, da ultimo,
Consiglio di Stato, sezione III, 30.10.2023, n. 9325) ha elaborato il
principio dell'equa ripartizione, tra soggetto partecipante e
amministrazione procedente, del rischio "tecnico" di inidoneo
caricamento e trasmissione dei dati su piattaforma informatica ("rischio
di rete" dovuto alla presenze di sovraccarichi o di cali di performance
della rete, e "rischio tecnologico", dovuto alle caratteristiche dei
sistemi operativi software utilizzati dagli operatori), secondo criteri di
autoresponsabilità dell'utente, sul quale grava l'onere di pronta e
tempestiva attivazione delle procedure, sì da capitalizzare il tempo
residuo, salvi ovviamente i malfunzionamenti del sistema imputabili al
gestore della piattaforma (fermi del sistema, mancato rispetto dei livelli
di servizio, etc.), per i quali invece non può che affermarsi la
responsabilità di quest'ultimo.
In base a questi principi, applicabili al caso di specie in esame, sussiste
"l'esigibilità, per le imprese, d'una peculiare diligenza nella
trasmissione degli atti di gara, compensata dalla possibilità d'uso diretto
della loro postazione informatica", mentre deve escludersi la
possibilità "di predicare [...] l'accollo in capo alla stazione
appaltante dei rischi derivanti dall'uso del modello informatico [...], a
tutto concedere vigendo anche in questo caso le ordinarie regole di
suddivisione della responsabilità per attività rischiose".
Nello specifico: "In tale chiave ricostruttiva, l'esperienza e abilità
informatica dell'utente, la stima dei tempi occorrenti per il completamento
delle operazioni di upload, la preliminare e attenta lettura delle
istruzioni procedurali, il verificarsi di fisiologici rallentamenti
conseguenti a momentanea congestione del traffico, sono tutte variabili che
il partecipante ad una gara telematica deve avere presente, preventivare e
"dominare" quando si accinge all'effettuazione di un'operazione così
importante per la propria attività di operatore economico, non potendo il
medesimo pretendere che l'amministrazione, oltre a predisporre una valida
piattaforma di negoziazione operante su efficiente struttura di
comunicazione, si adoperi anche per garantire il buon fine delle operazioni,
qualunque sia l'ora di inizio delle stesse, prescelto dall'utente, o lo
stato contingente delle altre variabili sopra solo esemplificativamente
indicate" (Consiglio di Stato, sezione III, 24.11.2020 n. 7352; cfr.,
inoltre, Consiglio di Stato, sezione I, 24.01.2020 n. 220).
In sintesi, il meccanismo di sospensione e proroga del termine di
presentazione telematica dell'offerta, già previsto dall’articolo 79, comma
5-bis, D.lgs. n. 50 del 2016 ed ora dall’art. 25, comma 2, terzo periodo,
del D.lgs. 31.03.2023 n. 36 opera soltanto se (e nella misura in cui)
ricorra almeno una delle due seguenti situazioni:
a) malfunzionamento della piattaforma digitale imputabile alla
stazione appaltante;
b) incertezza assoluta circa la causa del tardivo invio
dell'offerta (e cioè se per un malfunzionamento del sistema oppure per
negligenza dell'operatore economico).
Viceversa, il ridetto meccanismo di sospensione e proroga non può mai
operare in caso di comprovata negligenza dell'operatore economico, il quale
-benché reso edotto ex ante (grazie a regole chiare e precise
contenute nella lex specialis) delle modalità tecniche di
presentazione telematica dell'offerta e dell'opportunità di attivarsi con
congruo anticipo- non si è invece attivato per tempo.
...
[2] TAR Campania-Napoli, Sez.
I,
sentenza 01.02.2024 n. 800
4.- Le diverse censure, in
considerazione degli oggettivi profili di connessione e sovrapposizione dei
relativi argomenti, possono ricevere sintetica trattazione unitaria.
Il ricorso è fondato.
Il bando di gara, alla Sezione IV: Procedura, al paragrafo IV.3.3), titolato
“Termine per il ricevimento delle offerte”, precisa che “le
offerte dovranno pervenire mediante l’utilizzo della piattaforma telematica
“Net4market” … entro il termine perentorio del 09/10/2023 ora locale:
12:00:00.”.
I fatti riportati dalla ricorrente non sono smentiti dalle amministrazioni
resistenti e sono peraltro confermati da una serie di documenti allegati
agli atti della causa. Pertanto sugli stessi può fondarsi la ricostruzione
certa degli avvenimenti.
Il giorno 09.10.2023, la Ca. SRL, mandataria del costituendo RTI ricorrente,
caricava sulla piattaforma, in ordine cronologico, i seguenti documenti:
- alle ore 11.19.54, il file dell’offerta economica, generato dal
portale e firmato digitalmente da tutti i componenti del costituendo RTI;
- alle ore 11.20.31, la cartella .zip contenente la documentazione
costituente l’offerta temporale, firmata da tutti i componenti del
costituendo RTI;
- alle ore 11.50.31, la cartella .zip contenente la documentazione
amministrativa, firmata da tutti i componenti del costituendo RTI;
- alle ore 11.58.53, la cartella .zip contenente l’offerta tecnica,
firmata esclusivamente dalla mandataria, con all’interno i tre files
prescritti dal disciplinare firmati digitalmente da tutti i componenti del
costituendo RTI.
Risulta quindi che, prima dell’orario stabilito dal bando come termine
finale, la mandataria aveva provveduto a caricare sulla piattaforma l’intera
documentazione relativa alle offerte, necessaria ai fini della
partecipazione, svolgendo quindi diligentemente gli adempimenti previsti dal
bando.
Ebbene, non può imputarsi alla ricorrente di avere iniziato il caricamento
lo stesso giorno 9, a sole due ore dall’orario di scadenza, atteso che il
bando di gara non imponeva alcun termine iniziale e, in ogni caso, la scelta
del momento in cui iniziare gli adempimenti è da ritenersi del tutto congrua
rispetto ai tempi ordinariamente preventivabili come necessari per caricare
la documentazione sulla piattaforma e per confermarla.
Né può ricadere sulla ricorrente la circostanza che il sistema non abbia
ricevuto la conferma di quanto già caricato entro il termine prefissato, in
quanto non possono essere a suo carico non solo le anomalie manifeste del
sistema che, nel caso in esame, non sembrano essersi verificate, ma nemmeno
i meri ritardi nella ricezione delle offerte. Tali ritardi sono
presumibilmente riconducibili al fatto che la piattaforma, la quale ha
dovuto assorbire gli allegati caricati da una pluralità di operatori
economici in un ristretto arco temporale, accusando rallentamenti nella
procedura di caricamento.
In altri termini, il sovraffaticamento per eccesso di dati in entrata che,
verosimilmente, non ha permesso la conferma dell’avvenuto caricamento entro
l’orario previsto dal bando, non può riversarsi sulla ricorrente, ciò in
applicazione dei principi di par condicio e di favor
partecipationis alle procedure di gara (Cons. Stato, sez. III,
07.01.2020, n. 86).
Peraltro, attribuire significato ad un ritardo di soli otto secondi si
scontrerebbe col principio di proporzionalità atteso che imporrebbe la grave
sanzione espulsiva nei confronti di un operatore che aveva pur sempre
caricato in tempo nella piattaforma i dati utili.
In questa sede devono quindi applicarsi per analogia i consolidati principî,
affermati dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui non può essere
escluso dalla gara un concorrente che abbia curato il caricamento della
documentazione di gara sulla piattaforma telematica entro l’orario fissato
per siffatta operazione, ma non sia riuscito a finalizzare l’invio a causa
di un rallentamento del sistema, non imputabile al concorrente (per i casi
di malfunzionamento del sistema, cfr. Cons. Stato, 86/2020 cit.; anche Cons.
Stato, sez. V, 20.11.2019, n. 7922; Sez. III, 07.07.2017, n. 3245, per
ipotesi relativa ad un errore dell’impresa e non già ad un malfunzionamento
del sistema).
La giurisprudenza ha anche chiarito che, se risulta impossibile stabilire
con certezza se vi sia stato un errore da parte del trasmittente o,
piuttosto, la trasmissione sia stata danneggiata per un vizio del sistema,
il pregiudizio ricade sull’ente che ha bandito, organizzato e gestito la
gara (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. III, 25.01.2013, n. 481). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fascia di rispetto stradale, nessuna deroga per la recinzione
dominicale.
Il Tar Milano conferma l’operato del comune per la norma restrittiva del
regolamento comunale emanata in applicazione del Codice della Strada.
L’amministrazione di un comune milanese ha emesso un’ordinanza di
demolizione di una recinzione di un fondo sul ciglio della strada, in quando
realizzata nella fascia di rispetto stradale inedificabile, in violazione
del regolamento edilizio comunale relativamente alle strade che ricadono
sotto la gestione dell’ente.
L'interessato ha impugnato l'ordinanza
sostenendo che
la recinzione finalizzata a delimitare la proprietà allo scopo di separarla
dalle
altre, custodirla e difenderla da intrusioni fosse espressione di diritto
dominicale, prevalente sulle norme urbanistiche in virtù dell'articolo 841
del
codice civile che consente sempre al proprietario di chiudere il proprio
fondo.
I giudici della II Sezione del TAR Lombardia-Milano hanno smontato la tesi
del ricorrente.
«Anche le recinzioni -si legge nella
sentenza 30.01.2024 n. 229- sono soggette al rispetto del
vincolo
stradale indipendentemente dal fatto che siano finalizzate all'esercizio
dello
jus escludendi alios o meno» sono soggette al rispetto della fascia di
rispetto
delle strade ai sensi del Codice della Strada.
I giudici ricordano che è lo
stesso Codice della strada che, per quanto riguarda le strade comunali,
«prevede fasce di rispetto che inibiscono le nuove costruzioni,
ricostruzioni e ampliamenti e prescrizioni per la
realizzazione di recinzioni e piantagioni» (articolo 18, commi 1 e 4).
È
sempre l'articolo 18, comma 4, del Codice a
prevedere che «le recinzioni e le piantagioni dovranno essere realizzate in
conformità ai piani urbanistici e di traffico
e non dovranno comunque ostacolare o ridurre, a giudizio dell'ente
proprietario della strada, il campo visivo
necessario a salvaguardare la sicurezza della circolazione».
Nel caso
specifico, i giudici premettono che il
regolamento edilizio del Comune ha previsto che «la realizzazione di
recinzioni, di qualsiasi tipologia, è comunque
soggetta a titolo abilitativo». E che per quanto riguarda la strada in
questione si fa espresso riferimento alle fasce di
rispetto stabilite dal Codice all'articolo 26 a seconda di tipo, dimensione
ed ente gestore (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024).
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SENTENZA
1. La ricorrente ha impugnato l’ordinanza n. 2 del 27.02.2020 del
Responsabile del Settore Gestione del Territorio recante la rimozione della
recinzione esistente sull’area di cui al fg. 2 mapp. 928 (parte), 926 e 485
e il pagamento della sanzione di € 1.000,00.
Contro il suddetto atto la ricorrente ha sollevato i seguenti motivi di
ricorso.
I. Violazione e falsa applicazione artt. 6 e 31 dpr n.
380/2001 – falsa applicazione art. 31 regol. edilizio - falsa applicazione
art. 26, comma 4, lett. b), dpr n. 495/1992 – eccesso di potere per errata
rappresentazione dei fatti – difetto di istruttoria difetto dei presupposti.
Secondo la ricorrente la posa di una recinzione -manufatto essenzialmente
destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla
dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni– è solo diretta a far
valere lo ius excludendi alios che costituisce il contenuto tipico
del diritto dominicale, di talché anche la presenza di un vincolo dello
strumento pianificatorio, nella specie, peraltro, inesistente, non può
incidere (di per sé) negativamente sulla potestà del dominus di
chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell' art. 841 c.c.
II. Violazione e falsa applicazione dell’art. 26, comma 4,
lett. b), dpr n. 495/1992 - violazione artt. 6 e 10 dpr n. 380/2001.
Secondo la ricorrente l’art. 31 del Regolamento edilizio comunale ha
ritenuto di estendere nel tratto interno del centro abitato la previsione in
materia di distacchi di cui all’art. 26, comma 4, lett. b), che il DPR n.
495/1992 contempla, invece, per i tratti “fuori dai centri abitati”
per cui sarebbe illegittimo in quanto il regolamento edilizio non può
determinarsi in tema di distanze delle costruzioni dal confine stradale in
maniera difforme da quanto previsto dalla norma statale.
La difesa del Comune ha chiesto l’inammissibilità ed improcedibilità per
acquiescenza, tardività e mancata tempestiva impugnazione dell’art. 31 del
R.E. comunale di Corbetta. In subordine ha chiesto la reiezione del ricorso.
...
2. Il ricorso non è inammissibile in quanto il Regolamento edilizio, in
quanto, norma generale, può essere impugnato insieme all’atto applicativo e
quindi, nel caso di specie, con l’ordinanza di demolizione in questione.
3. Nel merito il ricorso è infondato.
Il presente ricorso è stato introdotto al fine di contestare la legittimità
dell’ordinanza che ha imposto la rimozione della recinzione realizzata al
limite del ciglio stradale nella fascia di rispetto stradale inedificabile
in violazione del regolamento edilizio comunale relativamente al rispetto
della distanza dalla strada comunale (ex Strada Statale 11).
In merito occorre rilevare che la “fascia di rispetto” delle strade,
secondo la classificazione di queste offerta dal relativo Codice, consiste,
ai sensi dell’art. 2, co. 1, n. 22, d.lgs. n. 285/1992, nella “striscia
di terreno, esterna al confine stradale, sulla quale esistono vincoli alla
realizzazione, da parte dei proprietari del terreno, di costruzioni,
recinzioni, piantagioni, depositi e simili”.
Quindi anche le recinzioni sono soggette al rispetto del vincolo stradale
indipendentemente dal fatto che siano finalizzate all’esercizio dello jus
escludendi alios o meno.
Il successivo art. 18 del Codice della Strada, relativo ai centri abitati,
nel fare rinvio alle più specifiche norme del regolamento, prevede fasce di
rispetto che inibiscono “le nuove costruzioni, ricostruzioni e
ampliamenti” (co. 1) e prescrizioni per la realizzazione di “recinzioni
e piantagioni” (co. 4).
Il comma 4 stabilisce che “Le recinzioni e le piantagioni dovranno essere
realizzate in conformità ai piani urbanistici e di traffico e non dovranno
comunque ostacolare o ridurre, a giudizio dell'ente proprietario della
strada, il campo visivo necessario a salvaguardare la sicurezza della
circolazione”.
Il Regolamento Edilizio comunale di Corbetta approvato con delibera
consiliare n. 52 del 28.11.2019 ha esercitato tale competenza stabilendo
all’art. 31 che: “la realizzazione di recinzioni, di qualsiasi tipologia,
è comunque soggetta a titolo abilitativo. Lungo la strada ex SS 11, anche
nel tratto interno al centro abitato, trova applicazione l’art. 26, comma 4,
lett. b), del D.P.R. 16.12.1992, n. 495”.
Poiché la distanza della recinzione dal ciglio della strada è finalizzata a
garantire il campo visivo necessario a salvaguardare la sicurezza della
circolazione, deve escludersi che il Comune abbia esercitato la sua
competenza in contrasto con la norma di legge.
4. In definitiva quindi il ricorso va respinto. |
APPALTI:
Sulla durata delle iscrizioni nel casellario Anac e
sull’intrasferibilità a diversa sezione dopo la scadenza di
una iscrizione obbligatoria.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione – Iscrizione nel casellario informatico –
Durata massima di un anno – Derogabilità da parte di Anac -
Esclusione.
La decisione dell’Anac di
“spostare”, allo scadere del termine annuale di efficacia,
l’iscrizione nel casellario informatico a seguito di
segnalazione per dichiarazione falsa, in una diversa sezione
del casellario medesimo, anziché disporne la cancellazione,
è illegittima in quanto priva di un reale fondamento
normativo e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia
(anche sub specie di pubblicità-notizia) ab origine previsti
dall’art. 38, 1° comma, lett. h), del d.lgs. n. 163 del 2006,
norma comunque prevalente su disposizioni di rango
regolamentare (1).
Il Consiglio di Stato ha chiarito che la norma di cui
all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 ha
evidentemente carattere speciale, riferendosi non a
qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa
nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole
ipotesi di “presentazione di falsa dichiarazione o falsa
documentazione”, peraltro ove rese “con dolo o colpa grave”.
In quanto norma speciale, è destinata a prevalere –circoscrivendone l’ambito di applicazione– su eventuali
disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a
disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a
maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere
più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle
fonti del diritto.
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(1) Precedenti conformi: non risultano specifici precedenti in
termini. In generale, sulla durata dell’iscrizione nel
casellario informatico, Cons. Stato, sez. V, 25.01.2011, n.
517; TAR per l’Abruzzo, sez. I, 15.04.2015, n. 282 (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 29.01.2024 n. 881 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Con il primo motivo di appello viene riproposta la
censura, già dedotta nel precedente grado di giudizio,
secondo cui l’impugnato diniego di cancellazione
dell’annotazione del provvedimento sanzionatorio avrebbe
violato l’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006.
L’originaria iscrizione nel casellario ANAC, infatti, era
stata disposta ai sensi di tale ultima norma, laddove il
potere sanzionatorio esercitato dall’Autorità Nazionale
Anticorruzione è disciplinato dalle previsioni del
Regolamento unico in materia di esercizio del potere
sanzionatorio, emanato ai sensi dell’art. 8, comma 4, del
d.lgs. n. 163 del 2006.
In virtù di quanto previsto dall’art. 38, comma 1-ter, cit.,
in particolare, l’iscrizione nel casellario informatico ai
fini dell’esclusione dalle procedure di gara e dagli
affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1, lettera h),
può essere disposta per la durata massima di un anno,
decorso il quale la detta iscrizione “è cancellata e
perde comunque efficacia”.
Inserendo l’iscrizione di cui trattasi, al termine del
periodo interdittivo (per di più con procedura totalmente
automatizzata e, dunque, senza alcuna ponderazione del caso
concreto) nell’area “C” del casellario, per un periodo di
tempo indefinito, l’ANAC avrebbe contestualmente violato
l’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 e l’art.
45, comma 1, del Regolamento unico in materia di esercizio
del potere sanzionatorio (a mente del quale “Il termine
di durata delle annotazioni inserite nel Casellario,
indicato nel provvedimento finale, ai sensi dell’art. 38,
comma 1-ter, articolo 40, comma 9-quater, ed articolo 48,
comma 1, del Codice decorre dalla data di pubblicazione
delle annotazioni stesse. Trascorso detto termine, le
annotazioni perdono efficacia”), in quanto l’annotazione
(iscritta in data 17.07.2020) avrebbe dovuto essere
cancellata in accoglimento dell’apposita istanza presentata
dalla società in data 28.09.2021, essendo decorso il termine
(massimo) di un anno dall’iscrizione (oltre il quale
l’Autorità è tenuta a disporre
la materiale cancellazione dell’annotazione, non potendosi
limitare a spostare la stessa da una sezione all’altra del
casellario, così mantenendo evidenza del periodo di
interdizione già trascorso).
In ogni caso, prosegue l’appellante, anche ove di volesse
ritenere che l’ANAC conservi un potere discrezionale di
conservazione dell’annotazione oltre il periodo annuale
indicato dall’ultimo periodo dell’art. 38, comma 1-ter cit.,
l’Autorità avrebbe dovuto comunque svolgere un’istruttoria
specifica e rendere apposita motivazione “rafforzata”
in relazione alla conservazione “ultrattiva”
dell’annotazione riportata nel casellario informatico ed
alla pubblica utilità della stessa.
Il motivo è fondato.
E’ pacifico in atti che il provvedimento sanzionatorio
presupposto fosse stato adottato dall’ANAC ai sensi e per
gli effetti dell’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del
2006, che così prevede: “In caso di presentazione di
falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure
di gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione
appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che, se ritiene
che siano state rese con dolo o colpa grave in
considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti
oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di
falsa documentazione, dispone l’iscrizione nel casellario
informatico ai fini dell’esclusione dalle procedure di gara
e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1,
lettera h), fino ad un anno, decorso il quale l’iscrizione è
cancellata e perde comunque efficacia”.
La finalità di tale iscrizione –disposta con norma primaria
di legge– è evidentemente quella di portare a conoscenza
delle stazioni appaltanti l’esistenza del divieto di
partecipazione alle gare pubbliche (anche in veste di
subappaltatore) e, con esso, necessariamente anche le
ragioni che ne stanno alla base.
La stessa legge è chiara nel prescrivere un termine massimo
di efficacia di tali iscrizioni, che non può eccedere
l’anno.
A tale regola primaria si conforma –per evidenti ragioni di
gerarchia delle fonti giuridiche– la disciplina
regolamentare in materia, data in particolare dall’art. 45,
comma 1, del Regolamento unico in materia di esercizio del
potere sanzionatorio dell’ANAC, a mente del quale –come già
detto– “Il termine di durata delle annotazioni inserite
nel Casellario, indicato nel provvedimento finale, ai sensi
dell’art. 38, comma 1-ter, articolo 40, comma 9-quater, ed
articolo 48, comma 1, del Codice decorre dalla data di
pubblicazione delle annotazioni stesse. Trascorso detto
termine, le annotazioni perdono efficacia”.
La norma di cui all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163
del 2006 ha evidentemente carattere speciale, riferendosi
non a qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa
nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole
ipotesi di “presentazione di falsa dichiarazione o falsa
documentazione”, peraltro ove rese “con dolo o colpa
grave”.
In quanto norma speciale, è destinata a prevalere
–circoscrivendone l’ambito di applicazione– su eventuali
disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a
disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a
maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere
più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle
fonti del diritto (in quanto di natura regolamentare, quale
l’art. 38 del Regolamento per la gestione del Casellario
Informatico di cui alla delibera consiliare ANAC del
29.07.2020).
Nel caso di specie l’ANAC ha ritenuto motu proprio di poter
“trasferire” la detta iscrizione, allo scadere del
termine massimo di efficacia annuale, dalla Sezione “B” del
casellario informatico alla Sezione “C” del medesimo,
anziché limitarsi a cancellarla (come prescritto dalla norma
di legge primaria), scelta che secondo il primo giudice
troverebbe la “copertura” giuridica dell’art. 8,
comma 2, lett. dd), del d.P.R. n. 207 del 2010, per cui “Nella
subsezione del casellario relativa alle imprese qualificate
SOA esecutrici di lavori pubblici sono inseriti i seguenti
dati: […] tutte le altre notizie riguardanti le imprese che,
anche indipendentemente dall'esecuzione dei lavori, sono
dall'Autorità ritenute utili ai fini della tenuta del
casellario, compresa la scadenza del certificato del sistema
di qualità aziendale”.
Tale soluzione non può essere accolta, ove si consideri che,
nel corpo del medesimo art. 8, comma 2 cit., alla lettera s)
vengono già fatte oggetto di iscrizione le “falsità nelle
dichiarazioni rese in merito ai requisiti e alle condizioni
rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara e per
l’affidamento dei subappalti”, all’uopo precisando che “il
periodo annuale, ai fini dell’articolo 38, comma 1, lettera
h), del codice, decorre dalla data di iscrizione nel
casellario”.
Deve quindi concludersi, per ragioni di sistematicità
logica, che la previsione di chiusura (dunque, di carattere
generale e sussidiario) di cui alla richiamata lettera ss)
possa trovare applicazione solo nel caso di fattispecie non
riconducibili alle ipotesi specificamente contemplate dalle
precedenti lettere del medesimo comma secondo.
Nel caso in esame tale condizione non si verifica,
l’iscrizione di cui trattasi essendo pacificamente
riconducibile alla diversa ipotesi contemplata dall’art. 8,
comma 2, lettera s), del d.P.R. n. 207 del 2010 (ipotesi per
la quale, come già detto, la norma primaria di riferimento
prevede la cancellazione sic et simpliciter dell’iscrizione,
una volta scaduto il termine di efficacia della misura
interdittiva).
Deve quindi concludersi che la decisione dell’ANAC di “spostare”,
allo scadere del termine annuale di efficacia, l’iscrizione
di cui trattasi in una diversa Sezione del casellario
informatico, anziché disporne la cancellazione, sia
illegittima in quanto priva di un reale fondamento normativo
e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia (anche sub
specie di pubblicità-notizia) ab origine previsti
dall’art. 38, comma primo, lettera h), del d.lgs. n. 163 del
2006, norma comunque prevalente su disposizioni di rango
regolamentare (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 29.01.2024 n. 881 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull’onere della prova in materia di domanda di sanatoria di
abusi edilizi.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Accertamento di
conformità – Onere della prova.
L’onere di provare l’esistenza dei
presupposti per il rilascio del provvedimento di sanatoria,
tra cui, in primis, la data dell’abuso grava sul
richiedente; infatti, solo il privato può fornire, in quanto
ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o
altri elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso,
mentre l’amministrazione non può materialmente accertare
quale fosse la situazione all’interno del suo territorio
(1).
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(1) Conformi: Cons. Stato, sez. VII, 29.09.2023, n. 8594 e
24.03.2023 n. 3011; Cons. Stato, sez. VI, 12.10.2020, n.
6112;
Difformi: non risultano
precedenti difformi (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 26.01.2024 n. 853 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. I motivi sono infondati.
7.1 Per giurisprudenza consolidata grava sul richiedente
l’onere di provare l’esistenza dei presupposti per il
rilascio del provvedimento di sanatoria, tra cui, in
primis, la data dell’abuso. Solo il privato può,
infatti, fornire, in quanto ordinariamente ne dispone,
inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione dell’abuso, mentre
l’amministrazione non può materialmente accertare quale
fosse la situazione all’interno del suo territorio (Cons.
Stato, sez. VII, 29.09.2023, n. 8594 e 24.03.2023 n. 3011;
sez. VI, 12.10.2020, n. 6112; sez. VII, 07.08.2023 n. 7628;
id. 30.03.2023, n. 3304; sez. VI, 18.05.2021, n. 3853).
7.2 Nel caso di specie, posto che l’amministrazione ha
respinto l’istanza di sanatoria perché dal fotogramma aereo
del 12.07.2003 non erano visibili le opere oggetto di
condono, l’interessato non ha fornito alcun elemento idoneo
a smentire quanto emergente dalla documentazione agli atti
del comune.
Al riguardo non assurgono a prova della realizzazione dei
manufatti residenziali in data antecedente al 31.03.2003 né
la concessione edilizia n. 39/1996, che ha per oggetto la
costruzione di un magazzino agricolo, né la circostanza
-affermata ma, mai dimostrata- che all’epoca del rilievo
aerofotogrammetrico del luglio 2003 il fabbricato fosse
occultato da rigogliosa vegetazione che lo sovrastava.
7.3 Correttamente pertanto il giudice di primo ha ritenuto
legittimo il diniego a prescindere dall’ulteriore profilo
afferente al superamento della volumetria condonabile,
poiché la mancata realizzazione delle opere entro il termine
di legge, che era onere del richiedente dimostrare,
costituisce di per sé circostanza ostativa al condono.
Peraltro l’appellante non ha nemmeno dato la prova della
sussistenza dei presupposti di cui al comma 1, lett. b),
l.r. 8/11/2004, n. 12, che disciplina il caso in cui
l’intera unità immobiliare oggetto di sanatoria sia adibita
a prima casa del richiedente, giacché nel caso di specie è
pacifico che solo una porzione del fabbricato era adibito ad
abitazione dell’istante.
8. In definitiva l’appello deve essere respinto (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 26.01.2024 n. 853 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per l’ordine di demolizione non serve il motivo di interesse
pubblico.
Il Consiglio di Stato ricorda la natura del provvedimento di «atto dovuto e
vincolato»; e la ponderazione dell’interesse pubblico è assolta, a monte,
dal legislatore.
Nessun diritto a comunicare l’avvio del procedimento prima di emettere
l’ordinanza di demolizione. Nessun obbligo di indicare nell’ordinanza di
demolizione il motivo di interesse pubblico al ripristino. Nessuna
possibilità di invalidare l’ordinanza a causa del molto tempo trascorso tra
la realizzazione dell’abuso e la procedura repressiva. Nessun obbligo di
verificare, su istanza dell’interessato, la “doppia” conformità dell’opera
oggetto dell’ordinanza di ripristino.
Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sul caso di un abuso
realizzato in un comune della Campania, ribadisce tutte le caratteristiche
dell'ordinanza di demolizione che rendono questo atto snello, potentissimo e
praticamente inarrestabile.
Il caso di specie riguarda un fabbricato di due livelli a destinazione
abitativa realizzato senza titolo in un'area incompatibile con tale funzione
(zona agricola).
L'ordinanza di demolizione emessa dal comune a cinque anni dalla sua
scoperta, da parte della polizia municipale, è stata impugnata al Tar
Campania dall'interessato, il quale ha impugnato anche il diniego del comune
nei confronti della richiesta, fatta successivamente, per valutare la
conformità urbanistica dell'opera per la quale era stato avviato il
contenzioso. Infine, a seguito del rigetto dei ricorsi del Tar,
l'interessato si è rivolto al Consiglio di Stato.
Il secondo giudice, nel confermare la decisione del Tar, ha esaurientemente
dimostrato l'infondatezza di tutti i motivi con i quali il ricorrente aveva
attaccato la decisione del Comune. In nessun caso è stato possibile
intaccare o indebolire l'efficacia di questo provvedimento repressivo,
previsto dal legislatore a favore dei comuni e finalizzato al controllo e
tutela del territorio.
Tanto per cominciare, l'ordinanza di demolizione di manufatti abusivi,
ribadisce Palazzo Spada, «non richiede una specifica motivazione sulla
ricorrenza del concreto interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la
relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato già
compiuta, a monte, dal legislatore».
Il provvedimento, precisano inoltre i giudici nella
sentenza 26.01.2024 n. 825, «è atto vincolato e -si ribadisce-
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione».
Neanche il passaggio del tempo toglie nulla al potere del comune, escludendo
«un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può
dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data
antecedente i dovuti atti repressivi».
Quanto alla mancanza di comunicazione di avvio del procedimento, i giudici
respingono decisamente anche la tesi del ricorrente secondo la quale
l'ordinanza sarebbe illegittima senza la comunicazione ex articolo 7 della
legge 241/1990, non prevedendo questo atto, «alcun apporto partecipativo
del privato», se ci sono i presupposti di legge.
«L'attività di repressione degli abusi edilizi mediante l'ordinanza di
demolizione -si ricorda-, avendo natura vincolata, non necessita della
previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai
sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.02.2024).
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SENTENZA
3.1. Nel merito l’appello è infondato e va respinto.
Con il primo motivo (rubricato: Error in iudicando – violazione art.
7 l. 241/1990) l’appellante sostiene che il TAR avrebbe erroneamente ritenuto
superflua la preventiva comunicazione di avvio del procedimento e del
funzionario responsabile, stante la natura vincolata dell’ordinanza di
demolizione, in quanto il Consiglio di Stato in più occasioni avrebbe
ribadito, seppur implicitamente, la necessità della preventiva
interlocuzione tra la P.A. ed il privato anche in materia di ordinanza di
demolizione.
3.2. La censura relativa all’illegittimità dell’ordine di demolizione per
assenza della comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7
l. 241/1990 non ha pregio.
L’ordinanza di demolizione costituisce infatti espressione di un potere
vincolato e doveroso in presenza dei requisiti richiesti dalla legge,
rispetto al quale non è richiesto alcun apporto partecipativo del privato (Cfr.
ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 11/05/2022, n. 3707: “L'attività di
repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo
natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del
procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990,
considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non
potrebbe determinare alcun esito diverso”; Consiglio di Stato, sez. II,
01/09/2021, n. 6181: “Al sussistere di opere abusive la pubblica
amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di demolizione; per questo
motivo, avendo tale provvedimento natura vincolata, non è neanche necessario
che venga preceduto da comunicazione di avvio del procedimento”).
In ogni caso, trattandosi di procedimento vincolato, troverebbe applicazione
l’art 21-octies, co. 2, l. 241/1990, posto che il provvedimento non avrebbe
potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato.
3.3. E’ pure infondato il secondo motivo di impugnazione (rubricato:
Error
in iudicando – eccesso di potere), con il quale l’appellante sostiene che
sarebbe errata la sentenza nella parte in cui il giudice di I grado ha
respinto il motivo di ricorso con il quale è stato evidenziato il difetto di
motivazione in ordine all’interesse pubblico alla demolizione ed alla
mancata valutazione della conformità urbanistica degli abusi sanzionati, e
con il quale l’appellante (citando la sentenza del Consiglio di Stato, Sez.
IV, n. 781/1991 senza riportarne sinteticamente il contenuto o altra
indicazione per esaminare l’attinenza della stessa alla censura) ritiene che
tale onere motivazionale era sicuramente esistente.
3.3.1. Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato,
l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e
rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata
e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e
le ragioni della loro abusività (Ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI,
07/06/2021, n. 4319).
Ne consegue che non è necessario che l’amministrazione individui un
interesse pubblico –diverso dalle mere esigenze di ripristino della
legalità violata– idonee a giustificare l’ordine di demolizione (Consiglio
di Stato, sez. VI, 17/10/2022, n. 8808: “L'ordine di demolizione di manufatti
abusivi non richiede una specifica motivazione sulla ricorrenza del concreto
interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la relativa ponderazione tra
l'interesse pubblico e quello privato già compiuta, a monte, dal
legislatore”; Consiglio di Stato sez. II, 11/01/2023, n. 360: “L'ordine di
demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione”).
Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga
adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, atteso
che, a fronte della realizzazione di un immobile abusivo, non è
configurabile alcun affidamento del privato meritevole di tutela; l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato ha infatti chiarito che “Il provvedimento
con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile
abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui
l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di
ripristino” (Consiglio di Stato, ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
Tali principi sono stati da ultimo ribaditi dal Consiglio di Stato, sez. II,
11/01/2023, n. 360, che ha affermato che “l'ordine di demolizione è atto
vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva
che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del
fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti
atti repressivi".).
3.3.2.
È pure infondata l’affermazione dell’erroneità della sentenza laddove
respinge la censura sulla mancata valutazione della conformità urbanistica
degli abusi sanzionati prima di ordinarne la demolizione.
Infatti,
la realizzazione delle opere edilizie descritte nell’ordine di
demolizione in assenza del prescritto titolo edilizio, costituisce elemento
sufficiente a giustificare l’adozione del provvedimento impugnato; tale
circostanza impone al Comune di ordinare il ripristino dello stato dei
luoghi a prescindere dall’eventuale compatibilità delle opere con gli
strumenti urbanistici.
3.3.3. Secondo la costante giurisprudenza di questa Sezione,
la conformità
urbanistica delle opere deve essere oggetto di valutazione da parte
dell’amministrazione comunale solo nell’ipotesi in cui il privato abbia
presentato un’istanza di accertamento di conformità (ex multis Consiglio di
Stato sez. VI, 20/07/2021, n. 5457: “In presenza di abusi edilizi, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale,
prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai
sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 e tanto si evince chiaramente
dagli artt. 27 e 31, del medesimo d.P.R. n. 380 cit., che obbligano il
responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza
alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36 che rimette
all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del
procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato”). |
EDILIZIA PRIVATA:
Giusta il consolidato
orientamento della giurisprudenza, l'omessa o imprecisa
indicazione nell'ordinanza di demolizione dell'area che verrà acquisita di
diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell'art. 31,
comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per il caso di inottemperanza
all'ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità
dell'ordinanza stessa; invero, l'indicazione dell'area è requisito
necessario ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria.
E’ stato osservato che “l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza
fissata direttamente dalla legge, senza necessità dell'esercizio di alcun
potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto quello del mero
accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi; per quanto invece riguarda l'indicazione dell'area
da acquisire, il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della
costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato,
non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime
che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di
inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui
requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il
conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale
provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia
puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate”.
Dunque l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione
costituisce un evento normativamente configurato alla stregua di un atto ad
efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto
(acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi
alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa; la mancata
indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque essere
colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di
acquisizione.
Dunque la posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla
previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione
dell'area, rispetto al quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile
l'atto di accertamento dell'inottemperanza, nel quale va indicata con
precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.
---------------
3.4. Con il terzo motivo di impugnazione (rubricato: Error in iudicando
-
violazione art. 31 DPR n. 380/2001), l’appellante censura la sentenza
laddove ritiene che l’indicazione dell’area da acquisire può avvenire nella
fase susseguente all’accertamento dell’inottemperanza.
L’appellante sostiene
che l’omessa indicazione pregiudicherebbe dal punto di vista sostanziale gli
interessi del ricorrente, il quale, in primo luogo, deve essere messo in
condizione di valutare, in termini di “costo-beneficio”, l’opportunità di
adempiere o meno all’ordine di demolizione.
Inoltre l’esatta indicazione
sarebbe necessaria, in quanto l’effetto ablatorio si verificherebbe
immediatamente ed “ope legis” alla scadenza del termine legale o di quello
prorogato dall’autorità competente per ottemperare all’ingiunzione a
demolire, con acquisto a titolo originario della proprietà libera da
eventuali pesi e vincoli preesistenti.
3.4.1. La censura non merita accoglimento.
Occorre premettere che l’articolo 31 del d.P.R. n. 380/2001 prevede al comma
3 che, "Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni
dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria,
secondo le vigenti previsioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del Comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a
dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita".
Con riferimento alla censura dedotta il Collegio rileva che la
prospettazione di parte appellante, come rilevato nella decisione di questa
Sezione 03.12.2020, n. 7672, “si pone in contrasto con un consolidato
orientamento della giurisprudenza in base al quale l'omessa o imprecisa
indicazione nell'ordinanza di demolizione dell'area che verrà acquisita di
diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell'art. 31,
comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per il caso di inottemperanza
all'ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità
dell'ordinanza stessa; invero, l'indicazione dell'area è requisito
necessario ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria (cfr. Cons. St., sez. IV, 25 n. 5593 del 2013; Cons. St., sez.
V. n. 3438 del 2014; Cons. St., sez. IV, n. 4659 del 2008; Cons. St. sez.
VI, n. 1998 del 2004)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 03.12.2020, n.
7672).
E’ stato osservato che “l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza
fissata direttamente dalla legge, senza necessità dell'esercizio di alcun
potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto quello del mero
accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi; per quanto invece riguarda l'indicazione dell'area
da acquisire, il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della
costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato,
non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime
che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di
inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui
requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il
conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale
provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia
puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate” (Consiglio di
Stato, Sez. VI, 06.02.2018, n. 755).
Dunque l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione
costituisce un evento normativamente configurato alla stregua di un atto ad
efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto
(acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi
alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa; la mancata
indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque essere
colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di
acquisizione (Cons. St., sez. VI, 24/06/2020, n. 4058; Cons. St., sez. IV,
n. 5593 del 2013; Cons. St., sez. V. n. 3438 del 2014; Cons. St., sez. IV,
n. 4659 del 2008; Cons. St., sez. VI, n. 1998 del 2004) (Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.10.2022, n. 9068).
Dunque la posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla
previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione
dell'area, rispetto al quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile
l'atto di accertamento dell'inottemperanza, nel quale va indicata con
precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.
3.4.2. Da quanto dedotto emerge l’infondatezza delle censure proposte dalla
parte appellante alle statuizioni del Giudice di prime cure in ordine alle
doglianze sottoposte al suo vaglio con il ricorso principale con riferimento
all’ordine di demolizione Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.01.2024 n. 825 - link a
www.giustizia-amministrativa.it) |
APPALTI SERVIZI:
Clausola sociale, nessun obbligo di riassunzione di tutto il
personale dell’appaltatore uscente.
Il Consiglio di Stato ribadisce la necessità di contemperare l’obbligo con
la libertà di organizzazione dell’impresa anche nel nuovo codice.
Con la recente
sentenza
25.01.2024 n. 807 del Consiglio di Stato,
Sez. V, si rimarca che dall’applicazione
della clausola sociale non sorge alcun obbligo di integrale riassorbimento
del personale del pregresso affidatario.
L’applicazione della clausola,
infatti, esige un contemperamento tra un «bilanciamento delle tutele del
lavoro con l’art. 41 Cost.» ed il «principio, tipicamente pubblicistico, di
buon andamento dell’azione amministrativa».
La vicenda
Il ricorrente censura l'errore della sentenza di primo grado (Tar Lazio,
sez. II, n. 13442/2023) nella parte in cui non ha accolto il primo motivo
del ricorso fondato sulla pretesa violazione dell'obbligo di riassorbimento
del personale del pregresso gestore imposto dalla legge e dalla
contrattazione collettiva.
L'aggiudicatario, secondo l'appellante avrebbe sottodimensionato il
riassorbimento del personale del pregresso affidatario proponendo
l'assorbimento di 73 dipendenti su 181.
Il giudice, anche di secondo grado, non condivide l'assunto evidenziando,
fin dalla premessa, che la stessa legge di gara non prevedeva -né avrebbe
potuto prevederlo- l'esclusione in caso di mancato totale riassorbimento del
personale del precedente contratto prevedendo, invece, l'estromissione solo
in caso di mancata produzione del piano di riassorbimento (destinato a
chiarire le dinamiche organizzative che concretamente l'operatore intende
adottare sul riassorbimento, sempre eventuale).
I vincoli della clausola sociale
La censura consente al giudice d'appello di ricordare l'esatta
configurazione degli obblighi che discendono dalla clausola sociale (anche
nella nuova configurazione voluta dal
nuovo codice).
In primo luogo, lo stesso disciplinare di gara, correttamente,
prevedeva da un lato la necessità di impegnarsi sulla stabilizzazione ma
chiarendo «la necessaria armonizzazione con l'organizzazione
dell'operatore economico subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative
e di manodopera previste nel nuovo contratto». In secondo luogo,
la legge di gara indicava il contratto «preteso» dalla stazione
appaltante (Ccnl Servizi di pulizia e servizi integrati/Multiservizi) ma «ferma
l'applicazione», proseguiva il disciplinare, «ove più favorevole,
della clausola sociale prevista dal contratto collettivo nazionale prescelto
dall'aggiudicatario del contratto».
Il disciplinare quindi, rispettoso delle indicazioni del codice,
salvaguardava l'autonomia imprenditoriale degli appaltatori. Nel ritenere
corrette dette indicazioni, il giudice d'appello precisa che «il grado di
vincolatività della clausola sociale si desume dalla regola di compatibilità
espressamente declinata nel disciplinare, che richiede l'armonizzazione con
l'organizzazione aziendale, rendendola attuabile con elasticità, in ragione
appunto delle prerogative imprenditoriali».
L'obbligo del nuovo gestore, quindi, è solo quello di procedere
prioritariamente, in caso di necessità di manodopera, nell'assorbimento «nel
proprio organico» del «personale già operante alle dipendenze del
fornitore uscente». Ed è proprio l'uso dell'avverbio «prioritariamente»,
spiega il giudice, sta a significare che «l'esigenza di assumere
personale deve essere soddisfatta attingendo prioritariamente al personale
alle dipendenze del gestore uscente, non obbligando invece ad acquisire
personale proveniente dal gestore uscente se non necessario, così declinando
l'obbligo in modo da renderlo compatibile con le scelte organizzative
dell'impresa».
La clausola sociale, quindi, deve essere intesa in senso elastico non
imponendo in nessun caso «la riassunzione di tutta la forza lavoro
utilizzata dal gestore uscente». La portata dell'obbligo della clausola,
del resto, veniva ben chiarita in una serie di riscontri ad altrettanti
quesiti posti alla stazione appaltante con cui si chiariva che dalla stessa
«non può derivare un obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto
di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata»
laddove il concorrente risultasse «già in possesso di una propria
struttura in grado di gestire autonomamente tale funzionalità, così
declinando l'obbligo in modo da renderlo compatibile con le esigenze
imprenditoriali».
La stazione appaltante, pertanto, ha ben chiaro l'approdo giurisprudenziale
in materia prima di tutto anche comunitario (fatto proprio anche dall'Anac)
secondo cui l'obbligo del riassorbimento è solo teorico e deve essere
contemperato «con la libertà d'impresa e con la facoltà in essa insita di
organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria
organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da
valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell'appalto (Cons.
St., sez. V, 01.08.2023 n. 7444)».
La clausola sociale di assorbimento, conclude il giudice, è destinata sì ad
operare nell'ipotesi di cessazione d'appalto e «subentro di imprese o
società appaltatrici e risponde all'esigenza di assicurare la continuità
dell'occupazione nel caso di discontinuità dell'affidatario» ma
l'effetto non può essere vessatorio e tale da «condizionare la libertà
economica e i principi dell'economia di mercato al fine di perseguire
interessi socialmente rilevanti, come il diritto al lavoro». In difetto
risulterebbe in contrasto con la stessa Costituzione italiana fin
dall'articolo 1 e delle disposizioni costituzionali «che si occupano di
lavoro, fra le quali gli artt. 35, 36» e 41.
E sono proprio «le esigenze di bilanciamento fra diritti
costituzionalmente protetti» che «impediscono quindi di attribuire
alle prerogative dei lavoratori una valenza assoluta, dovendo essere
contemperate con altre esigenze di tutela, pure costituzionalmente garantite»,
tra queste l'autonomia imprenditoriale (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.02.2024). |
URBANISTICA:
La buona fede dei lottizzandi non salva la lottizzazione abusiva
(e non ferma il Comune).
Il Tar Palermo ha ribadito il principio, rigettando la richiesta degli
interessati di sospendere il fermo dei lavori imposto dall’ente locale.
Nessuna possibilità per i lottizzandi in buona fede di fermare l’azione del
Comune contro la lottizzazione abusiva.
Con una recente ordinanza, il Tar
Palermo ha respinto l’istanza di alcuni lottizzandi volta a sospendere
l’ordinanza dell’ente locale per fermare subito i lavori dopo la scoperta di
una vasta lottizzazione abusiva (in forma sia cartolare che materiale) nel
comune siciliano.
I giudici del TAR Sicilia-Palermo, Sez. , hanno escluso nettamente
qualsiasi fumus boni iuris dei richiedenti, per una serie di motivi, tutti
saldamente confermati dagli orientamenti della giurisprudenza.
Gli istanti,
affermano i giudici, «non possono invocare il proprio stato soggettivo al
fine
di escludere la legittimità del provvedimento impugnato»; e questo perché
«la lottizzazione abusiva -si ricorda nell'ordinanza
25.01.2024 n. 38- prescinde dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei
lottizzanti:
e ciò in quanto rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo
dell'intervenuta
illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la
tutela dei terzi acquirenti in buona fede, estranei alla commissione
dell'illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti
dell'alienante».
Strada sbarrata anche alle eventuali possibilità di sanatoria di singoli
elementi (lotti o fabbricati), in quanto «non è
possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva tramite il condono delle
singole unità immobiliari realizzate
abusivamente, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell'area
abusivamente lottizzata essere valutate
in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della
destinazione di zona che ne deriva nel suo
complesso».
Infine, anche l'argomento legato alla circostanza che l'abuso è
molto risalente nel tempo viene
respinto al mittente. «Il fatto che le opere siano state realizzate in un
lungo arco di tempo -affermano infatti i giudici
del Tar- non incide in alcun modo sulla legittimità dell'ordine di
sospensione della lottizzazione, avuto presente il menzionato carattere
permanente dell'illecito» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.02.2024).
---------------
ORDINANZA
Considerato, anzitutto:
- che secondo il condivisibile orientamento della giurisprudenza “…la
lottizzazione abusiva ex art. 30 del d.P.R. n. 380 del -OMISSIS-01 prescinde
dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto
rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell'intervenuta illegittima
trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei
terzi acquirenti in buona fede, estranei alla commissione dell'illecito, può
essere fatta valere in sede civile nei confronti dell'alienante [cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 08.01.-OMISSIS-16, n. 26]” (Consiglio di Stato n. 768/-OMISSIS--OMISSIS-),
sicché i ricorrenti –quali acquirenti dell’immobile– non possono invocare il
proprio stato soggettivo al fine di escludere la legittimità del
provvedimento impugnato;
Rilevato:
- che dalla documentazione versata in atti dal Comune e per fatti
pacifici, l’area indentificata al catasto al foglio -OMISSIS- ex part.-OMISSIS-
(di estensione di 23.610 mq) ha formato oggetto di numerosi frazionamenti
con conseguente edificazione, nei lotti così creatisi, di altrettanti
immobili, connessi da una strada d’accesso e delimitati da un muro lungo
tutto l’asse nord/sud dell’area, sicché sussiste una lottizzazione abusiva
nella forma sia cartolare che materiale;
- che, inoltre, la contestata lottizzazione abusiva –pur al
sommario esame proprio della presente fase cautelare– non appare realizzata
interamente in data antecedente all’introduzione della l. 47/1985;
- che, in proposito, il Comune ha dato conto di elementi concreti
che suffragano il compimento di opere e atti giuridici, nell’ambito
dell’area coinvolta nella lottizzazione, successivamente all’entrata in
vigore della legge predetta;
Evidenziato:
- che l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta
a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell'ordinato
assetto del territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto
dall'eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio, e pertanto alcun
rilievo sanante può rivestire il rilascio di una eventuale concessione
edilizia, sia ex ante, in presenza di concessioni edilizie già
rilasciate, sia successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in
via di sanatoria (TAR Campania Salerno, sez. I – 14/11/-OMISSIS-23 n. 2172,
che ha puntualizzato come “Su queste basi, non è possibile la sanatoria
della lottizzazione abusiva tramite il condono delle singole unità
immobiliari realizzate abusivamente, non potendo le singole porzioni di
suolo ricomprese nell'area abusivamente lottizzata essere valutate in modo
isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione
di zona che ne deriva nel suo complesso”);
- che, su quest’ultimo punto, si veda in senso conforme Consiglio
di Stato, sez. VI – 19/04/-OMISSIS-23 n. 3957;
- che, in ogni caso, la natura di illecito permanente della
lottizzazione abusiva (cfr. Consiglio di Stato n. 2947/-OMISSIS-21) conduce
a ritenere applicabile la sanzione reale della demolizione di cui all’art.
18 l. 47/1985; in altri termini, il fatto che le opere siano state
realizzate in un lungo arco di tempo non incide in alcun modo sulla
legittimità dell'ordine di sospensione della lottizzazione, avuto presente
il menzionato carattere permanente dell'illecito (cfr. Tar Sicilia- Palermo
sent. n. 1001/-OMISSIS-23);
- che la conseguente insanabilità si giustifica con la deviazione
dagli scopi stabiliti con la pianificazione urbanistica e la lesione
dell'essenziale prerogativa comunale della programmazione in materia (CGA
Sicilia – 22/06/-OMISSIS-22 n. 745, ad avviso del quale “essa ha dunque
una potenzialità lesiva più estesa di quella del singolo abuso edilizio
poiché incide sull'interesse pubblico primario alla corretta urbanizzazione
del territorio condizionando indebitamente le scelte pianificatorie future”);
Dato atto:
- che, per costante giurisprudenza, non vi è obbligo per il Comune
di procedere ad una variante urbanistica pur in presenza di zone interessate
da vasti interventi abusivi (CdS, I, 14.03.-OMISSIS-22, n. 565; Id., II,
02.11.-OMISSIS--OMISSIS-, n. 6762 e 07.08.-OMISSIS-19, n. 5607);
- che, con riguardo all’ultimo motivo, la natura di atto vincolato
del provvedimento impugnato esclude la necessità di comunicazione del
preavviso di rigetto;
Ritenuto:
- che, in definitiva, non sussiste il fumus boni iuris del
gravame; |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso in centro storico, prima di demolire (o monetizzare) serve
il parere della Soprintendenza.
La procedura, ricorda il Consiglio di Stato chiamato a giudicare
un’intricata vicenda, si applica anche agli edifici non sottoposti a vincolo.
Prima di decidere se demolire o concedere
la possibilità di monetizzare un
abuso edilizio su un edificio nel centro storico, il Comune deve chiedere il
parere della Soprintendenza, anche se l'intervento riguarda un bene non
sottoposto a tutela. E comunque, in caso di inottemperanza all'ordine di
demolizione, benché l'acquisizione al patrimonio del Comune «operi di
diritto,
non è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari al fine di
addivenire al trasferimento di proprietà, che necessita di un titolo;
pertanto, il
mancato accertamento dell'inottemperanza, unitamente peraltro
all'adozione di atti e/o comportamenti dell'Amministrazione incompatibili
con l'esercizio di tale potestà acquisitiva, possono escludere la
colpevolezza
del proprietario, non determinando il trasferimento della proprietà, ferme
restando le responsabilità civili, amministrative, penali e contabili dei
funzionari che non hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio
secondo le scansioni temporali previste dal legislatore».
Questi principi si
leggono nella lunga e densa pronuncia del Consiglio di Stato - Sez. II (sentenza 22.01.2024 n. 806)
che mette la parola fine a una vicenda
estremamente complessa, di cui in passato si è occupato sia il giudice
ordinario (fino a una pronuncia della Corte
d'Appello) sia lo stesso giudice amministrativo (con sentenze del Tar Emilia
Romagna e infine dello Stesso Consiglio
di Stato).
La controversia prende le mosse da un abuso edilizio, consistente
in una sopraelevazione su una terrazza
all'ultimo piano di un edificio (non sottoposto a tutela) nel centro storico
di Modena, di cui di fatto ne è stato
modificato il prospetto. L'intervento consiste nella l realizzazione di un
volume di circa 14 mq con un affaccio diretto
quasi in linea con il fronte dell'edificio e con due finestre, diverse per
forma e collocazione rispetto a quelle del
palazzo. L'intervento è stato realizzato in difformità a una istanza di
risistemazione dell'immobile ottenuta nel 1983.
Successivamente, l'interessata ha chiesto la sanatoria ai sensi del condono
del 1985, che gli è stata negata dal
Comune, il quale nel 1990 ha emesso una ordinanza di demolizione, mai
formalmente revocata. Ne è seguito un
primo contenzioso, che si concluso sfavorevolmente al proponente: sia il Tar
Emilia Romagna che il Consiglio di
Stato, infatti, respingono, rispettivamente, ricorso e appello
dell'interessato. L'abuso viene confermato anche dal
giudice ordinario, con sentenze del Tribunale e della Corte d'Appello.
Tuttavia, questi giudizi non incidono in alcun
modo sulla realtà: né il proprietario procede alla rimessa in pristino, né
le opere vengono demolite dal Comune, il
quale non procede neanche all'acquisizione del bene. Si apre invece una
interlocuzione tra il proprietario e il
Comune, ad esito della quale vengono emanati due successivi provvedimenti,
nel 2019 e poi nel 2022, con i quali il
Comune concede alla proprietaria la sanatoria dell'abuso previa
monetizzazione, in alternativa alla demolizione.
A questo punto inizia il secondo contenzioso perché il provvedimento viene
impugnato dai condomini dell'edificio.
Il Tar Emilia Romagna accoglie il ricorso.
Da ultimo, il Consiglio di Stato,
ad esito di una attenta ricostruzione e una
approfondita analisi dei vari profili del caso, respinge l'appello e annulla
i provvedimenti del Comune, con però una
diversa motivazione rispetto al Tar. In questo secondo contenzioso lo stesso
Comune di Modena si è costituito
ad
adiuvandum a fianco dell'interessata.
A rendere complicata la vicenda è
anche la classificazione dell'intervento
edilizio oggetto della controversia, che il Tar inquadra come nuova
costruzione e che invece il Consiglio di Stato
riconduce alla ristrutturazione edilizia. Il Tar respinge il ricorso perché
ritiene che il Comune abbia violato l'articolo 31
del Testo unico edilizia, cioè quello che riguarda gli interventi senza
permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali. L'articolo 31 prevede appunto la procedura
dell'acquisizione del bene al patrimonio comunale,
in caso mancata rimessa in pristino da parte dell'interessato (cui può
eventualmente seguire una demolizione
volontaria da parte del proprietario negoziata con il Comune).
Anche il
Consiglio di Stato respinge l'appello ma
guarda invece all'articolo 33, quello sugli interventi di ristrutturazione
edilizia in assenza di permesso di costruire o in
totale difformità. Per questa fattispecie, come è noto, è prevista la
rimessa in pristino ma non l'acquisizione da parte
del comune in caso di inottemperanza. Di fatto, attraverso due percorsi
argomentativi diversi, i due giudici arrivano
alla medesima conclusione. Nel primo caso, il Tar respinge il ricorso perché
-muovendosi nella logica
dell'acquisizione del bene al patrimonio comunale ex articolo 31- conclude
che «la fiscalizzazione non avrebbe
potuto intervenire essendo il bene ormai passato alla proprietà pubblica».
Il Consiglio di Stato -muovendosi invece
nella logica della regolarizzazione ex articolo 33- pizzica il comune nel
mancato adempimento previsto dal comma
4 dell'articolo, bypassando il parere obbligatorio e vincolante da
richiedere alla Soprintendenza, previsto anche nel
caso di edifici non vincolati.
Infatti, ricordano i giudici della Seconda
Sezione di Palazzo Spada, in caso di
regolarizzazione di opere di ristrutturazione edilizia, «eseguite su
immobili, anche non vincolati, ubicati nei centri
storici, la individuazione della tipologia di sanzione da applicare, reale o
pecuniaria, spetta all'amministrazione
preposta alla tutela dei beni culturali ed ambientali, che si esprime
mediante un parere vincolante.
Tale tipologia di
atto, per il suo contenuto, ha valenza sostanzialmente decisoria, il che
implica che il Comune deve attenersi a
quanto stabilito dalla suddetta amministrazione. Esclusivamente nel caso in
cui il parere non venga reso entro il
termine previsto, la competenza si trasferisce all'amministrazione
comunale». Il comune invece ha fatto tutto in
casa, attraverso la commissione sulla qualità del paesaggio, in difformità
dalla legge.
«È proprio il legislatore -sottolinea Palazzo Spada- ad avere preteso, giusta il potenziale impatto di
un intervento demolitorio, anche singolo,
all'interno di un centro storico, che la scelta (di ripristino, solo se
tecnicamente possibile, ovvero di mantenimento, a
prescindere dalla fattibilità) sia rimessa all'Autorità preposta alla tutela
di un vincolo, ancorché formalmente non
imposto.
D'altro canto, la affermata insanabilità dell'opera di cui
all'originario provvedimento del 1989, si fonda
proprio sulla assimilazione, quanto meno con riferimento al regime degli
illeciti, tra regime vincolistico e regime di inedificabilità imposto dalla
disciplina urbanistica».
«Introducendo un autonomo concetto giuridico,
anziché pratico/tecnico, di impossibilità
demolitoria, invece, e nel contempo avocando ad un proprio organismo
consultivo l'espressione della scelta tra
demolizione e monetizzazione, sulla base di un giudizio di valore che non
tiene alcun conto dei precedenti giudicati
sul punto -concludono i giudici- il Comune di Modena ha violato l'art. 33,
comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001».
«Applicando la regola generale, infatti, avrebbe dovuto far verificare dai
propri uffici tecnici la fattibilità del ripristino;
applicando invece quella specifica dettata per i centri storici, previa
istruttoria finalizzata comunque ad accertare la
fattibilità tecnica del ripristino, avrebbe dovuto acquisire il preventivo
parere della Soprintendenza, quale unico
soggetto munito della richiesta terzietà per evitare la demolizione, seppure
concretamente eseguibile, a tutela
dell'assetto complessivo dei luoghi. Tertium non datur» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sopraelevazione, c’è l’interesse ad agire in giudizio del
condòmino.
Il Consiglio di Stato l’ha individuato
nella tutela del valore architettonico dell’edificio
La tutela del valore architettonico dell’edificio condominiale,
“astrattamente pregiudicata da qualsivoglia ipotesi di sopraelevazione”,
integra sicuramente l’interesse ad agire del condomino contro provvedimenti
che invece ne legittimano il mantenimento.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 22.01.2024 n. 806 (Pres. Cirillo, Est. Manzione) con una complessa
decisione che ha toccato almeno tre punti su cui, si legge in una nota del
Cds, “non esistono precedenti negli esatti termini”.
Il requisito della vicinitas, quale condizione della legittimazione ad
agire, spiega il Collegio, è intrinseco nella qualità di condomino ma non
assorbe, neppure in tale peculiare ipotesi, quello dell’interesse ad agire,
che va dimostrato in concreto, anche in corso di causa; esso, tuttavia -prosegue-, sussiste ogniqualvolta l’intervento contestato sia una
sopraelevazione, e il condomino lamenti il pregiudizio all’aspetto
architettonico dell’edificio, giusta l’operatività in tali ipotesi dell’art.
1127, commi 2 e 3, c.c.
Nel caso affrontato l’intervento era consistito in una sopraelevazione
contro la quale alcuni condomini avevano proposto ricorso al giudice civile
ex art. 1127 c.c. La Corte di Appello di Bologna, confermando sul punto la
pronuncia di primo grado, ha ritenuto corretto il paradigma normativo
invocato, in quanto intervenendo sul lastrico solare con una chiusura la
signora l’ha “inglobato” nel proprio appartamento.
Il Collegio condivide la
ricostruzione operata dal giudice civile. L’incremento di volumetria, cioè,
è stato realizzato sì sulla propria esclusiva di una parte, ma effettuando
una sopraelevazione, la cui realizzazione soggiace comunque ai limiti e alle
condizioni di cui ai commi 2 e 3 del richiamato art. 1127 c.c.
Pur non
essendo stato ritenuto provato il pregiudizio statico riveniente all’intero
edificio, è stata al riguardo dichiarata «la discontinuità con la linea
orizzontale superiore del fabbricato, […] arretrata rispetto alla facciata
condominiale» nonché connotata dalla presenza di «due finestre di forma e
finiture diverse da quelle esistenti nei piani inferiori e disallineate
rispetto alle stesse, determinando un quid disarmonico rispetto al
preesistente a scapito del pregio estetico del condominio nel suo aspetto
architettonico».
Il Consiglio di Stato pone anche altri punti fermi. Benché la sanzione
acquisitiva al patrimonio dell’ente, spiega il Collegio, in caso di
inottemperanza dell’ordine di demolizione dell’abuso edilizio, operi «di
diritto», non è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari al
fine di addivenire al trasferimento di proprietà, che necessita di un
titolo; pertanto, il mancato accertamento dell’inottemperanza, unitamente
peraltro all’adozione di atti e/o comportamenti dell’Amministrazione
incompatibili con l’esercizio di tale potestà acquisitiva, possono escludere
la colpevolezza del proprietario, non determinando il trasferimento della
proprietà, ferme restando le responsabilità –civili, amministrative, penali
e contabili– dei funzionari che non hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio secondo le scansioni temporali previste dal legislatore.
Inoltre, lo stato legittimo dell’immobile, chiarisce la decisione, è altra
cosa rispetto alla sua consistenza originaria e va desunto dall’ultimo
titolo di legittimazione rilasciato; qualora un titolo edilizio esista e sia
proprio lo “scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria ad
attivare il procedimento sanzionatorio, non è certo possibile riferirsi a
una ipotetica situazione preesistente al titolo stesso, salvo introdurre una
forma di improprio e generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute
medio tempore, legittimate o meno (articolo NT+Diritto del 30.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Conseguenze della mancata demolizione di un immobile abusivo.
In linea generale il proprietario non ha più alcun diritto a
porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni,
spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se
coinvolgerlo ulteriormente nella stessa.
Quanto alla possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1, del
medesimo T.u.e., consente la presentazione della relativa istanza «fino alla
scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34,
comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e
dunque prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in
pristino ovvero -nel caso in cui ciò non sia possibile- prima
dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli articoli 33 e
34.
Le possibili variabili a tale -condiviso- schema ricostruttivo generale
conseguono alle difficoltà dei Comuni di dare seguito alle sanzioni
ripristinatorie, come dimostrato dalla sempre denunciata scarsa incidenza
casistica degli abusi concretamente demoliti rispetto a quelli
effettivamente accertati. Nella prassi, cioè, accade sovente che i
provvedimenti ripristinatori rimangano lettera morta per incapacità,
semplice inerzia, ovvero addirittura scelta consapevole dell’amministrazione
procedente.
La meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi enunciati
finirebbe dunque per determinare un incredibile quantitativo di situazioni
nelle quali, a prescindere da qualsivoglia analisi del caso concreto, lo
stato di diritto non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più
elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche. Vero è che la
formulazione della norma non sembra lasciare spazio a momenti interruttivi
della sequenza procedimentale che consegue all’avvenuta adozione
dell’ingiunzione a demolire.
Si ritiene tuttavia che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da
considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile condizione sospensiva, da
ravvisare nel formale accertamento dell’inottemperanza, notificato
«all’interessato» (art. 31, comma 4).
L’applicazione della sanzione ablatoria, peraltro, in ragione della sua
massima afflittività, presuppone necessariamente l’apertura di una parentesi
accertativa/informativa che da un lato consente all’amministrazione di
verificare l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo
autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del nudo proprietario,
estraneo e finanche inconsapevole della prima fase del procedimento.
Essa risponde dunque ad esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche
di risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea, seppure tardiva,
soddisfa pienamente e a costo zero le esigenze di buon governo del
territorio dell’Amministrazione vigilante
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 22.01.2024 n. 806
- massima tratta da e link a https://lexambiente.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sull’interesse del condomino ad agire in giudizio contro un
abuso edilizio.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Giustizia
amministrativa – Condominio – Interesse al ricorso.
Il requisito della vicinitas, quale
condizione della legittimazione ad agire, è intrinseco nella
qualità di condomino ma non assorbe, neppure in tale
peculiare ipotesi, quello dell’interesse ad agire, che va
dimostrato in concreto, anche in corso di causa.
Esso, tuttavia, sussiste ogniqualvolta l’intervento
contestato sia una sopraelevazione, e il condòmino lamenti
il pregiudizio all’aspetto architettonico dell’edificio,
giusta l’operatività in tali ipotesi dell’art. 1127, commi 2
e 3, c.c. operatività dell’art. 1127 c.c. (1).
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Edilizia e
urbanistica – Abuso edilizio – Acquisizione al patrimonio
del comune – Inottemperanza – Accertamento.
Benché la sanzione acquisitiva al
patrimonio dell’ente, in caso di inottemperanza dell’ordine
di demolizione dell’abuso edilizio, operi «di diritto», non
è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari
al fine di addivenire al trasferimento di proprietà, che
necessita di un titolo.
Pertanto, il mancato accertamento dell’inottemperanza,
unitamente peraltro all’adozione di atti e/o comportamenti
dell’Amministrazione incompatibili con l’esercizio di tale
potestà acquisitiva, possono escludere la colpevolezza del
proprietario, non determinando il trasferimento della
proprietà, ferme restando le responsabilità –civili,
amministrative, penali e contabili– dei funzionari che non
hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio secondo le
scansioni temporali previste dal legislatore (2)
---------------
Edilizia e
urbanistica – Abuso edilizio – Accertamento – Titolo
edilizio.
Lo stato legittimo dell’immobile è altra
cosa rispetto alla sua consistenza originaria e va desunto
dall’ultimo titolo di legittimazione rilasciato.
Qualora un titolo edilizio esista e sia proprio lo
“scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria
ad attivare il procedimento sanzionatorio, non è certo
possibile riferirsi ad una ipotetica situazione preesistente
al titolo stesso, salvo introdurre una forma di improprio e
generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute
medio tempore, legittimate o meno (3).
---------------
(1) Non risultano precedenti negli esatti termini.
(2) Non risultano precedenti negli esatti termini.
(3) Non risultano precedenti negli esatti termini (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 22.01.2024 n. 806 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
10. La vicenda di cui è causa, resa ancor più
complessa dall’evidente conflittualità sottesa alla stessa e
dal profluvio argomentativo di tutte le parti (da ultimo, la
memoria di replica delle appellate supera finanche i
previsti limiti dimensionali), interseca diverse questioni
di diritto con riferimento alle quali appare opportuno una
preliminare ricostruzione giuridica.
Oggetto di impugnativa sono due provvedimenti di c.d.
fiscalizzazione di un abuso edilizio, la cui sussistenza è
incontestata tra le parti, ancorché non ne sia condiviso
l’inquadramento, essendone dubbia la riconducibilità al
paradigma della “nuova opera” o della “ristrutturazione
edilizia”, in entrambi i casi sine titulo, ovvero, al più,
in totale difformità da quanto avallato con l’unico
posseduto, vale a dire l’autorizzazione edilizia n. 1461 del
1983 per «risanamento e modifiche di un appartamento al 4°
piano di un fabbricato civile».
Il secondo provvedimento, di
sostanziale conferma del precedente, consegue alla
dichiarata necessità di ottemperare al giudicato cautelare
favorevole alle ricorrenti in primo grado, previa
acquisizione, peraltro, di documentazione tecnica che il
Comune ha ritenuto satisfattiva dell’avvenuto rispetto dei
requisiti imposti dalla normativa antisismica.
11. Il primo giudice, nel tentativo di mettere ordine nel
reticolo delle contrapposte argomentazioni di parte, e
soprattutto nel disordinato sviluppo procedimentale seguito
dagli uffici comunali, ha infine motivato l’accoglimento del
ricorso sul solo scrutinio positivo della doglianza
contenuta al punto 3.1 dei motivi aggiunti, relativi alla
invocata inapplicabilità agli interventi di “nuova
costruzione” dell’istituto di cui all’art. 33, comma 4, del T.u.e.
Nello sviluppo della motivazione, tuttavia, ha dato
altresì atto della fondatezza di ulteriori rilievi avanzati
dalle ricorrenti in particolare con il ricorso principale,
seppure in verità senza preoccuparsi troppo della coerenza
narrativa della ricostruzione del quadro normativo proposta.
Da qui il riferimento all’avvenuta acquisizione del bene al
patrimonio del Comune, giusta la colpevole inottemperanza
all’ingiunzione a demolire, non potendo la condotta della
proprietaria essere “scriminata” dai documentati tentativi
di appianare le problematiche di natura civilistica sottese
alla vicenda.
Con riferimento poi alle censure riguardanti
il primo atto, ma superate dal contenuto del secondo
(lesione del contraddittorio, violazione o erronea
applicazione della l.r. n. 39 del 2004), dando atto che esse
sono state «depotenziate, alla luce del rinnovato esercizio
dell’iter procedimentale e del nuovo provvedimento», ha
dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse.
Alcune
ulteriori questioni invece, o in quanto «aventi natura
logicamente subordinata» o perché divenute irrilevanti (ad
esempio, il rispetto delle norme in materia sismica,
l’incongruità motivazionale, la disparità di trattamento),
sono state assorbite.
Infine, «sull’applicazione della
sanzione di 20.000 € (asseritamente dovuta ex art. 31 comma
4-bis)» ha ritenuto di non potersi pronunciare «trattandosi
di attività amministrativa consequenziale e non ancora
esercitata».
12. Il Collegio ritiene dunque utile innanzi tutto chiarire
che il perimetro della controversia si concentra
essenzialmente sul provvedimento del Comune di Modena del
2022, che in quanto confermativo del precedente, ne replica
il contenuto (e quindi i vizi), ampliandoli, ma nel contempo
ne elimina alcuni in precedenza presenti.
12.1. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia
meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di
conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e
da impugnarsi nei termini), occorre verificare se esso sia
stato adottato o meno a seguito di una nuova istruttoria e
di una nuova ponderazione degli interessi.
In tale seconda ipotesi, va dunque richiamato l’insegnamento
giurisprudenziale per il quale
«ogni nuovo provvedimento
innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera
giuridica del suo destinatario, anche di conferma propria
(che si ha quando la pubblica amministrazione, sulla scorta
di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova
motivazione, dimostri di voler confermare la volizione
espressa in un precedente provvedimento) ed anche se frutto
di un riesame non spontaneo, ma indotto da un provvedimento
del Giudice amministrativo, che tuttavia rifletta nuove
valutazioni dell'Amministrazione e implichi il definitivo
superamento di quelle poste a base di un provvedimento
impugnato giurisdizionalmente, comporta la sopravvenienza di
carenza di interesse del ricorrente alla coltivazione del
relativo gravame» (v. Cons. Stato, sez. VI, 15.01.2018,
n. 195, che, a sua volta, richiama Cons. Stato, III, 02.09.2013, n. 4358 e sez. IV, 25.06.2013, n. 3457).
13. Da un confronto meramente testuale tra la determina del
2019 e quella del 2022 risultano chiari gli elementi di
diversificazione e di approfondimento sopravvenuto, a
partire dal mutato richiamo alla cornice normativa di
riferimento, abbandonando il riferimento alla legislazione
regionale per ricondurre la scelta solo sotto l’egida
dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Da qui,
l’effettiva inutilità della riproposizione da parte delle
appellate delle censure facenti leva sulla contestata errata
applicazione di tale legislazione regionale.
13.1. Vero è che nei casi di riedizione del potere in mera
ottemperanza di una sentenza, si configura un comportamento
attuativo necessitato dalla volontà di non vedersi esposto
ad un’esecuzione coattiva sotto il controllo e la vigilanza
del giudice (Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2011, n. 1757; Cons. Stato, sez. IV,
02.01.2019, n. 16).
Nel caso di
specie tuttavia l’adozione non in maniera spontanea, ma in
esecuzione della decisione cautelare del giudice, del nuovo
atto regolante la vicenda da parte dell’Amministrazione, non
dà allo stesso rilevanza provvisoria, in attesa cioè che una
sentenza di merito definitiva accerti se quello
originariamente impugnato sia o meno legittimo.
Al
contrario, da esso emerge chiaramente che l’Amministrazione,
a seguito della decisione del giudice, ha sostituito il
provvedimento la cui esecutività è stata sospesa in sede
giurisdizionale con un nuovo provvedimento frutto di una
rinnovata valutazione degli interessi coinvolti, così
adeguandosi al suo pronunciamento senza attendere il
giudicato, innovando rispetto all’assetto di interessi già
pregiudizievole per il privato.
In sintesi, seppure il
dirigente abbia richiamato espressamente in premessa
l’ordinanza n. 186/2022 del Tar per l’Emilia Romagna, se
ne è poi discostato radicalmente, avendo da subito rimarcato
che «non si è verificato alcun effetto ablatorio del
manufatto in questione a favore del Comune di Modena visti
gli intendimenti reiteratamente espressi dalla sig.ra
Ma. di dare corso all’ordinanza con il corretto
obiettivo di ripristinare uno stato dei luoghi conforme alla
categoria del restauro propria dell’immobile, e non di
creare un “quid novi” inconciliabile con tale categoria».
In
senso diametralmente opposto la richiamata ordinanza,
esprimendosi sul fumus dell’istanza, dà atto che «in buona
sostanza, l’effetto ablatorio in favore del Comune appare
essersi verificato ope legis con l’inutile scadenza del
termine fissato per ottemperare all’ingiunzione, mentre è
irrilevante la mancata adozione di un atto di ricognizione
della consistenza immobiliare oggetto di trasferimento (il
quale costituisce viceversa titolo necessario per
l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari del trasferimento dell’immobile)», invocando
anche la copiosa giurisprudenza del Consiglio di Stato in
materia.
14. Sempre in limine litis, alterando la sistematica seguita
nello sviluppo dell’appello, il Collegio ritiene opportuno
scrutinare il quarto motivo di gravame, con il quale la
signora Si.Ma. lamenta l’erroneità della sentenza
impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente
l’interesse ad agire delle condòmine, asseritamente
identificandolo nella mera affermazione di tale specifico
status.
15. In materia di impugnazione dei titoli edilizi,
l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia
n. 22 del 2021, risolvendo un contrasto giurisprudenziale
sulle condizioni dell’azione impugnatoria da parte di chi si
ritenga leso da un titolo rilasciato a terzi, ha precisato
che la mera c.d. vicinitas, intesa come vicinanza fisica
della propria proprietà rispetto a quella oggetto
dell’intervento edilizio contestato, non basta a dimostrare
l’esistenza di un concreto ed attuale interesse a ricorrere,
dovendosi affermare la distinzione e l’autonomia tra la
legittimazione ad agire e l’interesse al ricorso.
Il Giudice
è tenuto dunque ad accertare anche d’ufficio la sussistenza
di entrambe le condizioni dell’azione, verificando se esiste
un vantaggio concreto ed attuale che il ricorrente potrebbe
effettivamente trarre dalla caducazione del titolo edilizio
contestato, tenuto conto delle specifiche censure articolate
in atti e concedendogli la possibilità di precisarlo e
comprovarlo in corso di causa, in modo da evitare il
compimento di attività giurisdizionali inutili, in contrasto
con l’interesse pubblico all’efficienza ed efficacia del
processo ex artt. 111 Cost., 6 e 13 CEDU e 47 Carta UE.
15.1. Quanto detto non subisce deroghe neppure laddove ad
agire sia un condomino, in relazione ad interventi che non
interessino, o non interessino direttamente, parti comuni
dell’edificio, seppure evidentemente la peculiarità del
contesto renda la vicinitas per così dire ontologicamente
intrinseca alla relativa qualifica.
Come di recente
affermato anche dalla Sezione, ad esempio, laddove le
conseguenze dannose dell’intervento siano già state oggetto
di pronuncia risarcitoria favorevole, l’interesse è venuto
meno, al fine di evitare un’indebita locupletatio del terzo
rispetto alla censurata attività edificatoria altrui (Cons.
Stato, sez. II, 17.10.2022, n. 8841).
15.2. Nel caso di specie tuttavia l’intervento è consistito
nella sopraelevazione dell’edificio, con riferimento alla
quale le odierne appellate non a caso hanno proposto ricorso
innanzi al giudice civile ex art. 1127 c.c.
La Corte di
Appello di Bologna, confermando sul punto la pronuncia di
primo grado, ha ritenuto corretto il paradigma normativo
invocato, in quanto intervenendo sul lastrico solare con una
chiusura la signora Si.Ma. l’ha “inglobato” nel
proprio appartamento.
E in effetti, quale che ne sia
l’inquadramento tipologico sotto il profilo edilizio e a
prescindere dalla contestata efficacia di giudicato di tali
affermazioni da parte della difesa civica, giusta
l’estraneità del Comune di Modena a ridetto contenzioso, il
Collegio condivide la ricostruzione dei fatti di causa
operata dal giudice civile. L’incremento di volumetria,
cioè, è stato realizzato sì sulla propria esclusiva di una
parte, ma effettuando una sopraelevazione, la cui
realizzazione soggiace comunque ai limiti e alle condizioni
di cui ai commi 2 e 3 del richiamato art. 1127 c.c.
Pur non
essendo stato ritenuto provato il pregiudizio statico
riveniente all’intero edificio, è stata al riguardo
dichiarata «la discontinuità con la linea orizzontale
superiore del fabbricato, […] arretrata rispetto alla
facciata condominiale» nonché connotata dalla presenza di
«due finestre di forma e finiture diverse da quelle
esistenti nei piani inferiori e disallineate rispetto alle
stesse, determinando un quid disarmonico rispetto al
preesistente a scapito del pregio estetico del condominio
nel suo aspetto architettonico».
Il riferimento alle
finestre, quindi, cui l’appellante vorrebbe circoscrivere la
portata del giudicato civile, è solo esemplificativo, oltre
che rafforzativo, della generale disarmonia prodotta, quanto
meno ad avviso del giudice civile.
15.3. La tutela, dunque, del valore architettonico
dell’edificio condominiale, astrattamente pregiudicata da
qualsivoglia ipotesi di sopraelevazione, integra sicuramente
l’interesse ad agire avverso provvedimenti che ne
legittimano il mantenimento, siccome accaduto nel caso di
specie.
15.4. Va pertanto respinto il quarto motivo di appello.
16. D’altro canto e in senso diametralmente opposto, la
sentenza impugnata ha ritenuto meritevole di apprezzamento
la tesi contenuta nei motivi 2.1, 2.2 e 2.5 del ricorso
introduttivo, laddove le appellate allora ricorrenti
lamentano il difetto di legittimazione a chiedere una
sanatoria da parte dell’appellante, essendo ormai
intervenuta l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio
indisponibile del Comune, e alla luce del giudicato
formatosi sulla compromissione e peggioramento del decoro
architettonico del palazzo.
La questione, ripresa nel motivo
aggiunto 3.1, è infine più correttamente ricondotta non alla
legittimazione ad avanzare richieste di qualunque genere al
Comune di Modena -cui spettava l’onere di dichiararne se del
caso l’improcedibilità- bensì alla ritenuta violazione,
nell’adozione degli atti impugnati, dell’art. 33, comma 4,
del d.P.R. n. 380 del 2001, che essendo riferito alle
ipotesi di ristrutturazione abusiva, non avrebbe potuto
trovare applicazione in caso di “nuova costruzione”, quale
quella in esame.
17. Il Collegio ritiene utile premettere una sintetica
ricostruzione dei principi posti a base degli istituti
giuridici a vario titolo e con finalità opposte evocati da
tutte le parti in causa, in maniera peraltro spesso confusa,
sì da attingere indistintamente elementi dall’uno e
dall’altro, seppure si tratti di categorie autonome e per
nulla fungibili.
18. L’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, prevede, per
i soli casi di opera eseguita in assenza di permesso di
costruire, ovvero in variazione essenziale o totale
difformità dallo stesso, quale conseguenza della mancata
ottemperanza all’ordine di demolizione, un’automatica
fattispecie acquisitiva al patrimonio del comune dell’opera
abusiva e della relativa area di sedime.
Sull’automatismo
del relativo meccanismo acquisitivo si è di recente espressa
anche l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai cui
principi occorre fare integrale rinvio, seppure con talune
precisazioni integrative (Cons. Stato, A.P., 11.10.2023, n. 16).
18.1. Come affermato dal giudice delle leggi con riferimento
all’omologa previsione contenuta nell’art. 15, comma 3,
della l. 28.01.1977, n. 10, «l’acquisizione, a titolo
gratuito, dell’area sulla quale insiste la costruzione
abusiva al patrimonio indisponibile del comune rappresenta
la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in
essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale
difformità od in assenza della concessione e, poi, non
adempie l’obbligo di demolire l’opera stessa» (Corte cost.,
ordinanza n. 82 del 15.02.1991).
La natura sanzionatoria autonoma dell’acquisizione al patrimonio, da
sempre riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa (da
ultimo, v. ex multis C.G.A.R.S., 25.03.2022, n. 373,
nonché Cons. Stato, sez. II, 20.01.2023, n. 714), ha
trovato d’altro canto conferma con l’aggiunta al predetto
art. 31 dei commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, per effetto
dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), della legge 11.11.2014, n. 164, di conversione, con modifiche, del d.l. 12.09.2014, n. 133, che hanno previsto un’ulteriore e
autonoma sanzione per il medesimo illecito, ovvero la
corresponsione di una somma di danaro compresa tra euro
duemila (2.000/00) e euro ventimila (20.000/00), i cui
proventi sono a destinazione vincolata alle spese per rimessione in pristino e acquisizione e attrezzatura di aree
destinate a verde pubblico. Sanzione aggiuntiva della quale
le appellate lamentano la mancata irrogazione.
Sul punto,
come detto, il primo giudice ha ritenuto di non
pronunciarsi, essendo il relativo potere ancora esercitabile
dal Comune di Modena, così dando ulteriormente per scontato
che l’intera fattispecie sia da ricondurre all’interno della
cornice delineata dall’art. 31 e non dall’art. 33 del T.u.e.
18.2. L’ordine di demolizione e l’atto di acquisizione al
patrimonio comunale costituiscono dunque due distinte
sanzioni, che rappresentano «la reazione dell’ordinamento al
duplice illecito posto in essere da chi dapprima esegue
un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di
demolirla» (Corte cost., n. 140 del 2018, § 3.5.1.1.).
Mentre la sanzione disposta con l’ordinanza di demolizione
ha natura riparatoria ed ha per oggetto le opere abusive,
per cui l’individuazione del suo destinatario comporta
l’accertamento di chi sia obbligato propter rem a demolire e
prescinde da qualsiasi valutazione sulla imputabilità e
sullo stato soggettivo (dolo, colpa) del titolare del bene;
invece, l’acquisizione gratuita, quale conseguenza
dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e della
relativa omissione, ha natura afflittiva (così come la
correlata sanzione pecuniaria).
18.3. Le scansioni procedurali sintetizzate dall’Adunanza
plenaria risultano dunque essere le seguenti: «[…] il
responsabile dell’illecito, il proprietario ed i suoi aventi
causa hanno sempre il dovere di rimuoverne le conseguenze,
sicché vanno distinte le seguenti fasi temporali:
a) fino a quando scade il termine fissato nell’ordinanza di
demolizione, questi hanno il dovere di effettuare la
demolizione, che, se viene posta in essere, evita il
trasferimento della proprietà al patrimonio pubblico;
b) qualora il termine per demolire scada infruttuosamente, i
destinatari dell’ordinanza di demolizione commettono un
secondo illecito di natura omissiva, che comporta, da un
lato, la perdita ipso iure della proprietà del bene con la
conseguente e connessa irrogazione della sanzione pecuniaria
e, dall’altro, la novazione oggettiva dell’obbligo propter
rem, perché all’obbligo di demolire il bene si sostituisce
l’obbligo di rimborsare l’Amministrazione, per le spese da
essa anticipate per demolire le opere abusive entrate nel
suo patrimonio, risultanti contra ius (qualora essa non
abbia inteso eccezionalmente utilizzare il bene ai sensi
dell’art. 31, comma 5, del d.P.R.n. 380 del 2001);
c) decorso il termine per demolire, qualora
l’Amministrazione non decida di conservare il bene, resta la
possibilità di un’ulteriore interlocuzione con il privato
per un adempimento tardivo dell’ordine di demolire, che non
comporta il sorgere di un diritto di quest’ultimo alla
‘retrocessione’ del bene, né fa venire meno la sanzione
pecuniaria irrogata, ma può evitargli, da un lato, la
perdita dell’ulteriore proprietà sino a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita se non è
già stata individuata in sede di ordinanza di demolizione,
nonché gli eventuali maggiori costi derivanti dalla
demolizione in danno».
19. In linea generale, quindi, il proprietario non ha più
alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la
scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla
discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se
coinvolgerlo ulteriormente nella stessa.
Quanto alla
possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1,
del medesimo T.u.e., consente la presentazione della
relativa istanza «fino alla scadenza dei termini di cui agli
articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque
fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e dunque
prima della scadenza del termine indicato per demolire o
ridurre in pristino ovvero -nel caso in cui ciò non sia
possibile- prima dell’irrogazione delle sanzioni previste
in alternativa dagli articoli 33 e 34.
20. Le possibili variabili a tale -condiviso- schema
ricostruttivo generale conseguono alle difficoltà dei Comuni
di dare seguito alle sanzioni ripristinatorie, come
dimostrato dalla sempre denunciata scarsa incidenza
casistica degli abusi concretamente demoliti rispetto a
quelli effettivamente accertati.
Nella prassi, cioè, accade
sovente che i provvedimenti ripristinatori rimangano lettera
morta per incapacità, semplice inerzia, ovvero addirittura
scelta consapevole dell’amministrazione procedente. La
meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi
enunciati finirebbe dunque per determinare un incredibile
quantitativo di situazioni nelle quali, a prescindere da
qualsivoglia analisi del caso concreto, lo stato di diritto
non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più
elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche.
21. Vero è che la formulazione della norma non sembra
lasciare spazio a momenti interruttivi della sequenza
procedimentale che consegue all’avvenuta adozione
dell’ingiunzione a demolire. Il Collegio ritiene tuttavia
che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da
considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile
condizione sospensiva, da ravvisare nel formale accertamento
dell’inottemperanza, notificato «all’interessato» (art. 31,
comma 4).
21.1. L’applicazione della sanzione ablatoria, peraltro, in
ragione della sua massima afflittività, presuppone
necessariamente l’apertura di una parentesi accertativa/informativa
che da un lato consente all’amministrazione di verificare
l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo
autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del
nudo proprietario, estraneo e finanche inconsapevole della
prima fase del procedimento.
Essa risponde dunque ad
esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche di
risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea,
seppure tardiva, soddisfa pienamente e a costo zero le
esigenze di buon governo del territorio dell’Amministrazione
vigilante.
21.2. Il rispetto di tali scansioni procedurali, dunque,
lungi dal costituire baluardo meramente formale
strumentalmente invocato per procrastinare, ovvero
scongiurare, la demolizione dell’abuso, costituisce il
giusto punto di incontro fra i contrapposti interessi
tutelati dal legislatore, ovvero la salvaguardia
dell’ordinato sviluppo del territorio, di cui il previo
titolo edilizio costituisce garanzia primaria, e la tutela
della proprietà, destinata comunque a recedere laddove il
titolare non sacrifichi al suo mantenimento il doveroso
ripristino spontaneo dello stato dei luoghi.
Il che poi,
sotto altro concorrente profilo, conduce a non svalutare il
valore del verbale del sopralluogo, in genere demandato alla
Polizia municipale, che constata l’omessa demolizione del
manufatto abusivo.
Per pacifica giurisprudenza esso
costituisce un mero atto istruttorio endoprocedimentale che
precede il provvedimento vero e proprio costituente titolo
«per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei
registri immobiliari, che deve essere eseguita
gratuitamente»; ma a detto verbale di sopralluogo deve
essere attribuito anche il valore corrispondente, mutatis
mutandis, al verbale di contestazione dell’illecito ex art.
14 della l. n. 689 del 1981, stante che è solo a far data
dallo stesso che il proprietario viene messo in condizione
di chiarire la propria posizione, scongiurando l’effetto
acquisitivo (ma non, ovviamente, quello demolitorio).
Solo
così è possibile recuperare quel necessario elemento di
raccordo tra i due snodi che tipicamente connotano ogni
procedimento sanzionatorio, ovvero la fase affidata agli
organi di vigilanza, deputata all’acquisizione di elementi
istruttori, e la successiva, avente natura lato sensu
contenziosa e decisoria, preordinata all’adozione, da parte
dell’autorità titolare della potestà sanzionatoria, del
provvedimento di irrogazione della stessa.
21.3. Nel contempo, le ricordate esigenze di certezza del
diritto non possono tradursi in un effetto traslativo
destinato a rimanere meramente virtuale ove non seguito,
cioè, dai necessari e doverosi adempimenti formali.
Ritiene
dunque il Collegio che l’operatività “di diritto”
dell’effetto acquisitivo allo scadere dei 90 giorni
dall’ingiunzione demolitoria vada intesa esclusivamente a
favore del Comune, ponendo il proprietario in una situazione
di mera soggezione rispetto alle scelte del primo, che non
gli consente più di demolire spontaneamente, salvo il primo
non glielo consenta, espressamente o tacitamente, non
addivenendo alla formazione del titolo sempre necessario per
dare luogo ad un cambio di proprietà.
21.4. È evidente al riguardo che ciò non esclude le
eventuali responsabilità, penali, amministrativo-contabili
e/o civili conseguente alla sostanziale rimessione in
termini operata dal Comune nel momento in cui non dà seguito
al procedimento sanzionatorio. Trattasi tuttavia di vicende
estranee al perimetro del giudizio e comunque inidonee ad
inficiare ex se il successivo procedimento amministrativo.
22. Ulteriore corollario di tali scelte gestionali è
costituito dalla potenziale incidenza delle stesse sulla
valutazione della “colpevolezza” del soggetto tenuto a
rimuovere l’abuso. Anche a tale riguardo, va detto che
l’Adunanza plenaria, nella pronuncia poc’anzi richiamata,
seppure quasi come un obiter, ha individuato quale unica
ipotesi di esclusione della imputabilità (non della
colpevolezza, quindi) il caso, in verità alquanto di scuola,
della «malattia completamente invalidante» ( § 19.6, della
pronuncia n. 16 del 2023).
23. Ritiene il Collegio che se è lo stesso Comune ad aprire
un dialogo con la proprietà, accedendo alle relative
proposte e di fatto operando continue rimessioni in termini
rispetto a quello normativamente previsto per
l’ottemperanza, ridetta colpevolezza non può che essere
esclusa.
23.1. Nel caso in esame, l’Amministrazione da un lato non ha
mai inteso annullare in autotutela l’ordinanza del 1990 -
revocata, a distanza di oltre trenta anni, con i
provvedimenti impugnati; ma dall’altro non vi ha dato mai
alcun concreto seguito, come avrebbe potuto –recte, dovuto–
fare una volta passata in giudicato la sentenza n. 1507/2012
di questo Consiglio di Stato, che ha confermato la
legittimità della denegata sanatoria.
Manca, dunque, un vero
accertamento di inottemperanza: l’ammissione della stessa
per tabulas nelle richieste di parte, dapprima di riesame,
indi di sanatoria/legittimazione di una diversa modalità
costruttiva, infine di fiscalizzazione, non è stata in alcun
modo valutata dal Comune in relazione alla tempistica entro
la quale l’abuso avrebbe dovuto essere demolito. Finanche la
nota del 21.05.2014, di riscontro alla richiesta di
parte del 02.04.2014, invocata dalle appellate a conferma
delle proprie tesi, conferma la scelta del Comune di non
dare seguito alla sanzione originariamente inflitta.
È vero,
infatti, che in tale occasione il dirigente ha dichiarato
non decaduto «nessun ordine di demolizione causa del parere
della Commissione per qualità architettonica e il paesaggio
del 14/03/2014 ove, a fronte di una Sua volontaria
demolizione di quanto realizzato abusivamente. È stato
proposto di valutare la possibilità di realizzare (dopo la
demolizione dell’abuso), una struttura di tipo
“ferro-finestra” per consentire il godimento del terrazzo
prospiciente su piazza Pomposa»; salvo poi sollecitare la
stipula di un accordo sostitutivo di provvedimento ex art.
11 della l. n. 241 del 1990, con ciò riconducendo il
problema del mantenimento o meno dello status quo al previo
avallo degli altri condomini, non alle questioni ostative di
natura urbanistica.
Lo stesso è a dire della successiva
comunicazione del 30.07.2015, che in maniera ancora più
ambigua “concede” «ulteriori 90 giorni, dal ricevimento
della presente, per dar corso all’esecuzione dell’ordinanza
di demolizione del 01.03.1990», sull’assunto che non è stato
dato riscontro all’invito precedente.
La nota peraltro
preannuncia, in caso di ulteriore inottemperanza, non la
futura acquisizione del bene e dell’area di sedime, ma
l’irrogazione aggiuntiva della (sola) sanzione di cui
all’art. 31, comma 4-bis, del T.u.e., «in considerazione del
fatto che l’abuso ricade nelle aree di cui all’art. 27, comma
2, del citato D.P.R. 380/2001», senza peraltro precisare
l’ipotizzata tipologia del vincolo, con ciò rafforzando
tuttavia l’originario inquadramento dell’illecito nella
fattispecie più grave.
24. Sotto tale profilo, dunque, è meritevole di positiva
valutazione la contestata acquisizione del bene alla
proprietà comunale (secondo motivo di appello, laddove si
contestano i capi da 1.6 a 1.8, pag. 28-29), ripreso anche
dal Comune di Modena, con argomentazione maggiormente
perspicua.
25. Il Tar per l’Emilia Romagna, tuttavia, dopo essersi
dilungato sulla tematica dell’automatica acquisizione del
bene al patrimonio comunale, vi giustappone quella della
ritenuta inapplicabilità alla fattispecie dell’istituto
della fiscalizzazione.
26. Con il termine “fiscalizzazione” dell’abuso, funzionale
ad evidenziare sinteticamente e già a livello definitorio la
sua sostanziale monetizzazione, si intende un rimedio
alternativo eccezionalmente concesso in luogo della
demolizione.
In particolare, si può accedere alla
fiscalizzazione sia in caso di mancanza, totale difformità o
variazione essenziale dal titolo riferito ad
ristrutturazione edilizia (art. 33, comma 2, del d.P.R. n.
380 del 2001); sia a fronte di accertata difformità solo
parziale dal permesso di costruire (art. 34, comma 2, e
2-bis, che ne ha esteso l’applicabilità anche agli
interventi soggetti a s.c.i.a. alternativa al permesso di
costruire di cui all’art. 23, comma 01); sia infine
all’esito di un annullamento, giudiziale o in autotutela,
del titolo stesso (art. 38).
Ma non nell’ipotesi, più grave,
di avvenuta realizzazione di una “nuova opera” in assenza di
permesso di costruire o in totale difformità o variazione
essenziale dallo stesso (art. 31).
27. Sul piano dei presupposti oggettivi, mentre nel caso di
variazione essenziale o totale difformità ovvero di
illiceità dell’intervento sopravvenuta all’annullamento del
titolo si fa riferimento all’impossibilità di esecuzione, il
cui accertamento motivato è demandato espressamente, almeno
nella prima ipotesi, ai competenti uffici tecnici comunali
(art. 33, comma 2); laddove si tratti di parziale difformità
la stessa è limitata alla verifica dell’impatto sulla «parte
eseguita in conformità», che non deve ricavarne pregiudizio.
27.1. Ad avviso del Collegio tale differenza, apparentemente
minimale, costituisce un ulteriore tassello a riprova della
proporzionalità del quadro delle reazioni dell’ordinamento
rispetto al diverso disvalore degli illeciti: ferma restando
la priorità sempre e comunque accordata all’opzione
ripristinatoria, l’impossibilità di addivenirvi è affidata a
più stringenti esigenze complessive di staticità e sicurezza
della costruzione nel caso della variazione essenziale o
totale difformità, mentre è circoscritta alla sussistenza di
esigenze di salvaguardia in quanto tale della parte “buona”
del manufatto, in caso di difformità parziale dal titolo,
prescindendo, solo in tale ultima ipotesi, dalla tipologia
di intervento effettuato (che dunque può anche non essere
una ristrutturazione).
27.2. Con riferimento agli immobili non vincolati ma
ricompresi nelle zone omogenee A di cui al decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444, la norma prevede
un’ulteriore “variabile” procedimentale, ovvero la necessità
del previo «parere vincolante circa la restituzione in
pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria» a cura
dell’«amministrazione competente alla tutela dei beni
culturali ed ambientali».
28. Se si eccettua il caso dell’avvenuta caducazione del
titolo, è dunque evidente che la fiscalizzazione costituisce
un “castigo” alternativo alla demolizione solo laddove
l’abuso sia per così dire parte di un tutto, che comunque il
legislatore consente eccezionalmente di preservare: ciò
avviene tipicamente sia nel caso in cui ci si discosti in
maniera minimale dalle indicazioni del permesso di
costruire, sia in quelle in cui, benché la divergenza sia
corposa, si tratta comunque di un intervento su patrimonio
edilizio preesistente.
29. Certo è che essa si basa su presupposti del tutto
diversi da quelli che portano all’acquisizione del bene al
patrimonio indisponibile quale conseguenza
dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire: e ciò per
l’evidente ragione che la maggior gravità di queste ultime
non consentono mai di tollerare il mantenimento in loco di
situazioni di illecito permanente ritenute radicalmente in
contrasto con esigenze di buon governo del territorio.
Laddove ciò avvenga, infatti, deve trattarsi di una scelta
funzionale all’interesse pubblico deliberato dall’organo
legislativo del Comune, e successiva all’acquisizione della
proprietà alla mano pubblica (art. 31, comma 5, del d.P.R.
n. 380 del 2001).
29.1. Rileva ancora il Collegio come tale eterogeneità
contenutistica trovi piena conferma nelle differenze di
declinazione dei relativi procedimenti sanzionatori: gli
artt. 33 e 34 del T.u.e. non prevedono affatto la notifica
dell’accertamento di inottemperanza per l’evidente ragione
che ad essa non consegue la perdita della proprietà. L’iter
si ricongiunge in tratti omogenei con riferimento alla
demolizione, che nei casi più gravi è successiva
all’acquisizione dell’opera, ma grava pur sempre sul Comune,
seppure a spese dei responsabili dell’abuso.
30. La sentenza impugnata, in verità in assenza di una
specifica censura sul punto, inquadra l’intervento come
“nuova costruzione” e coerentemente ritiene non applicabile
l’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non
riferibile a ridetta tipologia di intervento edilizio, salvo
poi precisare che in ogni caso la fiscalizzazione non
avrebbe potuto intervenire essendo il bene ormai passato
alla proprietà pubblica.
Su siffatto inquadramento «il Comune era privo di margini di
apprezzamento, avendola il giudice amministrativo già
qualificata come “nuova costruzione” (cfr. sentenza
irrevocabile sez. II - 11/7/2003, par. 1-d)». Esso inoltre
contrasterebbe con la giurisprudenza, richiamata allo scopo,
che «[…] ritiene che debba essere classificata come nuova
costruzione, non pertinenziale, anche una tettoia “che abbia
i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al
suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento ad un corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di
posa o di elevazioni dell’opera” (cfr. Tar Calabria-Reggio Calabria- 23/01/2023 n. 96, che evoca Consiglio di
Stato sez. IV – 02/03/2018 n. 1309)».
31. Il Collegio non condivide la ricostruzione, ritenendo di
accedere al riguardo alla diversa prospettazione fornita in
merito dalla difesa civica.
Le argomentazioni
dell’appellante, invece, in quanto fondate essenzialmente
sulla ribadita attendibilità della documentazione
concernente la preesistenza di un granaio che si sarebbe
andato a ripristinare, già ritenuta inconferente sia dal
Comune (con atti non impugnati), sia dal giudice civile, si
palesano in parte qua prive di pregio.
D’altro canto, laddove l’Amministrazione avesse voluto
rivedere anche le proprie originarie posizioni negative al
riguardo, avrebbe dovuto rieditare tutti i precedenti
dinieghi, a far data da quello del 30 ottobre 1989, per
contro mai messo in discussione.
32. Il provvedimento datato 22.08.2022, oggetto di
motivi aggiunti di ricorso, diversamente dal precedente, del
17.06.2019, inquadra espressamente l’opera «nella
categoria di intervento della ristrutturazione edilizia,
nell’accezione di cui alle lett. d), comma 1, art. 31 Legge n.
457/1978, ora lett. d), comma 1, art. 3 DPR 380/2001 e lett.
c), comma 1, art. 10 DPR 380/2001».
33. Il Collegio ritiene che l’inquadramento dell’abuso come
ristrutturazione edilizia sine titulo, in quanto neppure
fatta oggetto di censure di merito, non fosse in alcun modo
preclusa dal precedente giudicato amministrativo.
La scarna
motivazione ricavabile dalle sentenze del Tar per l’Emilia
Romagna n. 755 del 1990 e n. 756 del 1990, confermate
dall’altrettanto sintetica pronuncia del Consiglio di Stato
n. 5707 del 2012, infatti, pare piuttosto arrestarsi ai
limiti della relativa questione, non prendendo una vera e
propria posizione in termini di inquadramento sistematico.
Nella prima, in particolare, avente ad oggetto proprio il
diniego di sanatoria del 30.10.1989, il richiamo è
all’art. 14 delle allora vigenti n.t.a. che vietano «ogni
costruzione, anche di carattere provvisorio», così creando
quel vincolo di inedificabilità assoluta sull’immobile
ostativo al rilascio della sanatoria ex art. 33, lett. a)
della l. n. 47 del 1985.
Analoga argomentazione è contenuta
nella sentenza del Consiglio di Stato, ove in maggior
dettaglio si precisa come la «sostanziale sopraelevazione
dell’edificio e […] costruzione di un nuovo vano» implica
l’operatività del richiamato vincolo di inedificabilità, che
seppure contenuto nella pianificazione urbanistica, esclude
la condonabilità ai sensi della norma poc’anzi richiamata.
La disciplina urbanistica, cioè, ammettendo sul fabbricato
esclusivamente il risanamento conservativo, non consentiva
alcun tipo di incremento volumetrico, automaticamente
riconducendo lo stesso a “nuova” costruzione, come tale
vietata. La dicitura “nuova costruzione”, cioè, pare
effettivamente utilizzata in accezione atecnica, comunque
sufficiente a motivare la reiezione di quello specifico
ricorso.
34. D’altro canto, al momento della sua realizzazione era
operante la sola previsione di cui all’art. 31 della l. n.
457 del 1978 -non a caso richiamato esso pure nelle
premesse all’atto impugnato nella versione del 2022- che ha
per la prima volta avocato alla potestà statale ambiti
lasciati fino ad allora alla libera interpretazione delle
norme tecniche e dei regolamenti edilizi comunali.
Va
peraltro ricordato che già dalla seconda metà degli anni ´80
-ferma restando la definizione di legge- si era
riscontrata finanche una frattura fra l’orientamento della
giustizia amministrativa e quello della giustizia penale in
quanto la prima riconosceva la possibilità nella
ristrutturazione di aggiungere anche un quid novi e cioè
incrementi volumetrici dell’edificio preesistente, laddove
la seconda lo negava in maniera tassativa.
34.1. D’altro canto proprio la ristrutturazione edilizia, la
cui definizione è ora contenuta nella lettera d) del comma 2
dell’articolo 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha subito nel
tempo una storia travagliatissima, tanto da costringere
l’interprete ad una faticosa opera di “ortopedia” e lettura
sinottica delle diverse disposizioni che si sono succedute
nel tempo al fine di stabilire quali fra gli interventi
rientranti nella detta definizione siano oggi subordinati a
permesso di costruire e quali possano invece essere
realizzati con semplice s.c.i.a.
La norma, in verità, nella
sua formulazione originaria, riprendeva e precisava in
chiave fortemente limitativa- in quanto imponeva la «fedele
ricostruzione» con «identicità» di «sagoma, volume, sedime e
materiali»- quella del 1978, tant’è che da subito è stata
oggetto di novelle caratterizzate da aperture sempre più
sviluppate.
34.2. Da ultimo, con la legge di conversione 15.07.2022,
n. 91, del decreto legge 17.05.2022, n. 50, c.d. decreto
“Aiuti”, vi sono state ricomprese anche le tipologie di
interventi demo-ricostruttivi “non fedeli” ricadenti in area
vincolata che il legislatore aveva nelle precedenti
modifiche continuato a riservare alla diversa categoria
della nuova costruzione.
35. Una volta ammesso dunque l’inquadramento della
fattispecie come ristrutturazione edilizia, viene meno
qualsivoglia astratta possibilità di ipotizzare la perdita
della proprietà, che comunque il Comune espressamente
esclude nell’atto impugnato, in maniera tuzioristica,
attribuendosi la scelta di avere valutato favorevolmente il
fattivo contributo della proprietaria, escludendone la
volontaria e quindi colpevole inottemperanza.
36. Il Collegio non ritiene comunque di addivenire ad una
soluzione diversa da quella propugnata dal primo giudice,
ancorché mutandone la motivazione, giusta il sostanziale
sviamento da parte del Comune dal potere sanzionatorio del
quale è titolare in materia urbanistico-edilizia.
37. Prive di pregio si palesano innanzi tutto le ulteriori
censure dell’appellante, atte a valorizzare il contenuto dei
vari pareri della Commissione comunale: essi, infatti, non
solo «urtano frontalmente», come riportato dal Tar contro
le statuizioni del giudice civile sul nocumento estetico al
fabbricato; ma soprattutto attengono ad un mero giudizio di
valore, basato cioè sulla personale opinione di quell’organo,
privo di specifica competenza in materia di tutela
vincolistica, circa l’opportunità di non modificare lo stato
dei luoghi, in base ad un costrutto, più empirico che
giuridico, che nel dubbio tende a considerare il rimedio
(ovvero la demolizione) peggiore del male (la conservazione
dell’illecito).
Anche a non voler considerare l’innegabile
incoerenza evolutiva degli stessi, che hanno valutato senza
soluzione di continuità richieste di riesame di un
procedimento sanzionatorio ormai concluso, proposte
edificatorie alternative alla demolizione, ovvero (ri)proposte
sub specie di s.c.i.a. (laddove per dare esecuzione ad una
demolizione non è evidentemente necessario alcun titolo, né
è pensabile inserire in tale fase una anomala legittimazione
sanante di porzione di illecito, in deroga alla -per quanto
consta in atti- immutata disciplina urbanistica sul punto),
essi non attengono agli aspetti tecnico-strutturali
dell’edificio.
Trattasi cioè di una valutazione “a tavolino”
che nulla ha a che vedere con il doveroso accertamento
dell’impossibilità, sotto il profilo tecnico, di addivenire
a demolizione, richiesto dalla norma in termini generali. La
circostanza che manchi un’indicazione espressa in tal senso,
non significa che alla disposizione possa attribuirsi un
senso diverso da quello fatto palese dal sistema, per come
sopra delineato, che vede nella monetizzazione dell’abuso un
rimedio di natura eccezionale e derogatoria alla normalità
del ripristino.
Non a caso, la differenza sostanziale tra le
varie ipotesi di fiscalizzazione degli abusi va ravvisata
negli effetti della stessa sulla regolarità dell’opera,
sanata solo caso in cui essa consegua all’annullamento del
titolo edilizio, cui parte della dottrina accomuna al più le
“monetizzazioni” pure alternative alla demolizione di cui
agli artt. 36-37 del T.u.e. (v. Cons. Stato, A.P., 07.09.2020, n. 17).
Nelle rimanenti ipotesi invece, in
assenza di indicazione da parte del legislatore analoga a
quella contenuta nell’art. 38, comma 2, del T.u.e, dopo non
poche oscillazioni interpretative, la giurisprudenza è
attestata nell’escludere la portata sanante del pagamento
della sanzione, ravvisandovi piuttosto una sorta di
tolleranza formalizzata di una situazione non conforme ad
ordinamento, come tale da circoscrivere a situazioni di
effettiva e oggettiva impossibilità di ripristino.
37. D’altro canto, neppure attingendo alla ipotesi di cui al
comma 4 dell’art. 33 può salvaguardarsi il procedimento
seguito.
Va infatti ricordato che in caso di opere eseguite su
immobili vincolati (comma 3) non è ammessa alcuna
fiscalizzazione, dovendo l’amministrazione competente a
vigilare sull’osservanza del vincolo ordinare sempre la
restituzione in pristino, indicando criteri e modalità per
la relativa effettuazione.
Nel caso invece di opere eseguite
su immobili, anche non vincolati, ubicati nei centri
storici, la individuazione della tipologia di sanzione da
applicare, reale o pecuniaria, spetta all’amministrazione
preposta alla tutela dei beni culturali ed ambientali, che
si esprime mediante un parere vincolante.
Tale tipologia di
atto, per il suo contenuto, ha valenza sostanzialmente decisoria, il che implica che il Comune deve attenersi a
quanto stabilito dalla suddetta amministrazione.
Esclusivamente nel caso in cui il parere non venga reso
entro il termine previsto, la competenza si trasferisce
all’amministrazione comunale.
37.1. Anche a voler ritenere la richiesta da parte del
dirigente comunale del tutto sganciata da una preventiva
valutazione tecnica di fattibilità, comunque condizionante
il successivo parere, dalla stessa non è certo possibile
prescindere laddove si addivenga ad una decisione tutta
interna al Comune, possibile solo dopo avere interpellato le
Soprintendenze.
38. Il Collegio ben conosce al riguardo il diverso
orientamento (invero risalente) del Consiglio di Stato
secondo il quale in mancanza di uno specifico regime
vincolistico sul bene, l’intervento della Soprintendenza per
i beni storici e paesaggistici non potrebbe ammettersi se
non nei casi e nei limiti previsti dalla legge (Cons. Stato,
sez. VI, 24.02.2014, n. 855).
Quanto detto sia in
ragione dell’immediato superamento dello stesso da altro di
senso diametralmente opposto (Cons. Stato, sez. VI, 10.03.2014, n. 1084), cui il Collegio aderisce, sia in quanto nel
caso di specie è proprio il legislatore ad avere preteso,
giusta il potenziale impatto di un intervento demolitorio,
anche singolo, all’interno di un centro storico, che la
scelta (di ripristino, solo se tecnicamente possibile,
ovvero di mantenimento, a prescindere dalla fattibilità) sia
rimessa all’Autorità preposta alla tutela di un vincolo,
ancorché formalmente non imposto.
D’altro canto, la
affermata insanabilità dell’opera di cui all’originario
provvedimento del 1989, si fonda proprio sulla
assimilazione, quanto meno con riferimento al regime degli
illeciti, tra regime vincolistico e regime di inedificabilità imposto dalla disciplina urbanistica.
38.1. Introducendo un autonomo concetto giuridico, anziché
pratico/tecnico, di impossibilità demolitoria, invece, e nel
contempo avocando ad un proprio organismo consultivo
l’espressione della scelta tra demolizione e monetizzazione,
sulla base di un giudizio di valore che non tiene alcun
conto dei precedenti giudicati sul punto, il Comune di
Modena ha violato l’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del
2001, come lamentato dalle appellate nei motivi 2.4 e 2.5
del ricorso di primo grado (riproposti come motivo aggiunto
3.0, che richiama gli originari 2.4 e 2.5, nonché, in quanto
fonte di vizio autonomo, nei motivi aggiunti 3.2 e 3.5).
Applicando la regola generale, infatti, avrebbe dovuto far
verificare dai propri uffici tecnici la fattibilità del
ripristino; applicando invece quella specifica dettata per i
centri storici, previa istruttoria finalizzata comunque ad
accertare la fattibilità tecnica del ripristino, avrebbe
dovuto acquisire il preventivo parere della Soprintendenza,
quale unico soggetto munito della richiesta terzietà per
evitare la demolizione, seppure concretamente eseguibile, a
tutela dell’assetto complessivo dei luoghi. Tertium non
datur.
39. Né infine a diverse conclusioni può condurre
l’enfatizzata difficoltà di individuazione dello “stato
legittimato preesistente” stante che la relativa dizione non
può far retroagire ad libitum l’individuazione della
consistenza di un immobile, finendo per consentire la
eventuale stratificazione di abusi edilizi che si sono
succeduti nel tempo dopo l’originaria edificazione del
manufatto principale.
40. Tale indebita lettura dello “stato legittimato”
contrasta peraltro anche con la definizione datane di
recente dal legislatore.
40.1. Lo “stato legittimo” dell’immobile, infatti, è oggi
declinato nel comma 1-bis, inserito nell’art. 9-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 dal d.l. 16.07.2020, n. 76,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120 -dunque dopo l’adozione del primo provvedimento
impugnato, ma prima del successivo– che lo individua in
«[…] quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha
previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e
da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio
che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare,
integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno
abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati
in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il
titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello
desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o
da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche,
gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro
atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la
provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato
l'ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero
immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali
titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali.
Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano
altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del
titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile
copia».
La disposizione, già sottoposta al vaglio della
Corte costituzionale, è stata ritenuta rispettosa del
riparto costituzionale in materia edilizia in quanto si
limita ad individuare, in termini generali, la
documentazione idonea allo scopo, definendo i tratti di un
paradigma le cui funzioni –comprovate dai lavori
preparatori– sono quelle di semplificare l’azione
amministrativa nel settore, di agevolare i controlli
pubblici sulla regolarità dell’attività edilizio-urbanistica
e di assicurare la certezza nella circolazione dei diritti
su beni immobili.
«Il contenuto prescrittivo di ampio
respiro e le finalità generali perseguite dalla norma
depongono a favore della sua qualifica in termini di
principio fondamentale della materia, ciò che trova conferma
nella sua stessa collocazione topografica nell’ambito delle
“Disposizioni generali” del Titolo II della Parte I t.u.
edilizia, dedicato ai “Titoli abilitativi”» (Corte cost., 14.09.2022, n. 217).
40.2. Lo “stato legittimo dell’immobile”, dunque, riguarda
una sua condizione permanente, preesistente alla stessa
entrata in vigore della disposizione, da riferire a opere
realizzate prima del 1967, ovvero in epoca ancor più
risalente, nei centri urbani poi dotatisi di un regolamento
che richiedeva la licenza edilizia per l’edificazione, o per
cui esiste solo un principio di prova di un titolo edilizio,
il cui originale o la cui copia non è più rintracciabile (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 24.03.2023, n. 3006; sez. II, 15.09.2023, n. 8339).
40.3. Laddove tuttavia, come nella specie, un titolo
edilizio esiste ed è proprio lo “scostamento” dallo stesso e
la sua richiesta di sanatoria che ha cagionato l’attivazione
del procedimento sanzionatorio, è di tutta evidenza che
“scavalcarlo”, cercando di immaginare la situazione allo
stesso preesistente non è in alcun modo ipotizzabile, salvo
introdurre una forma di improprio e generalizzato condono di
tutte le modifiche intervenute medio tempore, legittimate o
meno.
41. Il Comune di Modena, facendo leva sulla mancata
descrizione di tale “fantomatico” stato dei luoghi
legittimato, cui ricondurre il ripristino della copertura,
nell’ambito dell’ingiunzione a demolire del 1990, lo ha
elevato a elemento essenziale della stessa. Con ciò pretermettendo che nella specie l’abuso non è consistito
nella realizzazione di un’opera ex novo, bensì conseguito al
rigetto di una sanatoria: ed è il contenuto di tale
richiesta ad indicare, partendo dallo stato di fatto che si
pretendeva di legittimare, lo sconfinamento rispetto al
titolo rilasciato (l’autorizzazione del 1983).
Va dunque
condivisa l’affermazione del Tar per l’Emilia Romagna
laddove evidenzia che la controversa consistenza del palazzo
negli anni 1926/1927 non inficia la certa realizzazione nel
1983 di una copertura dapprima inesistente, tant’è che la
proprietà aveva informato del relativo progetto l’assemblea
condominiale, subordinandone la realizzazione all’avallo
comunale.
42. All’accoglimento delle (correttamente) riproposte
censure di cui ai motivi aggiunti 3.0 e 3.5, non esaminate
dal primo giudice, consegue la conferma della sentenza del
Tar per l’Emilia Romagna, n. 67 del 06.02.2023, con
diversa motivazione, e il conseguente annullamento dei
provvedimenti del Comune di Modena del 17.06.2019 e del
22.08.2022.
Essi infatti sono stati adottati in
violazione dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del
2001, non risultando accertata dagli uffici tecnici comunali
l’impossibilità della demolizione, presupposto indefettibile
della fiscalizzazione dell’abuso, in alcun modo surrogabile
da giudizi di valore espressi dalla competente Commissione
sulla qualità architettonica e il paesaggio, giusta la
competenza in merito della Sola Soprintendenza (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 22.01.2024 n. 806 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Natura e presupposti della revoca di un beneficio economico
già concesso.
---------------
Contributi e finanziamenti – Atto amministrativo – Revoca
– Autotutela - Sanzione.
La revoca di un beneficio economico
è espressione del potere di vigilanza accordato alla p.a.
preposta alla relativa elargizione e, al pari della
decadenza disposta dal G.S.E. in materia di energie
alternative, ha tratti comuni con l’autotutela e con
l’omonimo atto sanzionatorio ma se ne distingue in ragione
di tale esplicitata finalizzazione (1).
---------------
Contributi e finanziamenti – Atto amministrativo –
Procedimento in genere – Correttezza e buona fede – Revoca –
Termine.
La reciprocità degli obblighi di
correttezza tra privato e p.a. impone al primo di fornire le
informazioni richieste in maniera chiara ed esaustiva ma non
consente alla seconda di intervenire sine die contestando la
validità di documentazione il cui controllo avrebbe potuto
essere effettuato nell’immediato.
Il potere di controllo è infatti strumentale alla corretta
elargizione di danaro pubblico, ma senza perdere di vista la
finalità del beneficio di incentivare determinate iniziative
in quanto rispondenti a finalità di pubblico interesse,
spesso oggetto di tutela anche a livello eurounitario.
Pertanto, ove esercitato senza tenere conto delle
aspettative generate nel privato che ha fatto affidamento
sulla correttezza dell’operato della p.a., che pur essendo
in condizione di farlo, non gli ha eccepito alcunché,
adottando anche atti o tenendo comportamenti indicativi di
una valutazione positiva dell’iniziativa, esso è affetto da
sviamento rispetto alle finalità pubbliche per le quali è
stato conferito (2).
---------------
(1) Conformi: Cons. Stato, Ad. plen., n. 18 del 2020.
Difformi: non risultano
precedenti difformi.
(2) Non risultano precedenti in termini (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.01.2024 n. 688 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
8. Nel merito, l’appello è fondato per le ragioni di seguito
esplicitate.
9. Innanzi tutto, il Collegio ritiene necessario inquadrare
il provvedimento adottato, denominato di “revoca” di
un beneficio economico in precedenza concesso, ancorché non
ancora erogato.
10. In relazione a tale ambito, di regola con il relativo
nomen iuris il legislatore indica l’atto caducatorio,
distinto dall’esercizio della vera e propria autotutela, col
quale si dà attuazione al potere di vigilanza conferito
strumentalmente all’amministrazione preposta all’elargizione
di risorse pubbliche per finalità via via individuate come
meritevoli dalla normativa di settore.
I tratti distintivi
della decadenza dagli incentivi per le energie rinnovabili
disposta dalla Società gestrice dei relativi servizi (G.S.E.),
in qualche modo contenutisticamente assimilabile, sono stati
individuati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di
Stato, distinguendoli per un verso dall’irrogazione della
sanzione e per l’altro, appunto, dall’annullamento d’ufficio
ex art. 21-novies della l. n. 241 del 1990 (Cons. Stato, A.P.,
11.09.2020, n. 18).
La revoca, infatti, consegue alla riscontrata necessità da
parte della p.a. concedente di procedere al recupero o alla
mancata liquidazione in concreto di erogazioni in generale,
in particolare se si tratta di agevolazioni di diritto UE,
erroneamente accordate in assenza del presupposto che le
legittimava ab origine.
Trattasi cioè dell’esercizio di un
potere vincolato, che elide ex tunc il beneficio assentito
sine titulo, sulla base del dato oggettivo della riscontrata
violazione della normativa di regolazione del settore senza
che ne rilevi lo stato soggettivo del beneficiario,
emergendo quindi preminente l’esigenza per la pubblica
amministrazione che neppure deve motivare specificamente le
ulteriori ragioni d’interesse pubblico concreto e attuale o
di comparazione con quello del debitore, anche quando questi
sia in buona fede, circostanza destinata caso mai ad
assumere rilievo in relazione al quomodo del recupero, non
certo nell’an (cfr., in argomento, Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2018, n. 6659 e 30.05.2017, n. 2614).
9.1. L’esercizio di tale potere, cioè, in quanto privo di
spazi di discrezionalità perché non rivolto al riesame della
legittimità di una precedente determinazione amministrativa
di carattere provvedimentale, ma finalizzato al controllo
circa la veridicità e la completezza delle dichiarazioni
formulate da un privato nell’ambito di un procedimento volto
ad attribuire sovvenzioni pubbliche, esula in radice dalle
caratteristiche proprie degli atti di autotutela e
dall’applicabilità dell’art. 21-nonies della legge n. 241
del 1990.
A maggior ragione, non è configurabile alcun
affidamento in capo al privato che abbia formulato
dichiarazioni incomplete o non rispondenti all’effettivo
stato dell’impianto e delle sue componenti, pur in assenza
di ogni valenza penalistica di tale condotta.
10. Nelle procedure ad evidenza pubblica, infatti, quale che
ne sia l’oggetto specifico, la completezza delle
dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché
consente, anche in ossequio al principio di buon andamento
dell’amministrazione e di proporzionalità, la celere
decisione in ordine all’ammissione del privato, in
particolare se operatore economico, per il quale il fattore
tempo assume rilievo anche in termini concorrenziali, alla
selezione.
11. Il procedimento configura cioè in capo al singolo
obblighi di correttezza, specificati con il richiamo alla
clausola generale della buona fede, della solidarietà e
dell’autoresponsabilità, che rinvengono il loro fondamento
sostanziale negli artt. 2 e 97 della Costituzione e che
impongono che egli assolva oneri di cooperazione, quale
appunto è il dovere di fornire informazioni non reticenti e
complete, di compilare moduli, di presentare la prescritta
documentazione, ecc., di regola secondo il paradigma della
dichiarazione sostitutiva di cui al d.P.R. n. 445/2000.
Conseguentemente, ove l’adempimento informativo, per come
esplicitato a monte, sia stato evaso in maniera non corretta
o non veritiera, tale mancanza non può formare oggetto di
domanda d’integrazione o di richiesta di acquisizione a
carico della P.A. in base al cd. “obbligo di soccorso” ex
art. 6 della l. n. 241/1990, prima ancora che in base alla
legislazione speciale sulla contrattualistica pubblica.
12. Rileva tuttavia il Collegio come tali principi non
possano non incontrare un limite nelle esigenze di certezza
delle situazioni giuridiche, e, soprattutto,
nell’affidamento che il privato in buona fede ripone sulla
correttezza dell’operato della p.a.
Lo stillicidio di
richieste istruttorie che caratterizza troppo spesso la
prassi operativa delle amministrazioni pubbliche, finanche
laddove un mero screening preventivo della domanda ne
consentirebbe da subito l’inquadramento in termini di
adeguatezza e completezza, è d’altro canto alla base del
lamentato fallimento di tutti i tentativi di semplificazione
posti in atto dal legislatore, stante che è proprio su tale
rilievo, vero o presunto, che si fonda la mancata
decorrenza, ad esempio, dei tempi di controllo della
regolarità di una s.c.i.a. ovvero di maturazione di un
silenzio-assenso.
13. Vero è che laddove le verifiche attengano all’erogazione
di risorse pubbliche il particolare rigore richiesto non può
che risolversi in una maggior tolleranza in ordine alle
tempistiche di verifica. Ma è evidente che le stesse,
finanche nel caso in cui ammesse sine die dalla legislazione
di settore (si pensi, ad esempio, a quanto prescritto,
sempre in materia di incentivi in ambito energetico,
dall’art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011, per come
interpretato dalla già richiamata pronuncia dell’Adunanza
plenaria di questo Consiglio di Stato), non possono
consentire ad libitum adempimenti meramente formali
riducibili a semplici riscontri empirici, quali quelli
consistenti nella “spunta” delle produzioni, ovvero nella
verifica di rispondenza delle stesse ad ulteriori
prescrizioni esteriori.
Ne consegue che, ad esempio, la
carenza di allegazioni documentali non espressamente
richieste e rivelatesi rilevanti ex post per supportare le
dichiarazioni dell’istante, non può essere utilizzata a
distanza di tempo per confutarne le deduzioni in quanto non
documentate nella maniera pretesa.
Ciò laddove manchi una esplicitazione comprensibile ed inequivoca nel senso della
loro necessità, ovvero laddove il comportamento
dell’Amministrazione successivo al loro dichiarato scrutinio
abbia confortato l’utente nel senso della
efficacia/regolarità delle indicazioni fornite,
rafforzandone l’affidamento. In tale ultima ipotesi,
infatti, se non sono stati avanzati dubbi o richieste di
chiarimenti ulteriori, per non tenere conto di quelli che le
sono stati forniti l’amministrazione dovrà evidentemente
motivarne la obiettiva inadeguatezza.
14. In altri termini, la ricerca del doveroso punto di
equilibrio tra tutela dell’erario e affidamento del privato
che sulla base della preventivata acquisizione di risorse ha
concretamente investito in un’attività imprenditoriale,
confidando nel recupero ancorché parziale delle spese
affrontate, risiede nella declinazione di un efficace
sistema di controlli e verifiche da parte
dell’amministrazione. Esso cioè deve essere volto a
scongiurare o quantomeno attenuare gli effetti gravemente
afflittivi dei provvedimenti di decadenza/revoca sin da
subito, ovvero in un tempo ragionevole necessario per
l’effettuazione di verifiche di esclusiva natura
documentale, adottabili, in quanto non presupponenti
complesse verifiche ispettive, ad esempio circa la
rispondenza dello stato dei luoghi a quanto dichiarato
dall’istante.
Salvo evidentemente, come già precisato,
l’ipotesi in cui emerga la non veridicità delle affermazioni
del privato richiedente, che non può fondarvi alcun
affidamento rispetto al conseguimento di un beneficio
pubblico formalmente già concesso (Cons. Stato, A.P., 29.11.2021, n. 21), per superare la tutela dello stesso è
sempre necessaria una qualche motivazione dell’interesse
pubblico.
14. In sostanza, nel caso di esercizio del potere di
disporre la decadenza o la revoca per assenza dei necessari
presupposti degli incentivi, il legittimo affidamento
presuppone che la causa di illegittimità o irregolarità -che ha portato all’esercizio del suddetto potere- non sia
nota o comunque conoscibile sulla base dell’ordinaria
diligenza dal privato che confida nella stabilità degli atti
posti in essere dall’amministrazione.
Nel caso di specie, la
cronologia delle fasi procedimentali, una volta esclusa la
declaratoria di circostanze false, depone nel senso della
necessità di dare rilievo a tale affidamento, ingenerato
proprio dalle modalità dei controlli posti in essere dalla
Regione Calabria.
Lo sviluppo del procedimento in senso
formalmente rassicurante, infatti, conseguito proprio ad
approfondimenti specifici sul punctum pruriens della
controversia (la dimostrata disponibilità della titolarità
del bene in conformità alle clausole contrattuali) non
consente di ritenere il privato assoggettato ad libitum a
ripensamenti circa la completezza ed adeguatezza
dell’istruttoria effettuata.
15. A conferma di tale conclusione si pone da ultimo la
modifica normativa apportata all’art. 1 della l. 07.08.1990, n. 241, mediante l’inserimento del comma 2-bis ad
opera della l. 11.09.2020, n. 120, di conversione del
d.l. 16.07.2020, n. 76, ai sensi del quale «i rapporti
tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono
improntati ai princìpi della collaborazione e della buona
fede».
La disposizione ha legificato espressamente,
rafforzandone la preesistente positivizzazione, anche alla
luce dei principi di derivazione europea, il dovere di
comportamento di buona fede da parte dell’amministrazione
quale fondamento giustificante il formarsi di legittime
aspettative in capo al privato. Quanto detto non senza
ribadire che il dovere di collaborazione e buona fede è
bilaterale, ponendosi un obbligo di diligenza anche in capo
al privato, il cui affidamento deve quindi necessariamente
risultare incolpevole, come più volte precisato.
16. A conclusioni favorevoli all’appellante può tuttavia
giungersi a maggior ragione ove si acceda alla tesi che nel
caso di specie la Regione Calabria abbia esercitato il
proprio potere di autotutela sub specie di annullamento
d’ufficio, cui consegue da un punto di vista fattuale, prima
che giuridico, la “revoca” del contributo concesso.
17. In generale, va da sé, infatti, che nell’esplicare
l’attività di controllo sulla correttezza dei presupposti di
erogazione dei benefici economici, l’Amministrazione si
avveda di un proprio precedente errore valutativo, al quale
intenda porre rimedio. Il confine tra i due istituti (revoca
quale conseguenza dei poteri di controllo postumo del
possesso dei requisiti e annullamento d’ufficio della
concessione degli stessi) nella prassi non è affatto netto,
stante che le amministrazioni tendono ad utilizzare le
ragioni del secondo per supportare il primo, superando i
limiti, di tempo e di contenuto, sottesi all’esercizio dell’autotutela.
18. È chiaro infatti che ove si attinga alla categoria
concettuale dell’annullamento d’ufficio, occorre anche
garantire il rispetto di tutti i presupposti cui il
legislatore ne condiziona l’utilizzabilità, quali in primo
luogo il rispetto di un termine «ragionevole», da ultimo
quantificato in dodici mesi dall’adozione dell’atto, indi la
esplicitata comparazione tra l’interesse pubblico
all’annullamento e quello al mantenimento del provvedimento ampliativo della sfera giuridica del destinatario dello
stesso.
19. La sentenza impugnata, pur omettendo totalmente
l’essenziale passaggio sistematico sotteso all’inquadramento
del provvedimento avversato, pare ricondurlo a ridetta
categoria concettuale, giusta l’insistito richiamo ai
principi di cui all’art. 21-octies, comma 2 e art.
21-novies.
A ben guardare, anzi, la affermata natura
necessitata dell’atto, tale da rendere inutile qualsiasi
apporto contributivo da parte del destinatario, evoca ancor
più specificamente quella species dell’autotutela
comunemente denominata come “doverosa” ancorché parziale,
che trova fondamento proprio nella riscontrata falsità delle
dichiarazioni del richiedente l’atto annullato (sul punto,
si veda Cons. Stato, sez. II, 02.11.2023, n. 9415, ai
cui principi si intende fare integrale richiamo).
Ma anche
in tale specifica ipotesi, l’attenuazione dell’onere
motivazionale consegue proprio alla richiamata falsità, di
per sé sufficiente ad esplicitare il pubblico interesse alla
rimozione dell’atto. Come pure precisato dall’Adunanza
plenaria di questo Consiglio di Stato, infatti, l’erronea prospettazione, da parte del privato, delle circostanze in
fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo
a lui favorevole non consente di configurare una sua
posizione di affidamento, con la conseguenza che l’onere
motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi
soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non
veritiera prospettazione di parte (Cons. Stato, A.P. 17.10.2017, n. 8).
«L’interesse pubblico all’eliminazione,
ai sensi dell’ art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 , di un
titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa, a fronte di
falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa
o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata
rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo,
non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo
affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto
attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione
procedente» (così TAR Salerno, sez. II, 05.01.2021, n. 18, richiamata da Cons. Stato, sez. VI,
06.07.2023, n. 6615).
20. Nel caso di specie, tuttavia, il provvedimento impugnato
non reca alcun richiamo a tale presunta falsità, introdotta
nel procedimento di primo grado dalla difesa della regione
ed avallata dal Tar per la Calabria, con ciò dando luogo
ad un’inammissibile integrazione postuma della motivazione
dell’atto impugnato, basata esclusivamente sulla asserita
violazione formale dell’art. 4 dell’avviso pubblico. Sicché
neppure potrebbe dirsi soddisfatto quel minimo di obbligo
motivazionale che consente, in ragione della gravità dei
presupposti dell’esercizio dell’autotutela, di limitarsi a
tale emblematico richiamo.
21. A ben guardare, anzi, la Società ha da subito
documentato la propria (ritenuta) disponibilità del
fabbricato giusta la scrittura privata allegata alla
domanda, nonché ribadito tale impostazione reiterando la
produzione documentale in riscontro alla specifica richiesta
di integrazione istruttoria avente ad oggetto proprio la
produzione del «titolo di proprietà» (richiesta della
Regione del 27.07.2015, riscontrata il 24.08.2015).
In alcun modo, dunque, ha artefatto la descrizione della
propria situazione in concreto riferita al bene, o, peggio
ancora, falsificato la documentazione de qua. Il Collegio
non rileva infatti l’adombrata divergenza tra il negozio
prodotto nel corso di procedimento e quello acquisito
successivamente dall’Agenzia delle Entrate competente per
territorio, debitamente interpellata in merito – che
peraltro, ove sussistente, avrebbe dovuto risolversi in
un’informativa alla competente Procura della Repubblica, di
cui non è traccia in atti.
L’unica differenza “grafica”,
infatti, riguarda l’assenza del timbro a secco recante la
data di protocollazione in entrata da parte di ridetta
Agenzia nella produzione procedimentale (04.10.2014),
che tuttavia sembra piuttosto da ascrivere ad un’omissione
dell’ufficio, dato che coincidono sia il numero di
protocollo che il nominativo della funzionaria.
Individuare in tale carenza “grafica” un intento truffaldino
su un elemento che avrebbe potuto essere riscontrato
immediatamente coinvolgendo l’Agenzia delle entrate, senza
attendere di esservi indotti dall’esposto successivo, non
solo non appare plausibile, ma neppure risulta da un qualche
passaggio narrativo nell’atto impugnato.
22. Degna di rilievo appare piuttosto la rettifica
informativa da parte dell’Agenzia, che nel trasmettere la
certificazione dell’iscrizione al Comune, ne corregge
l’indicato codice identificativo per tipologia di operazione
compiuta, riportandolo alla registrazione di un preliminare
di vendita e non di un acquisto definitivo, come
rappresentato dall’amministrazione.
Ciò conferma
ulteriormente o un’istruttoria negligente, e come tale non
recuperabile in maniera postuma a discapito del beneficiario
di buona fede senza evidenziarne i passaggi motivazionali,
ovvero, più plausibilmente, la ritenuta coerenza originaria
dell’atto prodotto con le finalità della clausola, salvo
valorizzarne, ex post, la diversa stesura letterale, per
come “attenzionata” dall’associazione denunciante.
22.1. Vero è che la scrittura privata del luglio 2014
presenta molteplici profili di ambiguità contenutistica,
stante che in alcuni passaggi parla di vera e propria
vendita, utilizzando il relativo verbo all’indicativo
presente («vendono», appunto), in altri si pronuncia al
futuro laddove parla di «fabbricato promesso in vendita»
ovvero del prezzo per la «futura vendita». E tuttavia nessun
chiarimento né sulla sua esatta portata, né sulla sua
avvenuta registrazione è stato richiesto dalla Regione fino
all’attivazione del procedimento di revoca.
23. Il Collegio ritiene superflua un’esegesi puntuale della
portata letterale dell’art. 4 del bando, in particolare ove
incentrata, come pure pretenderebbe l’appellante,
sull’esatta estensione dell’ambito oggettivo della sua
operatività, tratto dalla terminologia (sicuramente non
rispondente alla lettera al quadro definitorio riveniente
dal d.P.R. n. 380 del 2001, Testo unico dell’edilizia) con
la quale vengono individuati gli interventi oggetto delle
progettualità presentate (rispettivamente, nuova costruzione
e ricostruzione previa demolizione alla lettera a) e
recupero alla lettera b).
Ciò che viceversa appare dirimente nel caso di specie è che
24. Ciò in quanto, come ampiamente chiarito, la Regione
Calabria non solo non ha eccepito alcunché in sede di
scrutinio originario della domanda; ma neppure lo ha fatto
all’esito dell’istruttoria mirata sul punto. I successivi
controlli, egualmente con esito positivo, sono successivi a
tale integrazione documentale: in particolare l’approvazione
del QTE risale al 02.11.2015, quando cioè qualsivoglia
dubbio residuo avrebbe dovuto essere necessariamente
chiarito.
In tale atto peraltro nel richiamare nuovamente
l’art. 14 dell’avviso, laddove si ricorda che l’erogazione
delle somme concesse è subordinata alla verifica del
possesso dei requisiti di ammissibilità, la Regione fa
opportuno riferimento alle sole anomalie riscontrate in sede
di esecuzione dei lavori per controllare la rispondenza tra
quanto dichiarato negli elaborati progettuali e quanto
effettivamente realizzato.
Ciò non poteva non far presumere
esaurito il controllo di tipo documentale, con il supporto
peraltro di apposita commissione nominata all’uopo a
supporto del RUP, e quindi doverosa la motivazione delle
ragioni sottese alla sua riedizione, alla luce
dell’affidamento nel frattempo ingenerato nella controparte
e del contenuto delle osservazioni presentate in risposta
alla comunicazione di avvio del procedimento.
25. A conclusioni non dissimili deve pervenirsi laddove si
acceda alla diversa tesi dell’avvenuto esercizio del potere
di annullamento d’ufficio. Una volta escluso, in quanto né
esplicitato in motivazione, né dimostrato in atti, che vi
sia stata una falsificazione documentale per la quale va
ribadito l’obbligo di informativa all’Autorità giudiziaria
ordinaria, non possono trovare applicazione le agevolazioni
procedurali sottese all’esercizio dell’autotutela doverosa,
che peraltro non implicano, come chiarito, la totale assenza
dell’onere motivazionale.
La discrezionalità intrinseca
dell’annullamento in autotutela, dunque, non consente di
derubricare a mero vizio di forma la mancata valutazione
delle osservazioni di parte conseguite a inoltro del
preavviso, stante che le stesse attengono proprio alla
adeguatezza della produzione documentale, sia in termini
formali, sia per la loro ravvisata non ostatività, alla luce
della ratio della clausola e della sua lettura
necessariamente orientata a principi di massima
partecipazione, intrinseci alla tipologia di selezione in
atto.
Le (presunte) sopravvenienza fattuali, ovvero
l’esposto dell’associazione e i riscontri avuti circa
l’obiettività dello stesso dall’Agenzia delle entrate, nulla
aggiungono alla qualificazione delle dichiarazioni
dell’Impresa come false.
26. Anche senza approfondire lo scrutinio di lamentata
illegittimità della clausola contrattuale stessa, infatti,
se letta nell’accezione propugnata dalla Regione, certo è
che il documentato e comunicato avvio dei lavori riferito ad
un’opera, riconosciuta come di interesse pubblico, dimostra
per tabulas l’avvenuto soddisfacimento di quella
acquisizione di disponibilità che la norma voleva garantire,
ove non fosse sufficiente allo scopo l’avvenuta
registrazione dell’atto nell’ottobre del 2014, cioè a
distanza di poco più di due mesi dalla scadenza del termine
di presentazione della domanda. Le esigenze di par condicio
sottese invece al formale rispetto della clausola
restrittivamente intesa non essendo state fatte valere a
tempo debito avrebbero dovuto essere espresse nella
motivazione dell’atto in comparazione con l’interesse
dell’operatore economico alla conservazione degli effetti
del beneficio ottenuto.
27. Vuoi, dunque, che la Regione Calabria abbia fatto uso
del proprio potere di controllo delle dichiarazioni di parte
(non motivando la diversa valutazione della adeguatezza
dimostrata per acta et facta conludentia fino a quel
momento); vuoi che abbia provveduto ad annullare la
concessione in autotutela ex art. 21-novies (come
sembrerebbe ipotizzare il primo giudice, seppure omettendo
un preliminare inquadramento dell’atto impugnato), l’atto
impugnato non dà alcun conto dell’interesse pubblico sotteso
alla scelta oggetto di gravame, in comparazione con la
posizione del privato che nel frattempo, contando sulla
correttezza dell’operato dell’amministrazione, ha dato
avvio, con l’avallo della stessa e delle altre
amministrazioni coinvolte nel procedimento, ad un
investimento economico di consistenza tutt’affatto esigua.
L’atto, cioè, per la parte in cui non dimostra di essere
supportato da imperative esigenze egualmente rivolte al
raggiungimento di predetti obiettivi, appare suscettibile di
concretare non solo una lesione dell’affidamento del privato
investitore, ma anche un non consentito sviamento dalle
finalità d’interesse pubblico generale affidate alla Regione
resistente quale soggetto gestore della misura in esame.
Di
tali finalità, infatti, l’amministrazione deve tenere conto
anche nell’esercizio del potere di controllo, che seppure
intrinsecamente orientato a garantire la corretta
elargizione di risorse economiche, non può intervenire con
tempistiche e modalità che rischiano di vanificarla,
esponendo il privato investitore non all’alea che connota
qualsiasi iniziativa imprenditoriale, ma a quella,
aggiuntiva, che conseguirebbe alla legittimazione postuma
del rilievo di qualsivoglia carenza formale o procedurale in
qualsiasi momento, quand’anche fosse possibile per
l’Amministrazione rilevarla da subito, ovvero in un “tempo
ragionevole”.
28. A quanto sopra detto consegue l’accoglimento del gravame
e, per l’effetto, in riforma della sentenza del Tar per
la Calabria, n. 360 del 2018, del ricorso di primo grado,
con conseguente annullamento del provvedimento di revoca dei
finanziamenti concessi e in parte qua della modifica della
relativa graduatoria, oggetto di motivi aggiunti (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.01.2024 n. 688 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Il consigliere comunale è obbligato ad astenersi in caso di
conflitto di interessi.
L’atto assunto in violazione dell’obbligo di astensione è annullabile in
toto e non solo per la parte eventuale del provvedimento che riguardi il
solo componente incompatibile.
Il Consiglio di Stato, Sez.
VII con la
sentenza
22.01.2024 n. 652,
si è pronunciato sul conflitto di interessi cui possono incorrere i
consiglieri comunali.
Il fatto
Un
cittadino aveva impugnato dinanzi al Tar la deliberazione del consiglio
comunale relativa all'approvazione di una variante allo strumento
urbanistico
comunale e aveva eccepito che il provvedimento consiliare sarebbe stato
approvato con la partecipazione di un consigliere in situazione di conflitto
di
interessi, in quanto stretto parente di proprietari terrieri interessati dal
progetto di variante strutturale e beneficiari della più favorevole
classificazione ad area residenziale di completamento.
Il Tar Piemonte ha
ritenuto la censura inammissibile per carenza di interesse, sostenendo che
anche se sussistesse il conflitto non inciderebbe sulle valutazioni espresse
in relazione all'area dell'appellante. La sentenza, impugnata dinanzi al
Consiglio di Stato, è stata integralmente riformata nel merito e
nell'eccezione.
La decisione
Il Consiglio di Stato non ha condiviso la tesi
del
giudice di primo grado, in quanto, in tema di conflitto di interessi degli
amministratori locali, deve ritenersi che l'obbligo di astensione ricorre
per il
solo fatto che i consiglieri comunali siano portatori di interessi
divergenti rispetto a quello generale affidato
all'organo di cui fanno parte. Inoltre, i soggetti interessati alle
deliberazioni assunte dagli organi collegiali di cui fanno
parte devono evitare di partecipare perché possono condizionare nel
complesso la formazione della volontà
assembleare, sicché è irrilevante l'esito della prova di resistenza.
Ne
consegue che l'atto assunto in violazione
dell'obbligo di astensione è annullabile in toto e non solo per la parte
eventuale del provvedimento che riguardi il solo
componente incompatibile. Infine, a tutela dell'immagine
dell'amministrazione, rileva anche il conflitto di interessi
potenziale.
Conclusioni
Nella fattispecie viene in rilievo una disposizione
di carattere speciale, oggi contenuta
nell'articolo 78 del Tuel, ma che, nel suo nucleo essenziale, è anteriore
alla stessa Costituzione, risultando enunciata
già nel Rd 148/1915 (articolo 290).
Essa sancisce espressamente l'obbligo
per gli amministratori locali di astenersi
dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri e di parenti e affini sino al
quarto grado.
Tale obbligo non si applica ai provvedimenti normativi o di
carattere generale, quali i piani urbanistici,
se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il
contenuto della deliberazione e specifici
interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
L'obbligo di astensione è espressione di una
regola generale ed inderogabile, di ordine pubblico, applicabile quindi
anche al di fuori delle ipotesi espressamente
contemplate dalla legge (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
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SENTENZA
1. L’appello è fondato per le ragioni di seguito esposte.
2. Ai fini dell’accoglimento dell’appello, valenza dirimente riveste l’esame
delle deduzioni incentrate sul conflitto di interessi, contestato in ricorso
in relazione alla partecipazione alla deliberazione del consiglio comunale
n. 14 del 2011 –avente ad oggetto “esame osservazioni alla variante
strutturale al P.R.G.I. anno 2008 - adozione elaborati modificati a seguito
di accoglimento delle osservazioni”–, di una consigliera che avrebbe
avuto l’obbligo di astenersi in quanto suoi stretti congiunti (segnatamente
la madre e la nonna, i cui nominativi sono specificamente indicati) sono
proprietari di terreni, ricompresi nella medesima zona e limitrofi a quelli
dell’odierno appellante, interessati dal progetto pianificatorio, con
previsioni migliorative.
2.1. Come esposto nella narrativa in fatto, con la sentenza impugnata la
sopra indicata censura è stata dichiarata inammissibile per carenza di
interesse, sostenendosi che anche ove sussistesse il conflitto non
inciderebbe sulle valutazioni espresse in relazione all’area
dell’appellante.
2.3. Tale statuizione non può essere condivisa.
2.4. Nella fattispecie viene in rilievo una disposizione di carattere
speciale, oggi compendiata nell’art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000
(testo unico enti locali, t.u.e.l.) ma che, nel suo nucleo essenziale, è
anteriore alla stessa Costituzione, risultando enunciata già nel r.d. n. 148
del 1915 (art. 290).
Essa sancisce espressamente l’obbligo per gli amministratori locali di
astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere
riguardanti interessi propri e di parenti e affini sino al quarto grado.
Tale obbligo “non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere
generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e
specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado”.
2.5. La giurisprudenza ha da tempo affermato che l’obbligo di astensione “è
espressione di una regola generale ed inderogabile, di ordine pubblico,
applicabile quindi anche al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate
dalla legge” (Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 2826 del 2003).
2.6. Le condizioni più stringenti sancite dalla disposizione contenuta
nell’art. 78, comma 2, del t.u.e.l. per i regolamenti e gli atti generali
–essendo richiesta una “correlazione immediata e diretta” con
l’interesse in conflitto– rispondono tuttavia ad un’esigenza di carattere
pratico poiché, in un contesto geografico delimitato, è evenienza molto
frequente che gli amministratori locali abbiano un qualche generico
interesse nelle fattispecie sulle quali sono chiamati a deliberare.
2.7. Sussistendo una obiettiva situazione di conflitto, è poi ininfluente
che l’amministratore, o il funzionario, abbiano proceduto in modo imparziale
ovvero che non sussista prova del condizionamento eventualmente subito (Cons.
Stato, sez. V, 12.06.2009, n. 3744; successivamente, sez. V, sentenza n.
5465 del 2014.)
2.8. Inoltre (cfr., Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 2970 del 2008):
a) l’obbligo di astensione ricorre per il solo fatto che i membri
del collegio amministrativo siano portatori di interessi divergenti rispetto
a quello generale affidato alle cure dell’organo di cui fanno parte,
risultando irrilevante, a tal fine, la circostanza che la votazione non
avrebbe potuto avere altro apprezzabile esito, che la scelta sia stata in
concreto la più utile e la più opportuna per lo stesso interesse pubblico,
ovvero che non sia stato dimostrato il fine specifico di realizzare
l’interesse privato o il concreto pregiudizio dell'amministrazione (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 26.05.2003, n. 2826);
b) i soggetti interessati alle deliberazioni assunte dagli organi
collegiali di cui fanno parte devono evitare di partecipare finanche alla
discussione, potendo condizionare nel complesso la formazione della volontà
assembleare, sicché è irrilevante l’esito della prova di resistenza (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 07.10.1998, n. 1291);
c) l’atto assunto in violazione dell’obbligo di astensione è
annullabile in toto e non solo per la parte eventuale del
provvedimento che riguardi il solo componente incompatibile (cfr. sez. IV,
21.06.2007, n. 3385);
d) a tutela dell’immagine dell’amministrazione, rileva anche il
conflitto di interessi potenziale, come evidenziato anche dalla
giurisprudenza costituzionale e civile (cfr. Corte cost. 28.05.1975, n. 129;
Cass. 16.09.2002, n. 13507).
2.9. L’appellante ha prodotto nel giudizio di primo grado evidenze a
sostegno della sussistenza di una correlazione immediata e diretta,
obiettivamente apprezzabile, tra il contenuto della deliberazione e gli
interessi del consigliere comunale indicato in ricorso, tale da imporre un
suo dovere di astensione.
Gli elementi prodotti, lungi dall’essere connotati da genericità, risultano
sufficienti tenuto, peraltro, conto della circostanza che gli stessi sono
rimasti insuperati, non avendo l’amministrazione comunale appellata prodotto
alcunché, in quanto non costituita né nel giudizio di primo grado né nel
presente giudizio di appello.
2.10. L’accoglimento della censura sopra indicata riveste, come sopra
anticipato, carattere dirimente ai fini dell’accoglimento dell’appello e,
dunque, della riforma della sentenza impugnata. |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono, agli edifici rurali non si possono applicare le regole
dettate per le case.
Il Tar Campania accoglie il ricorso del proprietario contro il Comune. In
questi casi si possono considerare ultimati anche gli immobili non rifiniti.
Nel caso di istanze di condono per fabbricati rurali non può applicarsi la
disciplina che riguarda gli immobili a uso residenziale che (ai fini del
condono) impone l’obbligo del completamento funzionale.
Con questa motivazione il TAR Campania (Sez. II di Salerno), con la
sentenza
22.01.2024 n. 236, ha accolto il
ricorso di una persona contro il Comune di Positano che aveva respinto due
istanze di condono e due istanze di accertamento di compatibilità
paesaggistica e ordinato la demolizione di due
livelli di un fabbricato.
La vicenda inizia quando la proprietaria della
struttura
impugna l'ordinanza del 2020 con cui il Comune di Positano ha respinto due
istanze di condono edilizio presentate nel 1986 e 2004, «nonché due istanze di
accertamento di compatibilità paesaggistica ed ordinato la demolizione di
due livelli di un fabbricato della superficie complessiva di 167,24 metri
quadri».
Alla base dell'intero provvedimento, come si legge nella sentenza
«vi
è il diniego della prima domanda di condono, presentata ai sensi della legge
n. 47/1985».
Il diniego si basa sulla duplice considerazione: «l'immobile ha
uso produttivo e non risulta completato funzionalmente, così come previsto
dall'art. 31, comma 2, della predetta legge, ma realizzato solo nel rustico
e nella copertura».
Inoltre «l'istanza risulta
dolosamente infedele in quanto risultano presenti due unità immobiliari a
destinazione residenziale aventi una
superficie complessiva di metri quadri 160,08 ed un volume lordo di mc.
579,00, ubicate al piano primo e secondo
sottostrada di un fabbricato articolato su cinque livelli, in luogo
dell'abuso richiesto in condono corrispondente ad un
unico manufatto a destinazione agricola avente una superficie coperta di
metri quadri 167,24 con un volume definito
di mc. 562,56».
Per i giudici il ricorso è fondato e va accolto.
«Quanto al
primo motivo di rigetto -scrivono- va
rilevato che l'opera abusiva risulta rappresentata come manufatto connesso
con la conduzione agricola articolato
su due livelli e, dunque, come fabbricato rurale, astrattamente suscettibile
di uso abitativo, ove ne possegga le
caratteristiche».
Pertanto, sottolineano i giudici «non può applicarsi la
disciplina riguardante gli immobili ad uso non
residenziale che, ai fini del condono, impone l'obbligo del completamento
funzionale». Risultato: «Ne consegue che,
ai sensi dell'art. 31 della legge 28.02.1985 n. 47, deve considerarsi
ultimato l'edificio realizzato senza titolo
abilitativo in zona agricola e mancante delle rifiniture, della
pavimentazione e degli infissi, laddove risulti eseguito il
rustico ed ultimata la copertura».
Quanto al secondo motivo, «nella domanda
di condono non è dato ravvisare
alcuna falsità, ma tutt'a più una imprecisione, avendo la ricorrente
rappresentato l'esistenza di un manufatto ...
articolato su due livelli ed essendo irrilevante, ai fini della
condonabilità dell'opera, l'eventuale (per altro, modesto)
scarto esistente tra le dimensioni indicate e quelle reali. Il Comune è
dunque tenuto a rivalutare l'istanza, partendo dalle considerazioni svolte
nella
presente decisione».
Ricorso accolto, spese compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
30.01.2024).
---------------
SENTENZA
La ricorrente impugna l’ordinanza n. 10275 del 20.08.2020, ord. n. 46,
con cui il Comune di Positano ha respinto due istanze di condono edilizio
presentate l’01.04.1986 ed il 19.11.2004, nonché due istanze di accertamento
di compatibilità paesaggistica ed ordinato la demolizione di due livelli di
un fabbricato sito in via ... n. 124, della superficie complessiva di mq.
167,24.
Alla base dell’intero provvedimento vi è il diniego della prima domanda di
condono, presentata ai sensi della legge n. 47/1985.
Detto diniego si basa sulla duplice considerazione che:
a) l’immobile ha uso produttivo e non risulta completato
funzionalmente, così come previsto dall’art. 31, comma 2, della predetta
legge, ma realizzato solo nel rustico e nella copertura;
b) “l’istanza risulta dolosamente infedele in quanto risultano
presenti due unità immobiliari a destinazione residenziale aventi una
superficie complessiva di mq. 160,08 ed un volume lordo di mc. 579,00,
ubicate al piano primo e secondo sottostrada di un fabbricato articolato su
cinque livelli, in luogo dell’abuso richiesto in condono corrispondente ad
un unico manufatto a destinazione agricola avente una superficie coperta di
mq. 167,24 con un volume definito di mc. 562,56”.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Ed invero, quanto al primo motivo di rigetto va rilevato che l’opera
abusiva risulta rappresentata come “manufatto connesso con la conduzione
agricola articolato su due livelli” e, dunque, come fabbricato rurale,
astrattamente suscettibile di uso abitativo, ove ne possegga le
caratteristiche.
Pertanto, non può applicarsi la disciplina riguardante gli immobili ad uso
non residenziale che, ai fini del condono, impone l’obbligo del
completamento funzionale.
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 31 della legge 28.02.1985 n. 47, deve
considerarsi ultimato l’edificio realizzato senza titolo abilitativo in zona
agricola e mancante delle rifiniture, della pavimentazione e degli infissi,
laddove risulti eseguito il rustico ed ultimata la copertura (cfr. TAR
Umbria 06.11.2008, n. 702).
Quanto al secondo motivo, nella domanda di condono non è dato
ravvisare alcuna falsità, ma tutt’a più una imprecisione, avendo la
ricorrente rappresentato l’esistenza di un “manufatto … articolato su due
livelli” ed essendo irrilevante, ai fini della condonabilità dell’opera,
l’eventuale (per altro, modesto) scarto esistente tra le dimensioni indicate
e quelle reali.
Il Comune è dunque tenuto a rivalutare l’istanza, partendo dalle
considerazioni svolte nella presente decisione. |
TRIBUTI:
Niente riduzione dell’Imu per il fabbricato senza agibilità.
Nel caso di specie si è trattato di unità ultimate per le quali dovevano
ancora essere messi i titoli abilitanti in sanatoria e il certificato di
abitabilità.
Un fabbricato nuovo che non ha l’agibilità non è inagibile e per questo non
ha diritto alla riduzione dell’Imu.
Lo afferma la quinta sezione civile della Corte di Cassazione, Sez. V
civile, con l'ordinanza
sentenza 18.01.2024 n. 1955.
La riduzione
Una società di costruzioni ha proposto ricorso per la cassazione della
sentenza
con cui la Commissione tributaria regionale aveva respinto l'appello avverso
la sentenza della Commissione provinciale in rigetto del ricorso proposto
avverso un avviso di accertamento Imu.
Lamenta l'erronea esclusione della
sussistenza dei presupposti per l'applicazione della riduzione d'imposta del
50% per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non
utilizzati,
prevista dall'articolo 8, comma 1, del Dlgs 504/1992, il quale affida
l'accertamento della inagibilità o inabitabilità all'ufficio tecnico
comunale
con perizia a carico del proprietario o, in alternativa, a una dichiarazione
sostitutiva del contribuente.
Afferma la Suprema corte che, ai fini
dell'applicazione della riduzione, devono considerarsi inagibili o
inabitabili, e
di fatto non utilizzati, i fabbricati per i quali vengano a mancare i
requisiti di
cui all'articolo 24, comma 1, del Dpr 380/2001, in base al quale la
sussistenza
delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli
edifici e degli impianti negli stessi installati
e, ove previsto, di rispetto degli obblighi di infrastrutturazione digitale,
nonché la conformità dell'opera al progetto
presentato e la sua agibilità sono attestati mediante segnalazione
certificata.
Talché si tratta di immobili che
presentino un degrado fisico sopravvenuto (fabbricato diroccato,
pericolante, fatiscente) o un'obsolescenza
funzionale, strutturale e tecnologica non superabile con interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria.
I
presupposti
Partendo dall'assunto che in materia fiscale le norme che
stabiliscono esenzioni o agevolazioni sono di
stretta interpretazione è quindi non c'è spazio per ricorrere al criterio
analogico o all'interpretazione estensiva della
norma oltre i casi e le condizioni dalle stesse espressamente considerati, i
giudici della V sezione rilevano che
- da una parte l'iscrizione nel catasto edilizio dell'unità immobiliare
costituisce di per sé presupposto sufficiente
perché sia considerata fabbricato e di conseguenza assoggettabile
all'imposta;
- dall'altra l'inagibilità (che consente la
riduzione d'imposta) è correlata alla temporanea impossibilità di utilizzo
dell'immobile, intesa come situazione
intrinseca di degrado dello stesso, superabile con interventi di
manutenzione straordinaria, e non come qualità
giuridica superabile con il rilascio del certificato di abitabilità, che non
costituisce presupposto per l'applicazione
dell'imposta.
Nel caso di specie si è trattato di immobili non inagibili o
inabitabili, ma di unità ultimate per le quali
dovevano ancora essere messi i titoli abilitanti in sanatoria e il
certificato di abitabilità, per cui la Corte territoriale ha
correttamente escluso l'applicazione della riduzione prevista dalla norma
sopra citata.
La Cassazione quindi ritiene
ben fondata la motivazione della sentenza di primo grado in ordine alla
mancata applicazione della richiesta riduzione d'imposta, rigettando
integralmente il ricorso (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024).
---------------
SENTENZA
1.1. con il primo motivo la Società denuncia ai sensi dell'art.
360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione di norme di diritto («art.
8, I comma, del d.lgs. 504/1992 afferente alla riduzione del 50% del tributo
IMU per l’anno 2013, relativamente ad immobili invenduti ex artt. 2, I
comma, lett. A), del d.lgs. 504/1992, 2, V comma-bis, del d.l. 102/2013, ...
art. 1, comma 747, lettera B), della l. 160/2019, ... art. 13, III comma,
lett. B), del d.l. 201/2011») per avere la Commissione tributaria
regionale erroneamente escluso la sussistenza dei presupposti per
l’applicazione della riduzione d’imposta prevista dalle citate disposizioni,
secondo cui «la base imponibile è ridotta del 50% per i fabbricati
dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati», sebbene
Roma Capitale fosse già a conoscenza, con riguardo agli immobili tassati del
mancato rilascio, da parte del medesimo Ente territoriale, delle concessioni
edilizie in sanatoria, il che aveva impedito di ottenere il relativo
certificato di agibilità/abitabilità ed aveva precluso alla Società, impresa
di costruzioni per la vendita, la vendita dei suddetti immobili;
1.2. la doglianza è infondata;
1.3. va premesso che l’art. 13 del d.l. n. 201/2011 prevede, per quanto qui
di interesse, quanto segue: «3. La base imponibile dell'imposta
municipale propria è costituita dal valore dell'immobile determinato ai
sensi dell'articolo 5, commi 1, 3, 5 e 6 del decreto legislativo 30.12.1992,
n. 504, e dei commi 4 e 5 del presente articolo. La base imponibile è
ridotta del 50 per cento: ... b) per i fabbricati dichiarati inagibili o
inabitabili e di fatto non utilizzati, limitatamente al periodo dell'anno
durante il quale sussistono dette condizioni. L’inagibilità o inabitabilità
è accertata dall'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del
proprietario, che allega idonea documentazione alla dichiarazione. In
alternativa, il contribuente ha facoltà di presentare una dichiarazione
sostitutiva ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 28.12.2000, n. 445, rispetto a quanto previsto dal periodo
precedente. Agli effetti dell'applicazione della riduzione alla metà della
base imponibile, i comuni possono disciplinare le caratteristiche di
fatiscenza sopravvenuta del fabbricato, non superabile con interventi di
manutenzione»;
1.4. come già affermato, anche recentemente, da questa Corte (cfr. Cass. n.
5804 del 24/02/2023; Cass. n. 29966 del 19/11/2019 in motiv. anche se con
riferimento all’ICI) ai fini dell'applicazione della
riduzione de qua devono considerarsi inagibili o inabitabili, e di
fatto non utilizzati, i fabbricati per i quali vengano a mancare i requisiti
di cui all'articolo 24, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e quindi nello
specifico gli immobili che presentino un degrado fisico sopravvenuto
(fabbricato diroccato, pericolante, fatiscente) o un’obsolescenza
funzionale, strutturale e tecnologica
(cfr. in tal senso, Cass. n. 29966/2019 cit. in motiv., che definisce
condizione di inagibilità e inabitabilità in cui versi l’immobile l’«obiettiva
inidoneità alla sua utilizzazione a causa dell'obsolescenza o cattiva
manutenzione dello stesso o della presenza di carenze intrinseche»),
non superabile con interventi di manutenzione, ordinaria o
straordinaria;
1.5. tale interpretazione della norma non solo risulta aderente alla lettera
della norma ma trova conferma nel costante indirizzo giurisprudenziale (cfr.
Cass. nn. 15407/2017, 4333/2016, 2925/2013, 5933/2013) in materia fiscale
secondo il quale le norme che stabiliscono esenzioni o
agevolazioni sono di stretta interpretazione ai sensi dell'art 14 preleggi
sicché non vi è spazio per ricorrere al criterio analogico o
all'interpretazione estensiva della norma oltre i casi e le condizioni dalle
stesse espressamente considerati;
1.6. va peraltro evidenziato, con riguardo alla lamentata mancanza del
certificato di abitabilità degli immobili, che tale certificato non attesta
alcuna agibilità dello stesso, ma la sola idoneità igienico-sanitaria del
manufatto atta a consentirne l'uso, che non incide, però, sulla sua
esistenza (in particolare, ai fini fiscali);
1.7. pertanto,
- da una parte, l'iscrizione nel catasto
edilizio dell'unità immobiliare costituisce di per sé presupposto
sufficiente perché l'unità sia considerata fabbricato e, di conseguenza,
assoggettabile all'imposta prevista, laddove per i fabbricati di nuova
costruzione, come nel caso in esame, i criteri alternativi dell'ultimazione
dei lavori o di utilizzazione del fabbricato assumono rilievo solo per
l'ipotesi in cui il fabbricato di nuova costruzione non sia ancora iscritto
in catasto (cfr. Cass. n.
24924/2008), mentre,
- d'altra parte, l'inagibilità (che
consente la riduzione d'imposta) è correlata alla temporanea impossibilità
di utilizzo dell'immobile, intesa come situazione intrinseca di degrado
dello stesso, superabile con interventi di manutenzione straordinaria, e non
come qualità giuridica superabile con il rilascio del certificato di
abitabilità (secondo Cass. n.
5372/2009 «...il rilascio del certificato di abitabilità non costituisce
presupposto per l'applicazione dell'imposta, non potendosi desumere il
contrario dal tenore dell'art. 8, comma 1, del citato decreto, che si
riferisce esclusivamente all'ipotesi di fabbricati dichiarati inagibili e
inabitabili a seguito di perizia dell'ufficio tecnico comunale, e di fatto
non utilizzati»; conf. Cass. n. 12936/2019);
1.8. la Commissione tributaria regionale, nell'affermare che non era «applicabile
la invocata disposizione di cui all'articolo 8 d.lgs. 504/1992, poiché, in
disparte la mancanza di accertamenti tecnici che comprovino lo stato di
fatiscenza dedotto, in realtà non vengono in considerazione immobili
inagibili o inabitabili, ma piuttosto unità immobiliari di fatto ultimate
per le quali devono ancora essere emessi i titoli abilitanti in sanatoria e
il certificato di abitabilità», ha correttamente escluso l'applicazione
al caso concreto della disciplina agevolatrice prevista dalle norme dianzi
citate; |
EDILIZIA PRIVATA:
Scavo per la fibra ottica, non si può negare l’autorizzazione per
mancata concertazione senza interventi concomitanti.
Nel caso in cui la motivazione dell’atto non documenti l’esigenza di
coordinare l’intervento con altri lavori stradali concomitanti o quanto meno
programmati dall’ente.
In relazione alla posa di infrastrutture digitali per lo sviluppo della
fibra ottica è illegittimo il provvedimento dell’ente locale che nega
l’autorizzazione all’intervento di scavi sulla sede stradale per mancata
concertazione ex articolo 3 del Dm 01.10.2013, nel caso in cui la
motivazione dell’atto non documenti l’esigenza di coordinare l’intervento
con altri lavori stradali concomitanti o quanto meno programmati dall’ente
stesso.
È quanto
affermato dal TAR Campania-Napoli, Sez. VII, con la
sentenza
18.01.2024 n. 479.
Il
fatto
Nell'aprile 2023 una società inoltrava a un Comune un'istanza di
autorizzazione per scavi e opere civili ex articolo 49 del Dlgs 259/2003,
nell'ambito di un progetto per la realizzazione di un'infrastruttura di rete
a
banda ultra-larga in fibra ottica sull'intero territorio nazionale.
Stante
l'assenza di riscontro entro i termini da parte della Pa, la società
notificava
all'ente un'autocertificazione attestante l'intervenuta formazione del
silenzio-assenso. Al che il Comune, in esito alla successiva corrispondenza con
l'impresa, negava l'autorizzazione all'intervento oggetto dell'istanza e non
dava corso al rilascio dell'ordinanza viabilistica necessaria allo
svolgimento
dei lavori, disponendo altresì l'annullamento in autotutela del silenzio-assenso di cui sopra.
Nello specifico, il
provvedimento dell'ente giustificava tale annullamento con la motivazione
secondo cui la programmazione degli
interventi non è avvenuta in accordo con questa amministrazione, quale
gestore delle strade, giusto articolo 3,
comma 6, del Dm 01.10.2013, con l'effetto che l'intervento proposto
risulta «in contrasto con le previsioni () di
salvaguardia della sicurezza stradale» di cui al medesimo articolo.
In
effetti, la normativa addotta dal Comune si
addice al caso di specie in quanto il Dm 01.10.2013 disciplina i
criteri e gli aspetti generali per il posizionamento
delle infrastrutture digitali, indicando le modalità d'intervento e le
metodologie di scavo a limitato impatto ambientale
da utilizzare per favorire lo sviluppo digitale sul territorio nazionale.
In
tale contesto la società interessata ha
chiamato in giudizio il Comune e il Tar adito, in accoglimento della domanda
della ricorrente, ha annullato il
provvedimento adottato dall'ente locale.
La ratio della normativa
Questo
perché, scrivono i giudici, «la motivazione
addotta dal Comune difetta di qualsivoglia indicazione circa il necessario
presupposto fattuale, consistente nello
svolgimento (o almeno nella programmazione) di concomitanti lavori stradali
da parte dell'ente locale».
Il collegio ha
osservato, infatti, che soltanto nell'ipotesi di una pluralità di interventi
in corso o comunque programmati l'articolo 3
del Dm 01.10.2013 ha previsto oltretutto a livello di raccomandazione e
non di obbligo una concertazione con
l'ente gestore della strada allo scopo di coordinare l'esecuzione degli
interventi, compatibilmente con le rispettive
esigenze temporali.
In secondo luogo, la Sezione ha rilevato che né dalla
comunicazione di avvio del procedimento
di annullamento, né dalla corrispondenza intercorsa tra il Comune e
l'impresa è dato evincere che l'intervento oggetto dell'istanza sia
suscettibile di
pregiudicare gli interessi prioritari tutelati dal Dm 01.10.2013, ossia
la sicurezza stradale della circolazione, dei
lavoratori e degli utenti della strada, nonché la salvaguardia
dell'infrastruttura da realizzare (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.02.2024).
---------------
SENTENZA
6 - Nel merito, la domanda di annullamento avente ad oggetto il diniego
di autorizzazione emesso dal Comune il 07/07/2023 è meritevole di
accoglimento.
Ai sensi del comma 7 dell’art. 49 (ex art. 88) del d.lgs. n. 259/2003 (Opere
civili, scavi ed occupazione di suolo pubblico), “Trascorso il termine di
trenta giorni dalla presentazione della domanda, senza che l'amministrazione
abbia concluso il procedimento con un provvedimento espresso ovvero abbia
indetto un'apposita conferenza di servizi, la medesima si intende in ogni
caso accolta”.
Il provvedimento impugnato (emesso il 07/07/2023), pertanto, è intervenuto a
fronte di un provvedimento autorizzativo ormai formatosi per
silenzio-assenso (sull’istanza di Op.Fi. s.p.a. pervenuta il 05/04/2023) e
va, pertanto, annullato.
7 - Stessa sorte segue il provvedimento di autotutela emesso dal Comune di
San Nicola la Strada il 05/10/2023.
Al riguardo si rammenta che: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo
ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo
21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni
di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore
a diciotto mesi [ora, dodici] dal momento dell’adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in
cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo
conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo
che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono
ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del
provvedimento illegittimo”.
E’ stato affermato che “Il giudizio sulla valutazione dell’esercizio del
potere di annullamento d’ufficio si scompone in una triplice verifica in
ordine: a) alla competenza in capo all’autorità che procede
all’annullamento; b) al termine entro cui il potere è stato esercitato; c)
ai presupposti del suo esercizio (cause di illegittimità, ragioni di
interesse pubblico all’annullamento, comparazione tra gli interessi pubblici
e privati dei soggetti destinatari e di quelli comunque interessati)” - Tar
Lazio, Roma, sez. II, sent. 09/04/2021.
Questi presupposti, com’è noto, debbono ricorrere cumulativamente, nel senso
che l’illegittimità del provvedimento è condizione necessaria, ma non
sufficiente, per procedere al suo annullamento, subordinato all’esistenza di
ragioni di interesse pubblico diverse e ulteriori rispetto al mero
ripristino della legalità violata, nonché al decorso di un lasso di tempo
“ragionevole” dall’adozione dell’atto da annullare.
Ed ancora: “Il presupposto per un legittimo esercizio del potere di
annullamento d'ufficio non può ricondursi al mero ripristino della legalità,
occorrendo dare conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e
concreto alla rimozione dell'atto; occorre, inoltre, una comparazione tra
detto interesse pubblico e l'entità del sacrificio imposto all'interesse
privato, tanto più quando, in ragione del tempo trascorso, l'interessato
abbia maturato un legittimo affidamento alla conservazione del bene della
vita. Tuttavia, l'annullamento d'ufficio che intervenga entro breve tempo
dall'adozione del provvedimento annullabile, quando le situazioni giuridiche
coinvolte non si siano consolidate, è soggetto a un obbligo di motivazione
attenuato” (cfr TAR Lazio-Roma, sez. III, 21/12/2018, n. 12485, Tar
Puglia, Lecce, 06/06/2008, n. 1680; anche Tar Campania-Salerno, n. 1304,
25/5/2016).
7.1 - Tanto premesso, si osserva che la motivazione del provvedimento di
secondo grado impugnato si incentra, come anticipato, sulla violazione
dell’art. 3 del d.m. 01/10/2013 (“Criteri e aspetti generali per il
posizionamento delle infrastrutture digitali”), che dispone:
“1. Le infrastrutture digitali sono installate nel rispetto di quanto
disciplinato nel decreto legislativo del 30.04.1992, n. 285 «Nuovo
Codice della Strada», nel decreto del Presidente della Repubblica 16.12.1992, n. 495 «Regolamento di esecuzione ed attuazione del Nuovo
Codice della Strada», e successive modificazioni, con particolare
riferimento alle disposizioni relative alla regolarità e sicurezza della
circolazione stradale ed alla tutela dell'infrastruttura stradale, nel
rispetto di tutte le altre norme vigenti che disciplinano la sicurezza dei
lavoratori nei cantieri stradali, nonché nel decreto legislativo 01.08.2003, n. 259 «Codice delle comunicazioni elettroniche».
2. La posa delle infrastrutture digitali, qualunque tecnica di scavo sia
utilizzata e per i diversi ambiti individuati, deve avvenire, secondo quanto
disciplinato dal presente decreto, che risulta improntato al principio di
contemperare l'interesse nazionale allo sviluppo delle infrastrutture
digitali con quello di preservare la sicurezza stradale della circolazione,
sia durante i lavori sia per tutta la vita utile dell'infrastruttura
stradale, di arrecare il minor danno possibile al complesso
dell'infrastruttura salvaguardando i vincoli presenti, di contenere
qualsiasi cedimento del corpo stradale, di preservare la sicurezza dei
lavoratori e degli utenti stradali, di facilitare la circolazione veicolare
e ridurre la quantità di materiale di risulta.
3. Le infrastrutture digitali sono installate prioritariamente negli
alloggiamenti già disponibili ed appositamente predisposti nelle sedi delle
infrastrutture stradali, o comunque nei manufatti quali cunicoli, pozzetti,
cavidotti e intercapedini, già utilizzati per il passaggio di altri
sottoservizi, purché ciò risulti compatibile con le rispettive specifiche
norme di settore.
4. In assenza di alloggiamenti disponibili di cui al comma 3, la posa delle
infrastrutture digitali, qualunque tecnica di scavo sia utilizzata, deve
prevedere un'idonea struttura di contenimento, tale da consentire in modo
agevole l'inserimento e/o lo sfilamento di cavi, in caso di manutenzioni o
guasti, al fine di evitare ulteriori successive alterazioni e danneggiamenti
alla sovrastruttura stradale.
5. Qualunque tecnica di scavo sia utilizzata, devono essere adottati tutti i
possibili accorgimenti al fine di evitare i cedimenti del corpo stradale che
devono essere risanati secondo le specifiche riportate negli articoli 7, 8 e
9.
6. Al fine di ridurre complessivamente i disagi alla circolazione stradale
derivanti da interventi ripetuti sulla sede stradale, nonché di ridurre
tempi e costi per la posa delle infrastrutture digitali, la programmazione
dei relativi lavori di installazione avviene preferibilmente in
coordinamento con gli eventuali interventi di lavori stradali programmati
dall'Ente gestore della strada, compatibilmente con le rispettive esigenze
temporali. In tal caso l'Ente operatore, previo specifico accordo con l'Ente
gestore della strada in fase autorizzativa del progetto di cui all'art. 12,
provvede a sostenere soltanto gli oneri derivanti dall'installazione delle
strutture di contenimento delle infrastrutture digitali”.
7.2 - Orbene, stando a quanto esternato dal Comune, l’illegittimità
dell’assenso deriverebbe dalla mancata “concertazione” tra Op.Fi. s.p.a.
e Comune degli interventi programmati, ciò che porrebbe i lavori in
contrasto con la previsione del comma 6 dell’art. 3 cit..
La motivazione addotta dal Comune difetta, tuttavia, di qualsivoglia
indicazione circa il necessario presupposto fattuale, consistente nello
svolgimento (o almeno nella programmazione) di concomitanti lavori stradali
da parte dell’ente locale, la cui esistenza non è proprio allegata nell’atto
(prima ancora che comprovata). È solo per tale ipotesi, infatti, che il
legislatore, al fine di ridurre i disagi alla circolazione e tempi e costi
dell’intervento, raccomanda (e neppure impone, stando all’utilizzo
dell’avverbio “preferibilmente” e comunque facendo salva la compatibilità
“con le rispettive esigenze temporali”) di coordinare gli interventi.
D’altro canto, neanche dalla lettura della comunicazione di avvio del
procedimento di annullamento è dato evincere, nello specifico, in che
termini l’intervento progettato da Op.Fi. s.p.a. (per quanto di notevole
consistenza), collida con quelli che la norma di riferimento (art. 3 d.m.
cit.) indica come interessi da contemperare (sicurezza stradale della
circolazione, dei lavoratori e degli utenti della strada, salvaguardia
dell’infrastruttura).
7.3 - In mancanza, poi, della previa emissione di un atto autorizzativo “con
prescrizioni”, parimenti inconfigurabile si rivela la violazione del comma 4
dell’art. 12 del cd. “decreto scavi” (“Obblighi dell’ente operatore: 4.
L'Ente operatore deve osservare ed ottemperare eventuali ulteriori
prescrizioni impartite dall'Ente gestore della strada in fase autorizzativa,
dettate da ragioni di sicurezza della circolazione stradale ed in funzione
della tipologia dell'opera da realizzare”), oggetto di contestazione nella
comunicazione di avvio del procedimento, integralmente richiamata nel
provvedimento conclusivo.
In conclusione, non emergendo –con riferimento all’assenso tacito formatosi
sull’istanza della ricorrente- i profili di illegittimità enunciati dal
Comune, il provvedimento di ritiro dell’atto tacito di assenso va caducato.
7.4 - L’acclarata formazione del silenzio-assenso determina la illegittimità
anche della nota a firma del Comandante della Polizia Municipale, sorretta
dal solo presupposto dell’intervenuto avvio del procedimento di annullamento
di autotutela del silenzio-assenso.
7.5 – Va, invece, dichiarato inammissibile il gravame proposto avverso la
comunicazione di avvio del procedimento (prot. n. 23298 del 14.09.2023), trattandosi di atto endoprocedimentale privo di autonoma lesività. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti responsabili per non avere assunto tutte le iniziative
necessarie al collocamento in ferie del personale.
Il divieto di monetizzazione per dipendenti e dirigenti pubblici non è stato
infatti abrogato né disapplicato dalla sentenza della Corte di Giustizia
Europea 18.01.2024 n. C-218/22.
I dirigenti sono impegnati, in relazione alla responsabilità in caso di
monetizzazione delle ferie, ad assumere tutte le iniziative perché i
dipendenti ne fruiscano. Il divieto di monetizzazione delle ferie dei
dipendenti e dei dirigenti pubblici non è stato infatti abrogato né
disapplicato dalla sentenza
18.01.2024 - C-218/22 della Corte di Giustizia Europea (Nt+ Enti locali & edilizia del 22
gennaio).
Questa indicazione si applica in particolare per la
maturazione di responsabilità amministrativa e contabile in capo ai
dirigenti
che non danno applicazione alle sue indicazioni.
Per cui, sulla base dei
principi dettati dal legislatore nazionale e dalla giurisprudenza
comunitaria, i
dipendenti e dirigenti pubblici hanno diritto alla monetizzazione delle
ferie
non godute, tranne che l'ente dimostri che ciò è stato provocato
esclusivamente dalla scelta del lavoratore, ma nulla esclude che in questo
caso possa maturare responsabilità in capo al dirigente per non avere
assunto tutte le iniziative necessarie per il collocamento in ferie del
personale, anche nella fase finale del rapporto di lavoro, cioè prima del
collocamento in quiescenza.
L'articolo 5, comma 8, quarto periodo, del Dl
95/2012 stabilisce che il divieto di monetizzazione delle ferie all'atto
della conclusione del rapporto di lavoro è
sanzionato sia con il vincolo al «recupero delle somme indebitamente
erogate», sia con la maturazione di
«responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente
responsabile». La giurisprudenza comunitaria non si è
occupata di questo aspetto. Essa ha stabilito che le amministrazioni devono
assumere tutte le iniziative per fare
fruire le ferie ai propri dipendenti. Questo principio è stato ribadito
dalla citata sentenza della Corte di Giustizia
Europea, ma era già stato reso in modo consolidato dalla stessa, anche con
riferimento ai dirigenti.
Questi principi
hanno radicalmente modificato la impostazione data in precedenza dalla
nostra giurisprudenza, che stabiliva il
diritto alla monetizzazione delle ferie, in particolare per i dirigenti,
solamente nel caso in cui il lavoratore dimostrava
di avere richiesto le stesse e che l'ente aveva rigettato tali istanze per
esigenze di servizio.
Con la giurisprudenza
comunitaria si è quindi sostanzialmente ribaltato l'onere della prova: non è
il dipendente a dovere dimostrare che la
mancata fruizione delle ferie è stato provocato dal rigetto da parte
dell'amministrazione, ma è essa a dovere
dimostrare di avere assunto tutte le necessarie iniziative per la fruizione
delle stesse da parte del dipendente.
Su
questa base, nel caso in cui un ente venga condannato alla monetizzazione
delle ferie, non viene meno il dettato
sanzionatorio del decreto legge n. 95/2012, quindi la maturazione di
responsabilità amministrativa contabile da parte
dei dirigenti competenti nel caso in cui l'ente debba sobbarcarsi l'onere in
questione. Ricordiamo peraltro che, a
seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro, nelle pubbliche
amministrazioni sono state assegnati ai dirigenti i poteri e le capacità del
privato datore
di lavoro.
Da questa scelta legislativa deriva la conseguenza che i
dirigenti possono collocare anche d'autorità i
propri dipendenti in ferie, soprattutto nel caso in cui essi non le
richiedano. Questa possibilità è da considerare
ulteriormente rafforzata nel caso in cui il dipendente violi le previsioni
del d.lgs. n. 66/2003, per le quali si deve
godere di almeno 2 settimane di ferie nel corso dell'anno e di altre 2 entro
i 18 mesi successivi a quello di
maturazione delle stesse.
E le previsioni del CCNL per cui le ferie maturate nel corso dell'anno non
godute devono
esserlo entro i primi 6 mesi di quello successivo, a prescindere che il
mancato godimento sia stato provocato dalla
mancata richiesta o dal rinvio per esigenze di servizio (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
30.01.2024). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Rilevanza penale dei rumori provocati in ambito
condominiale.
Il bene giuridico tutelato dalla
contravvenzione di cui all'art. 659 c.p. è costituito, come
emerge dallo stesso nomen della rubrica, dallo svolgimento
delle attività e del riposo delle persone che il legislatore
intende presidiare da indiscriminate attività di disturbo,
le quali, tuttavia, non possono essere identificate, proprio
in ragione del plurale figurante nella norma, in un singolo
soggetto, pur infastidito in ragione della prossimità della
fonte sonora a quella del suo luogo di lavoro o della sua
abitazione, bensì da un numero indeterminato di persone le
quali soltanto consentono di individuare, al di là della
vastità dell'area interessata dalle emissioni o dall’entità
del numero dei soggetti lesi, un pregiudizio inferto
all’ordine pubblico nella specifica accezione della pubblica
quiete.
Ciò non toglie che possa trattarsi di soggetti annoverabili
in un ambito ristretto, come avviene in un condominio
costituito da più palazzine o da più appartamenti ubicati in
uno stesso stabile, ma in tal caso è necessaria la
produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare
la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti
dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di
propagazione, ma di una più consistente parte degli
occupanti il medesimo edificio, configurandosi, altrimenti,
soltanto un illecito civile foriero di un eventuale
risarcimento del danno e non certamente una condotta
penalmente rilevante ai sensi dell’art. 659 cod. pen.
E se è ben vero che non vale ad escludere la configurabilità
del reato la circostanza che solo alcuni dei soggetti
potenzialmente lesi dalle emissioni sonore se ne siano
lamentati, occorre ciò nondimeno in tal caso l’accertamento
sia dell'idoneità delle stesse ad arrecare disturbo non
solamente a un singolo ma a un gruppo più vasto di condomini
residenti in appartamenti diversamente ubicati
nell’edificio, sia della loro diffusività in concreto, tale
da superare i limiti della normale tollerabilità di
emissioni provenienti da immobili contigui (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.01.2024 n. 2071 -
massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
---------------
Il ricorso deve ritenersi meritevole di accoglimento.
A dispetto della anodina enunciazione, posta a chiusura
della pur diffusa motivazione spesa dal Tribunale tarantino,
secondo cui i rumori provenienti dall’abitazione degli
imputati “erano stati percepiti anche da altri condomini”,
tuttavia non emerge da alcun precedente passaggio della
sentenza impugnata, contenente la disamina delle acquisite
risultanze istruttorie, in qual modo fossero interessati
dalla fonte sonora, costituita da rumori dei tacchi delle
scarpe, così come da spostamenti di sedie o trascinamento di
mobili sul pavimento che avvenivano pressoché
quotidianamente specie nelle primissime ore del mattino,
soggetti diversi dalle due condòmine residenti
nell’appartamento posto al secondo piano, sottostante a
quello dei coniugi Ma..
Occorre considerare che il bene giuridico tutelato dalla
contravvenzione in esame è costituito, come emerge dallo
stesso nomen della rubrica, dallo svolgimento delle attività
e del riposo delle persone che il legislatore intende
presidiare da indiscriminate attività di disturbo, le quali,
tuttavia, non possono essere identificate, proprio in
ragione del plurale figurante nella norma, in un singolo
soggetto, pur infastidito in ragione della prossimità della
fonte sonora a quella del suo luogo di lavoro o della sua
abitazione, bensì da un numero indeterminato di persone le
quali soltanto consentono di individuare, al di là della
vastità dell'area interessata dalle emissioni o dall’entità
del numero dei soggetti lesi, un pregiudizio inferto
all’ordine pubblico nella specifica accezione della pubblica
quiete.
Ciò non toglie che possa trattarsi di soggetti
annoverabili in un ambito ristretto, come avviene in un
condominio costituito da più palazzine o da più appartamenti
ubicati in uno stesso stabile, ma in tal caso è necessaria
la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a
turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti
dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di
propagazione, ma di una più consistente parte degli
occupanti il medesimo edificio, configurandosi, altrimenti,
soltanto un illecito civile foriero di un eventuale
risarcimento del danno e non certamente una condotta
penalmente rilevante ai sensi dell’art. 659 cod. pen. (cfr.
Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013, Vírgillito, Rv. 257345,
secondo cui perché sussista la contravvenzione di cui
all'art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che si
svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di
rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e
le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento
sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di
una più consistente parte degli occupanti il medesimo
edificio; nonché Sez. 1, n. 47298 del 29/11/2011, Iori, Rv.
251406; Sez. 1, n. 18517 del 17/03/2010, Oppong, Rv. 247062;
Sez. 1, n. 1406 del 12/12/1997, Costantini, Rv. 209694).
E se è ben vero che non vale ad escludere la configurabilità
del reato la circostanza che solo alcuni dei soggetti
potenzialmente lesi dalle emissioni sonore se ne siano
lamentati, occorre ciò nondimeno in tal caso l’accertamento
sia dell'idoneità delle stesse ad arrecare disturbo non
solamente a un singolo ma a un gruppo più vasto di condomini
residenti in appartamenti diversamente ubicati
nell’edificio, sia della loro diffusività in concreto, tale
da superare i limiti della normale tollerabilità di
emissioni provenienti da immobili contigui (cfr. in termini
Sez. 3, Sentenza n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv.
273216).
Ciò premesso, il ragionamento probatorio svolto dal giudice
di merito si sviluppa intorno alle dichiarazioni rese dalla
sola Emanuela Pulpito, abitante nell’appartamento
sottostante a quello degli imputati, che riferisce di rumori
provenienti al mattino preso dal piano di sopra che, avuto
riguardo alle loro stesse caratteristiche, sono privi della
potenzialità diffusiva idonea ad integrare la rilevanza
penale del fatto.
E’ evidente infatti che il ticchettio dei
tacchi delle scarpe così come lo strusciamento dei mobili
sul pavimento, per quanto foriero di disturbo per gli
abitanti al piano inferiore in ragione del piano di
calpestio dell’uno coincidente con il soffitto dell’altro,
non possano propagarsi oltre l’unità immobiliare del piano
inferiore, risultando pertanto insuscettibili di concreta
percezione da parte degli altri soggetti residenti nella
zona o comunque anche solo di altri condomini abitanti in
appartamenti ubicati nel medesimo edificio condominiale.
D’altra parte le suddette dichiarazioni non risultano
accompagnate a quelle di nessun altro condomino dello
stabile, né corroborate da eventuali denunce o lagnanze di
altri soggetti ivi residenti, neppure risultando essere
stato effettuato alcun accertamento concreto vuoi con
l’acquisizione di deposizioni di altri testi aliunde
residenti, vuoi tramite perizia, vuoi per effetto di altri
elementi di fatto globalmente valutati in ordine al
superamento dei limiti della normale tollerabilità.
In
difetto del necessario nesso di consequenzialità logica tra
il disturbo arrecato alle condomine del piano sottostante e
il disturbo alla pubblica quiete, mancano pertanto gli
elementi fondanti l’affermazione di responsabilità dei
prevenuti, tenuto conto che le lamentele del singolo possono
al più configurare un illecito civile ai sensi dell’art. 844
cod. civ., ma non valgono ad integrare la materialità della
contravvenzione de qua che si perfeziona quando le emissioni
abbiano l’effetto di arrecare disturbo a una cerchia più
ampia di persone, anche a prescindere da quelle che se ne
siano in concreto lamentate.
Come infatti chiarito da questa stessa Corte «in tema di
disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone,
l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso,
integra:
A) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10,
comma 2, della legge 26.10.1995, n. 447, qualora si
verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di
emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in
materia;
B) il reato di cui al comma 1 dell'art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti
eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così
in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete;
C) il reato di cui al comma 2 dell'art. 659 cod. pen.,
qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o
prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del
mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai
valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione
dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995» (così Sez. 3,
n. 56430 del 18/07/2017, Vazzana, Rv. 273605, nonché il più
recente arresto di questa stessa Sezione menzionato dalla
difesa n. 49467 del 28.10.2022, non mass.).
Fuoriuscendosi nel caso di specie dalle ipotesi sub A e sub
C, neppure menzionate nell’editto accusatorio, difetta
quanto all’ipotesi di cui all’art. 659 primo comma cod. pen.
il disturbo alla pubblica quiete, ricorrente solo
allorquando il rumore molesto è percepito o comunque è
percepibile da un numero indistinto di persone e non già,
come accertato nel presente processo, dai componenti, anche
a prescindere dalla mancata escussione della teste
Ta., di un solo nucleo familiare residente nella
medesima unità abitativa.
Non potendo pertanto ritenersi il fatto criminoso
sussistente ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., la
sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio,
stante la rinuncia di entrambi i ricorrenti alla
prescrizione. Consegue all’epilogo decisorio anche la revoca
delle statuizioni civili. |
APPALTI:
Sottosoglia, esclusione automatica solo con richiamo negli atti
di gara.
Il Tar Campania sulle offerte anomale nel nuovo codice: bisogna indicare
anche il metodo matematico di determinazione della soglia di anomalia.
Con l’ordinanza
16.01.2024 n. 133 il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, prende in
considerazione le disposizioni codicistiche, confermate rispetto a quanto
già previsto dai decreti legge emergenza (in particolare il Dl 76/2020, art.
1, comma 3), tra le più rilevanti ovvero l’esclusione automatica nel
sottosoglia in caso di appalto –lavori o servizi- da aggiudicarsi al minor
prezzo privo di interesse transfrontaliero (in caso di competizione con
almeno 5 partecipanti).
La richiesta del provvedimento cautelare
La ricorrente chiede
al giudice la sospensione dell'efficacia del provvedimento di esclusione per
anomalia dell'offerta mai ricevuto. La particolarità del caso preso in esame
è
che, nonostante la chiara previsione del nuovo codice con l'art. 54 e quindi
dell'esclusione automatica dell'offerta anomala, la stazione appaltante
stabiliva che avrebbe proceduto alla verifica della potenziale anomalia ai
sensi dell'art. 110, comma 2, del codice.
Il giudice, ritenendo fondato il c.d. periculum vitae per il ricorrente, sospende l'efficacia del provvedimento di
esclusione fornendo delle condivisibili indicazioni circa l'applicabilità
delle
nuove norme in tema di esclusione automatica.
Più nel dettaglio
nell'ordinanza si rileva che la sussistenza del fumus si basa sulla mancata
indicazione «nella lettera di invito () e nel
bando di gara/capitolato tecnico» dell'esclusione automatica delle offerte
anomale, ai sensi dell' art. 54, comma 1,
del nuovo codice dei contratti.
Operando in quest'ambito, rimarca il
giudice, la stazione appaltante risulterebbe
obbligata nel caso di aggiudicazione al minor prezzo con appalto nel
sottosoglia europea privo di interesse
transfrontaliero «in deroga a quanto previsto dall'articolo 110» con esplicitazione negli atti di gara - all'esclusione
automatica delle offerte che risultassero anomale, qualora il numero delle
stesse ammesse sia pari o superiore a
cinque.
Altro obbligo della stazione appaltante, definito non surrogabile precisa il
giudice, è la necessità di
individuare, sempre negli atti di gara il metodo per l'individuazione delle
offerte anomale, scelto fra quelli descritti
nell'allegato II.2, ovvero lo selezionano in sede di valutazione delle
offerte tramite sorteggio tra i metodi compatibili
dell'allegato II.2»)».
Questo dettaglio non risultava conosciuto dall'operatore (in realtà neppure
il contenuto del
provvedimento adottato) che, pertanto ha beneficiato della sospensione
dell'efficacia del provvedimento di
esclusione dalla procedura di gara.
Il nuovo codice
La lettura espressa nell'ordinanza, in tema di obblighi del Rup
della stazione appaltane a procedere, nel caso specifico, con l'esclusione
automatica emerge anche dalla relazione
tecnica che accompagna il nuovo codice. In questa si legge, infatti, che
«ove i contratti di importo inferiore alle
soglie di rilevanza europea relativi ad appalti di lavori o servizi siano
aggiudicati con il criterio del prezzo più basso e
non presentino un interesse transfrontaliero certo, le stazioni appaltanti,
in deroga all'art. 110, prevedono negli atti di gara l'esclusione automatica
delle offerte che
risultino anomale, qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o
superiore a cinque».
Secondo gli estensori, la
previsione rispecchierebbe «la disciplina già contenuta nell'art. 1, comma
3, ultimo periodo, del decreto-legge n.
76/2020, che diviene, con la disposizione in esame, disciplina a regime e
non più transitoria».
Gli estensori
privilegiano, quindi, una decisione automatica di esclusione in luogo di
una, lunga, previa valutazione di congruità
sulla convenienza economica determina da ribassi spesso frutto di
comportamenti strumentali. Il giudice ricorda
che la stessa Direttiva Europea 2014/2024, «fornisce indicazioni chiare
sulla gestione del rischio di anomalia delle
offerte imponendo alle stazioni appaltanti di valutare questo rischio e
fornendo agli operatori economici la
possibilità di presentare i loro giustificativi».
Per effetto di tale pregiudiziale la scelta degli estensori viene limitata
al
sottosoglia comunitario per cui si è deciso di mantenere un sistema di
esclusione automatica, ma limitatamente a
quelle situazioni con un numero di offerte sufficientemente elevato (almeno
cinque) per cui il processo di
valutazione dell'anomalia sia più lungo e costoso per le stazioni appaltanti
in ragione della maggior complessità
intrinseca dei contratti (quindi, per appalti di lavori e servizi, ma non di
forniture).
La disciplina dell'art. 54, per la sua
portata generale, è applicabile alle ipotesi di procedura negoziata, ma
anche al caso in cui si ricorra alla procedura
ordinaria, nel caso previsto dall'art. 50, comma 1, lett. d).
Si esclude invece esplicitamente, per fugare ogni dubbio, l'affidamento
diretto con richiesta di più preventivi (comma 1, secondo periodo).
L'aspetto, però, di maggior delicatezza sembra essere determinata dal comma
2 dell'articolo che «contiene la parte più innovativa della disposizione», rappresentata dalla introduzione dell'obbligo per le stazioni appaltanti
di prevedere negli atti di indizione della procedura da aggiudicare con il
criterio del prezzo più basso (e quindi fin dall'avviso a manifestare
interesse o nel bando purché non determinato da interesse transfrontaliero),
oltre alla opzione per l'esclusione automatica delle offerte, anche il
metodo matematico di determinazione della soglia di anomalia, individuato a
scelta delle medesime stazioni appaltanti tra uno dei tre indicati
nell'allegato II.2.
Questa precisazione, effettivamente, rappresenta anche la debolezza della
previsione visto che la sua mancata previsione/richiamo non può condurre ad
esclusione automatica salvo che si affermi, ufficialmente, che l'articolo 54
è eteroingrativo (imponendosi, quindi, alla stazione appaltante in caso di
omesso richiamo negli atti di gara) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per realizzare la mansarda serve sempre il permesso edilizio.
Il Consiglio di Stato esclude le tesi che vorrebbero qualificare l’opera
come una manutenzione o una ristrutturazione edilizia
Il residente di un comune campano ha
presentato una Scia in sanatoria,
versando 516 euro di sanzione, per regolarizzare un intervento considerato
«alla stregua di un intervento di ristrutturazione o di manutenzione della
copertura del preesistente piano primo mansardato».
Intervento che ha
portato alla realizzazione di uno spazio abitabile di 500 mq. Sulla base dei
riscontri effettuati nel cantiere dai vigili urbani il comune ha emesso
un'ordinanza di demolizione ritenendo che gli interventi fossero privi del
necessario titolo edilizio.
L'interessato ha impugnato l'ordinanza al Tar,
sostenendo che stava eseguendo «mere opere di manutenzione consistenti
nel rifacimento parziale della copertura del primo piano». Il Tar ha invece
dato credito al rapporto dei vigili urbani che hanno descritto nel dettaglio
una
«sopraelevazione» tesa a realizzare appunto «una mansarda a quota di piano
primo di un fabbricato preesistente».
Il Consiglio di Stato - Sez. VII, nella
sentenza 15.01.2024 n. 488, non ha potuto che respingere
l'appello, ricordando che «la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando
viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle
caratteristiche
fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente
trasformato, con conseguente creazione non
solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume
complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di
un disegno sagomale con connotati diversi da quelli della struttura
originaria (allungamento delle falde del tetto,
perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.),
l'intervento rientra nella nozione di nuova
costruzione».
Pertanto, nel caso specifico, concludono i giudici della
VII Sezione di Palazzo Spada, «la
realizzazione di una mansarda a quota di piano primo di un fabbricato
preesistente di 500 mq non può qualificarsi come ristrutturazione edilizia
perché comporta la creazione di nuovi volumi» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.01.2024).
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SENTENZA
6. Le censure sono infondate.
6.1 La descrizione delle opere contenuta nell’ordinanza di demolizione e nel
verbale di sequestro datato 13.08.2015 smentisce la tesi difensiva secondo
cui si tratterebbe di mere opere di manutenzione consistenti nel rifacimento
parziale della copertura del primo piano oggetto di SCIA in sanatoria
presentata in data 14.10.2015.
6.2 Per contro, le opere abusive accertate in sede di sopralluogo dei Vigili
Urbani consistevano in una “sopraelevazione realizzata in legno, tegole
di copertura, a falde inclinate, grondaia perimetrale, pali e travi in
legno, parziale chiusura perimetrale con tavelle, guaina di calpestio. Alla
stessa si accede con torrino scala. La detta sopraelevazione è di circa mq.
500 (cinquecento) con altezza di colmo ml 3,50 ed altezza laterale di circa
ml 2,50 il tutto in corso di realizzazione”.
6.3 Come osservato dal giudice di primo grado,
è evidente che la
realizzazione di una sopraelevazione per una superficie e un’altezza pari a
quelli accertate non può essere considerata alla stregua di un intervento di
ristrutturazione o di manutenzione della copertura del preesistente piano
primo mansardato.
6.4 Per giurisprudenza costante,
la ristrutturazione edilizia sussiste solo
quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle
caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato
totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un
apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo
dell’intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati
diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del
tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione (Cons. Stato
Sez. VI, 13.01.2021, n. 423).
Ne discende che
la realizzazione di una mansarda a quota di piano primo di
un fabbricato preesistente di 500 mq non può qualificarsi come
ristrutturazione edilizia perché comporta la creazione di nuovi volumi (Cons.
Stato sez. VII 01.08.2023, n. 7453).
7. A diverse conclusioni non conducono né la perizia giurata a firma del
geom. Be.Fr. (in diparte i profili di inammissibilità della medesima in
quanto depositata solo in appello, sub doc. n. 2) né la sentenza penale di
assoluzione emessa dal Tribunale di Napoli nei confronti del signor
-OMISSIS- e citata da parte appellante.
7.1 Da un lato, la perizia giurata, pretermettendo totalmente lo
stato di fatto così come accertato nel verbale di sequestro, si limita a
richiamare la perizia tecnica e gli elaborati grafici allegati all’istanza
di concessione in sanatoria nonché la descrizione delle opere contenuta
nella SCIA in sanatoria presentata il 14.10.2015, concludendo che “gli
interventi sopra descritti non hanno comportato alcun aumento di superficie
e volumetria rispetto a quella esistente e assentita con C.E. in sanatoria”.
7.2 La relazione tecnica, fondandosi sul mero confronto tra le opere oggetto
di concessione in sanatoria e le opere sopravvenute così come descritte
dall’istante nella SCIA presentata, non è idonea a smentire le circostanze
di fatto accertate dagli operatori di Polizia Municipale i quali hanno anche
puntualizzato che le opere erano ancora “in corso di realizzazione”
al momento del sopralluogo (13.08.2015).
7.3 Dall’altro lato, la sentenza n. -OMISSIS- non reca alcun
accertamento, suscettibile di efficacia extrapenale (art. 654 c.p.p.), in
ordine all’affermata legittimità delle opere realizzate poiché si limita ad
assolvere il signor -OMISSIS- dal reato di cui all’art. 44, lett. b), d.p.r.
380/2001 unicamente per la mancata prova che l’imputato fosse proprietario
dell’immobile o committente delle opere abusivamente realizzate, come
confermato anche dal fatto che era stata la signora -OMISSIS-, in qualità di
proprietaria, a presentare la SCIA in sanatoria (pag. 3 sentenza n.
-OMISSIS-, doc. 1 allegato alla memoria di primo grado del 30.01.2019).
7.4 Le considerazioni sopra svolte confermano, pertanto, la legittimità
dell’ordinanza di demolizione poiché avente ad oggetto opere integranti una
nuova costruzione per le quali è necessario il permesso di costruire. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non
necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento, considerando
che la partecipazione del privato al procedimento non potrebbe determinare
alcun esito diverso.
Invero, l’ordine di demolizione è atto vincolato e di carattere reale e non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né
una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione.
Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga
adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, atteso
che non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in
alcun modo legittimare.
La presenza del manufatto abusivo comporta, infatti, una lesione permanente
ai valori tutelati dalla Costituzione e l’eventuale connivenza o la mancata
conoscenza della loro esistenza da parte degli organi comunali non incide
sul dovere di disporne la demolizione.
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8. La natura vincolata dell’ordine di demolizione determina l’infondatezza
delle censure relative alla violazione dell’obbligo di comunicazione di
avvio del procedimento e al difetto di motivazione in ordine all’interesse
pubblico perseguito in comparazione con quello del privato.
8.1 Sotto il primo profilo, in disparte la circostanza che gli
appellanti si limitano a contestare l’omessa comunicazione dell’avvio del
procedimento senza specificare quale apporto partecipativo avrebbero potuto
fornire per superare le riscontrate illegittimità, è dirimente osservare che
l’ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della
previa comunicazione di avvio del procedimento, considerando che la
partecipazione del privato al procedimento non potrebbe determinare alcun
esito diverso (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 11.05.2022, n.
3707; sez. II, 01.09.2021, n. 6181).
8.2 Sotto il secondo profilo, si richiama l’orientamento della
giurisprudenza che, nel solco dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria
n. 9/2017 e ribaditi di recente dall’Adunanza Plenaria n. 16/2023, ha
costantemente rilevato che l’ordine di demolizione è atto vincolato e di
carattere reale e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (cfr., ex multis,
Cons. Stato sez. II, 11.01.2023, n. 360; sez. VI, 17.10.2022, n. 8808).
8.3 Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione
venga adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso,
atteso che non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
in alcun modo legittimare (Ad. Plen. 9/2017, sez. II, 11.01.2023, n. 360;
sez. VI, 26.09.2022, n. 8264).
La presenza del manufatto abusivo comporta, infatti, una lesione permanente
ai valori tutelati dalla Costituzione e l’eventuale connivenza o la mancata
conoscenza della loro esistenza da parte degli organi comunali non incide
sul dovere di disporne la demolizione (Ad. Plen. 16/2023).
9. Alla luce delle sopra esposte considerazioni, l’appello deve essere
respinto in quanto infondato (Consiglio
di Stato, Sez. VII,
sentenza 15.01.2024 n. 488, no - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Controversie inerenti la mobilità interna.
Il TAR Lazio-Latina, Sez. I, con
sentenza 13.01.2024 n. 32
ha ricordato che le controversie che hanno a oggetto la contestazione degli
atti di mobilità interna (trasferimento ad altra unità organizzativa), anche
quando impugnati congiuntamente all'atto programmatorio presupposto (Piao),
sono di competenza del giudice ordinario.
Infatti, in questi casi,
l'interesse personale, diretto, concreto e attuale ad agire azionato e
dunque il petitum sostanziale del ricorso non è costituito da una
generica ed astratta pretesa alla legalità della gestione delle risorse
umane da parte dell'ente datore di lavoro, bensì dalla volontà del
ricorrente di conservare l'assegnazione precedentemente ottenuta e, quindi,
di far valere una situazione giuridica soggettiva legata al rapporto di
lavoro in essere con l'amministrazione, sotto il profilo del diritto alla
sede di servizio (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.02.2024).
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SENTENZA
2. – Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo, come da eccezione sollevata dal Comune di Gaeta, venendo in
questione una vicenda contenziosa inerente la gestione privatistica del
rapporto di lavoro di un dipendente comunale, sotto il profilo del suo
trasferimento da un ufficio dell’ente ad un altro.
Infatti, ai sensi dell’art. 63, comma 1, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, “1.
Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte
le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, ad eccezione di
quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le
controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca
degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle
concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e
corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti.
Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li
disapplica, se illegittimi. L’impugnazione davanti al giudice amministrativo
dell’atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di
sospensione del processo”.
Sul punto, costituisce ormai ius receptum che, dopo l’approvazione
della graduatoria finale del concorso pubblico, “si apre la fase
esecutiva nella quale si configurano attività che attengono allo svolgimento
privatistico del rapporto di lavoro” (TAR Lazio, Roma, sez. V,
14.12.2023 n. 18972; sez. I, 28.03.2023 n. 5327; TAR Sardegna, sez. I,
08.09.2020 n. 483); nel contesto di tale fase i comportamenti e le
determinazioni dell’Amministrazione sono espressione del potere negoziale
che la stessa esercita nella veste e con la capacità del privato datore di
lavoro (Cass. civ., sez. un., 07.07.2014 n. 15428; sez. un., 23.09.2013 n.
21671; sez. un., 06.07.2006 n. 15342).
Inoltre, osserva il collegio che “la giurisdizione deve essere
determinata sulla base della domanda, dovendosi guardare, ai fini del
riparto […] tra giudice ordinario e giudice amministrativo, non già alla
prospettazione compiuta dalle parti, bensì al petitum sostanziale, da
identificare, non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che
si chiede al giudice, quanto, soprattutto, in funzione della causa petendi,
ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, da
individuarsi con riguardo ai fatti allegati” (Cass. civ., sez. un.,
22.09.2022 n. 27748; TAR Lazio, Roma, sez. V, 14.12.2023 n. 18972).
Ebbene, nella vicenda che ci occupa -OMISSIS- non ha impugnato soltanto il
PIAO civico, ma anche e soprattutto le note municipali prot. n.-OMISSIS- del
30.01.2023 e prot. n. -OMISSIS- del 02.02.2023, con le quali è stato
concretamente disposto il suo trasferimento ad altra unità organizzativa,
rispetto alle quali il suddetto piano costituisce un atto amministrativo
presupposto.
In tal senso, l’interesse personale, diretto, concreto ed attuale ad agire
azionato in questa sede dal ricorrente –e dunque il petitum
sostanziale del ricorso– non è costituito da una generica ed astratta
pretesa alla legalità della gestione delle risorse umane del Comune
resistente, bensì nella volontà di -OMISSIS- di conservare l’assegnazione
precedentemente ottenuta e, quindi, di far valere una situazione giuridica
soggettiva legata al rapporto di lavoro in essere con l’Amministrazione
civica, sotto il profilo del diritto alla sede di servizio.
Sul punto, giurisprudenza che il collegio intende condividere ha già
affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia relativa
all’assegnazione del dipendente a una diversa unità organizzativa nel
rispetto della categoria e del profilo professionale di appartenenza, in
quanto gestita con i poteri del privato datore di lavoro e non comportante
alcuna modificazione del rapporto di impiego tra le parti (TAR Marche, sez.
I, 07.03.2014 n. 327).
Pertanto, atteso che le citate note dirigenziali del 30.01.2023 e del
02.02.2023, cioè gli atti direttamente lesivi della posizione del
ricorrente, sono state assunte con le capacità e i poteri del privato datore
di lavoro, ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, la
cognizione sull’eventuale esistenza di patologie che ne inficino la
legittimità è devoluta al giudice ordinario in funzione di giudice del
lavoro, ai sensi dell’art. 63, d.lgs. n. 165 cit., cui è anche attribuito il
potere di disapplicare eventualmente il PIAO in quanto atto amministrativo
presupposto rilevante.
È, dunque, innanzi al giudice ordinario che -OMISSIS- potrà riproporre la
domanda nei termini di legge, ai sensi degli artt. 59, l. 18.06.2009 n. 69 e
11 cod. proc. amm. e secondo i principi affermati dalle sentenze della Corte
costituzionale 12.03.2007 n. 77 e della Corte di cassazione, sezioni unite,
22.02.2007 n. 4109. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque. Depuratore comunale e responsabilità del sindaco.
La decisione consapevole di fare
funzionare e gestire un impianto fognario difettoso, implica
una condotta positiva di disturbo e molestia a livello
igienico e non una mera condotta omissiva dell’adozione di
cautele idonee ad impedire il versamento.
Quello di cui all’articolo 674 cod. pen. è reato di pericolo
per la cui integrazione non occorre un effettivo nocumento
alle persone, essendo sufficiente «l'attitudine a cagionare
effetti dannosi», sussistente nel caso di uno scarico di
acque altamente tossiche e maleodoranti, avvenuto in luogo
pubblico (fattispecie relativa alla condotta di un sindaco
il quale non aveva evitato che i reflui provenienti
dall’impianto di depurazione comunale finissero in mare in
assenza di idonea depurazione, così imbrattando le acque
marine) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.01.2024 n. 1451 -
massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
---------------
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Quanto al primo profilo, mediante il quale è stata
lamentata la errata applicazione dell'art. 674 cod. pen., a
causa della affermazione della idoneità lesiva della
condotta nonostante il mancato accertamento della dannosità
per le persone di quanto sversato in mare, occorre
premettere i principi della giurisprudenza, che questo
Collegio richiama ritenendoli pienamente condivisibili.
2.1. La Corte ha reiteratamente affermato (Sez. 3, n. 49213
del 06/11/2014, Ingianni) che l’ipotesi contravvenzionale in
esame è qualificata come reato di pericolo, cosicché per la
sua configurazione è necessaria esclusivamente l'astratta
attitudine delle cose gettate o versate a cagionare effetti
dannosi ed è sufficiente la colpa, configurabile in tutti i
casi in cui venga riscontrata l'attivazione di impianti
pericolosi ovvero venga accertata la colposa omissione di
cautele atte ad impedire il verificarsi della situazione di
pericolo.
Ancòra, Sez. 3, n. 46237 del 30/10/2013, Semplici, ha
precisato che è necessario e sufficiente accertare «la
potenziale offensività del rifiuto o del refluo e che il
getto avvenga in un luogo di pubblico transito o in un luogo
privato di comune o altrui uso (cfr. Cass. sez. 3, sentenza
n. 25037 del 25/05/2011 Ud. dep. 22/06/2011 Rv. 250618; cfr.
anche, con riferimento alla normativa preesistente, Sez. 1,
sentenza n. 13278 del 10/11/1998 Ud, dep. 17/12/1998 Rv.
211869)», allargando altresì, nel tempo, l’ambito della
nozione di «molestia», ravvisata ad esempio anche in caso di
«mutevole colorazione del mare» causata dai reflui di un
impianto di depurazione comunale, risultando palese ed
intrinseco il turbamento che suscita nella comunità la
visione del mare di un colore diverso da quello suo proprio
(Sez. 3, n. 10034 del 07/01/2014, Calabrò, secondo cui
«costituisce molestia anche il fatto di arrecare alle
persone preoccupazione ed allarme circa eventuali danni alla
salute»).
Si è poi precisato che «la decisione consapevole di fare
funzionare e gestire un impianto fognario difettoso, implica
una condotta positiva di disturbo e molestia a livello
igienico e non una mera condotta omissiva dell’adozione di
cautele idonee ad impedire il versamento» (Sez. 3, n. 48406
del 18/10/2019, Livello, Rv. 278259 – 01; Sez. 3, n. 6419
del 07/11/2007, Costanzach, Rv. 239058 – 01).
Recentemente, la Corte (Sez. 3, n. 21034 del 05/05/2022, Ali
Spa, n.m.), ha chiarito che quello di cui all’articolo 674
cod. pen. è reato di pericolo per la cui integrazione non
occorre un effettivo nocumento alle persone, essendo
sufficiente «l'attitudine a cagionare effetti dannosi»,
precisando che non può non essere ricompresa una situazione,
ove esiste uno scarico di acque altamente tossiche e
maleodoranti, avvenuto in luogo pubblico.
2.2. Per quanto concerne il merito del ricorso, il Collegio
osserva come nella giurisprudenza consolidata della Corte (Sez.
3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 – 01;
Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 - 01), in caso
di c.d. «doppia conforme», ai fini del controllo di
legittimità sul vizio di motivazione, la struttura
giustificativa della sentenza di appello si salda con quella
di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando
le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a
quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti
ai passaggi logico giuridici della prima sentenza,
concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi
di prova posti a fondamento della decisione. Le motivazioni
dei due provvedimenti in questo caso (v. Sez. 1, n. 8868
dell’08/08/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del
05/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145) si integrano a formare un
corpo unico.
Si è dunque, anche nel caso di specie, in presenza di
«doppia conforme», con il conseguente obbligo per il
ricorrente di confrontarsi in maniera puntuale con i
contenuti delle due sentenze, circostanza, nel caso di
specie, non sussistente.
Ciò premesso, il motivo è in parte qua inammissibile,
essendo volto, peraltro in modo generico, privo di confronto
critico con la motivazione della sentenza impugnata, a
censurare sul piano del merito un accertamento di fatto, in
ordine a detta idoneità lesiva dei reflui, di cui è stata
accertata la presenza in mare nel corso di reiterate
ispezioni ed analisi effettuate nel corso degli anni, che
hanno evidenziato il superamento dei parametri COD e BOD,
oltre l’assenza di misuratori di portata, pozzetti di
ispezione e registri di carico e scarico dei rifiuti
prodotti e smaltiti (pag. 6-7 sentenza di primo grado).
A ciò il Collegio aggiunge che non vi è dubbio che il mare
territoriale (v. Sez. U. Civili, n. 2735 del 02/02/2017, Rv.
642419 - 02) sia una res communis omnium, rispetto al quale
sussiste un diritto di uso comune a tutti i componenti della
collettività uti cives, ragion per cui l’immissione in mare
di sostanze inquinanti in misura superiore ai limiti
consentiti cagiona un concreto pericolo di cagionare effetti
dannosi alla salute nei confronti di un numero indeterminato
di persone.
3. Del pari inammissibili sono le censure che si ricollegano
alla qualifica di sindaco del ricorrente.
3.1. In ordine alla posizione del sindaco e alle
responsabilità che ad essa conseguono, il Collegio premette
che secondo la giurisprudenza della Corte il d.lgs. n. 267
del 2000, art. 107, comma 1, stabilisce che ai dirigenti
degli enti locali spetta la direzione degli uffici e dei
servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e
dai regolamenti, che devono uniformarsi al principio per cui
i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo
spettano agli organi di governo, mentre la gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai
dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di
organizzazione delle risorse umane, strumentali e di
controllo (v. Sez. 3, n. 37544 del 27/06/2013, Fasulo, Rv.
256638 – 01).
La richiamata disposizione è stata più volte oggetto di
esame da parte della giurisprudenza di questa Corte con
specifico riferimento alla materia dei rifiuti, contigua
rispetto a quella oggetto del presente procedimento.
Si è
infatti chiarito che gli organi di governo, in base alla
disciplina sugli enti locali, hanno un dovere di controllo
limitato al corretto esercizio della funzione di
programmazione generale (e, quanto al sindaco, dei compiti
di ufficiale del governo), restando esclusa la
responsabilità del sindaco per situazioni derivanti da
problemi di carattere tecnico-operativo, ancorché non
meramente esecutivo, riguardanti difficoltà meramente
contingenti e di ordinaria amministrazione nonché la
sorveglianza dell'operato del personale dipendente, che
restano di competenza del dirigente amministrativo di
settore (Sez. 3 n. 23855,
07.05.2002, conf. Sez. 3 n.
8530, 04.03.2002).
Tuttavia, questa Corte (Sez. 3, n. 2478 del 09/10/2007, dep.
2008, Gissi, Rv. 238593 – 01) ha precisato che,
se è vero
che l'art. 107 TUEL prevede la delega ai dirigenti
amministrativi dell'ente di autonomi poteri organizzativi,
permane comunque in capo al sindaco, quale figura
politicamente ed amministrativamente apicale del comune, il
dovere di controllo sul corretto esercizio delle attività
autorizzate (in tal senso Cass. Sez. 3, n. 28674 del 2004 Rv.
229293).
Egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano
note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali
emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la
salute delle persone o l'integrità dell'ambiente (Sez. 3, n.
37544 del 27/06/2013, Rv. 256638; Sez. 3, n. 18024 del
30/03/2023, Di Palma, n.m.).
Sussistono, quindi, da un lato, delle attribuzioni dirette
del sindaco (quale quella di programmazione e, in materia di
rifiuti, quella di ordinanza); dall’altro, un obbligo
generale di vigilanza e controllo, a fronte di situazioni
particolarmente gravi e reiterate nel tempo, quale quella in
esame.
3.2. Nel caso di specie, le due conformi pronunce di merito
sottolineano la risalenza nel tempo del problema, la sua
gravità e la sua perduranza.
A pagina 7 della sentenza di primo grado si chiarisce, ad
esempio, che le deposizioni dei testi Sa. (ARPA), Ar.
e Ad. (Capitaneria di Porto) e i certificati di analisi
in atti, evidenziavano i superamenti dei limiti tabellari
per i parametri COD e BOD anche nel 2015, 2016 e 2018, ossia
anche dopo l’elezione del Vi..
Analogamente, a pag. 4-5 della prima sentenza si dà conto di
come nel 2018 si sia verificato un corposo carteggio tra la
Regione e il Comune sul tema, sia stata fissata una
conferenza di servizi, e di come nella nota del 18.05.2018 (ossia quando il vinci ricopriva la carica di sindaco)
la Regione esprimesse rilievi critici proprio sulle «scelte
operate dal RUP Geom. Sa. e dal sindaco del Comune di
Saponara».
A fronte di tale, precisa, motivazione, il ricorrente da un
lato omette di indicare in modo preciso quali interventi
avrebbe posto in essere per fronteggiare il problema (essi
sono solo genericamente indicati a pag. 2 del ricorso) e, dall’altro, omette di confrontarsi con i dati precisi
offerti dalle due sentenze, da cui emerge la prosecuzione
dell’inquinamento ben oltre la data di assunzione della
carica sindacale e la comunicazione nelle sedi istituzionali
di tale perduranza.
Ed infatti, a fronte di una motivazione precisa sia in
ordine alla prosecuzione delle criticità dopo l’assunzione
della carica sindacale da parte del ricorrente, certificate
da rapporti analitici e debitamente rappresentate anche in
conferenza di servizi, che alla precisa comunicazione di
tali criticità agli organi comunali, il ricorso si limita ad
una generica censura di tipo «contestativo», senza opporre
una critica precisa che «attacchi» i motivi del
provvedimento impugnato, risultando così inammissibile per
difetto di specificità estrinseca. |
APPALTI:
Manodopera, mai ribassabili le spese individuate come
«incomprimibili» nel bando.
Resta la possibilità di giustificare che il ribasso complessivo dell’importo
derivi da una più efficiente organizzazione aziendale: il ragionamento del
Tar Campania compatibile con le disposizioni del nuovo codice.
Il giudice campano (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza
11.01.2024 n. 147) viene chiamato a
verificare la legittimità di un provvedimento di esclusione determinato dal
non consentito ribasso degli oneri della manodopera (e sicurezza) indicati
dalla stazione appaltante riguardo ad un appalto bandito sotto l’egida del
pregresso codice.
La sentenza contiene, però, indicazioni utili anche in
relazione al nuovo impianto normativo.
La questione
Il ricorrente impugna la
propria esclusione in relazione ad un appalto di servizi pulizia,
manutenzione
e custodia dell'area cimiteriale, fondata, in particolare, su un ribasso
«abnorme» rispetto ai soli importi ribassabili ovvero la sola parte composta
«dalle spese per i materiali e le attrezzature, per 5.844,15, il rimborso
spese
generali, per 7.017,77 e l'utile d'impresa, pari ad 5.380,29».
In questo
modo la
percentuale del ribasso determinava praticamente l'azzeramento di queste
voci (raggiungendo la soglia del 92,77). Evidentemente, l'offerta è stata
considerata anomala e inaccettabili le stesse giustificazioni.
Da qui, la
censura del ricorrente che ha strutturato il proprio ricorso evidenziando
che
la stazione appaltante avrebbe dovuto applicare la percentuale di ribasso
non alla sola componente del costo dell'appalto preso in considerazione (che
si potrebbero sintetizzare come spese
generali e la percentuale di utile) ma anche alle altre componenti ovvero
«l'importo per il costo del personale, pari ad
38.961 e quello per la sicurezza, pari ad 1.980, per complessivi 40.941,00».
In pratica, la stazione appaltante avrebbe
dovuto prendere in considerazione (applicare il ribasso offerto), secondo la
ricorrente, anche questi importi e, in
questo modo, la percentuale di ribasso si sarebbe attesta sul 28,95%
risultando non anomala.
La sentenza
Il Tar si
sofferma, dapprima, sul procedimento di verifica della potenziale anomalia
dell'offerta evidenziando che l'analisi -che deve essere presidiata dal Rup-, «costituisca espressione della
discrezionalità tecnica, di cui l'amministrazione è
titolare per il conseguimento e la cura dell'interesse pubblico ad essa
affidato dalla legge (Consiglio di Stato sez. V,
14.06.2021, n. 4620, cfr. Consiglio di Stato sez. V, 01.06.2021, n.
4209)».
Le risultanze del procedimento,
quindi, sono sottratte ad un «sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salvo che non sia manifestamente
inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o
travisamento dei fatti». Giungendo, quindi, alla parte
centrale della censura la possibilità o meno di ribassare il costo della
manodopera-, in sentenza si rileva che
«qualora la lex specialis di gara abbia nettamente distinto una parte del
valore del contratto di appalto come spesa
incomprimibile (quella afferente al costo del personale) ed abbia
specificato, con riferimento alla restante parte della base d'asta,
l'offerta del massimo ribasso, solo su questo costo l'operatore sia
legittimato a proporre la sua offerta in
ribasso».
Ed è ciò che è effettivamente avvenuto con la gara di in cui, la
stazione appaltante, ha evidenziato i costi
incomprimibili come richiesto dalla pregressa disciplina e, in modo più
chiaro, con l'attuale codice-, richiedendo il
ribasso solo sulla parte «comprimibile» e su questa «i singoli concorrenti
avrebbero dovuto operare il ribasso». Il
ribasso offerto, invece, secondo la pretesa della ricorrente, incideva anche
sugli oneri della manodopera e sugli oneri
della sicurezza violando le prescrizioni della legge di gara.
Pertanto la
decisione, sul procedimento di verifica della
potenziale anomalia, è tutt'altro che privo di fondamento illogico.
Il
ragionamento espresso, prima dalla stazione
appaltante e poi confermato dal giudice, pare coerente anche con il nuovo
disposto contenuto nel comma 14
dell'articolo 41 del nuovo codice in cui per i soli contratti di lavori e
servizi, «per determinare l'importo posto a base di
gara, la stazione appaltante o l'ente concedente individua nei documenti di
gara i costi della manodopera» che, con
gli oneri della sicurezza, devono essere «scorporati dall'importo
assoggettato al ribasso». Fermo restando la
possibilità, da intendersi in senso generale, dell'operatore economico «di
dimostrare che il ribasso complessivo
dell'importo deriva da una più efficiente organizzazione aziendale».
Una
corretta interpretazione impone quindi alla
stazione appaltante di specificare, come anche avviene nel bando tipo n.
1/2023 dell'Anac, che gli oneri della
manodopera non sono ribassabili direttamente ma qualora, si potrebbe dire in
via indiretta, si incida anche su questi,
l'offerente solo per questo non può essere escluso ma deve essere chiamato a
certificare l'esistenza di una
maggiore «efficienza» rispetto al modello richiesto dalla stazione
appaltante con la legge di gara (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni culturali, anche orti e case rustiche possono essere
soggetti a vincolo.
Lo segnala una sentenza del Tar Liguria rigettando il ricorso dei
proprietari
Un frutteto, un orto e una casa rustica possono essere dichiarati beni
culturali.
È quanto statuisce il TAR Liguria (Sez. I con
sentenza
11.01.2024 n. 16) che ha confermato la legittimità di un decreto
del Presidente della Commissione Regionale per il patrimonio culturale della
Liguria che ha qualificato tali beni come soggetti a vincolo culturale.
La sentenza è
interessante perché, oltre ad affrontare il tema sempre molto complicato
della presunzione di vincolo dei beni appartenenti ad enti pubblici
ribadisce
l'ampia discrezionalità di cui dispone il Ministero dei Beni Culturali nella
valutazione della presenza o meno di interesse culturale e sostiene che la
valutazione connessa ai beni appartenenti ad un ente pubblico afferisce alla
verifica di un interesse culturale minore.
Andando con ordine, la vicenda da
cui scaturisce la pronuncia riguarda un compendio immobiliare di proprietà
della Siae che, in qualità di ente pubblico economico, intendendo procedere
alla sua vendita ha chiesto l'attivazione della verifica di interesse
culturale
del compendio, ai sensi dell'articolo 12 del Codice dei Beni Culturali.
La
verifica è terminata con la dichiarazione di vincolo, contestata dagli
attuali
proprietari avanti al Tar sulla base di motivazioni volte a confutare la
ricostruzione ministeriale di sussistenza di
effettivo interesse culturale. Il Tar ha rigettato la richiesta sulla base
di molteplici argomentazioni, di cui la principale
è la ampia discrezionalità della scelta dell'amministrazione. Infatti,
secondo i giudici liguri, le valutazioni sottese alla
dichiarazione di interesse culturale sono molto ampie, attraversano diversi
campi del sapere e si basano su un
apprezzamento delle qualità di un bene connotato da una grande
discrezionalità tecnica.
Il giudizio che presiede alla
dichiarazione di interesse culturale, e quindi all'imposizione di un
vincolo, implica l'applicazione di cognizioni
specialistiche proprie di settori scientifici della storia, dell'arte,
dell'architettura, dell'archeologia e di altre discipline
caratterizzate da canoni elastici e mobili e, quindi, da grandi margini di
opinabilità.
Queste considerazioni quindi
portano a considerare che anche beni che tradizionalmente non vengono
ricondotti al novero dei beni culturali
(come un frutteto, un orto o un bene rustico) possono validamente presentare
un interesse culturale che non può
essere escluso a priori. Per esempio, in relazione ai terreni oggetto di
giudizio, l'interesse culturale nasce dal fatto
che essi presentano una stretta connessione con un bene cinquecentesco
(oggetto di vincolo precedentemente)
sia dal punto di vista morfologico che storico testimoniale.
Questo basta a
considerare la legittimità della
dichiarazione di vincolo, anche in ragione del fatto che secondo il Tar la
discrezionalità del Ministero in caso di beni
appartenenti ad enti pubblici è anche maggiore rispetto alle valutazioni che
sono condotte sui beni dei privati. Infatti,
mentre per i beni del demanio o del patrimonio pubblico l'articolo 10, comma
1, lett. A), del Codice dei Beni Culturali
postula la sussistenza di un interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico quindi per dirla con le parole del Tar la
sussistenza di un interesse semplice, per i beni di proprietà privata l'art.
10, comma 3, richiede il riscontro di un
interesse particolarmente importante o eccezionale.
Questo costituirebbe,
quindi, un ulteriore motivo a supporto
della legittimità del decreto di vincolo la cui valutazione era chiamata ad
accertare un interesse semplice data la
natura giuridica della Siae.
Si ricorda, sul punto che per costante
giurisprudenza la valutazione dell'amministrazione
può essere censurata soltanto se la decisione risulti in contrasto con la
realtà fattuale, ovvero sia irragionevole,
incoerente o inattendibile sotto il profilo tecnico, ponendosi al di fuori
della naturale ed intrinseca opinabilità del
sapere che definisce il carattere culturale del bene (Cons. St., sez. VI, 30.08.2023, n. 8074; Cons. St., sez. VI,
04.09.2020, n. 5357; Cons. St., sez. VI, 14.10.2015, n. 4747) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.01.2024).
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SENTENZA
3. Tanto premesso, gli atti impugnati non risultano affetti dai vizi
censurati con il I) mezzo di gravame.
Occorre rammentare che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 10,
comma 1, lett. a), e 12 del d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali),
tutti i beni mobili e immobili di proprietà di soggetti pubblici o di enti
privati non lucrativi, realizzati da autore non più vivente ed esistenti da
oltre settant’anni, sono sottoposti ad una misura di salvaguardia,
consistente nell’applicazione del vincolo di tutela sino al compimento della
verifica circa la sussistenza o meno di uno specifico interesse culturale
(artistico, storico, archeologico o etnoantropologico).
Come rilevato in dottrina, si tratta di una presunzione iuris tantum
di culturalità, per cui tali beni sono provvisoriamente soggetti al sistema
codicistico di protezione fino allo scrutinio ad hoc dell’interesse
culturale da parte degli organi competenti, d’ufficio o su istanza degli
enti proprietari: in caso di verifica positiva, il bene rimane
definitivamente vincolato; diversamente, l’esito negativo dell’accertamento
comporta la fuoriuscita del cespite dal regime di tutela (in argomento cfr.,
ex multis, Cons. St., sez. VI, 12.02.2015, n. 769; TAR Abruzzo,
L’Aquila, sez. I, 13.01.2017, n. 28).
3.1. Ciò posto, contrariamente a quanto argomentato da SIAE e dai signori Bo.,
il rustico è stato verosimilmente costruito anteriormente al 1950 ed è,
pertanto, un bene ultrasettantennale, con conseguente operatività della
richiamata disciplina.
In proposito, non è significativa la circostanza che l’unità immobiliare sia
stata per la prima volta iscritta in catasto nel 1959, poiché in passato
accadeva sovente che i piccoli fabbricati rurali non venissero accatastati
al momento della loro realizzazione (v. sul punto TAR Liguria, sez. I,
18.05.2022, n. 395; TAR Liguria, sez. I, 28.09.2020, n. 642).
Per contro, dalla documentazione versata in atti emergono plurimi indizi
della risalenza della costruzione ad un periodo antecedente al 1959 e, in
generale, agli anni ’50:
- nel rogito notarile di compravendita stipulato fra SIAE ed i
signori Bo., all’art. 9, la procuratrice speciale della parte venditrice ha
dichiarato che il manufatto è stato edificato anteriormente al 1942 (v. doc.
1 interventori);
- nella relazione di regolarità edilizia e catastale richiamata nel
prefato atto notarile l’ing. Ol., in qualità di tecnico di SIAE, ha
rappresentato che il rustico è stato originariamente realizzato quale
manufatto di servizio per la conduzione del fondo agricolo e, in seguito,
utilizzato come dependance della villa per il personale di sorveglianza; ha
aggiunto che, probabilmente, è stato eretto dopo il 1940 e che ha assunto la
consistenza attuale prima del 1967 (v. produzione interventori del
10.07.2023);
- nel 1959 Fr.Ci. era morto da tempo (essendo mancato il
20.11.1950), mentre Ro.La. aveva ottantadue anni, in quanto nata il
01.08.1877 (v. atto di donazione rep. n. 61952 notaio Ca. di Genova). Ora,
appare poco plausibile che una donna ultraottuagenaria intraprenda
l’edificazione di un nuovo fabbricato, viepiù se si considera che, quasi
sicuramente, nel 1959 la vedova del musicista aveva già maturato la
decisione di donare il compendio immobiliare a SIAE o, comunque, stava
vagliando tale opzione; viceversa, è assai probabile che il manufatto sia
stato accatastato in tale momento proprio per procedere alla liberalità in
favore dell’ente ricorrente.
3.2. In secondo luogo, si rivela manifestamente infondato l’assunto secondo
cui l’avversato decreto di vincolo sarebbe stato emanato senza accertare
previamente l’interesse culturale dei beni.
Come dimostrato dall’Amministrazione resistente, infatti, il procedimento di
verifica di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 42/2004 è stato correttamente
esperito, secondo l’iter divisato dagli artt. 40, 41 e 47 del d.p.c.m. n.
169 del 02.12.2019.
In particolare, come accennato (supra, § 2), la Soprintendenza Archeologia,
Belle Arti e Paesaggio ha svolto l’istruttoria ed ha proposto alla
Commissione per il patrimonio culturale della Liguria il riconoscimento
dell’interesse per il terreno-frutteto lato ovest, il rustico a monte ed il
terreno-orto a nord-est, esprimendosi invece in senso contrario per le due
unità immobiliari facenti parte dell’edificio a schiera a ponente della
villa (v. nota Soprintendente in data 03.08.2021 e relativi allegati, sub
doc. 4 resistente).
La Commissione regionale ha accolto la proposta soprintendentizia (v.
verbale CO.RE.PA.CU. del 04.08.2021, sub doc. 4 resistente) e, con il
decreto in questa sede impugnato, il Segretario regionale del Ministero
della Cultura, nella sua qualità di Presidente della predetta Commissione,
ha dichiarato l’interesse culturale dei beni in parola.
3.3. Infine, la mancata inclusione delle pertinenze nella dichiarazione di
interesse culturale del 2001, avente ad oggetto esclusivamente “Villa
Cilea con giardino”, non configura una situazione di affidamento
tutelabile.
Come si è detto, infatti, tutti i beni ultrasettantennali appartenenti ad
Amministrazioni ed enti pubblici sono soggetti a protezione ex lege,
che viene meno soltanto all’esito negativo della procedura di verifica
dell’interesse culturale prevista dall’art. 12, comma 2, del d.lgs. n.
42/2004.
Dunque, poiché per i beni in discussione non era mai stata compiuta la
valutazione di interesse culturale (cfr. doc. 3 resistente), il relativo
potere non si è consumato: onde l’eventuale convinzione soggettiva di SIAE
circa l’avvenuta maturazione di una preclusione all’imposizione del vincolo
culturale costituisce il frutto di un errore di diritto, insuscettibile di
fondare un legittimo affidamento.
Tale conclusione risulta viepiù avvalorata dal fatto che il decreto del 2001
è stato emanato sotto l’egida del previgente d.lgs. n. 490/1999, il quale
non contemplava il meccanismo della presunzione di interesse culturale, ma
si basava sulla predisposizione di elenchi descrittivi dei beni da parte
degli stessi enti pubblici proprietari.
Pertanto, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non solo il
provvedimento del 2001 non ha escluso il rilievo culturale delle pertinenze
di “Villa Cilea” (e, quindi, con l’atto del 2021 l’Amministrazione non ha
compiuto alcun revirement), ma, anzi, nel primo decreto di vincolo
risulta precisato che l’esplicitazione del carattere storico-artistico
dell’edificio padronale veniva effettuata nelle more della compilazione, a
cura di SIAE, della lista di tutti i propri beni culturali, rispondendo
all’esigenza di sottoporre immediatamente a tutela la villa (all’evidente
scopo di evitare che potesse “sfuggire” alla protezione, a causa di
una catalogazione non esaustiva).
In altri termini, l’interesse culturale dei beni immobili in contestazione
non è mai stato disconosciuto dal Ministero della Cultura e, quindi, al
momento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004 i beni medesimi sono
passati in regime di tutela provvisoria, poi sfociata nel provvedimento
definitivo odiernamente oppugnato (per un caso simile cfr. Cons. St., sez.
VI, 08.03.2023, n. 2482).
4. Si rivelano inaccoglibili anche le doglianze mosse con il II) motivo
del ricorso.
4.1. L’Amministrazione può assoggettare a tutela culturale i beni di
proprietà di un ente pubblico in uno spettro di situazioni più ampio
rispetto all’ipotesi di cespiti appartenenti a privati: infatti, per i beni
del demanio e del patrimonio pubblico l’art. 10, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 postula la sussistenza di un “interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico”, vale a dire di un interesse
culturale, per così dire, semplice; diversamente, per quelli in proprietà
privata l’art. 10, comma 3, richiede il riscontro di un interesse “particolarmente
importante” o “eccezionale” (sul punto v. Cons. St., sez. VI,
08.03.2023, n. 2482, cit.).
Orbene, alla data della contestata dichiarazione di interesse culturale,
SIAE era titolare del diritto dominicale sul rustico e sul podere limitrofo,
avendo stipulato con il signor Bo. soltanto il contratto preliminare, che,
come noto, produce effetti meramente obbligatori. Pertanto, il provvedimento
di vincolo non può reputarsi sproporzionato, giacché è stato lo stesso
legislatore che, nel delineare i tratti del potere conformativo attribuito
all’Autorità tutoria, ha stabilito di fare scattare la tutela dei beni degli
enti pubblici in presenza di un interesse culturale di minore intensità
rispetto a quello prescritto per i beni privati.
4.2. Secondo l’elaborazione pretoria, la nozione di bene culturale non si
presta ad una definizione tassativa e puntuale, ma costituisce un concetto
aperto, il cui contenuto viene riempito dalle elaborazioni di diversi campi
del sapere, afferenti alle scienze non esatte.
In ragione delle peculiarità epistemologiche insite nell’apprezzamento della
qualitas culturale di un bene, il giudizio che presiede alla
dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia
discrezionalità tecnica, poiché implica l’applicazione di cognizioni
specialistiche proprie di settori scientifici della storia, dell’arte,
dell’architettura, dell’archeologia e di altre discipline caratterizzate da
canoni elastici e mobili e, quindi, da lati margini di opinabilità.
Ne consegue che la valutazione dell’Amministrazione può essere censurata
soltanto se la decisione risulti in contrasto con la realtà fattuale, ovvero
sia irragionevole, incoerente o inattendibile sotto il profilo tecnico,
ponendosi al di fuori della naturale ed intrinseca opinabilità del sapere
che definisce il carattere culturale del bene (in argomento cfr., ex
aliis, Cons. St., sez. VI, 30.08.2023, n. 8074; Cons. St., sez. VI,
04.09.2020, n. 5357; Cons. St., sez. VI, 14.10.2015, n. 4747).
Alla stregua delle tracciate coordinate ermeneutiche, ritiene il Collegio
che il giudizio dell’Amministrazione resistente circa la valenza culturale
di tutti i beni facenti parte del compendio immobiliare dei Cilea (con
l’unica eccezione della casa in cui viveva la governante) si basi su dati
oggettivi, risponda ai criteri delle scienze storiche ed artistiche, nonché
risulti ragionevole e congruo.
Invero, la relazione allegata al decreto di vincolo (doc. 3 ricorrente)
illustra, con adeguato corredo motivazionale, il valore culturale della
tenuta terriera composta dall’edificio principale, dai terreni pertinenziali
e dal fabbricato minore a monte. In proposito, appaiono particolarmente
significativi i seguenti passaggi della relazione storico-artistica:
- la dimora nobiliare denominata “Villa Cilea” è costituita da una
“massiccia struttura architettonica…a parallelepipedo”: la villa presenta un
nucleo originario presumibilmente cinquecentesco, come si evince dalla
presenza di volte e peducci nelle coperture delle sale, ed è stata
ristrutturata ed ampliata nella seconda metà del XIX secolo; le numerose
stanze sono abbellite da affreschi ottocenteschi, alcuni dei quali opera
dell’importante pittore Luigi De Servi. Nella residenza varazzina, di
proprietà della famiglia Lavarello dalla seconda metà del 1800, il
compositore e la consorte vissero dal loro matrimonio nel 1909 fino alla
morte, animando un “vivace salotto intellettuale frequentato da artisti e
uomini di cultura”;
- “i terreni di pertinenza, posti sui lati ovest, nord ed est,
mantengono tra loro, e con l’edificio stesso, una strettissima connessione
sia dal punto di vista morfologico (come chiaramente leggibile nel rilievo
planimetrico della proprietà, che evidenza come tutte le porzioni siano
ancora armonicamente tra loro collegate), che storico testimoniale (ad
esempio, la presenza di una porzione residuale di sistemazione a limonaia
nel terreno ad est, o il sistema di percorsi progettato per superare il
dislivello con il terreno ad ovest)”;
- anche il fabbricato di servizio, che insiste sul terreno a nord
“in diretta corrispondenza visiva con la Villa”, costituisce memoria della
tenuta agricola, alla cui gestione era strumentale: invero, seppure alla
fine dell’Ottocento il tracciato ferroviario ha tagliato in due il fondo,
“le porzioni residuali di terreno…costituiscono ancora un elemento unitario
con la Villa, da preservare sia in termini di testimonianza di quel
paesaggio agrario di villa ormai quasi del tutto scomparso…sia in termini di
risorsa ambientale”;
- pertanto, “la Villa, unitamente al giardino che la circonda su
tre lati verso mare e ai terreni di pertinenza, nonostante i mutamenti
urbanistici intervenuti nell’area e un uso, anche incongruo, in epoca
recente di alcune porzioni di terreno, costituisce, nel suo complesso, un
rilevante esempio di villa suburbana d’impianto ligure caratterizzata da una
forte relazione con il paesaggio di mare in cui è immersa”.
Dunque, l’Autorità preposta alla tutela del patrimonio culturale ha
descritto le caratteristiche della villa, con le sue peculiarità
architettoniche ed artistiche ed il contesto storico di riferimento, nonché
la consistenza dell’intero compendio, evidenziando la connessione
morfologica e funzionale tra l’edificio padronale e le altre porzioni
immobiliari: l’Amministrazione ha, quindi, delineato in modo puntuale e
secondo i pertinenti criteri tecnici la rilevanza ed il significato di
“Villa Cilea” e delle sue pertinenze.
Per contro, non appaiono meritevoli di condivisione le critiche levate dalla
ricorrente e dagli interventori, giacché:
- il fatto che il rustico non presenti i medesimi caratteri
tipologici della villa non scalfisce le considerazioni dell’organo tutorio
in merito all’interesse culturale dell’intero complesso immobiliare, in
quanto testimonianza storica di una tenuta ligure suburbana, degna di
particolare considerazione perché fu residenza del maestro Cilea e della
moglie. È parimenti irrilevante che l’area a nord-est, acquistata nel 2022
dai signori Bo., non ospitasse un parco in senso stretto (id est un vasto
giardino con piante ornamentali), bensì un terreno coltivato ad ortaggi ed
un lungo pergolato con vigneto, giacché, come dato atto dallo stesso perito
degli interventori, la villa svolgeva anche funzione di presidio agricolo
del territorio (cfr. pagg. 4 e 22 della relazione dell’arch. Be. in data
24.03.2023, sub doc. 3 interventori): donde la legittimità della decisione
dell’Amministrazione di tutelare, insieme alla dimora padronale, anche le
sue pertinenze, quali vestigia di un paesaggio agreste a ridosso del mare
oggi introvabile;
- rappresenta un’opinione meramente soggettiva, inammissibilmente
patrocinata come alternativa alla valutazione dell’Autorità tutoria, la tesi
attorea secondo cui la costruzione della ferrovia (a fine ’800) e,
successivamente, la demolizione della galleria con la sovrastante terrazza
(intorno al 1950), con trasformazione del sedime in una strada urbana,
avrebbero comportato il venir meno dell’originario nesso tra la villa ed i
cespiti a monte, i quali risulterebbero ormai suddivisi in due parti
distinte e disomogenee. In realtà, appare assolutamente attendibile
l’apprezzamento della resistente secondo cui il collegamento tra le suddette
porzioni del compendio sia stato fisicamente conservato attraverso la
passerella pedonale che mette in comunicazione la villa con l’area a
settentrione (rustico e podere), come si evince dalla documentazione
fotografica in atti (v. doc. 11 ricorrente, nonché le fotografie a pag. 8
della relazione dell’Amministrazione descrittiva dello stato dei luoghi e le
fotografie inserite quali tavole nn. 10-11 nella relazione dell’arch. Be.
in data 24.03.2023; cfr., altresì, le fotografie della proprietà Bo. a pagg.
7-8 della relazione dell’Amministrazione, raffiguranti il vialetto che
attraversa il terreno piantumato con alberi ed ortaggi, costituendo traccia
dell’asse del preesistente pergolato);
- l’assunto per cui il fabbricato rurale ed il terreno non
sarebbero fruiti da oltre un secolo come, rispettivamente, manufatto di
servizio ed orto retrostante alla villa è smentito dall’atto notarile con
cui la vedova Cilea, nel febbraio 1960, cedette gli immobili a SIAE: invero,
la donazione in blocco dei beni costituenti la tenuta, con riserva
dell’usufrutto non solo sulla villa ma sull’intero fondo, dimostra che,
ancora a tale data, tutte le porzioni costituivano un unicum (e
verosimilmente rimasero tali almeno fino alla morte della donante
usufruttuaria, avvenuta nel 1970).
Infine, si rivela fuori fuoco l’argomento dell’esponente secondo cui
difetterebbero i requisiti elaborati dalla giurisprudenza per qualificare
gli immobili come pertinenze urbanistiche della villa, vale a dire il
collegamento con l’edificio principale, la mancanza di un autonomo valore di
mercato e la modestia delle dimensioni.
Infatti, la nozione urbanistico-edilizia di pertinenzialità copre un ambito
assai circoscritto e, pertanto, non coincide con quella civilistica di
destinazione durevole a servizio o ad ornamento del bene principale ex art.
817 cod. civ. (cfr. TAR Liguria, sez. I, 29.08.2020, n. 596), né, a
fortiori, con la nozione rilevante ai fini della tutela del patrimonio
culturale, che si configura ancora più lata, ai sensi dell’art. 9 Cost. (cfr.
Cons. St., sez. VI, 11.11.2019, n. 7715).
E ciò a prescindere dalla circostanza che il legame strumentale ed
ornamentale delle varie porzioni immobiliari con la dimora padronale,
esistente al tempo in cui il luogo era abitato dai coniugi Cilea, risulta
tuttora leggibile, come ben lumeggiato nella relazione storico-artistica. |
PUBBLICO IMPIEGO:
I compensi professionali dell’avvocato pubblico sono parte della
retribuzione.
I regolamenti che disciplinano l’erogazione degli onorari vanno redatti nel
rispetto della legge.
La Sezione lavoro del TRIBUNALE civile di Latina, con
sentenza 11.01.2024 n. 11, ha stabilito il principio di diritto
secondo il quale i compensi professionali, percepiti dagli avvocati,
dipendenti di una Pubblica amministrazione, non possono essere esclusi dal
trattamento economico complessivo percepito in virtù del rapporto di lavoro.
Il fatto
Dinanzi al Tribunale di Latina, in funzione di giudice del lavoro, viene
proposta
la domanda di annullamento e/o revoca di un decreto ingiuntivo emesso
dallo stesso Tribunale, con il quale è stato ingiunto al Comune di Latina di
pagare in favore di un avvocato, in servizio presso l'avvocatura comunale,
una somma di danaro a titolo di compensi professionali maturati per lo
svolgimento delle attività defensionali in costanza di rapporto di lavoro.
Il
Comune opponente ritiene di non dover corrispondere detta somma in base
al vigente Regolamento dell'Avvocatura comunale in quanto i compensi
professionali erano stati espressamente esclusi dalle voci che compongono
il trattamento economico complessivo annuale dell'Avvocato Dirigente.
La decisione
Il Tribunale di Latina ha ritenuto
che i compensi professionali,
maturati dagli avvocati pubblici, non possano restare al di fuori del
trattamento economico complessivo, a
differenza di quanto regolamentato dal Comune datore di lavoro, la cui
posizione è in contrasto con la fonte
normativa di primo grado ovvero l'articolo 9 del Dl 90/2014 convertito dalla
legge 114/2014.
Il decreto Renzi ha
chiarito che i compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni
pubbliche agli avvocati dipendenti delle
amministrazioni stesse, sono computati ai fini del raggiungimento del limite
retributivo. Tali compensi, sia per spese
compensate che per spese recuperate, possono essere corrisposti in modo da
attribuire a ciascun avvocato una
somma non superiore al suo trattamento economico complessivo.
Il giudice del
lavoro ha disapplicato il
regolamento comunale contestato dall'avvocato dipendente, nella parte in cui
prevede l'esclusione dei compensi
professionali dal computo del trattamento annuo complessivo proprio per il
netto contrasto dello stesso con il citato
articolo 9 del Dl 90/2014.
Conclusioni
Il giudice del lavoro nel condividere
le cadenze argomentative espresse in
materia dalla giurisprudenza ordinaria e amministrativa secondo cui il fatto
che il legislatore, all'articolo 9, comma 7,
del Dl 90/2014 abbia utilizzato proprio la locuzione trattamento economico,
per di più rafforzata dall'aggettivo
complessivo, non lascia spazio a dubbi sul fatto che in esso vadano
ricompresi anche gli onorari.
Qualora il
legislatore avesse inteso far riferimento solo a una porzione del
trattamento economico dell'avvocato dipendente
avrebbe utilizzato una differente locuzione come trattamento economico
fondamentale o fare riferimento ad altre
nozioni specifiche quali quelle di retribuzione ordinaria o stipendio
tabellare ovvero in alternativa avrebbe ancora
potuto espressamente escludere i compensi professionali dalla nozione di
trattamento economico rilevante ai fini
della determinazione del tetto.
I regolamenti che disciplinano l'erogazione
dei compensi professionali vanno redatti nel rispetto della
legge e debbono collocarsi nel perimetro normativo ben delineato dal
legislatore (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Consulta: l’irretroattività della norma peggiorativa si estende
anche ai contratti pubblici.
La Corte costituzionale ha affermato che il principio è “generale” e non
vale solo per il diritto penale. Ed ha bocciato la Finanziaria 2001 nella
parte in cui -retroattivamente- escludeva l’operatività delle maggiorazioni
Ria dei dipendenti pubblici per il triennio 1991-1993.
Il principio di non retroattività della legge costituisce un fondamentale
valore di civiltà giuridica, anche al di là della materia penale.
È questo l’importante approdo teorico cui giunge la Corte costituzionale,
con la
sentenza 11.01.2024 n. 4 (redattore Marco D’Alberti) affrontando
il caso di una norma peggiorativa rispetto al precedente regime economico in
materia di anzianità dei dipendenti pubblici.
La Consulta ha infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo
51, comma 3, della legge 23.12.2000, n. 388, che era intervenuto,
in via retroattiva, per escludere l'operatività di maggiorazioni alla
retribuzione individuale di anzianità dei dipendenti pubblici in relazione
al triennio 1991-1993, a fronte di un orientamento giurisprudenziale che
stava invece riconoscendo a tali dipendenti il diritto ad ottenere il
menzionato beneficio economico dalle amministrazioni di appartenenza.
Il Consiglio di Stato, che ha poi rimesso la questione alla Consulta, doveva
infatti decidere sull'appello contro la sentenza del Tar Lazio (n.
9255/2014), che aveva respinto il ricorso proposto da
seicentocinquantotto dipendenti del Ministero della difesa per il
riconoscimento di maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità
(RIA), ai sensi dell'articolo
9, commi 4 e 5, del Dpr 17.01.1990, n. 44 maturate nel 1991, 1992
e 1993, facendo valere la proroga al 31.12.1993 disposta dalla legge
14.11.1992, n. 438.
Il Tar Lazio (sentenza
n. 9255 del 2014) aveva rigettato le pretese dando atto della
sopravvenienza, nelle more del giudizio, della legge n. 388 del 2000 che ha
espressamente escluso che la proroga al 31.12.1993 dell'intera disciplina
contenuta nel d.P.R. n. 44 del 1990 potesse estendere anche il termine per
la maturazione dell'anzianità di servizio ai fini dell'ottenimento della
maggiorazione della RIA.
La sentenza odierna ha innanzitutto chiarito che il
controllo di costituzionalità delle leggi retroattive diviene ancor più
stringente qualora l'intervento legislativo incida su giudizi ancora in
corso, specialmente nel caso in cui sia coinvolta nel processo
un'amministrazione pubblica, essendo precluso al legislatore di risolvere,
con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno
sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio.
Al fine di verificare se l'intervento legislativo
retroattivo sia effettivamente preordinato a condizionare l'esito di
giudizi pendenti, la Corte costituzionale è chiamata a svolgere in piena
sintonia con la giurisprudenza della Corte EDU uno scrutinio che assicuri
una particolare estensione e intensità del controllo sul corretto uso del
potere legislativo, tenendo conto delle concrete tempistiche e modalità
dell'intervento del legislatore.
Inoltre, nelle motivazioni si è chiarito che solo
imperative ragioni di interesse generale possono consentire un'interferenza
del legislatore su giudizi in corso e che i principi dello stato di diritto
e del giusto processo impongono che tali ragioni siano trattate con il
massimo grado di circospezione possibile.
E, prosegue la decisione, nel caso in esame non emerge, né dai lavori
preparatori, né dalle relazioni tecnica e illustrativa, alcuna ulteriore
ragione giustificatrice dell'intervento legislativo retroattivo rispetto
all'esigenza di assicurare un risparmio della spesa pubblica, in
considerazione di orientamenti giurisprudenziali che stavano riconoscendo
tutela alle pretese economiche dei dipendenti nei confronti delle
amministrazioni pubbliche di appartenenza.
Di qui la sua illegittimità costituzionale per violazione tra l'altro dei
principi della certezza del diritto e dell'equo processo, di cui agli artt.
3, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU.
La sentenza ribadisce e rafforza la costruzione di una solida sinergia fra
principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU e fra la
Corte costituzionale e la Corte di Strasburgo, nell'ottica di un rapporto di
integrazione reciproca (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.01.2024). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La terzietà dell'Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD).
«Il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa
individuazione dell'ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione
sul
piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il
dipendente, sicché lo stesso non va confuso
con la imparzialità dell'organo giudicante, che solo un soggetto terzo
rispetto al lavoratore ed alla amministrazione
potrebbe assicurare.
Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da
plurime garanzie poste a difesa del
dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle
parti del rapporto che, in quanto tale, non
può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle
due tesi che si pongono a confronto».
È quanto ricordato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nell'ordinanza
10.01.2024 n. 1016, evidenziando il
carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i
procedimenti disciplinari (articoli 55 e 55-bis del Dlgs 165/2001).
In estrema sintesi, l'interpretazione dell'art.
55-bis, comma 2, non può essere ispirata ad un
eccessivo formalismo, ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella
di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.02.2024).
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ORDINANZA
3. I due motivi, da trattare congiuntamente, per la loro stretta
connessione, sono infondati e il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
3.1. La Corte territoriale si è attenuta ai principi più volte affermati in
questa sede di legittimità, laddove ha osservato che «Le argomentazioni
dell’appellante … configurano l’UPD come organo terzo di garanzia del
pubblico dipendente secondo una prospettazione che non si riscontra
nell’interpretazione di tale norma come data dalla giurisprudenza» (pag.
5 della motivazione).
In termini generali, si deve qui ricordare che «Il principio di terzietà,
sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei
procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto
ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicché lo stesso non
va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto
terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare.
Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie
poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro,
ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo
essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi
che si pongono a confronto» (Cass. n. 1753/2017, ex multis).
Si aggiunga che «Il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge
sulla competenza per i procedimenti disciplinari, stabilito dall’art. 55,
co. 1, e 55-bis, co. 4 (ora co. 2) d.lgs. 165/2001 va riferito al principio
di terzietà … senza attribuire natura imperativa riflessa al complesso delle
regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il
funzionamento dell’U.P.D.» (Cass. n. 20721/2019, ex multis).
In estrema sintesi, «l’interpretazione dell'art. 55-bis, comma 4, non può
essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la
sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti
pubblici» (Cass. n. 3467/2019; conf., ex multis, Cass. n.
19672/2019).
3.2. In tale contesto, non può essere condivisa la tesi di parte ricorrente
secondo cui l’indicazione dell’Ufficio I quale «ufficio competente per i
procedimenti disciplinari» (contenuta nella circolare n. 11 del
09.10.2010) non avrebbe potuto essere ritenuta sufficiente quale adempimento
dell’obbligo di individuazione di cui all’art. 55-bis, comma 2, del d.lgs.
n. 165 del 2001. Infatti, la disposizione di legge, in base alla sua
ratio, come sopra riportata, non richiede la costituzione di un apposito
ufficio, che si occupi esclusivamente dei procedimenti disciplinari, né
l’individuazione esplicita di una determinata figura quale responsabile
dell’ufficio o di altre figure quali componenti di un obbligo
necessariamente collegiale.
Dalla sentenza impugnata risulta che la sanzione per cui è causa venne
adottata dal Direttore dell’Ufficio I, ovverosia dalla figura di vertice
dell’ufficio individuato come UPD, il che rappresenta la più ragionevole
attuazione della previsione generica contenuta nell’atto di individuazione e
la migliore garanzia di difesa per l’incolpato.
3.3. Allo stesso modo, la necessaria terzietà dell’UPD non può essere intesa
in senso talmente rigoroso da considerare un vizio –e tanto meno un vizio a
pena di nullità della sanzione– il fatto che l’atto di incolpazione sia
stato emesso, in temporanea assenza del direttore dell’Ufficio I e del suo
vicario, da un dirigente di grado superiore in funzione di sostituzione
gerarchica.
Si tratta comunque di un soggetto non appartenente alla struttura nella
quale opera il ricorrente, sicché, a prescindere da qualsiasi valutazione
sulla legittimità della sostituzione, non vi è motivo di pensare –né il
ricorrente ha in qualche modo allegato– che il suo intervento abbia impedito
all’incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa.
3.4. Infine, non coglie nel segno la censura relativa alla pretesa non
corrispondenza tra la struttura prevista per l’organo giudicante,
asseritamente collegiale, e l’emissione del provvedimento disciplinare da
una singola persona fisica.
Infatti, manca la necessaria premessa dell’individuazione di una norma
procedimentale che prevedesse la composizione collegiale dell’organo
giudicante. Mancanza cui il ricorrente pretende di rimediare desumendo la
regola della collegialità dal semplice fatto (da lui allegato e non
contestato dal MAECI) che alla sua audizione erano presenti tre esponenti
dell’Ufficio I. Il che però evidentemente non basta per dire che le tre
persone fossero tutte componenti dell’organo giudicante e che fossero
presenti a tale titolo, piuttosto che con una mera funzione di assistenza al
direttore dell’Ufficio I. |
EDILIZIA PRIVATA:
Permessi, illegittimo il ripensamento della Pa in autotutela dopo 12 mesi.
Il principio emerge dalla sentenza con cui il Tar Lazio ha accolto il
ricorso di un proprietario.
L’annullamento in autotutela di un provvedimento autorizzativo edilizio deve
avvenire in tempi ragionevoli e, comunque, non oltre i 12 mesi.
È quanto emerge dalla
sentenza 09.01.2024 n. 378 con cui è stato accolto il ricorso di
una persona dal TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, contro il Comune di
Montefiascone.
La vicenda ha origine quando il Comune di Montefiascone dispone
l'annullamento in autotutela dei titoli edilizi relativi all'immobile del
ricorrente «in quanto tutti rilasciati in assenza di autorizzazione
paesaggistica». Dal Comune anche l'ordinanza di demolizione
dell'immobile e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi. C'è quindi
il ricorso al Tar.
Nella ricostruzione della vicenda si ripercorre il percorso che inizia con
l'acquisto dell'immobile nel 2003 «unitamente alla concessione edilizia»
del 2002 e della variante del 31 dicembre dello stesso anno «rilasciate
dal Comune per la costruzione sul terreno medesimo di un fabbricato
residenziale ed agricolo». A marzo del 2023 il Comune notifica la
comunicazione di «avvio del procedimento avente per oggetto: presunte
violazioni alla normativa urbanistica edilizia». A seguire l'ordinanza e
quindi il ricorso.
A sostegno delle proprie domande, il proprietario, evidenzia «che il
Comune non gli aveva mai comunicato l'avvio del procedimento di annullamento
d'ufficio dei titoli edilizi, essendosi limitato ad informarlo, con nota del
07.03.2023, solo dell'esistenza di controlli di natura edilizia ed
urbanistica».
Oltre a sottolineare che «la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica
avrebbe potuto condizionare, al più, l'efficacia del titolo edilizio, non
potendo la sua assenza costituire causa di invalidità del titolo medesimo»
ha anche rimarcato che «l'annullamento d'ufficio dei precedenti titoli
edilizi era viziato per essere intervenuto successivamente al termine di
legge previsto dall'art. 21-nonies L. n. 241/1990 e decorrente, nel caso di
specie, dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, senza
alcuna spiegazione da parte dell'amministrazione circa le eventuali ragioni
del superamento di tale termine».
Per i giudici il ricorso è fondato, in particolare nella parte in cui «si
censura la tardività dell'annullamento in autotutela».
«È noto infatti che, ai sensi dell'art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990
(nella sua versione vigente dal 31.07.2021 da ultimo modificata
dall'articolo 63, co., D.L. 31.05.2021, n. 77, convertito con modificazioni
dalla L. 29.07.2021, n. 108) -scrivono i giudici-, Il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi
di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato
d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine
ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione
dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo
20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato
annullamento del provvedimento illegittimo».
Risultato: «Il provvedimento di annullamento in autotutela dei suddetti
titoli edilizi si appalesa pertanto illegittimo e deve essere annullato,
senza tuttavia che ciò comporti alcun effetto sulle difformità, accertate
con la medesima ordinanza, rispetto agli atti autorizzativi». Ricorso
accolto (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.01.2024).
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SENTENZA
1. Con ordinanza n. 2 del 29.03.2023, il Comune di Montefiascone disponeva
l’annullamento in autotutela dei titoli edilizi relativi all’immobile
distinto in catasto al foglio 53, p.lla 526, e, segnatamente, della c.e. n.
51 del 13.02.1997, del p.d.c. n. 373 del 19.12.2001, del p.d.c. n. 269 del
10.10.2002, del p.d.c. n. 342 del 31.12.2002, in quanto tutti rilasciati in
assenza di autorizzazione paesaggistica (ex art. 146 D.Lgs. n. 42/2004).
Ordinava altresì la demolizione dell’immobile e la rimessione in pristino
dello stato dei luoghi.
Nella medesima ordinanza, peraltro, il Comune rilevava talune difformità
(accertate nel sopralluogo del 13.07.2022) rispetto all’ultimo titolo
edilizio costituito dal p.d.c. n. 342 del 31.12.2002.
2. Con ricorso notificato all’amministrazione resistente in data 05.06.2023
e depositato in data 30.06.2023, il ricorrente allegava:
- di avere acquistato, in data 14.01.2003 (con atto a rogito del
notaio Adriano Castaldi, rep. n. 6485, racc. n. 2933), da Mocini Marisa il
terreno ubicato nel Comune di Montefiascone e distinto in catasto al foglio
n. 53, p.lle 417 (ex 384/b), 418 (ex 384/c) e 422 (ex 385/c), unitamente
alla concessione edilizia n. 269 del 10.10.2002 ed alla successiva
concessione in variante n. 342 del 31.12.2002, rilasciate dal Comune per la
costruzione sul terreno medesimo di un fabbricato residenziale ed agricolo;
- che, in data 07.03.2023, il Comune di Montefiascone gli
notificava una comunicazione di avvio del procedimento avente per oggetto: “presunte
violazioni alla normativa urbanistica edilizia relativamente a fabbricato
sito in Loc. Cerchiare distinto al N.C.E.U. Fg. 53 P.lla 526 di proprietà
del Sig. Ch.Ma.”;
- in data 29.03.2023 il Comune emetteva la suddetta ordinanza n. 2,
impugnata;
- che, in data 03.05.2023, l’arch. Vi.Bi., in qualità di
tecnico-progettista, destinatario della suddetta ordinanza n. 2/2023,
proponeva un’istanza di revoca dell’ordinanza medesima, sulla base dei
motivi ivi indicati;
- che, con nota prot. n. 11540 dell’08.05.2023, il Comune
riscontrava la suddetta richiesta di revoca, confermando l’ordinanza in
questione.
Tanto premesso, chiedeva l’annullamento della suddetta ordinanza n. 2 del
29.03.2023 e della suddetta nota prot. n. 11540 dell’08.05.2023; nonché, in
via subordinata, la condanna del Comune a risarcire il danno cagionatogli,
determinato nella somma di € 139.644,25, oltre interessi e rivalutazione
(ovvero nella diversa somma, maggiore o minore, accertata in corso di
causa), a titolo di danno patrimoniale, oltre ad un’ulteriore somma
corrispondente al 10% del danno patrimoniale, ai sensi dell’art. 1226 cod.
civ., a titolo di danno non patrimoniale.
A sostegno delle proprie domande, proponeva i seguenti motivi di ricorso.
2.1. “Violazione degli artt. 7 e 8, L. n. 241/1990. – Circa
la natura discrezionale e mai vincolata dei procedimenti di autotutela. –
Circa l’omessa specificazione dell’oggetto del procedimento. – Eccesso di
potere per difetto di istruttoria e motivazione carente”.
Evidenziava il ricorrente che il Comune non gli aveva mai comunicato l’avvio
del procedimento di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi, essendosi
limitato ad informarlo, con nota del 07.03.2023, solo dell’esistenza di
controlli di natura edilizia ed urbanistica.
Argomentava che il Comune aveva erroneamente ritenuto di poter ridurre il
provvedimento in questione ad attività vincolata, ignorando che il potere di
autotutela soggiace alla più ampia valutazione discrezionale
dell’amministrazione.
2.2. “Violazione dell’art. 21-nonies, D.P.R. n. 380/2001. –
Eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione carente. –
Violazione degli artt. 9-bis e 31, D.P.R. n. 380/2001”.
Deduceva il ricorrente che il provvedimento di autotutela era viziato
dall’assenza di tutti i requisiti che condizionano il potere di annullamento
d’ufficio (illegittimità del provvedimento ampliativo della sfera giuridica
privata; termine ragionevole, non superiore a dodici mesi; sussistenza delle
ragioni di interesse pubblico; comparazione con gli interessi dei
destinatari e dei controinteressati).
Argomentava, in particolare, che la mancanza dell’autorizzazione
paesaggistica avrebbe potuto condizionare, al più, l’efficacia del titolo
edilizio, non potendo la sua assenza costituire causa di invalidità del
titolo medesimo.
Illustrava, inoltre, che l’annullamento d’ufficio dei precedenti titoli
edilizi era viziato per essere intervenuto successivamente al termine di
legge previsto dall’art. 21-nonies L. n. 241/1990 e decorrente, nel caso di
specie, dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, senza
alcuna spiegazione da parte dell’amministrazione circa le eventuali ragioni
del superamento di tale termine.
Evidenziava ancora che il Comune non aveva motivato circa le ragioni di
interesse pubblico sottese al ritiro in autotutela, omettendo di comparare
l’interesse pubblico con gli interessi dei privati destinatari del
provvedimento in autotutela.
Aggiungeva che, se l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata
avesse realmente costituito l’obiettivo essenziale dell’azione
amministrativa, il Comune avrebbe dovuto sperimentare la possibilità di
sottoporre i permessi di costruire e le concessioni edilizie a valutazione
paesaggistica, anziché optare per l’annullamento dei titoli edilizi.
...
6. Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Ritiene in particolare il Collegio la fondatezza del secondo motivo,
nella parte in cui si censura la tardività dell’annullamento in autotutela.
È noto infatti che, ai sensi dell’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990
(nella sua versione –vigente dal 31.07.2021– da ultimo modificata
dall'articolo 63, co., D.L. 31.05.2021, n. 77, convertito con modificazioni
dalla L. 29.07.2021, n. 108), «Il provvedimento amministrativo
illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al
medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole
comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo
20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato
annullamento del provvedimento illegittimo».
La giurisprudenza ha anche chiarito che «È illegittimo
l'annullamento d'ufficio di un permesso di costruire in sanatoria -adottato
anteriormente alla riforma dell'art. 21-nonies, l. n. 241/1990, operata
dalla l. n. 124/2015- emanato oltre il termine di diciotto mesi a decorrere
dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, in assenza di
condotte integranti i presupposti giuridici che autorizzano il superamento
di tale termine.
Infatti, il temine di diciotto mesi, se, per un verso, non può
applicarsi in via retroattiva -nel senso di computare anche il tempo decorso
anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 124/2015- per un altro
verso, non può che cominciare a decorrere dalla entrata in vigore della
nuova disposizione anche in relazione a provvedimenti emanati anteriormente.
In ogni caso, quanto al rispetto del parametro della ragionevolezza del
termine, la novella vale come prezioso indice ermeneutico ai fini dello
scrutinio dell'osservanza di tale regola»
(Consiglio di Stato, sez. VI, 15.06.2020, n. 3787).
Applicando analogamente al caso di specie il principio giurisprudenziale
innanzi enunciato, si osserva che la novella del citato art. 21-nonies è
entrata in vigore il 31.07.2021, mentre il provvedimento impugnato è stato
emanato in data 21.03.2023, ben oltre il suddetto termine di 12 mesi, e
senza alcuna motivazione sulle eventuali ragioni di tale superamento.
Il provvedimento di annullamento in autotutela dei suddetti titoli edilizi
si appalesa pertanto illegittimo e deve essere annullato, senza tuttavia che
ciò comporti alcun effetto sulle difformità, accertate con la medesima
ordinanza, rispetto agli atti autorizzativi.
Tali difformità infatti restano sottoposte al regime previsto dalla legge
per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, ovvero in
totale o parziale difformità da esso. |
EDILIZIA PRIVATA:
La natura rigidamente vincolata dell’ordine di demolizione
comporta, sul piano del quantum di motivazione richiesto, che
l’amministrazione non debba esplicitare le ragioni di pubblico interesse
sottese all’intervento repressivo, né compiere alcuna comparazione con
l’interesse privato sacrificato e ciò anche qualora sia decorso un notevole
lasso di tempo dalla commissione dell’abuso.
A fronte di un’attività edilizia posta in essere sine titulo, infatti, la
prolungata inerzia dell’amministrazione non può certo determinare il
radicarsi in capo al privato, il quale non è stato destinatario di alcun
provvedimento favorevole, di una posizione di legittimo affidamento
meritevole di tutela.
Né assume alcuna rilevanza l’eventuale diverso trattamento riservato ai
proprietari di fondi limitrofi, peraltro dedotto in termini assolutamente
generici, costituendo principio generale quello per cui il vizio di eccesso
di potere per disparità di trattamento non può essere invocato per ottenere
il risultato di un’equiparazione ad una situazione illegittima o
illegittimamente trattata.
---------------
Va disattesa la censura concernente l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento dovendosi, sul punto, richiamare il granitico orientamento
giurisprudenziale che esclude la necessarietà di tale comunicazione per il
provvedimento con il quale viene disposta la demolizione di un’opera priva
di titolo edilizio, “trattandosi di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di diposizioni urbanistiche secondo un
procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge”.
---------------
3.3. Restano dunque da esaminare le doglianze relative a pretesi vizi propri
del provvedimento sanzionatorio (lett. c) dei motivi di ricorso rubricata “Sui
vizi propri del provvedimento impugnato”), che vanno anch’esse
disattese.
3.3.1. Palesemente infondata è la prima censura, con cui il
ricorrente deduce il difetto di motivazione e la violazione del principio
del legittimo affidamento, per aver il Comune adottato l’ingiunzione a
demolire a distanza di un lungo lasso di tempo e senza indicare “il
pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse
privato”.
Vale osservare, in proposito, che la natura rigidamente vincolata
dell’ordine di demolizione comporta, sul piano del quantum di
motivazione richiesto, che l’amministrazione non debba esplicitare le
ragioni di pubblico interesse sottese all’intervento repressivo, né compiere
alcuna comparazione con l’interesse privato sacrificato e ciò anche qualora
sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso (cfr.,
tra le moltissime, Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9, i cui principi
sono stati di recente ribaditi da Ad. Plen. 11.10.2023, n. 16; Cons. St.,
Sez. VI, 05.01.2024, n. 236; Cons. St., Sez. VII, 02.11.2023, n.
-OMISSIS-31; TAR Lazio, Sez. II-quater, 04.12.2023, n. 18165; id.,
30.12.2023, n. 20019).
A fronte di un’attività edilizia posta in essere sine titulo,
infatti, la prolungata inerzia dell’amministrazione non può certo
determinare il radicarsi in capo al privato, il quale non è stato
destinatario di alcun provvedimento favorevole, di una posizione di
legittimo affidamento meritevole di tutela.
Né assume alcuna rilevanza l’eventuale diverso trattamento riservato ai
proprietari di fondi limitrofi, peraltro dedotto in termini assolutamente
generici, costituendo principio generale quello per cui il vizio di eccesso
di potere per disparità di trattamento non può essere invocato per ottenere
il risultato di un’equiparazione ad una situazione illegittima o
illegittimamente trattata (cfr. Cons. St., Sez. VII, 28.08.2023, n. 8003;
TAR Lazio, Sez. II-quater, 14.06.2021, n. 7058).
...
3.3.3. Va, infine, disattesa anche la terza censura, concernente
l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, dovendosi sul punto
richiamare il granitico orientamento giurisprudenziale, ampiamente condiviso
dalla Sezione (cfr., ex multis, TAR Lazio, Sez. II-quater,
22.12.2023, n. 19525; id., 25.01.2023, n. 1283; id., 30.11.2022, n. 15976),
che esclude la necessarietà di tale comunicazione per il provvedimento con
il quale viene disposta la demolizione di un’opera priva di titolo edilizio,
“trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento
dell'inosservanza di diposizioni urbanistiche secondo un procedimento di
natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato dalla legge” (così Cons. St., Sez. VII, 21.08.2023, n.
7832; cfr. anche, ex plurimis, tra le più recenti, Cons. St., Sez.
VI, 22.12.2023, n. 11137; Cons. St., Sez. VII, 12.12.2023, n. 10722) (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza
08.01.2024 n. 288 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze, 1444 derogabile solo in caso di gruppi di edifici
previsti in un piano particolareggiato. La Cassazione precisa che la deroga
prevista dall’art. 9, comma 3, non può valere per un solo fabbricato
inserito in un contesto edificato.
«Agli effetti dell'art. 9, comma 3, del d.m. n. 1444
del 1968, sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti
commi di tale norma soltanto a condizione che sia stato approvato un
apposito piano particolareggiato o di lottizzazione esteso alla intera zona,
finalizzato a rendere esecutive le previsioni dello strumento urbanistico
generale, contenente le disposizioni planivolumetriche degli edifici
previsti nella medesima zona e avente ad oggetto la realizzazione
contestuale di gruppi di edifici, e cioè di una pluralità di nuovi
fAbbricati, rimanendo perciò estranea a tale fattispecie l'ipotesi della
realizzazione di un unico nuovo fabbricato che si sia inserito nel contesto
di un isolato già edificato».
In attesa che veda la luce il nuovo Testo unico edilizia, cui sta lavorando
il governo insieme ai vari portatori di interesse, la questione delle
distanze legali resta, come è noto, saldamente ancorata ai paletti fissati
dal Dm 1444, le cui possibilità di deroga da parte delle Regioni sono
altrettanto saldamente contenute entro precisi limiti.
Con l'ordinanza 04.01.2024 n. 236
la Corte di Cassazione, Sez. II civile, è entrata nel merito di una deroga
consentita dalla stessa norma statale.
Prendendo spunto da una controversia sorta in un comune calabrese, i giudici
della II Sezione civile hanno colto l'occasione di chiarire la differenza
tra l'inserimento di più edifici (previsti dal piano particolareggiato) e la
realizzazione di un singolo fabbricato.
Il Tribunale di Reggio Calabria ha condannato la società immobiliare che
aveva realizzato un edificio costruito in zona B per la violazione delle
distanze legali -intimando la demolizione o l'arretramento- in quanto non
riconducibile (diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente) alla deroga
prevista nell'articolo 9, comma 3, del 1444.
L'appello è stato respinto dalla Corte d'appello. L'esito negativo è stato
confermato dalla Corte di Cassazione.
Nella sua difesa, la società immobiliare si è ancorata alla deroga prevista
al comma 3 dell'articolo 9, secondo cui «sono ammesse distanze inferiori
a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche».
La norma richiamata, spiegano i giudici della Cassazione, «riguarda
soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi
tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe
facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata. Nel caso in esame,
la Corte d'appello ha negato che si fosse in presenza di un gruppo di
edifici inclusi in un medesimo piano particolareggiato, ovvero di
costruzioni facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata».
Più chiaramente, specificano i giudici, «l'ultimo comma dell'art. 9 del
d.m. 444/1968 contempla, quale ipotesi di deroga alle distanze minime tra
fabbricati, la realizzazione contestuale di gruppi di edifici e cioè di una
pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in
lottizzazioni convenzionate, ipotesi estranea al caso in esame, in cui si è
avuta la realizzazione di un unico nuovo edificio che si è inserito nel
contesto di un isolato già edificato» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
29.01.2024). |
APPALTI:
Alle procedure di affidamento di contratti finanziati con le
risorse del PNRR indette successivamente al 01.07.2023 si
applica il nuovo Codice dei contratti pubblici.
---------------
CONTRATTI pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione- Appalti PNRR-Normativa applicabile.
E’ soggetta alla disciplina di cui al
d.lgs. n. 36 del 2023 la procedura di gara avviata nel mese
di agosto del 2023, come è desumibile dai seguenti articoli
del predetto decreto legislativo:
- 229, comma 2, secondo cui “le disposizioni del codice, con i
relativi allegati, acquistano efficacia il 01.07.2023”;
- 226, comma 2, lett. a), il quale prevede che, “a decorrere dalla
data in cui il codice acquista efficacia ai sensi dell’art.
229, comma 2, le disposizioni di cui al decreto legislativo
n. 50 del 2016 continuano ad applicarsi esclusivamente ai
procedimenti in corso. A tal fine, per procedimenti in corso
si intendono: a) le procedure e i contratti per i quali i
bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente siano stati pubblicati prima della data in cui il
codice acquista efficacia”;
- 225, comma 8, che stabilisce che “in relazione alle procedure di
affidamento e ai contratti riguardanti investimenti
pubblici, anche suddivisi in lotti, finanziati in tutto o in
parte con le risorse previste dal PNRR e dal PNC, nonché dai
programmi cofinanziati dai fondi strutturali dell’Unione
europea, ivi comprese le infrastrutture di supporto ad essi
connesse, anche se non finanziate con dette risorse, si
applicano, anche dopo il 01.07.2023, le disposizioni di cui
al decreto-legge n. 77 del 2021, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 108 del 2021, al decreto-legge
24.02.2023, n. 13, nonché le specifiche disposizioni
legislative finalizzate a semplificare e agevolare la
realizzazione degli obiettivi stabiliti dal PNRR, dal PNC
nonché dal Piano nazionale integrato per l'energia e il
clima 2030 di cui al regolamento (UE) 2018/1999 del
Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11.12.2018”.
Con particolare riferimento a tale ultima disposizione, il
collegio rileva che essa si limita a stabilire la perdurante
vigenza delle sole norme speciali in materia di appalti PNRR
(tra cui gli artt. 47 e ss. del d. l. n. 77 del 2021) ma non
anche degli istituti del d.lgs. n. 50 del 2016 in esso
sporadicamente richiamati; la contraria opzione ermeneutica,
seguita dalla circolare del MIT del 12/07/2023 (richiamata
dalla “premessa” del disciplinare di gara), collide con il
ricordato disposto del comma 2 dell’art. 226 del d.lgs. n.
36 del 2023, che sancisce l’abrogazione del d.lgs. n. 50 del
2016 a decorrere dal 01.07.2023 senza alcuna eccezione, e
con il comma 5 della medesima disposizione, secondo cui
“ogni richiamo in disposizioni legislative, regolamentari o
amministrative vigenti al decreto legislativo 18.04.2016, n.
50 del 2016, o al codice dei contratti pubblici vigente alla
data di entrata in vigore del codice, si intende riferito
alle corrispondenti disposizioni del codice o, in mancanza,
ai principi desumibili dal codice stesso”
(TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 03.01.2024 n. 134 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La Sezione non ignora il consolidato
indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in materia di
impugnazione dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere
va di regola documentato con riferimento alla titolarità di
aree direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo
scopo di evitare che un eccessivo allargamento della
legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non
previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è
affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune
interessato possano impugnare anche parti del piano non
riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove
dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul
godimento e sul valore di esse.
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano
dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel
suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo
dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di
istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in
discorso (i.e. di zonizzazione acustica), quindi, non si presta ad una risposta univoca, in
ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla
giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato
impugnato con riferimento alla classificazione acustica
impressa ad un'area industriale di proprietà della
ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo
l'impresa programmare l'attività produttiva secondo
parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la
destinazione e l'utilizzo dell'area.
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti
le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una
classificazione negativa, è stato affermato che, anche in
materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i
cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare
anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro
proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie
incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori
laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il
piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione
di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali
difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima.
---------------
5. Con il quinto motivo deduce ulteriore difetto
assoluto di motivazione. Errata applicazione art. 7, co. 6,
L.R. n. 18/2001. Ulteriore eccesso di potere.
Evidenzia che la zonizzazione era stata effettuata senza
fornire alcuna motivazione, risultando insufficiente il
richiamo all’art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001.
5.1. Ritiene il Collegio di superare il profilo di
inammissibilità dell'impugnazione del Piano di zonizzazione
acustica per assenza di lesività.
Ed invero, la Sezione non ignora il consolidato indirizzo
giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione
dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere va di regola
documentato con riferimento alla titolarità di aree
direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo
scopo di evitare che un eccessivo allargamento della
legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non
previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è
affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune
interessato possano impugnare anche parti del piano non
riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove
dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul
godimento e sul valore di esse (cfr., ad esempio, Cons.
Stato, sez. IV, 10.08.2004, nr. 5516).
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano
dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel
suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo
dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di
istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in
discorso, quindi, non si presta ad una risposta univoca, in
ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla
giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato
impugnato con riferimento alla classificazione acustica
impressa ad un'area industriale di proprietà della
ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo
l'impresa programmare l'attività produttiva secondo
parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la
destinazione e l'utilizzo dell'area (Cons. Stato, Sez. II, 01.06.2022, n. 4501).
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti
le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una
classificazione negativa, è stato affermato che, anche in
materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i
cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare
anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro
proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie
incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori
laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il
piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione
di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali
difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima (Cons.
Stato, Sez. IV, 31.12.2009, n. 9301) (Consiglio
di Stato, Sez. VII,
sentenza 02.01.2024 n. 42 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rumore. Regolamentazione emissione dei rumori da parte dei
Comuni.
L’art. 6, comma 3, della l. 27/10/1995,
n. 447, prevede che: “i comuni il cui territorio presenti un
rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico,
hanno la facoltà di individuare limiti di esposizione al
rumore inferiori a quelli determinati ai sensi dell'art. 3,
comma 1, lett. a), secondo gli indirizzi determinati dalla
regione di appartenenza, ai sensi dell'art. 4, comma 1,
lett. f) …”.
La citata norma consente (e non obbliga) i Comuni, il cui
territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico,
ambientale e turistico, di attuare una più specifica
regolamentazione dell'emissione dei rumori, e, in questo
ambito, di disciplinare l'esercizio di professioni, mestieri
ed attività rumorose anche con l'istituzione di fasce orarie
in cui soltanto possano essere espletati, e di prendere così
in considerazione, oltre al dato oggettivo del superamento
di una certa soglia di rumorosità, anche gli effetti
negativi di quest'ultima sulle occupazioni o sul riposo
delle persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o
privata.
La norma in commento consente e non obbliga i Comuni ad
individuare una più specifica regolazione delle immissioni,
fermo restano l’impossibilità di diminuire i limiti di
emissione sonora prescritti dalla citata normativa (Consiglio
di Stato, Sez. VII,
sentenza 02.01.2024 n. 42 -
massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
---------------
5. Con il quinto motivo deduce ulteriore difetto
assoluto di motivazione. Errata applicazione art. 7, co. 6,
L.R. n. 18/2001. Ulteriore eccesso di potere.
Evidenzia che la zonizzazione era stata effettuata senza
fornire alcuna motivazione, risultando insufficiente il
richiamo all’art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001.
5.1. Ritiene il Collegio di superare il profilo di
inammissibilità dell'impugnazione del Piano di zonizzazione
acustica per assenza di lesività.
Ed invero, la Sezione non ignora il consolidato indirizzo
giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione
dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere va di regola
documentato con riferimento alla titolarità di aree
direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo
scopo di evitare che un eccessivo allargamento della
legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non
previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è
affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune
interessato possano impugnare anche parti del piano non
riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove
dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul
godimento e sul valore di esse (cfr., ad esempio, Cons.
Stato, sez. IV, 10.08.2004, nr. 5516).
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano
dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel
suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo
dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di
istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in
discorso, quindi, non si presta ad una risposta univoca, in
ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla
giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato
impugnato con riferimento alla classificazione acustica
impressa ad un'area industriale di proprietà della
ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo
l'impresa programmare l'attività produttiva secondo
parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la
destinazione e l'utilizzo dell'area (Cons. Stato, Sez. II, 01.06.2022, n. 4501).
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti
le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una
classificazione negativa, è stato affermato che, anche in
materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i
cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare
anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro
proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie
incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori
laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il
piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione
di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali
difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima (Cons.
Stato, Sez. IV, 31.12.2009, n. 9301).
5.2. L’appello deve essere, tuttavia, respinto.
L'onere della classificazione acustica del territorio spetta
ex lege ai Comuni, che esprimono una funzione lato sensu
pianificatoria, inserita in un nucleo particolarmente ampio
di discrezionalità amministrativa, sicché l'ambito del
sindacato del giudice amministrativo si presenta ristretto e
sostanzialmente limitato ad un riscontro ab externo del
rispetto dei canoni di logicità formale (Cons. Stato, Sez.
IV, 11.01.2018, n. 135).
Il sindacato giurisdizionale sul piano di classificazione
acustica, come per gli altri atti di pianificazione del
territorio, incontra necessariamente precisi limiti al fine
di non sconfinare nel merito delle scelte discrezionali
adottate dall'amministrazione; tale sindacato è ammesso,
infatti, nei soli casi di gravi illogicità, irrazionalità
ovvero travisamenti sintomatici della sussistenza del vizio
di eccesso di potere (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez.
IV, 31.12.2009, n. 9301).
Non si tratta, quindi, di
sindacare il merito di scelte opinabili, ma di verificare se
queste scelte siano assistite da una credibilità razionale
supportata da valide leggi scientifiche e correttamente
applicate al caso di specie (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.07.2023, n. 6451; id. Sez. III, 11.12.2020, n.
7097).
In proposito giova richiamare quanto affermato da questo
Consiglio (Cons. Stato, Sez. IV, 12.12.2019, n. 8443),
secondo cui in materia di zonizzazione acustica del
territorio, le scelte dell'amministrazione non possono
sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione urbanistica,
ma devono tener conto del disegno urbanistico voluto dal
pianificatore, ovverosia delle preesistenti destinazioni
d'uso del territorio.
Ciò rileva sotto un duplice aspetto.
Da un lato, rileva l'interesse pubblico generale alla
conservazione del disegno di governo del territorio
programmato dal pianificatore, il quale riflette un ben
preciso interesse della comunità ad un certo utilizzo del
proprio territorio, sul quale la medesima è stanziata.
Da un altro lato, rileva l'interesse dei privati alla
conservazione delle potenzialità connesse alla titolarità
dei diritti sui beni immobili e derivanti dalle pregresse e
già effettuate scelte di pianificazione, le quali devono
poter essere attuate pro futuro, avendo una natura
tipicamente programmatoria.
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante,
non può essere dato rilievo esclusivo agli usi effettivi "in
atto" sul territorio, perché essi si limitano a
rappresentare (staticamente) la realtà dell'uso del
territorio, trascurando l'aspetto dinamico del suo governo.
Ed è su tale dinamicità che si regge, invece, la ratio della
disciplina legislativa statale e di quella regionale,
entrambe sostanzialmente rivolte a perseguire l'obiettivo
del contemperamento tra due interessi generali: quello della
pianificazione urbanistica e quello della tutela
dall'inquinamento acustico.
5.3. Il Piano di cui trattasi, a pag. 22 e ss., una volta
riepilogati i criteri in base ai quali si è proceduto alla
zonizzazione acustica del territorio Comunale, assegna le
classi acustiche alle diverse aree del territorio. Più
segnatamente:
- “le aree ricadenti nelle classi II, III e IV
presentano delle caratteristiche intermedie rispetto alle
aree di cui sopra (n.d.r. aree ricadenti nelle classi I e
V). Sono aree prevalentemente residenziali (classe II), aree
di tipo misto (classe III) aree di intensa attività umana
(classe IV)”;
- “per l’individuazione delle classi II, III e
IV non è sufficiente la sola analisi dello strumento
urbanistico, che non riesce a dare questo quadro completo
del reale assetto del territorio delle classi II, III e IV,
è quindi il risultato di una analisi di vari fattori
(“analisi parametrica”) a cui si rimanda (da pag. 25 a pag.
35 del Piano di Classificazione Acustica), quali la densità
abitativa, la presenza di attività produttive, la presenza
di servizi, ovvero di parametri o indici i cui valori
possono essere ricavati dai dati ISTAT”;
- “attraverso
questa analisi parametrica è possibile attribuire alla
stessa classe acustica porzioni di territorio con
caratteristiche di utilizzo assai differenti; l’attribuzione
di aree ad una stessa classe acustica presuppone identità di
requisiti acustici, non necessariamente identità di
paramenti urbanistici. Le classi acustiche, infatti, a
differenza della zona di PRG, non presentano una
correlazione univoca con le destinazioni d’uso delle
relative porzioni di territorio”.
Nel Piano di Classificazione Acustica, dunque, il Comune di
Ponza ha tenuto conto delle peculiari aree di interesse
naturalistico presenti sull’isola (si veda pag. n. 30 del
Piano).
5.4. L’appellante afferma che alla Piazza Giancos non poteva
essere attribuita la classe acustica III e IV (quest’ultima
nel periodo estivo), in quanto trattasi di un’area che
sarebbe circondata da villini residenziali, confinante con
il mare e attraversata da una strada a traffico locale che
peraltro viene limitato (con ordinanza comunale) nel periodo
estivo.
Tuttavia, come precisato dalla Commissione Acustica nei
verbali di riunione del 27.11.2014 e del 05.03.2015,
l’area in argomento, è attraversata dalla viabilità
principale e di collegamento sia con la località Santa Maria,
sia con l’abitato della località Le Forna. Inoltre, la
piazza di cui trattasi si trova a meno di 1 km dal Porto di
Ponza e costituisce un luogo intensamente frequentato nel
periodo estivo dai numerosi turisti che affollano l’isola in
quanto situata in pieno centro urbano.
Dagli stessi verbali si evince che l’attribuzione a Piazza
Giancos della classe acustica III nel periodo invernale e
della classe acustica IV nel periodo estivo è stata motivata
in quanto “risponde ai requisiti di equilibrio tra le
esigenze di chi risiede e quelle proprie del sistema
turistico locale e pertanto la classe II aree destinate ad
uno prevalentemente residenziale non risulta pertinente.
Inoltre l’area è attraversata dalla viabilità principale e
di collegamento con la località Santa Maria, nonché con
l’abitato di Le Forna. Si fa presente infine che le attività
ludiche nel periodo estivo risultano regolate dalla attuale
normativa su pubblici spettacoli e il rispetto della quiete
pubblica”.
5.5. L’art. 6, comma 3, della l. 27/10/1995, n. 447,
prevede che: “i comuni il cui territorio presenti un
rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico,
hanno la facoltà di individuare limiti di esposizione al
rumore inferiori a quelli determinati ai sensi dell'articolo
3, comma 1, lettera a), secondo gli indirizzi determinati
dalla regione di appartenenza, ai sensi dell'articolo 4,
comma 1, lettera f) …”.
La citata norma consente (e non
obbliga) i Comuni, il cui territorio presenti un rilevante
interesse paesaggistico, ambientale e turistico, di attuare
una più specifica regolamentazione dell'emissione dei
rumori, e, in questo ambito, di disciplinare l'esercizio di
professioni, mestieri ed attività rumorose anche con
l'istituzione di fasce orarie in cui soltanto possano essere
espletati, e di prendere così in considerazione, oltre al
dato oggettivo del superamento di una certa soglia di
rumorosità, anche gli effetti negativi di quest'ultima sulle
occupazioni o sul riposo delle persone, e quindi sulla
tranquillità pubblica o privata (Cons. St., Sez. V, 28.02.2011, n. 1265).
Quanto sopra, fermo restando i
limiti all’immissioni sonore previste dalla l. n. 447 del
1995, i quali non possono comunque essere diminuiti (Cass.
civile, sez. I, 01/09/2006, n. 18953).
Non si può, pertanto, configurare la paventata violazione di
legge in quanto la norma in commento consente e non obbliga
i Comuni ad individuare una più specifica regolazione delle
immissioni, fermo restano l’impossibilità di diminuire i
limiti di emissione sonora prescritti dalla citata
normativa.
5.6. Né sono stati forniti elementi per affermare che le
impugnate scelte dell’amministrazione sarebbero il frutto di
una ritorsione del Comune, a seguito di precedenti azioni
giudiziarie intercorse tra le parti.
L’appello deve essere, pertanto, respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Impianto di recupero dei rifiuti proveniente dalla
raccolta differenziata e contributo di costruzione.
L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R.
n. 380 del 2001 stabilisce che il contributo di costruzione
non è dovuto: “... c) per gli impianti, le attrezzature, le
opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
Va evidenziato il carattere eccezionale e derogatorio delle
ipotesi di concessione edilizia gratuita, a fronte del
principio generale che è, invece, quello della sua
onerosità, cosicché l’esenzione dal contributo concessorio
riguarda ipotesi tassative e da interpretare in senso
restrittivo. Per poter beneficare della esenzione dal
contributo di costruzione debbono concorrere requisiti di
carattere oggettivo e soggettivo.
Nel caso di specie (impianto di recupero dei rifiuti
proveniente dalla raccolta differenziata) viene in rilievo
un impianto di proprietà della società appellante,
realizzato per l’esercizio di un’attività imprenditoriale,
che solo indirettamente assolve anche ad una finalità di
interesse generale.
Sono proprio la natura privata
dell’impianto della società appellante e il fine lucrativo
da questa perseguito ad evidenziare la mancanza del
requisito soggettivo che la giurisprudenza ha individuato,
accanto a quello oggettivo, per poter beneficiare
dell’esenzione dal contributo di costruzione (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.12.2023 n. 11239 -
massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
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8. Con il primo motivo, la società appellante deduce:
error in judicando per violazione degli artt. 16 e 17
del d.P.R. n. 380/2001, degli artt. 208 e 266 del d.lgs. n.
152/2006 e del d.lgs. n. 847/1964; omessa pronuncia; difetto
di motivazione.
8.1. Dopo aver richiamato l’art. 17, comma 3, lett. c), del
d.P.R. n. 380/2001, la società appellante evidenzia che la
predetta norma prevede l’esenzione dal pagamento degli oneri
di urbanizzazione in due ipotesi:
a) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti;
b) per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in
attuazione di strumenti urbanistici.
Contesta quindi le conclusioni del giudice di prime cure che
ha ritenuto che, venendo in rilievo l’ampliamento di un
impianto industriale di proprietà privata, nel caso di
specie mancherebbe sia il requisito soggettivo, sia il
requisito della destinazione dell’opera all’utilizzo
dell’intera collettività, con la conseguenza che la società
non potrebbe beneficiare della esenzione dal contributo
concessorio di cui all’art. 17, terzo comma, lettera c), del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
8.2. Sostiene che la sentenza sia viziata per essersi il
giudice pronunciato extra petita.
Fa rilevare che il primo motivo di ricorso di primo grado
era incentrato sulla violazione dell’art. 17, comma 3, lett.
c), del d.P.R. n. 380/2001 sotto diverso profilo, in quanto
l’esonero dal pagamento degli oneri è riconosciuto dal
legislatore anche in favore dei privati che realizzino
direttamente le opere di urbanizzazione; sul punto, invece,
il Tar Lecce non si sarebbe pronunciato.
Evidenzia inoltre che nella sentenza impugnata il giudice di
primo grado ha ritenuto che l’impianto della Un.Se. s.n.c. non potesse, tuttavia, essere considerato
“un’opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di
previsioni localizzative già contemplate dagli strumenti
urbanistici, ma invece di un’opera assentita (in
accoglimento di apposita istanza presentata dal soggetto
privato interessato) in variante “puntuale” al Programma di
Fabbricazione vigente nel Comune di San Marzano di San
Giuseppe, ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998 n.
447”.
Di contro, sostiene che l’impianto della Un.Se.,
per espressa definizione normativa, deve considerarsi
un’opera di urbanizzazione.
La legge n. 847/1964 prevede, all’art. 1, lett. c), che le
opere di urbanizzazione secondaria sono indicate al
successivo articolo 4; detto articolo, alla lett. g),
individua quale opera di urbanizzazione secondaria i centri
sociali e le attrezzature culturali e sanitarie.
L’art. 266, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 (T.U.
ambientale) stabilisce espressamente che “Nelle attrezzature
sanitarie di cui all’articolo 4, comma 2, lettera g), della
legge 29.09.1964, n. 847, sono ricomprese le opere,
le costruzioni e gli impianti destinati allo smaltimento, al
riciclaggio o alla distruzione dei rifiuti urbani, speciali,
pericolosi, solidi e liquidi, alla bonifica di aree
inquinate”.
Essendo quello della appellante un impianto di recupero dei
rifiuti proveniente dalla raccolta differenziata esso
dovrebbe essere considerato come opera di urbanizzazione
secondaria.
8.3. Richiama, altresì, l’art. 208 del d.lgs. n. 152/2006, a
norma del quale l’approvazione del progetto costituisce
variante allo strumento urbanistico e comporta la
dichiarazione di pubblica utilità, urgenza e indifferibilità
dei lavori.
La previsione normativa secondo la quale l’approvazione del
progetto di realizzazione di un impianto di recupero e/o
smaltimento rifiuti costituisca anche variante allo
strumento urbanistico, troverebbe la sua ratio nella
inesistenza di previsioni di piano urbanistico comunale che
individuino le aree destinate alla realizzazione di impianti
di recupero e/o smaltimento rifiuti.
La predetta previsione normativa permette la localizzazione
dei predetti impianti anche in una zona che, secondo le
previsioni urbanistiche, non la tollererebbe,
subordinatamente al riscontro ed alla valutazione di
compatibilità in concreto da parte dell’amministrazione.
Fa rilevare inoltre che l’impianto Un.Se. oggetto
del presente giudizio non è stato approvato ai sensi
dell’art. 5 del d.P.R. n. 447/1998, bensì ai sensi dell’art.
208 del T.U. dell’Ambiente.
8.4. Il motivo è infondato.
8.5. L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del
2001 stabilisce che il contributo di costruzione non è
dovuto: “... c) per gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato il carattere
eccezionale e derogatorio delle ipotesi di concessione
edilizia gratuita, a fronte del principio generale che è,
invece, quello della sua onerosità, cosicché l’esenzione dal
contributo concessorio riguarda ipotesi tassative e da
interpretare in senso restrittivo (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. II, n. 2921 del 2021; Sez. IV, n. 3405 del 2020; Sez.
V, n. 51 del 2006).
8.6. Recentemente questa Sezione ha avuto modo di ribadire
che per poter beneficare della esenzione dal contributo di
costruzione debbono concorrere requisiti di carattere
oggettivo e soggettivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 17.05.2023 n. 4907).
Nel caso di specie viene in rilievo un impianto di proprietà
della società appellante, realizzato per l’esercizio di
un’attività imprenditoriale, che solo indirettamente assolve
anche ad una finalità di interesse generale.
Sono proprio la natura privata dell’impianto della società
appellante e il fine lucrativo da questa perseguito ad
evidenziare la mancanza del requisito soggettivo che la
giurisprudenza ha individuato, accanto a quello oggettivo,
per poter beneficiare dell’esenzione dal contributo di
costruzione.
8.7. Gli elementi sopra richiamati impediscono di
considerare un soggetto privato, quale l’odierna appellante,
alla stregua di una longa manus dell’ente pubblico, anche in
ragione della mancanza di un vincolo giuridico idoneo a
sancire il necessario legame con l’ente istituzionalmente
competente che la giurisprudenza ha individuato, ad esempio,
nella presenza di un provvedimento concessorio nel caso di
soggetto privato concessionario di opera pubblica.
In una fattispecie quale quella dedotta in giudizio lo
sgravio sarebbe privo di giustificazione poiché il beneficio
in questione se, da un lato, trova, in via generale, il suo
fondamento nella meritevolezza della finalità di interesse
pubblico perseguita, dall’altro, non può al contempo
risolversi in una agevolazione per chi, svolgendo attività
di impresa per fini di lucro, beneficerebbe in tal modo
della eliminazione di un costo di produzione, conseguendo
conseguentemente un maggior guadagno.
Ciò quanto meno in una
ipotesi -come quella in contestazione- in cui l’opera è
primariamente finalizzata a consentire una attività
commerciale e, solo indirettamente, assolve ad una finalità
di interesse pubblico che comunque non rappresenta la causa
principale che muove il soggetto attuatore il quale riveste
una posizione giuridica soggettiva contrapposta rispetto a
quella del Comune. |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Consiglieri comunali, vietate le richieste d’accesso agli atti
«esplorative».
Il diritto di visionare atti e documenti non può tradursi in strategie
ostruzionistiche: compete al richiedente la selezione del materiale di
proprio effettivo interesse e utilità
Secondo il TAR Lombardia-Milano
(Sez. I -
sentenza
29.12.2023 n. 3222)
il diritto del consigliere comunale di visionare atti e documenti non può
tradursi in strategie ostruzionistiche: compete al richiedente la selezione
del materiale di proprio effettivo interesse e utilità. Diversamente la
richiesta va respinta.
Nella
vicenda il consigliere aveva formulato richiesta di accesso a ben 678
documenti. E l'Amministrazione aveva rigettato la sua richiesta.
Per il
consigliere il rifiuto di consegnare gli atti richiesti era ingiustificato
poiché
l'amministrazione non disponeva di alcuna valutazione discrezionale in
ordine alla verifica della sussistenza di un suo interesse all'accesso;
doveva
invece prendere atto della mera circostanza che il richiedente era un
consigliere comunale in carica e che intendeva esercitare il suo ruolo di
controllo in pieno.
Ecco perché gli doveva essere consegnato tutto quanto
richiesto. E ciò soprattutto perché i documenti in questione non risultavano
pubblicati nella pagina Amministrazione Trasparente del sito web dell'ente e
quindi non erano consultabili. Ma il Tar lombardo non ha condiviso il punto
di
vista del consigliere coinvolto.
I consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato. L'accesso
agli atti esercitato dal consigliere comunale ha natura e caratteri diversi
rispetto alle altre forme di accesso,
esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che
possano essere d'utilità all'espletamento
delle sue funzioni.
Ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena
cognizione- la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole
sulle questioni di competenza del
Consiglio e per promuovere tutte le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale.
Tuttavia per il Tar milanese tali prerogative non sono assolute e vanno
bilanciate con l'imprescindibile esigenza di
non bloccare la macchina amministrativa.
Su queste basi se per un verso sul
consigliere comunale non può gravare
alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso
che, diversamente opinando, sarebbe
introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici,
sull'esercizio delle sue funzioni; per altro verso
compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio
interesse. Attività propedeutica connaturata
alle modalità dell'accesso, che non può mai avere finalità solo esplorative
sebbene il diritto sia esercitato da
soggetto cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata.
Né può valere
la possibilità di soddisfare tale esigenza
in modo semplificato mediante l'utilizzo di mezzi informatici in quanto in
ogni caso sussiste il limite funzionale
imposto dalla legge a tutela dell'ordinato svolgimento dei servizi pubblici
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.02.2024).
---------------
SENTENZA
3. Venendo al merito il ricorso è infondato.
3.1 L’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
recita: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere
dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al
segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
3.2 In primo luogo occorre precisare che secondo la
giurisprudenza (Consiglio di
Stato, Sez. V, sentenza 13.08.2020 n. 5032) l’accesso agli
atti esercitato dal consigliere comunale ai sensi dell’art. 43 d.lgs. n. 267
del 2000 ha natura e caratteri diversi rispetto alle altre forme di accesso,
esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che
possano essere d’utilità all’espletamento delle sue funzioni, ciò anche al
fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e
l’efficacia dell’operato dell’amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere
tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale.
3.3 Per tali ragioni, da un lato sul consigliere
comunale non può gravare (e ciò sin da prima dell’introduzione
nell’ordinamento dell’istituto dell’accesso civico generalizzato) alcun
particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che,
diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente,
attraverso i propri uffici, sull’esercizio delle sue funzioni; d’altra
parte dal termine «utili», contenuto nell’articolo 43 d.lgs. n.
267 del 2000, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso
dei Consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà
l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per
l’esercizio delle funzioni.
3.4 Venendo al caso di specie, benché il Consorzio in questione, in quanto
ente partecipato rientri tra gli enti dipendenti dal Comune di Monza, e
quindi sia soggetto all’accesso dei consiglieri comunali, l’istanza è
infondata.
Infatti la giurisprudenza
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.08.2020 n. 5032)
ha chiarito che l’unico limite all’accesso del consigliere comunale è
configurabile, in termini generali, “nell’ipotesi in cui
lo stesso si traduca in strategie ostruzionistiche o di paralisi
dell’attività amministrativa con istanze che, a causa della loro continuità
e numerosità, determinino un aggravio notevole del lavoro degli uffici ai
quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull’attività
dell’amministrazione (Cons. Stato,
IV, 12.02.2013, n. 846)” (Cons. Stato, V, 02.03.2018, n. 1298)”.
Nel caso di specie il grande numero di atti richiesti,
estesi all’intera attività dell’ente, costituisce un atto di controllo
generalizzato del Consorzio che fuoriesce dalle funzioni svolte dal
consigliere comunale, il quale esercita l’accesso per “l’espletamento del
proprio mandato”. In tale ambito rientra la possibilità di richiedere il
testo integrale degli atti e documenti in possesso dell’ente, ma non rientra
la possibilità di richiedere in sostanza tutti gli atti prodotti dall’ente,
volendo altrimenti il consigliere sostituirsi agli organi dello stesso ente
nello svolgimento dei controlli sull’ente stesso.
Compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio
interesse, attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che
non può mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia
esercitato da soggetto cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata.
Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a fondamento del contestato
diniego, secondo cui il rilascio di tutte le determine e tutti i contratti
prodotti dal Consorzio negli ultimi due anni si traduce in un accesso
generalizzato e indiscriminato a tutta l’attività dell’ente stesso.
Né in senso opposto può valere la possibilità di soddisfare tale esigenza in
modo semplificato mediante l’utilizzo di mezzi informatici, in quanto il
limite imposto dalla legge non è solo funzionale all’ordinato svolgimento
dei servizi ma attiene anche al corretto rapporto tra ente dipendente e
componenti di un organo dell’ente vigilante.
Va rigettato da ultimo il profilo di gravame con cui si lamenta la
violazione dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990 per omessa notifica del
preavviso di rigetto; tanto, in applicazione della irrilevanza dell’apporto
procedimentale ai sensi dell’art. 21-octies della L. n. 241/1990.
Secondo consolidati approdi giurisprudenziali, l’istituto
partecipativo pretermesso va interpretato non in senso formalistico, ma
avendo riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua
inosservanza abbia causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico
rapporto con la pubblica amministrazione, sicché il mancato o l'incompleto
preavviso di rigetto non comporta l'automatica illegittimità del
provvedimento finale, quando, come nella fattispecie in esame, il giudice
non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso
sulla legittimità sostanziale di un provvedimento, il cui contenuto non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(Consiglio di Stato, Sez. II, n. 1081/2020). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: A
casa il sindacalista
che sparla sui social.
Licenziato
il sindacalista che sparla dell'azienda sui social network. I post del
rappresentante dei lavoratori su Facebook non hanno alcuna seria finalità
divulgativa e sono inutilmente volgari: risulta escluso il legittimo diritto
di critica nei confronti del datore laddove le espressioni utilizzate sono
finalizzate soltanto a ledere il decoro e la reputazione dell'impresa e del
suo fondatore.
Così la Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro, nell'ordinanza
22.12.2023 n. 35922.
Libertà costituzionale
Diventa definitiva la decisione che ritiene sussistente la giusta causa nel
recesso datoriale. Il sindacalista come lavoratore è soggetto allo stesso
vincolo di subordinazione dei colleghi, ma come rappresentante dei colleghi
si pone su di un piano paritetico con il datore: la tutela degli interessi
collettivi dei lavoratori è una libertà garantita dall'articolo 39 della
Costituzione e non può essere subordinata alla volontà dell'azienda.
Nessun
dubbio, poi, che a ogni lavoratore sia garantito il diritto di critica,
anche aspra, nei confronti del datore. Ma ciò non consente di ledere
l'immagine dell'azienda sul piano morale facendo riferimento a fatti non
oggettivamente certi e comprovati.
Correttezza formale
I post del sindacalista danno l'idea che in azienda si respiri un «clima
torbido»: agitano lo spettro di pressioni e minacce contro chi si iscrive
alla sua organizzazione, che diversamente dalle altre «non si fa
corrompere». E annunciano lo showdown («tutta la m. viene a galla?»).
Soprattutto contengono epiteti offensivi e frasi volgari, del tutto
gratuite, nei confronti del vertice e del fondatore della società.
All'epoca, poi, il profilo Facebook del lavoratore è aperto: i messaggi sono
dunque visibili a tutti.
Anche l'attività sindacale incontra i limiti della
correttezza formale imposti dall'esigenza di tutelare la persona umana,
anch'essa garantita dalla Costituzione: il lavoratore può essere sanzionato
in via disciplinare se all'impresa o ai dirigenti sono attribuite qualità
apertamente disonorevoli o rivolti riferimenti denigratori non provati
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2024). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che
consentono di attestare con certezza l’avvenuta ricezione della
comunicazione da parte del destinatario.
Questa Corte, a proposito di una notifica eseguita tramite PEC ad un
indirizzo di posta elettronica ordinaria (notifica dichiarata nulla e non
inesistente) ha precisato che “con l’invio a casella e-mail ordinaria
vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della
comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di
averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia
pervenuta presso l’indirizzo di posta certificata del destinatario” e che la
“ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare notifica a mezzo
Pec non (è) sostituibile, con validi effetti legali, da eventuali forme meno
rigorose di analoga documentazione della posta mail ordinaria”.
---------------
11. Sul tema della richiesta di audizione, occorre considerare che il
sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che
consentono di attestare con certezza l’avvenuta ricezione della
comunicazione da parte del destinatario.
12. Questa Corte, a proposito di una notifica eseguita tramite PEC ad un
indirizzo di posta elettronica ordinaria (notifica dichiarata nulla e non
inesistente) ha precisato che “con l’invio a casella e-mail ordinaria
vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della
comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di
averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia
pervenuta presso l’indirizzo di posta certificata del destinatario” e
che la “ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare
notifica a mezzo Pec non (è) sostituibile, con validi effetti legali, da
eventuali forme meno rigorose di analoga documentazione della posta mail
ordinaria” (Cass.
sentenza 31.05.2023 n. 15345, in motivazione pag. 7-8, § 3.5)
13. Non possono invocarsi, in relazione alla trasmissione tramite e-mail, i
principi enunciati a proposito della spedizione di una raccomandata o di un
telegramma (secondo cui “La produzione in giudizio di un telegramma, o di
una lettera raccomandata, anche in mancanza dell'avviso di ricevimento,
costituisce prova certa della spedizione, attestata dall'ufficio postale
attraverso la relativa ricevuta, dalla quale consegue la presunzione
dell'arrivo dell'atto al destinatario e della sua conoscenza ai sensi
dell'art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della
suddetta spedizione e sull'ordinaria regolarità del servizio postale e
telegrafico”, Cass.
ordinanza 10.01.2019 n. 511), in ragione della non equiparabilità
dei sistemi di gestione dei rispettivi servizi (servizio di posta
elettronica e servizio postale).
Neppure è pertinente il richiamo alle pronunce sulle comunicazioni inoltrate
a mezzo telefax (secondo cui “Una volta dimostrato l'avvenuto corretto
inoltro del documento a mezzo telefax al numero corrispondente a quello del
destinatario, deve presumersene il conseguente ricevimento e la piena
conoscenza da parte di costui, restando, pertanto, a suo carico l'onere di
dedurre e dimostrare eventuali elementi idonei a confutare l'avvenuta
ricezione”, v. Cass. sentenza 24.05.20198 n. 14251; n. 18679 del 2017;
n. 349 del 2013), dato il diverso modo di operare di quest’ultimo
meccanismo, che consente al mittente di verificare la avvenuta trasmissione
con successo al numero di fax corrispondente a quello del destinatario (in
tal senso, Cass. n. 349 del 2013 cit.).
14. Difetta quindi la prova, nel caso di specie, della ricezione da parte
della società della richiesta di audizione inviata tramite e-mail,
risultando insufficiente la avvenuta dimostrazione dell’invio della
richiesta medesima; dal che discende l’insussistenza del vizio di violazione
dell’art. 7 St. lav. e dell’art. 1335 c.c. (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza
22.12.2023 n. 35922). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ricalcolo degli oneri, termini differenti per urbanizzazione e
costo di costruzione.
Il Consiglio di Stato chiarisce che il termine decennale per il Comune parte
in un caso dal rilascio del permesso, nell’altro dalla fine dei lavori.
Fin quando perdura il diritto del Comune di ri-conteggiare l’importo del
contributo di costruzione?
Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza
19.12.2023 n. 11022,
ritorna su un argomento molto articolato e controverso (tanto da necessitare
di una pronuncia dell’Adunanza Plenaria nel 2018) per chiarire che il
termine di prescrizione decennale entro cui il Comune può far valere un
diritto al riconteggio è diverso a seconda che si tratti della quota
relativa a
oneri di urbanizzazione o a quella afferente il costo di costruzione.
Ma
andiamo con ordine: il contributo di costruzione è la prestazione
patrimoniale imposta dalla legge a fronte del rilascio di un permesso di
costruire ed è disciplinato dall'articolo 16 del Testo Unico dell'Edilizia,
che lo
definisce come il contributo commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, enucleando così le due
principali voci di costo che lo compongono.
Il conteggio del contributo
avviene sulla base di parametri regolamentari e tabellari prestabiliti
(regionali
o comunali) e può essere rideterminato solo in caso di errori di calcolo da
parte del Comune. Il termine per l'accertamento di eventuali errori di
calcolo è di dieci anni (termine ordinario di
prescrizione), decorso il quale non è più possibile richiedere una
rettifica. Ma qual è il momento da cui inizia a
decorrere il termine?
Il termine di dieci anni scatta quando il diritto di
credito del Comune diventa esigibile, ossia può
essere fatto valere e, per individuare il momento di decorrenza, occorre
tenere distinte le due voci del contributo
sopra indicate (oneri e costo). Infatti, la peculiarità della prescrizione
connessa al contributo di costruzione sta nel
fatto che sono due i momenti in cui il relativo credito diviene esigibile,
essendo differenti i momenti di esigibilità della quota afferente agli oneri
di urbanizzazione e di quella relativa al costo di costruzione.
La prima è regolata dal
comma 2, del TUE che lo La quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto
del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può
essere rateizzata: il credito è esigibile quindi
al rilascio del permesso. La seconda trova la sua disciplina nell'art. 16,
comma 3, d.P.R. 380/2001 che stabilisce la
quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto
del rilascio, è corrisposta in corso d'opera,
con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta
giorni dalla ultimazione della costruzione.
Pertanto, come affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento,
la prescrizione decennale del diritto
di credito, in caso di errore nel calcolo al momento del rilascio del
permesso di costruire, decorre differentemente a
seconda che si tratti della quota oneri o della quota costo. Nel primo caso
i dieci anni vanno contati dal momento
del rilascio del permesso, nel secondo dal termine di fine lavori (o in
quello più breve, se la quota inerente il costo è stata versata prima).
Si
tratta di due momenti che possono divergere anche di molto: infatti, la
conclusione dei lavori può avvenire anche a
distanza di un quinquennio (a volte anche di più, se i termini vengono
prorogati) rispetto al momento del rilascio del
titolo.
Si tratta quindi di valutazioni non immediate, che necessitano di
analisi puntuali della storia autorizzativa di un
determinato cantiere, valutando le date di comunicazione di fine lavori, se
vi sono state proroghe, se sono
intervenute varianti e di quale natura ecc, restando inteso che questa
indagine puntuale dovrà essere eseguita solo
per la seconda parte del contributo, atteso che l'identificazione del
termine di decorrenza decennale è molto più
semplice per la voce oneri, corrispondente alla data di rilascio del titolo
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ricalcolo degli oneri concessori, i 10 anni per la prescrizione
decorrono dalla fine lavori.
Palazzo Spada riforma una sentenza del Tar Puglia che aveva indicato invece
come dies a quo il giorno del rilascio del titolo. Confermata
l’irretroattività delle tariffe.
Una controversia con al centro il costo di costruzione richiesto da un
Comune pugliese, relativamente al rilascio del permesso edilizio per una
nuova costruzione, offre al Consiglio di Stato (Sez. IV - sentenza
19.12.2023 n. 11022)
l’occasione per precisare due questioni importanti -il termine da cui
decorrono i 10 anni per la prescrizione e l’irretroattività delle tariffe-
rettificando le conclusioni del Tar Puglia.
La questione verte sulla rideterminazione del contributo al costo di
costruzione da parte del Comune a distanza di anni dal pagamento versato
dall'operatore economico e corrispondente alla somma inizialmente calcolata
dall'Ente.
Nella vicenda specifica, i momenti rilevanti ai fini della valutazione del
Consiglio di Stato sono i seguenti:
- il 14.12.2006 il Comune informa
l'interessato circa l'esito positivo della pratica edilizia e invita al
pagamento di 14.270 euro di oneri concessori (immediatamente versati);
- il 15.01.2007 il Comune rilascia il permesso di costruire; il 14.05.2009
il Comune rilascia un permesso di costruire in variante senza alcuna
richiesta di ulteriori oneri (ritenendo che le variazioni fossero entro la
fascia di esonero del 20% di modifica rispetto al progetto originario);
- il 02.03.2017 il Comune dice che si era sbagliato nel calcolo e chiede
all'interessato una integrazione di quasi 28.400 euro, calcolata in base
alle delibere regionali entrate in vigore tra il 2006 e il 2010).
L'impresa
impugna quest'ultimo provvedimento al Tar e avvia il contenzioso. Il Tar
Puglia accoglie il ricorso dell'impresa ritenendo fondato un motivo ritenuto
dirimente dai giudici, e cioè che il credito del Comune fosse caduto in
prescrizione, essendo passati più di 10 anni tra la data del rilascio del
permesso di costruire (15.01.2007) e la richiesta di integrazione in
base al nuovo calcolo (02.03.2017).
I giudici della IV Sezione del Consiglio di Stato, contestano questa
conclusione, e individuano un diverso termine
da cui far decorrere i 10 anni per la prescrizione. Il nuovo termine viene
individuato nel 20.06.2009, che coincide
con la data di ultimazione dei lavori.
La sentenza spiega che «il termine di
prescrizione -per effetto del combinato
disposto di cui agli artt. 2935 c.c. e 16, co. 3, d.p.r. n. 280 del 2001-
inizia a decorrere da quando il diritto diventa
definitivamente esigibile, ossia scaduti i sessanta giorni dalla ultimazione
della costruzione, ovvero dalla
comunicazione della fine dei lavori».
«In altri termini -si legge sempre
nella pronuncia n. 11022/2023 del 19.12.scorso- la Sezione ritiene di potere affermare il principio per cui la
prescrizione del diritto di credito sotteso alla
riscossione degli oneri concessori è decennale, con la differenza che il
diritto diventa esigibile e pertanto il termine di
prescrizione inizia a decorrere:
i) per gli oneri urbanizzazione, dal
momento in cui viene rilasciato o comunque si
forma il titolo edilizio;
ii) per il costo di costruzione, dalla
comunicazione al comune della fine dei lavori, giusta il
disposto dell'art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001».
In conclusione, Palazzo
Spada accoglie l'appello del Comune pugliese, di cui viene riconosciuto
l'errore nel calcolo, sempre però nel rispetto della non retroattività delle
tariffe,
che vanno sempre applicate, ratione temporis, a quelle «vigenti al
momento della comunicazione di fine lavori», cioè,
nel caso specifico, sempre alla data del 20.06.2009 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 10.01.2024).
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SENTENZA
8. L’appello è fondato, nei sensi che seguono.
9. Il quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento in tema di
contributo di costruzione e di interruzione della prescrizione è
riassumibile come segue.
9.1. L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 30.08.2018, n. 12, ha affermato i seguenti principi:
a)
gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e
liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n.
380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una
potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa
alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio
del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un
rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al
termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né
la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241
del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge
per gli atti provvedimentali manifestazioni di attività autoritativa;
b)
la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può
pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato,
l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato,
richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine
di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del
titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua
il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo
nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo,
munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f),
c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero
accertamento;
c)
l’amministrazione comunale, nel richiedere i detti importi con
atti non aventi natura autoritativa, agisce quindi secondo le norme di
diritto privato, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del
1990, ma si deve escludere l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa
fattispecie, in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto
dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti
alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio
riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle
parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato
da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà
luogo alla semplice rettifica;
d)
la tutela dell’affidamento e il principio della buona fede, che
in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione
nell’attuazione del rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione ad
una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, la
predeterminazione e l’oggettività dei parametri da applicare al contributo
di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, rendono
vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione,
consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte
dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi
in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con
l’ordinaria diligenza richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175
e 1375 c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta all’attuazione
del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio
vantato dal Comune.
9.2 In tema di contributo di costruzione, fatto salvo quanto si dirà
appresso, la giurisprudenza amministrativa ha, inoltre, affermato che:
a)
il dies a quo per il decorso del periodo di tempo ai fini della
prescrizione decennale, coincide con la data di rilascio del titolo
edilizio;
b)
il contributo di costruzione può essere rideterminato solo in
caso di errori di quantificazione (calcolo) da parte del Comune, è inoltre
necessario che il ricalcolo sia effettuato secondo la tariffa vigente al
momento del rilascio del permesso di costruire
(Cons. Stato, sentenza n.
18/2018);
c)
dal momento del rilascio del titolo abilitativo, il Comune ha
dieci anni di tempo per accertare eventuali errori di calcolo e chiedere una
integrazione del contributo;
d)
si applica, quindi, il termine ordinario per la prescrizione,
decorso il quale non è più possibile richiedere una rettifica;
e)
il contributo di costruzione previsto dall’art. 16, comma 9, t.u.,
è determinato periodicamente dalle Regioni per i nuovi edifici, mentre il
Comune è competente a definire il costo per i soli edifici esistenti (art.
16, comma 10, t.u.), per cui:
i)
i costi-base fissati con delibera regionale
si applicano direttamente;
ii)
le delibere con cui i Comuni determinino i
costi in misura differente da quanto deciso dalla Regione, avvalendosi di
facoltà previste da leggi regionali, hanno carattere eventuale e non
condizionano l’immediata vigenza e operatività del costo-base fissato dalla
Regione;
iii)
tali delibere si applicano comunque solo ai nuovi permessi, ma
solo per la parte di incremento o diminuzione rispetto al costo-base fissato
con atto regionale; in altri termini, nel caso di contributo di costruzione
per nuove costruzioni, il principio di irretroattività delle delibere
comunali sopravvenute opera sì, ma solo per il costo in aumento o in
riduzione
(Cons. Stato, sez. IV, n. 2821/2017).
9.3) Sul piano più strettamente normativo, vengono in rilievo, invece, le
seguenti norme:
a)
art. 2943 c.c., secondo cui la prescrizione è interrotta, oltre
che dalla notificazione dell’atto con cui si inizia un giudizio o dalla
domanda proposta nel corso di un giudizio, anche da ogni atto che valga a
costituire in mora il debitore;
b)
art. 1219 c.c., ai sensi del quale la costituzione in mora deve
consistere in una intimazione o richiesta fatta per iscritto;
c)
art. 16, comma 2, d.P.R. 380/2001 a mente del quale “La quota di
contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune
all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta
dell'interessato, può essere rateizzata”;
d)
art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001 giusta il quale “La quota di
contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del
rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della
costruzione”.
10. Sulla scorta del prefato quadro giurisprudenziale e normativo è
possibile dunque affermare che:
a) le pretese economiche avanzate da parte appellante (afferenti il
costo di costruzione) hanno consistenza di diritti soggettivi;
b) conseguentemente, deve escludersi l’applicazione della
disciplina sull’annullamento o revoca in autotutela degli atti
amministrativi,
c) tali pretese, inerenti al costo di costruzione, sono soggette
alla prescrizione ordinaria decennale, allo stesso modo che per gli oneri di
urbanizzazione;
d) il legislatore garantisce che la prescrizione non opera qualora
sopraggiunga una causa che faccia venire meno l'inerzia del titolare,
presupposto stesso dell'istituto. È idoneo, pertanto, a interrompere la
prescrizione qualsiasi atto stragiudiziale che individui la persona del
debitore e contenga la richiesta scritta di adempiere (v. Corte di
Cassazione,
ordinanza 10.03.2022
n. 7835).
11. Nel caso di specie:
- il permesso di costruire n. 2/2007 veniva rilasciato il 15.01.2007;
- la società corrispondeva i relativi oneri concessori per il
rilascio del suddetto titolo edilizio;
- in data 14.05.2009, con provvedimento n. 8/2009, il comune
rilasciava alla società il permesso di costruire in variante al titolo
edilizio n. 2/2007;
- con nota prot. n. 685/17 del 02.03.2017, notificata il
successivo 07.03.2017, il Comune –sul presupposto che il permesso del
2007 è stato “assorbito e sostituito, mediante il rilascio alla medesima
società, del successivo permesso di costruire n. 08/2009, in variante al
precedente, in esecuzione del quale l’intervento edilizio è stato realizzato
e completato”– richiedeva alla appellata una integrazione del costo di
costruzione pari ad € 28.384,04.
Conseguentemente può affermarsi che:
- la variante del 2009, in ragione di quanto assentito (si veda la
documentazione depositata agli atti dal comune), ha natura sostanziale con
le conseguenze anche in ordine alla decorrenza del termine di prescrizione;
- trattandosi di questione afferente il costo di costruzione, il
termine di prescrizione –per effetto del combinato disposto di cui agli artt. 2935 c.c. e 16, co. 3, d.p.r. n. 280 del 2001– inizia a decorrere da
quando il diritto diventa definitivamente esigibile, ossia scaduti i
sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione, ovvero dalla
comunicazione della fine dei lavori.
12. In altri termini, sul punto, la Sezione ritiene di potere affermare il
principio per cui
la prescrizione del diritto di credito sotteso alla
riscossione degli oneri concessori è decennale, con la differenza che il
diritto diventa esigibile e pertanto il termine di prescrizione inizia a
decorrere:
i) per gli oneri urbanizzazione, dal momento in cui viene
rilasciato o comunque si forma il titolo edilizio;
ii) per il costo di
costruzione, dalla comunicazione al comune della fine dei lavori, giusta il
disposto dell’art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001.
13. Ebbene, nel caso di specie consta che la comunicazione di ultimazione
dei lavori sia stata effettuata in data 20.06.2009, con la conseguenza
che alla data del 07.03.2017 (di notifica del provvedimento di ricalcolo)
il termine prescrizionale non poteva ritenersi ancora decorso.
14. Va solo soggiunto che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio
il
contributo previsto dall’art. 16 t.u. è suscettibile di rideterminazione in
due casi:
a) quando intervenga la scadenza del permesso di costruire con un
suo rinnovo o una variante al titolo edilizio che incrementi il carico
urbanistico
(cfr. sez. IV, 27.04.2012, n. 2471; sez. IV, n. 1504/2015,
cit.), come avvenuto nel caso di specie;
b) quando, nell’adozione del provvedimento di determinazione, vi
sia stato un errore nel calcolo del contributo rispetto alla situazione di
fatto e alla disciplina vigente al momento
(cfr. sez. IV, n. 6033/2012, cit.).
Nel caso di specie non v’è dubbio che il comune sia anche incorso in un
errore di calcolo con l’atto del 2009, errore che poi ha proceduto a
rettificare senza aver ancora consumato il termine di prescrizione.
15. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello è fondato nei
limiti ora indicati e salvo quanto ora si preciserà a seguito dei motivi
riproposti con la memoria di costituzione della parte appellata. |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi, sanzioni possibili anche senza parere della commissione
edilizia.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato respingendo il ricorso di un
proprietario.
L’omessa acquisizione del parere della commissione edilizia comunale non
inficia l’adozione di provvedimenti sanzionatori di opere abusive, neppure
in sede di rigetto di istanze di condono o sanatoria, atteso che tale parere
non è obbligatorio. Milita in tal senso l’art. 4, comma 2, del Testo
unico edilizia, che attribuisce ai comuni la «facoltà» di istituire la
commissione edilizia, e che assegna ad essa il ruolo di « organo
consultivo». Ciò fermo restando che
l'art. del 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso
di
costruire) del suddetto decreto non prevede l'acquisizione del parere della
commissione prima dell'emissione della sanzione pecuniaria in luogo del
ripristino.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato -Sez. VI- con la
sentenza
15.12.2023 n. 10871 che ha confermato la pronuncia del Tar Veneto n. 759/2019.
L'antefatto
La ricorrente aveva proposto ricorso al Tar del Veneto contro il
provvedimento con cui il Comune di Mogliano Veneto le aveva intimato, in
luogo del ripristino, il pagamento della somma di 30.872,00, quale sanzione
amministrativa per opere abusive realizzate su un immobile di proprietà,
deducendone l'illegittimità per violazione dell'articolo 93, comma 1, ultimo
periodo, della legge regionale 27.06.1985, n. 61, secondo cui: «Il
provvedimento di demolizione o di irrogazione
delle sanzioni è emanato dal Sindaco, rispettivamente con ordinanza o con
ingiunzione, previo parere della
Commissione Edilizia Comunale».
Ricorso che il Tar aveva dichiarato
infondato e in parte inammissibile.
La
sentenza del Consiglio di Stato
Dinanzi al Consiglio di Stato la ricorrente
aveva riproposto quanto sostenuto nel
primo grado di giudizio ed evidenziato che la sanzione pecuniaria non
risultava correttamente commisurata al valore
dell'immobile quale derivante dall'abuso. Tesi che non colto nel segno.
L'Alto Collegio ha confermato l'orientamento secondo il quale:
- il parere reso dalla commissione edilizia
sulla domanda di condono è un atto
«meramente endoprocedimentale non necessario, tanto da non essere
considerato, in quanto tale, oggetto di
autonoma impugnazione» (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4208 del
2016);
- nel procedimento per la
concessione in sanatoria, il parere della commissione edilizia comunale «non
è obbligatorio, tenuto conto
dell'assenza di una specifica previsione al riguardo e della specialità del
procedimento in questione rispetto a quello
ordinario di rilascio della concessione edilizia» (Consiglio di Stato, Sez.
VI, sentenza n. 6042 del 2013; cfr. di recente
Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza n. 504 del 2020, che ritiene tale
parere «non necessario e comunque ininfluente
in mancanza dei presupposti per accedere al condono»);
- l'articolo 4, comma
2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel rendere
facoltativa per i comuni l'istituzione della commissione edilizia, ha
introdotto un principio fondamentale in materia
del territorio al quale deve sottostare la normativa regionale, con la
conseguenza che la norma regionale, laddove
preveda l'obbligatorietà del parere deve intendersi implicitamente abrogata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 6042 del 2013).
L'orientamento è
condiviso dai Tribunali amministrativi regionali. Basta
citare, inter alia, la giurisprudenza del Tar Campania- Napoli (sentenze: n.
2103/2015; n. 1399/2015; n. 17938/2010;
2010, n. 17398/2012) e del Tar Puglia-Lecce (sentenza n. 1666 del 2012),
secondo cui:
- le sanzioni per opere
edilizie abusive, costituendo un atto dovuto in presenza di presupposti
stabiliti dalla legge, non necessitano della
preventiva acquisizione del parere della commissione edilizia;
- non è
necessario il parere della commissione edilizia
comunale, sia in tema di provvedimenti sanzionatori come in tema di
decisioni su istanze di sanatoria (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
12.02.2024).
---------------
SENTENZA
9. Con la seconda censura, gli appellanti deducono l’error in
iudicando in cui sarebbe incorso il Tribunale adito, nella parte in cui
ha ritenuto infondato il primo motivo ricorso, relativo alla omessa
acquisizione del parere della Commissione Edilizia Comunale.
Ciò in quanto, l’art. 93 della L.R. n. 16 del 2003, vigente all’epoca dei
fatti, prevedeva che qualsiasi provvedimento repressivo di abuso, fosse esso
l’ordine di demolizione ovvero l’applicazione della sanzione pecuniaria,
dovesse essere preceduto dal parere della Commissione Edilizia Comunale.
9.1. La doglianza è infondata.
A tale proposito è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato, secondo cui il parere reso dalla Commissione
Edilizia sulla domanda di condono è un atto meramente endoprocedimentale non
necessario, tanto da non essere considerato, in quanto tale, oggetto di
autonoma impugnazione (Cons. Stato, sez. IV, n. 4208 del 2016).
In ogni caso, laddove non acquisito, la mancanza dello stesso non vizia
l’adozione di atti repressivi di abusi edilizi, neppure ai fini del rigetto
di istanze di condono o sanatoria, non essendo un atto presupposto ai fini
dell’adozione (Cons. Stato, sez. IV, n. 4962 del 2016).
Pertanto, nel procedimento per la concessione in sanatoria, il parere della
Commissione Edilizia Comunale non è obbligatorio (essendo al più
facoltativo), tenuto conto dell’assenza di una specifica previsione al
riguardo e della specialità del procedimento in questione rispetto a quello
ordinario di rilascio della concessione edilizia, sicché la mancanza di tale
parere non è censurabile (Cons. Stato, sez. VI, n. 6042 del 2013; Cons.
Stato, sez. VI, n. 2038 del 2012).
Né si può predicare che il giudicante abbia omesso di tenere conto della
peculiarità della normativa regionale veneta, tenuto conto che l’art. 4
d.P.R. n. 380 del 2001, nel rendere per i comuni facoltativa l’istituzione
della Commissione Edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in
materia di governo del territorio, al quale deve sottostare la normativa
regionale, ai sensi dell’art. 117 Cost. (Cons. Stato, sez. IV, n. 4783 del
2008).
Al riguardo è già stato affermato che le norme regionali in materia devono
essere interpretate in senso costituzionalmente coerente con i principi
generali introdotti dal predetto Testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia edilizia n. 380 (Cons. Stato, sez. IV, n. 4793
del 2008), per cui la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la
norma legislativa regionale, laddove prevede l’obbligatorietà del parere
della Commissione Edilizia, deve intendersi implicitamente abrogata (Cons.
Stato, sez. VI, n. 6042 del 2013).
Nondimeno, l’Amministrazione ha osservato che la Commissione Edilizia
Comunale, come evidenziato nella relazione del Funzionario Comunale Ing.
Cu., rilasciata in ossequio all’ordinanza del TAR Veneto n. 847 del 2018, si
è in effetti pronunciata in due occasioni sulla sanzione poi irrogata alla
ricorrente, e nella seduta del 02.05.2002 si è espressa dando: “parere
favorevole” alla sanatoria ordinaria “limitatamente alle varianti
interne e spostamenti di volumetria”, mentre ha espresso “parere non
favorevole per quanto riguarda l’innalzamento della struttura di copertura e
della valesana, in quanto in contrasto con l’art. 11 N.T.A. P.R.G.”; la
Commissione Edilizia Comunale, infatti, ha concluso “vista la perizia
asseverata prodotta dalla Ditta, dalla quale si evince la compromissione
della parte conforme nel caso di demolizione della parte difforme, ritiene
di procedere all’irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 93
L.R. 61/1985”. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità assoluta.
Il vincolo cimiteriale determina una
situazione di inedificabilità ex lege e integra una
limitazione legale della proprietà a carattere assoluto,
direttamente incidente sul valore del bene e non
suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in
maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il
regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di
immobili che si trovino in un particolare rapporto di
vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici.
Esso ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con
il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici
interessi pubblici che la fascia di rispetto intende
tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle
esigenze immediate della pianificazione urbanistica e si
impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente
da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali
non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere
sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.12.2023 n. 10798 - massima tratta da e link
a https://lexambiente.it). |
VARI: Eredi
risarciti anche se la vittima non indossava cinture di sicurezza.
Risarcimento pieno agli eredi anche se la vittima non indossava la cintura
di sicurezza al momento dell'incidente stradale. E ciò perché con ogni
probabilità sarebbe morta ugualmente, anche se avesse utilizzato il
dispositivo di protezione: il giudice del merito, dunque, non può ridurre il
ristoro del danno patito in prima persona dai familiari del de cuius senza
verificare l'effettiva incidenza che ha avuto sull'evento-morte la
trasgressione della regola cautelare ascritta alla vittima.
Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza
12.12.2023 n. 34625.
Accolto il ricorso di vedova, figli e nipoti della vittima: sbaglia la Corte
d'appello ad accogliere in parte il gravame dell'assicurazione addebitando
all'interessato il 20% della colpa nel sinistro perché non indossava la
cintura. In sede penale è accertata la responsabilità dell'altro conducente
per omicidio colposo, aggravato dallo stato di ebbrezza.
Trova ingresso la
censura che fa leva sulla consulenza tecnica svolta dal pm nel processo
penale: nello scontro l'auto della vittima si deforma al punto che
l'abitacolo si contrae, rendendo «inevitabile la compressione del torace» da
parte del volante; l'uomo, insomma, sarebbe deceduto «con altissima
probabilità» anche indossando la cintura.
È vero: il risarcimento ai
congiunti superstiti deve essere ridotto in misura corrispondente alla
percentuale di colpa ascrivibile al de cuius. Ma la condotta della vittima
deve risultare colposa per essere apprezzata come concausa del danno patito
dagli eredi, riducendo quindi il risarcimento.
E per ritenersi tale deve
aver effettivamente inciso sulla dinamica del sinistro: il che si verifica
solo quando l'evento-morte è il concretizzarsi del rischio specifico che
l'osservanza della regola cautelare tendeva a evitare.
Insomma: è integrata
la violazione dell'art. 2054 Cc denunciata dagli eredi perché la Corte
d'appello si accontenta della violazione dell'art. 172 Cds senza verificare
se e quanto l'inosservanza dell'obbligo d'indossare la cintura abbia inciso
sulla morte, valutando l'attendibilità delle prove utilizzate. Parola al
rinvio
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2024). |
APPALTI:
Criterio di aggiudicazione per gli appalti con
caratteristiche standardizzate e ad alta intensità di
manodopera: la parola alla Corte di giustizia UE.
La V sezione del Consiglio di Stato sottopone alla
valutazione pregiudiziale della Corte di giustizia UE la
disciplina dettata dall’art. 95 del codice dei contratti
pubblici del 2016, che vieta il criterio di aggiudicazione
del minor prezzo per gli appalti ad alta intensità di
manodopera, anche nell’ipotesi in cui si tratti di appalto
con caratteristiche standardizzate per il quale risulti
accertato, in concreto, che le istanze di tutela dei
lavoratori sono state rispettate.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione – Appalti ad alta intensità di manodopera –
Contemporanea sussistenza delle caratteristiche
standardizzate – Criterio di aggiudicazione – Minor prezzo –
Esclusione – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia
UE.
Deve essere rimessa alla Corte di
giustizia UE la seguente questione pregiudiziale:
se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di
servizi, di cui agli artt. 49 e 56 del Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché il
principio euro-unitario di proporzionalità e l’art. 67,
paragrafo 2, della direttiva 2014/24/UE ostino
all’applicazione di una normativa nazionale in materia di
appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’art.
95, commi 3, lett. a), e 4, lett. b), del dlgs 18.04.2016, n. 50, nonché nell’art. 50, comma 1,
del medesimo dlgs, come anche derivante dal principio di
diritto enunciato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato nella sentenza 21.05.2019, n. 8, secondo la quale, in
caso di appalti aventi ad oggetto servizi con
caratteristiche standardizzate ed al contempo ad alta
intensità di manodopera, è vietata all’amministrazione
aggiudicatrice la previsione, quale criterio di
aggiudicazione, di quello del minor prezzo, anche
nell’ipotesi in cui la legge di gara abbia cura di prevedere
il ribasso sul solo aggio o utile potenziale di impresa, con
salvezza dei costi per la manodopera. (1)
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(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, la V
sezione del Consiglio di Stato interroga la Corte di
giustizia UE circa la compatibilità, con il diritto
euro-unitario, della previsione nazionale, contenuta
nell’art. 95 del d.lgs. n. 50 del 2016, che vieta il
criterio di aggiudicazione del minor prezzo per gli appalti
ad alta intensità di manodopera, anche laddove si tratti di
servizi con caratteristiche standardizzate (connotati, cioè,
come afferma l’ordinanza in epigrafe, “da elevata
ripetitività e priv[i] di elementi personalizzabili”) e
anche nell’ipotesi in cui non sussistano dubbi in ordine
all’effettivo raggiungimento dell’obiettivo che la norma,
nell’imporre il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, ha inteso perseguire (la tutela delle garanzie
dei lavoratori).
La controversia portata al giudizio della V
sezione è stata originata da un appalto bandito dal
Ministero della difesa per il servizio di manovalanza,
connessa ai trasporti, per le esigenze centrali e
periferiche dell’amministrazione.
Trattandosi di servizio
con caratteristiche standardizzate, il disciplinare aveva
stabilito il criterio di aggiudicazione del minor prezzo
(mediante ribasso sull’aggio posto a base di gara): ciò,
sulla base dell’art. 95, comma 4, lettera b), del codice del
2016, a norma del quale tale criterio “può” essere
utilizzato, per l’appunto, “per i servizi e le forniture con
caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono
definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta
intensità di manodopera…”.
La ratio di questa previsione –come non manca di evidenziare la sezione V, con l’ordinanza
in epigrafe– risiede in ragioni di economicità e speditezza
nella procedura, posto che si ha a che fare con prestazioni
connotate da elevata ripetitività per le quali “è
difficilmente immaginabile un apporto del concorrente tale
da alterare l’aspettativa a una prestazione uniforme” ed è
quindi ridondante la previsione di un confronto competitivo
sulla migliore qualità tecnica delle varie offerte.
Su
ricorso dell’impresa seconda classificata, il
Tar per il
Lazio, sez. I-bis, con sentenza 11.04.2023, n. 6259, ha
annullato l’intera gara, rilevando la violazione della norma
menzionata, nella parte in cui essa (a seguito di
integrazione introdotta con il decreto-legge n. 32 del 2019,
convertito in legge n. 55 del 2019) stabilisce l’eccezione
per gli appalti ad alta intensità di manodopera, imponendo
dunque per questi ultimi il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, pur se in presenza delle
caratteristiche standardizzate.
Nello stesso senso si pone
anche la previsione del comma precedente a quello poc’anzi
citato, a norma del quale (lettera a) “Sono aggiudicati
esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del
miglior rapporto qualità/prezzo: a) i contratti relativi […]
ai servizi ad alta intensità di manodopera”, come definiti
art. 50, comma 1, secondo periodo, del codice stesso (“I
servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei
quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per
cento dell'importo totale del contratto”).
Per tali
contratti la stessa norma impone l’inserimento, nei bandi di
gara, negli avvisi e negli inviti, di “specifiche clausole
sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del
personale impiegato” e pone, quale condizione indefettibile,
l’applicazione dei contratti collettivi di settore: dal che
si apprezza la ratio perseguita dal legislatore italiano,
che è quella di prevenire facili situazioni di sfruttamento
dei lavoratori proprio mediante la necessaria comparazione
qualitativa delle offerte, escludendo la possibilità di
aggiudicare l’appalto sulla base del solo ribasso.
II. – L’impresa aggiudicataria, vistasi annullata l’intera
gara dal Tar, ha dunque proposto appello al Consiglio di
Stato, sottoponendo al giudice di secondo grado il possibile
contrasto della normativa italiana con i principi del
diritto UE, nella parte in cui si rende necessario il
ricorso al (ben più impegnativo) criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa pur laddove l’appalto, anche
se connotato da alta intensità della manodopera, risulti
regolato in modo tale da non far sorgere dubbi sul rispetto
delle garanzie dei lavoratori.
Il collegio accoglie
favorevolmente la prospettazione della parte e solleva la
relativa questione pregiudiziale, argomentando, in sintesi,
quanto segue:
a) l’art. 95, comma 4, lettera b), del d.lgs.
n. 50 del 2016 stabilisce un’apposita eccezione alla
generale facoltà, per l’amministrazione, di prevedere il
criterio del minor prezzo per i servizi e le forniture
aventi caratteristiche standardizzate: l’eccezione (come già
detto) riguarda i servizi ad alta intensità di manodopera
per i quali, come conferma il comma 3, lettera a), non può
prescindersi dalla previsione del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa;
b) l’Adunanza plenaria, con
sentenza 21.05.2019, n. 8 (in Foro it., 2019, III, 365,
in Urb. appalti, 2019, 631, con nota di PAGANI, in Guida al
dir., 2019, 26, 82, con nota di PONTE, ed in Riv. corte
conti, 2019, 3, 294, con nota di LONGHI, nonché oggetto
della
News US n. 64 del 29.05.2019, alla quale si
rimanda per i necessari approfondimenti), ha evidenziato
che:
b1) la ratio dell’imposizione del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, per gli affidamenti di
servizi ad alta intensità di manodopera, è quella di
perseguire gli obiettivi –preminenti, secondo la
Costituzione e il diritto UE, nel settore dei contratti
pubblici– di tutela del lavoro;
b2) detti obiettivi non
possono essere sacrificati alle esigenze di carattere
tecnico e alle determinazioni discrezionali
dell’amministrazione; di conseguenza, ancor prima che ciò
fosse chiarito dal legislatore con la (di poco) successiva
novella del 2019, l’Adunanza plenaria ha affermato il
principio di diritto secondo cui “gli appalti di servizi ad
alta intensità di manodopera ai sensi degli artt. 50, comma
1, e 95, comma 3, lett. a), del codice dei contratti
pubblici sono comunque aggiudicati con il criterio del
miglior rapporto qualità/prezzo, quand’anche gli stessi
abbiano anche caratteristiche standardizzate ai sensi del
comma 4, lett. b), del medesimo codice”;
c) proprio in
applicazione di tale principio, nel caso di specie, il Tar per il Lazio ha accolto il ricorso proposto dalla
seconda classificata, annullando l’intera gara;
d) tuttavia,
nel caso di specie, l’appalto bandito dal Ministero della
difesa presenta le seguenti caratteristiche:
d1) per un
verso, esso riguarda operazioni meramente materiali e di
movimentazione di colli, che sono ripetitive e
standardizzate, per cui non si apprezza alcuna effettiva
necessità di far luogo all’acquisizione di offerte tecniche
differenziate, ciò che comporterebbe un inutile aggravio
della procedura di gara;
d2) per altro verso, il ribasso in
sede di offerta doveva avvenire, da parte degli offerenti,
non su un prezzo base comprensivo dei costi della
manodopera, quanto piuttosto, esclusivamente, sull’aggio, da
calcolarsi già al netto dei costi della manodopera;
d3) il
ribasso, quindi, poteva avvenire solo sull’utile potenziale
di impresa, con invarianza dei costi per la manodopera: ciò
che lascia, dunque, intatte le garanzie connesse alle
necessarie tutele dei lavoratori impiegati nell’appalto;
e) nell’ordinamento UE sono rinvenibili, in proposito, i
seguenti indicatori normativi:
e1) anzitutto, vi è l’art.
67, paragrafo 2, ultimo capoverso, della direttiva
2014/24/UE, a norma del quale “Gli Stati membri possono
prevedere che le amministrazioni aggiudicatrici non possano
usare solo il prezzo o il costo come unico criterio di
aggiudicazione o limitarne l'uso a determinate categorie di
amministrazioni aggiudicatrici o a determinati tipi di
appalto”;
e2) tale previsione –osserva il collegio
rimettente– andrebbe letta conformemente al principio di
proporzionalità, che è un principio generale del diritto
dell’Unione, secondo il quale le norme stabilite dagli Stati
membri, nell’ambito dell’attuazione delle disposizioni della
direttiva 2014/24/UE, non dovrebbero andare oltre quanto
necessario per raggiungere gli scopi perseguiti da quest’ultima;
e3) l’obiettivo di favorire la migliore qualità delle
prestazioni costituisce, parimenti, un’indicazione
fondamentale del diritto UE, specialmente alla luce di
quanto afferma il Considerando n. 92 della direttiva
menzionata, in base al quale “Le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero essere incoraggiate a scegliere
criteri di aggiudicazione che consentano loro di ottenere
lavori, forniture e servizi di alta qualità che rispondano
al meglio alle loro necessità”;
e4) in tale contesto, non
può dimenticarsi la risoluzione del 25.10.2011, sulla
modernizzazione degli appalti pubblici (2011/2048(INI)),
prodromica all’approvazione delle direttive del 2014, con la
quale il Parlamento europeo, pur ritenendo che “il criterio
del prezzo più basso non debba più essere il criterio
determinante per l’aggiudicazione di appalti e che sia
necessario sostituirlo in via generale con quello
dell’offerta economicamente più vantaggiosa in termini di
benefici economici, sociali e ambientali, tenendo conto dei
costi dell’intero ciclo di vita dei beni, servizi o lavori
di cui trattasi”, sottolineava, comunque, “che una simile
soluzione non esclude il criterio del prezzo più basso quale
criterio decisivo in caso di beni o servizi altamente
standardizzati”;
f) nel trasporre dette indicazioni nel
diritto interno, il legislatore italiano ha bensì sancito il
divieto di utilizzare il criterio del prezzo più basso per
la specifica tipologia dei servizi ad alta intensità di
manodopera (art. 95, comma 4, lettera b, del d.lgs. n. 50
del 2016), ma ciò anche nell’ipotesi in cui l’appalto
presenti, al contempo, caratteristiche standardizzate,
laddove cioè non rilevano gli aspetti qualitativi delle
prestazioni; simile previsione, tuttavia, appare eccedere
quanto necessario per conseguire gli obiettivi, prima
ricordati, perseguiti dalla direttiva e si pone, pertanto,
in contrasto con il principio di proporzionalità;
g) tale
ultimo principio, nel caso di specie, assume particolare
pregnanza alla luce:
g1) sia delle previsioni della legge di
gara, che stabilivano come criterio di aggiudicazione quello
del maggior ribasso, da calcolarsi esclusivamente
sull’aggio, con salvezza dei costi per la manodopera;
g2)
sia del fatto che il rispetto delle condizioni economiche e
di sicurezza del lavoro è già stato accertato dalla stazione
appaltante, in sede di subprocedimento di verifica
dell’anomalia delle offerte, nonché dallo stesso Giudice
nazionale (essendo già stati respinti –con parallela
sentenza non definitiva della medesima Sezione– i motivi,
introdotti dal ricorrente fin dal primo grado, e riproposti
con appello incidentale, con i quali era stata revocata in
dubbio la legittimità dell’offerta dell’aggiudicataria
proprio in relazione alla violazione dei minimi salariali);
h) i vantaggi tipici, collegati alla tutela dei lavoratori,
che normalmente derivano dall’impiego del criterio di
aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa
(oggetto di indiscusso favor nella disciplina UE), appaiono
pertanto ugualmente raggiunti; e ciò, proprio all’esito
dell’accertamento, in sede amministrativa e giurisdizionale,
che non si è avuta alcuna violazione delle tutele che devono
assistere le prestazioni di lavoro;
i) a giudizio del
Collegio, pertanto, appare sproporzionato l’obbligo della
previsione del criterio di aggiudicazione del miglior
rapporto qualità/prezzo, non venendo in considerazione
possibili aspetti di miglioramento tecnico che avrebbero
potuto, in tesi, caratterizzare le offerte aventi ad oggetto
prestazioni standardizzate; in definitiva, la preferenza del
diritto UE per il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa pare non sposarsi, nella fattispecie de qua, con
le ragioni che dovrebbero sostenerlo, con la conseguenza che
l’imposizione di quel criterio appare misura palesemente
eccessiva, sproporzionata ed ingiustificata.
III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
j)
nell’affermare il principio secondo cui “Gli appalti di
servizi ad alta intensità di manodopera ai sensi degli artt.
50, comma 1, e 95, comma 3, lett. a), del codice dei
contratti pubblici sono comunque aggiudicati con il criterio
del miglior rapporto qualità/prezzo, quand’anche gli stessi
abbiano anche caratteristiche standardizzate ai sensi del
comma 4, lett. b), del medesimo codice”, poi recepito dal
legislatore nazionale con le previsioni del decreto-legge n.
n. 32 del 2019, come convertito), l’Adunanza plenaria, nella
richiamata sentenza n. 8 del 2019, ha tra l’altro osservato
che:
j1) il ricorso a criteri di aggiudicazione degli
appalti pubblici basati non sul solo prezzo, e quindi non
orientati in via esclusiva a fare conseguire
all’amministrazione risparmi di spesa, ma idonei a
selezionare le offerte anche sul piano qualitativo, può
essere funzionale, tra le altre ipotesi, alla tutela delle
condizioni economiche e di sicurezza del lavoro;
j2) il
ricorso a criteri in grado di valorizzare aspetti di
carattere qualitativo è motivato dall’esigenza di assicurare
una competizione non ristretta al solo prezzo, foriera del
rischio di ribassi eccessivi e di una compressione dei costi
per l’impresa aggiudicataria che possa andare a scapito
delle condizioni di sicurezza sui luoghi di lavoro e dei
costo per la manodopera, in contrasto con gli obiettivi di
coesione sociale propri degli obiettivi di “crescita
inclusiva” enunciati in sede europea;
j3) nella medesima
direzione convergono imperativi di matrice costituzionale,
espressi dal principio secondo cui l’iniziativa economica
non può svolgersi in contrasto “con l’utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana” (art. 41, comma 2, Cost.), finalizzato a
conciliare le esigenze della crescita economica, per la
quale l’intervento pubblico mediante l’affidamento di
contratti d’appalto costituisce un rilevante fattore, con
quelle
di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e delle
loro condizioni contrattuali;
j4) il comma 3 dell’art. 95
del d.lgs. n. 50 del 2016 si pone ad un punto di convergenza
di valori espressi in sede costituzionale e facoltà
riconosciute a livello europeo ai legislatori nazionali, per
la realizzazione dei quali nel codice dei contratti pubblici
il criterio di aggiudicazione del miglior rapporto
qualità/prezzo è stato elevato a criterio unico ed
inderogabile di aggiudicazione per appalti di servizi in cui
la componente della manodopera abbia rilievo preponderante;
k) sui criteri di aggiudicazione nel codice appalti del
2016, cfr.
Cons. Stato, Ad. plen., 26.04.2018, n. 4 (in
Urbanistica e appalti, 2018, 6, 785, con nota di MEALE,
nonché oggetto della
News US in data 10.05.2018), che ha
statuito, con un importante obiter dictum, quanto segue: “è
noto che il d.lgs. n. 163/2006 (come anche la legislazione
antecedente) si fondava sul principio dell’equiordinazione
dei metodi di aggiudicazione, la cui scelta restava rimessa
alla responsabile discrezionalità della stazione appaltante
(art. 81, commi 1 e 2 del predetto d.lgs. 12.04.2006, n.
163) mentre il nuovo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50 [...] ha introdotto all’art. 95
una rilevante novità sistematica (sulla scorta del
considerando 89 della direttiva 24/2014, laddove si afferma
che l’offerta ‘economicamente’ più vantaggiosa è ‘sempre’
quella che assicura il miglior rapporto tra qualità e
prezzo), esprimendo un indiscutibile favor per il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa e prevedendo un
‘sistema di gerarchia’ tra i metodi di aggiudicazione”;
l)
sui criteri di aggiudicazione, in dottrina, per un’ampia
ricostruzione, anche in chiave storica, delle ragioni che
hanno indotto il legislatore del 2016 a considerare
tassativo il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso
(come eccezione, cioè, rispetto alla regola ordinaria della
selezione dell’offerta che presenta il miglior rapporto
qualità-prezzo), cfr.:
l1) R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti
pubblici, Bologna, 2017, 1330 ss., la quale individua tali
ragioni, in particolare, nelle seguenti: “promozione delle
qualità delle prestazioni, tutela dell’ambiente, esigenze
sociali volte a evitare l’impiego di manodopera a basso
costo o sotto costo”;
l2) L. GILI, La nuova offerta
economicamente più vantaggiosa e la discrezionalità
amministrativa a più fasi, in Urbanistica e appalti, 2017,
24 ss., specificamente a commento dell’art. 95 del d.lgs. n.
50 del 2016, anche alla luce delle Linee guida n. 2 del 21.09.2016, dell’ANAC (concernenti proprio il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa e la connessa
discrezionalità rimessa alla stazione appaltante);
m) le
richiamate Linee guida, in particolare, hanno precisato che:
m1) per prestazioni “a caratteristiche standardizzate”
devono ritenersi quelle che non sono modificabili su
richiesta della stazione appaltante oppure rispondono a
determinate norme nazionali, europee o internazionali;
m2)
sono ad “elevata ripetitività” quelle prestazioni che
soddisfano esigenze generiche e ricorrenti, connesse alla
normale operatività delle stazioni appaltanti, richiedendo
approvvigionamenti frequenti al fine di assicurare la
continuità della prestazione;
m3) le stesse Linee guida hanno anche precisato che la ratio
delle due ipotesi di aggiudicazione al minor prezzo, di cui
all’art. 95, comma 4, lettere b) e c), del codice del 2016,
sarebbe quella di consentire alla stazione appaltante di
evitare oneri, in termini di tempi e costi, di un confronto
concorrenziale basato sul miglior rapporto qualità e prezzo,
quando i benefici derivanti da tale confronto sono nulli o
ridotti (Consiglio
di Stato, Sez. V,
ordinanza 05.12.2023 n. 10530 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il silenzio-assenso scatta anche se l’attività del privato non è
conforme alla norma.
Pure in assenza dei requisiti di validità della domanda fissati dalla legge
e delle condizioni per ottenere legittimamente il provvedimento espresso.
Il silenzio-assenso nei confronti della Pubblica amministrazione (anche
nella materia edilizia) si rafforza sempre di più e vale anche nei casi in
cui l’attività del privato non sia conforme alle norme.
Con la
sentenza
30.11.2023 n. 10383 della IV Sez., il Consiglio di Stato
consolida la svolta operata nel 2022 (sentenza n. 5746) per cui anche in
edilizia vale il silenzio-assenso previsto dall'articolo 20 della legge
241/1990 con il solo decorso del termine a disposizione della Pa per
provvedere sull'istanza del privato. E questo, pur in assenza dei requisiti
di validità della domanda fissati dalla legge e delle condizioni per
ottenere legittimamente il provvedimento espresso.
In tale ultimo caso la Pa dovrà piuttosto adottare, in autotutela, un
provvedimento di annullamento del silenzio illegittimamente formatosi
osservando, tuttavia, i relativi presupposti previsti dall'articolo 21-nones
della legge 241/1990 e cioè il termine massimo di dodici mesi per provvedere
e soprattutto l'interesse pubblico alla rimozione di quello che è ormai un
atto formatosi. Risulterebbe invece illegittimo l'atto con cui la Pa,
tardivamente, ritenga l'istanza del privato priva dei requisiti di validità
previsti dalla normativa di settore.
In altre parole, perché si formi il silenzio-assenso invocato, per il
privato sarà sufficiente soltanto il decorso del termine assegnato all'ente
dalla normativa di riferimento per determinarsi in relazione al tipo di
istanza del privato, anche in presenza di una domanda non conforme a legge.
Sarà comunque necessario che l'istanza sia aderente al modello normativo
astratto prefigurato dal modello normativo astratto prefigurato dal
legislatore. Questo, in nome della semplificazione amministrativa e dello
snellimento burocratico, ritenuti una delle cause di mancanza di certezza
dei tempi per l'avvio di un'attività del privato, specie di quelle
produttive. Ma anche nell'ottica del principio di leale collaborazione,
legittimo affidamento e buona fede cui sono informate le relazioni tra
cittadini, operatori economici e Pubblica amministrazione ai sensi
dell'articolo 1, comma 2-bis, della legge 241/1990, come modificato dal
decreto legge Semplificazioni 76/2020.
Insomma, il silenzio-assenso è un principio generale posto a tutela della
celerità dell'azione amministrativa e della semplificazione dei rapporti con
i cittadini, principio che risponde a quello di buon andamento previsto
dall'articolo 97 della Costituzione, e la cui applicazione non può essere
subordinata alla preventiva verifica, da parte della Pa, della ricorrenza di
tutti gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo
abilitativo richiesto.
Non si tratta quindi di valutare se la domanda, in astratto, sia assentibile
in quanto in possesso di tutti i requisiti ma piuttosto se la domanda
possieda quel minimum di elementi essenziali per il suo esame e non
rappresenti erroneamente i fatti. In tali condizioni è l'Amministrazione che
deve concludere il procedimento nei tempi prefissati dalla legge.
Già in precedenza, i giudici di Palazzo Spada avevano motivato la nuova tesi
sulla base di una serie di indici normativi e cioè: l'espressa previsione di
cui all'articolo 21-nonies, comma 1 della legge 241/1990 dell'annullabilità
d'ufficio anche nel caso in cui il «provvedimento si sia formato ai sensi
dell'art. 20», che presuppone evidentemente che la violazione di legge
non incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva (secondo i
canoni generali) in termini di illegittimità dell'atto; l'articolo 2, comma
8-bis, della legge n. 241 del 1990 (introdotto dal decreto-legge n. 76 del
2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020), nella parte in cui afferma
che «Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai
pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate
dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera
c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, [] sono inefficaci, fermo restando
quanto previsto dall'articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le
condizioni», conferma che, decorso il termine, all'Amministrazione
residua soltanto il potere di autotutela; l'articolo 20, comma 2-bis,
prevedendo che «Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale
a provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli
effetti comunque intervenuti del silenzio assenso, l'amministrazione è
tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica,
un'attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto
dell'intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo»,
stabilisce, al fine di ovviare alle perduranti incertezze circa il regime di
formazione del silenzio-assenso, che il privato ha diritto ad
un'attestazione che deve dare unicamente conto dell'inutile decorso dei
termini del procedimento (in assenza di richieste di integrazione
documentale o istruttorie rimaste inevase e di provvedimenti di diniego
tempestivamente intervenuti); l'abrogazione dell'articolo 21, comma 2, della
legge n. 241 del 1990 che assoggettava a sanzione coloro che avessero dato
corso all'attività secondo il modulo del silenzio-assenso, «in mancanza
dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente»
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire in area tutelata, sì al silenzio-assenso se
c’è l’ok paesaggistico.
Il Consiglio di Stato conferma la decisione del Tar Toscana censurando un
comune che aveva preteso l’attivazione della conferenza di servizi.
Il proprietario di un edificio nel comune di Monte Argentario ha chiesto il
rilascio del permesso di costruire per un intervento in variante a un
precedente intervento già assentito. Insieme alla richiesta il proprietario
ha presentato anche la relativa autorizzazione paesaggistica, ottenuta dal
Comune stesso. Decorso il termine per il silenzio-assenso, il proprietario
ha chiesto il rilascio della relativa attestazione (ex articolo 20 del Dpr
380).
A
quel punto il Comune ha comunicato all'interessato il diniego del permesso
di costruire, sostenendo che «in presenza di beni insistenti in area
vincolata il silenzio-assenso non può formarsi, nemmeno nel caso in cui le
autorizzazioni e i nulla osta necessari siano stati già acquisiti» e che
invece
si sarebbe dovuta attivare una conferenza di servizi. Da qui il ricorso al
Tar
da parte dell'interessato.
Il primo giudice ha accolto il ricorso e ha annullato
gli atti del Comune con la pronuncia n. 79/2023. I giudici della III
Sezione
del Tar Toscana hanno osservato che effettivamente il comma 8
dell'articolo 20 del Dpr 380 «prevede la formazione del silenzio-assenso
sulle
domande di rilascio del permesso di costruire, fatti salvi i casi in cui,
per la
presenza di vincoli, la pratica edilizia debba essere corredata da
autorizzazioni e nulla osta, per l'acquisizione dei
quali si prevede l'attivazione di una conferenza di servizi ex art. 14 della
l. n. 241/1990».
Tuttavia, i giudici rilevano
anche che «nel caso in esame la domanda di permesso di costruire in variante
presentata dal ricorrente è stata
corredata da tutti i documenti prescritti dalla legge». Lo stesso
richiedente, infatti, aveva ottenuto dal Comune
l'autorizzazione paesaggistica «con la quale si attesta la compatibilità
paesaggistica e ambientale dell'intervento
con il vincolo operante sull'area».
«Non occorreva quindi acquisire alcun
ulteriore atto di assenso, da parte di altre
amministrazioni», conclude il Tar. Peraltro, aggiungono i giudici,
«l'indizione di una conferenza di servizi, in tale
contesto, non solo non avrebbe avuto alcuna utilità, ma avrebbe determinato
un ingiustificato aggravamento del
procedimento, in evidente contrasto con la finalità di semplificazione
propria degli istituti e degli strumenti previsti
dal legislatore di cui si è dato conto».
La sentenza del Tar Toscana è stata confermata anche il Consiglio di Stato
-Sez. IV-
che, con la
sentenza 21.11.2023 n. 9969
ha respinto l'appello del Comune di Monte Argentario.
A fronte del previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, dicono i
giudici di Palazzo Spada «il diniego comunale
di attestazione sull'assunto della assoluta inconfigurabilità del
silenzio-assenso per il solo fatto della pertinenza
dell'intervento ad area soggetta a vincolo rappresenta una errata
applicazione del comma 8 dell'articolo 20 del Dpr
380 e una illegittima limitazione dell'operatività dell'istituto del
silenzio-assenso, che producono l'effetto abnorme di
frustrare le finalità di semplificazione e di accelerazione dell'agire
amministrativo alla base della stessa disposizione normativa citata, nonché
le
esigenze di certezza delle situazioni giuridiche all'origine delle più
recenti modifiche apportate ad essa ed alla legge
n. 241 del 1990».
«Non può, peraltro, diversamente opinarsi -concludono i
giudici- invocando sia la disciplina
speciale scandita nella legge n. 47 del 1985 in materia di condono sia la
dequotazione della funzione della
conferenza di servizi richiamata dall'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, il
cui modulo procedimentale trova la sua
ragion d'essere nella concreta necessità di acquisire assensi e nulla osta
di altri enti affidatari di interessi pubblici
coinvolti nell'azione amministrativa».
Particolarmente severo il giudizio
sull'operato del Comune. Quest'ultimo,
rilevano i giudici, «ha basato il diniego di attestazione esclusivamente
sull'inapplicabilità del silenzio-assenso in
presenza di vincoli, senza fare alcun cenno ad altri possibili ostacoli alla
realizzazione dell'intervento di cui all'istanza
di permesso in variante, come la contrarietà al regolamento comunale, mentre
le eventuali ragioni di contrasto con
la disciplina urbanistico-edilizia avrebbero dovuto essere da esso
attentamente valutate entro il termine previsto
dalla legge per la conclusione del procedimento, rappresentando ora, per
come esposte, in mancanza di qualsiasi
esercizio del potere di autotutela contro il provvedimento formatosi per
silentium, un'inammissibile motivazione postuma» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.11.2023). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Concorsi, diritto d’accesso alle videoregistrazioni degli orali
in meeting room.
In quanto documento informatico detenuto da una Pa e concernente attività
pubblicistica dalla stessa posta in essere.
La nozione di documento amministrativo ai sensi della storica disciplina
sull’accesso agli atti ricomprende anche le riproduzioni audio o audiovideo
della prova orale di un pubblico concorso nel caso in cui siano state
effettuate.
A ciò conseguendo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 17.11.2023 n. 9896 che essendo la prova orale
riconducibile al procedimento selettivo, la sua riproduzione deve ritenersi
accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una Pa e
concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere. E senza che
possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di
documenti non aventi a oggetto un tradizionale atto o incartamento formato
dalla Pa.
Per il massimo giudice amministrativo la normativa è infatti assolutamente
esplicita nel riferirsi a documentazione che sia anche solo detenuta e non
necessariamente compilata dalla Pa.
Peraltro, a ben vedere, le prove concorsuali orali sono certamente atti del
procedimento selettivo al pari delle prove scritte; pertanto, così come è
consentito l'accesso a queste ultime, allo stesso modo non si vede perché
non debbano esserlo anche a quelle orali, qualora siano state
videoregistrate o comunque memorizzate.
Il ricorrente in qualità di lavoratore socialmente utile della cosiddetta
platea storica aveva partecipato alle prove selettive da bando. Nella
vicenda il disciplinare della procedura concorsuale riservata ai Lsu aveva
attribuito a un istituto in controllo pubblico il compito di assistere le
amministrazioni interessate nello svolgimento delle procedure concorsuali;
mettendo a disposizione delle Commissioni esaminatrici il portale delle
candidature e apposite meeting room (stanze virtuali) per lo svolgimento
della prova orale.
Fornendo, oltre all'assistenza per la prova, anche un manuale d'uso della
procedura telematica secondo quanto previsto dal formulario tecnico della
procedura selettiva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
Secondo il Consiglio di Stato anche con riferimento alle riproduzioni audio
e video delle prove orali, sussiste l'interesse concreto del candidato di
accedervi per specifiche esigenze difensive; dovendo peraltro riconoscersi
nella maggioranza dei casi l'inesistenza di motivi ostativi all'ostensione.
Su queste basi il giudice amministrativo ha pertanto consentito al
ricorrente di accedere -a sue spese- a un campione significativo delle
riproduzioni audio e audiovideo delle prove orali dei candidati collocati
utilmente in graduatoria; che tuttavia egli stesso dovrà indicare, fino a un
numero massimo di dieci prove d'esame, alle Amministrazioni intimate e
detenenti la documentazione.
A giudizio del Collegio di palazzo Spada la speciale documentazione in
argomento non ottenuta dall'interessato con le istanze presentate alla Pa
non può essere sottratta all'accesso richiesto, sussistendo l'evidente
collegamento tra l'interesse alla conoscenza del candidato che richiede la
visione e la documentazione oggetto della relativa istanza (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 09.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Esposito,
Diritto di panorama, godere di una bella vista da casa è un
diritto inviolabile: ecco come puoi difenderlo e in quali
casi.
Il diritto di panorama consente al
proprietario dell’immobile di godere della vista panoramica
dalla propria abitazione. Vediamo come funziona e quali
differenze esistono rispetto al diritto di veduta.
È noto che le abitazioni che hanno una veduta panoramica
sono generalmente più apprezzate, tanto da avere un valore
maggiore anche sul mercato immobiliare.
In quest’ottica, il c.d. “diritto di panorama” non
solo esiste, ma può essere tutelato dal proprietario
dell’abitazione ogniqualvolta –soprattutto in contesti
urbani– subisca delle limitazioni derivanti, ad esempio,
dalla costruzione di edifici vicini o dalla presenza di
alberature.
Ma andiamo con ordine.
Il nostro Codice Civile, in realtà, non riconosce
espressamente il diritto di panorama: si tratta, infatti, di
una figura di elaborazione giurisprudenziale.
L’origine del diritto di panorama può essere ricondotta,
infatti, ad una interpretazione “estensiva” dell’art.
907 c.c. che regola il diritto di veduta, ossia il
diritto del proprietario di un fondo (termine, questo, che
ricomprende anche le abitazioni) di affacciarsi su quello
del vicino senza incontrare ostacoli prima di una
determinata distanza (c.d. distanza legale).
Viceversa, il diritto di panorama è decisamente più ampio: è
il diritto di guardare verso l’orizzonte senza incontrare
ostacolo alcuno in modo da avere –appunto– pieno godimento
del panorama.
Il diritto di panorama, al pari del diritto di veduta, si
configura come una servitù negativa.
In generale, l’art.
1027 c.c. definisce la servitù come il peso o la
limitazione imposta ad un fondo, detto servente, per
l’utilità di un altro fondo, detto dominante, che appartiene
ad un’altra persona.
In particolare, poi, la “servitù negativa” derivante
dal diritto di panorama (e di veduta) implica che il
proprietario del fondo dominante ha il potere di vietare al
proprietario del fondo servente la realizzazione di opere
permanenti che possano pregiudicare la particolare visuale e
attrattiva dell’immobile.
Come sopra accennato, il diritto di panorama è di creazione
giurisprudenziale. È necessario, quindi, prendere le mosse
dalle sentenze che lo hanno riconosciuto al fine di
individuare i requisiti necessari per la sua esistenza.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile con la recente
ordinanza 22.06.2023 n. 17922,
ha ribadito che il diritto di panorama, inteso come servitù
negativa, può essere acquistato
(i) per contratto,
(ii) per destinazione del padre di famiglia e
(iii) per usucapione,
necessitando ai fini dell’accertamento della sua
costituzione “non solo della destinazione conferita
dall’originario unico proprietario o dell’esercizio
ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, ma
anche della dimostrazione di opere visibili e permanenti
ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta”.
Quindi, come ci si può tutelare in presenza di costruzioni
e/o alberature che ledano il diritto di panorama?
Innanzitutto il titolare del diritto di panorama
(proprietario del fondo dominante) potrà richiedere al
proprietario del fondo servente di rispettare il proprio
diritto, invitandolo a far cessare la turbativa (ad esempio,
potando o spostando gli alberi che ostacolano il panorama).
In assenza di uno spontaneo riscontro, tuttavia, l’unica
strada da intraprendere rimane quella giudiziale.
In tal senso, l’art.
1079 c.c. prevede che “il titolare della servitù può
farne riconoscere in giudizio l'esistenza contro chi ne
contesta l'esercizio e può far cessare gli eventuali
impedimenti e turbative. Può anche chiedere la rimessione
delle cose in pristino, oltre al risarcimento dei danni”.
L’onere probatorio, quindi, è posto a carico del
proprietario del fondo dominante che dovrà dimostrare sia
l’esistenza del diritto di panorama, sia l’esistenza sul
fondo servente di opere permanenti e visibili ulteriori che
pregiudicano il godimento della vista panoramica.
...
Articoli correlati
Art. 907 Codice Civile - Distanza delle costruzioni
dalle vedute
Art. 1027 Codice Civile - Contenuto del diritto
Art. 1079 Codice Civile - Accertamento della servitù e
altri provvedimenti di tutela (03.02.2024 -
tratto da e link a www.brocardi.it).
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ORDINANZA
3.– Con il secondo motivo la ricorrente si duole,
ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della
violazione o falsa applicazione degli artt. 1058 e 1061 c.c.
nonché dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale
ritenuto integrata la lesione di un non meglio specificato
diritto alla vista del panorama –diritto di servitù ben
distinto da quello di veduta–, pur essendo mancato, in
entrambi i gradi di giudizio, qualsiasi accertamento in
ordine ai fatti costitutivi di tale presunta servitù, sia
quanto alla sua costituzione per contratto, sia quanto alla
sua costituzione per usucapione o per destinazione del padre
di famiglia.
Obietta, ancora, l’istante che, a monte, non sarebbero stati
mai nemmeno allegati i fatti costitutivi di tale servitù di
panorama a cura della Cu., non esistendo alcun titolo, né
negoziale né di altro tipo, da cui si potesse ricavare
l’esistenza di una simile servitù.
D’altronde, secondo la ricorrente, l’esistenza della servitù
di panorama non si sarebbe potuta desumere dalla particolare
amenità del luogo in cui si trovava la proprietà Cu., ovvero
Positano, una delle più belle e caratteristiche località
della costiera amalfitana.
Osserva, in ultimo, l’istante che, in ordine al ben distinto
diritto di veduta, sarebbe già passata in giudicato
l’affermazione circa l’inesistenza della violazione di cui
all’art. 907 c.c.
3.1.– La doglianza è fondata.
Ora, la panoramicità del luogo consiste in una situazione di
fatto derivante dalla bellezza dell’ambiente e dalla visuale
che si gode da un certo posto, che può trovare tutela nella
servitù altius non tollendi, non anche nella servitù
di veduta, che garantisce il diritto affatto diverso di
guardare e di affacciarsi sul fondo vicino (Cass. Sez. 2,
Ordinanza 14.05.2019 n. 12793;
Sez. 1,
Sentenza 26.05.2017 n. 13368;
Sez. 2, Sentenza n. 8518 del 31/03/2017; Sez. 2, Sentenza n.
2973 del 27/02/2012; Sez. 2, Sentenza n. 8572 del
12/04/2006).
La servitù di veduta panoramica è configurata, pertanto,
quale servitù volta ad assicurare la particolare amenità del
fondo dominante per la visuale di cui esso gode, con
impedimento della costruzione di opere in assoluto, o oltre
determinate soglie, attraverso parte o tutto il fondo
servente, in ciò differenziandosi dalla servitù di veduta,
che invece è compatibile con la costruzione di opere a
distanza legale.
Il diritto di veduta panoramica si risolve, dunque, –secondo
la giurisprudenza– in una servitù, in ragione dei casi,
non aedificandi o altius non tollendi (Cass. Sez.
2, Sentenza n. 1206 del 13/02/1999; Sez. 2, Sentenza n.
10250 del 20/10/1997; Sez. 2, Sentenza n. 6683 del
13/06/1995).
Nondimeno, il diritto di veduta consistente nella fruizione
di un piacevole panorama –che si pretende, nella
fattispecie, leso dalla collocazione di una pensilina in
plastica, posta sul terzo livello del fabbricato, a
copertura di un sottostante balcone, con relativa turbativa
del diritto di fruire della vista del panorama di Positano–
esige che di esso sia previamente accertata l’esistenza.
Ebbene, la veduta panoramica può essere acquistata, oltre
che in via negoziale (a titolo derivativo), anche per
destinazione del padre di famiglia o per usucapione (a
titolo originario), necessitando, tuttavia, tali modi di
costituzione non solo, a seconda dei casi, della
destinazione conferita dall’originario unico proprietario o
dell’esercizio ultraventennale di attività corrispondenti
alla servitù, ma anche di opere visibili e permanenti,
ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta.
Nella fattispecie, di tali modi di acquisto la sentenza
d’appello non dà atto, sicché essa deve essere cassata.
E ciò perché l’esistenza del diritto di veduta del panorama
non può essere riconosciuta, indicandone la fonte nella mera
preesistenza della visuale rispetto all’opera contestata.
Ove bastasse, ai fini di ritenere validamente costituita la
servitù di veduta panoramica, la mera esistenza in fatto di
detta veduta, prima che l’opera contestata ne compromettesse
l’esercizio, sarebbe leso il principio della tipicità dei
modi di acquisto dei diritti reali.
Dovrà essere il Giudice del rinvio a verificare se sia stato
o meno dimostrata in atti la legittima costituzione di tale
diritto di veduta panoramica. |
VARI: Il
figlio non va mantenuto oltre i 34 anni anche se disoccupato.
La corte fissa la «dead line» oltre la quale per nessun motivo il giovane ha
diritto all'assegno da parte del genitore: non dovrà mantenerlo, infatti,
oltre i 34 anni, e ciò anche se è disoccupato.
Con l'ordinanza
10.01.2023 n. 358, i
giudici della Corte di Cassazione, Sez. I civile, hanno accolto il ricorso di un padre che si opponeva all'obbligo di
mantenere la figlia ultraquarantenne.
Ai fini del riconoscimento dell'obbligo di mantenimento dei figli
maggiorenni non indipendenti economicamente, il giudice di merito è tenuto a
valutare, con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto
all'età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del
suddetto obbligo o l'assegnazione dell'immobile, fermo restando che tale
obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo, poiché
il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un
progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue
capacità, inclinazioni e aspirazioni
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.01.2024).
---------------
MASSIMA
È principio di diritto quello secondo cui, in tema di filiazione, la
maggiore età, tanto più quando è matura, implichi l'insussistenza del
diritto al mantenimento.
La capacità di mantenersi e l'attitudine al lavoro sussistono sempre, in
sostanza, dopo una certa età (34 anni), che è quella tipica della
conclusione media di un percorso di studio anche lungo, purché proficuamente
seguito, e con la tolleranza di un ragionevole tasso di tempo ancora per la
ricerca di un lavoro.
Sicché, è onere del figlio maggiorenne ormai divenuto adulto provare non
solo la mancanza di indipendenza economica che è la pre-condizione del
diritto preteso, ma anche di avere curato, con ogni possibile impegno, la
ricerca di un lavoro
(tratta da www.ordineavvocatinapoli.it) |
URBANISTICA:
Osserva la Corte costituzionale come la
pianificazione sia diretta, “al di là di letture
minimalistiche”, “non solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli, ma anche allo sviluppo complessivo e
armonico del territorio, nonché a realizzare finalità
economico-sociali della comunità locale, in attuazione di
valori costituzionalmente tutelati”.
La Corte Costituzionale ricorda, quindi, come la
pianificazione serva a realizzare lo sviluppo complessivo ed
armonico nel rispetto dei valori costituzionali tra i quali
vi sono certamente, in linea generale, le esigenze di tutela
di valori ambientali e anche di contrasto ai cambiamenti
climatici.
Difatti, secondo la più recente evoluzione
giurisprudenziale, all’interno della pianificazione
urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di
evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un
equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
---------------
2.2. Col secondo motivo, rubricato (“eccesso di
potere per violazione, falsa, mancata e/o sviata
applicazione dei principi sulla riduzione del consumo di
suolo libero di cui agli artt. 1 e 2 della l.r. 28.11.2014,
n. 31 – contraddittorietà tra atti amministrativi -
travisamento dei fatti – difetto assoluto di istruttoria –
illogicità - difetto ed erroneità della motivazione”),
si deduce il travisamento dei fatti e difetto di istruttoria
perché il Comune non avrebbe considerato la reale situazione
effettiva delle aree, caratterizzate dalla presenza di
inerti e dalla necessità di effettuare opere di bonifica.
Inoltre, il Comune avrebbe fatto erronea applicazione della
L.R. n. 31/2004 e non avrebbe considerato che il consumo di
suolo si determinerebbe solo nel caso di trasformazione per
la prima volta di una superficie agricola, mentre l’area dei
ricorrenti –in quanto compromessa– avrebbe dovuto essere
considerata come “suolo già consumato”.
...
4. Parimenti infondato è il secondo motivo, con cui
si deduce il travisamento dei fatti poiché, essendo l’area
occupata da inerti e necessitante una bonifica, il Comune
non avrebbe potuto attribuire una destinazione a verde
all’area e avrebbe anzi dovuto considerarla come “suolo
già consumato” ai sensi della L.R. n. 31/2004.
4.1. Come il TAR ha già avuto modo di osservare in relazione
al medesimo Pgt del Comune di Milano (cfr. sentenza Sez. II,
10.01.2022, n. 45), “la Relazione al D.d.P. del P.G.T.
offre esaustive spiegazioni della scelta di politica
urbanistica intrapresa sul tema del contenimento del consumo
del suolo e sull’incremento delle aree verdi.
In particolare, il Piano ‘non genera nuove volumetrie
rispetto al PGT 2012, ma tutela 1,7 milioni di m² dalla
possibile urbanizzazione attraverso il ridimensionamento
delle previsioni insediative e il vincolo a destinazione
agricola di 3 milioni di m² (metà delle quali sottratte a
nuova edificazione), riducendo così del 4% il consumo di
suolo’. L’obiettivo dell’Amministrazione è quello di
‘costruire e rafforzare reti e relazioni ambientali che,
mediante politiche di risparmio di suolo e di paziente
riconquista di quello già sfruttato, si insinuano tra il
costruito attraverso interventi puntuali di riconnessione di
spazi pubblici e privati, di riforestazione, di
‘rigenerazione ambientale’ di luoghi degradati e
frammentati’ […].
Le esigenze di tutela ambientale non involgono solo il tema
del consumo del suolo ma assumono anche una prospettiva più
ampia mirando ‘alla riduzione e minimizzazione delle
emissioni di carbonio, [al] miglioramento del drenaggio e
microclima urbano, [alla] realizzazione di infrastrutture
verdi con l’obiettivo di ridurre l’immissione di acque
meteoriche nel sistema fognario, la mitigazione delle isole
di calore e l’innalzamento degli standard abitativi agendo
sull’aumento del verde urbano’ […]. L’utilizzo della
pianificazione urbanistica per il raggiungimento di tali
obiettivi non è, certo, un fuori d’opera”.
4.2. Al contrario, osserva la Corte costituzionale come la
pianificazione sia diretta, “al di là di letture
minimalistiche”, “non solo alla disciplina coordinata
della edificazione dei suoli, ma anche allo sviluppo
complessivo e armonico del territorio, nonché a realizzare
finalità economico-sociali della comunità locale, in
attuazione di valori costituzionalmente tutelati (da ultimo,
Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 09.05.2018, n.
2780, 22.02.2017, n. 821 e 10.05.2012, n. 2710)” (Corte
Costituzionale, sentenza 16.07.2019, n. 179).
La Corte Costituzionale ricorda, quindi, come la
pianificazione serva a realizzare lo sviluppo complessivo ed
armonico nel rispetto dei valori costituzionali tra i quali
vi sono certamente, in linea generale, le esigenze di tutela
di valori ambientali e anche di contrasto ai cambiamenti
climatici, come esposto, del resto, dalla giurisprudenza
della Sezione (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia
– sede di Milano, Sez. II, 29.5.2020, n. 960; id.,
14.11.2020, n. 2491).
Difatti, secondo la più recente evoluzione
giurisprudenziale, all’interno della pianificazione
urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di
evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un
equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi
(Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656; TAR per la
Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 14.02.2020, n. 309).
4.3. In quest’ottica, la censura non deve essere accolta, in
quanto la pianificazione si pone in linea con strategie più
ampie di tutela dei valori richiamati. Infatti, lo strumento
approvato prevede “la riduzione della superficie
urbanizzabile da circa 3,5 mln di m² a circa 1,8 mln di m²,
con un risparmio di suolo pari a circa 1,7 mln di m²”.
Ciò comporta “una consistente riduzione dell’indice di
consumo di suolo, che scende al 70%, quattro punti
percentuali in meno rispetto alle previsioni del PGT 2012”.
Tale riduzione scaturisce anche “dall’eliminazione degli ATU
e dal sensibile ridimensionamento delle previsioni legate ai
PA Obbligatori”.
Le linee generali del piano trovano, quindi, specifica
declinazione ed attuazione con riferimento al comparto in
esame, ove la presenza della “pertinenza indiretta” è
funzionale alla realizzazione dell’area ecologica proprio
perché volta all’acquisizione di un’area inquinata e alla
sua trasformazione in area a verde fruibile, congiungendo in
continuità l’area verde di collegamento tra il Parco Nord e
i Giardini di Via Pedroni e il Parco di Villa Litta (in cui
l’area di proprietà dei ricorrenti è rappresenta quale verde
di nuova previsione nella parte inferiore del NIL Affori).
A fronte di ciò, la riconversione di aree già urbanizzate in
suolo libero non può, quindi, considerarsi estranea alle
ragioni su cui riposano le previsioni contenute nella L.r.
n. 31/2014 in quanto le esigenze ambientali non sono
preservate solo mediante il riuso del patrimonio esistente
ma anche (se non a fortiori) mediante la restituzione
a superficie libera di una superficie già consumata (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.09.2022 n. 2053 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi,
la prescrizione del reato «abbatte» l'ordine di demolizione.
L'estinzione del reato comporta come conseguenza la dichiarazione di revoca
dell'ordine di demolizione. Sono definibili abusi edilizi gli «interventi
eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali».
Definizione
Più precisamente, l'articolo 31 del Dpr 380 del 2001 definisce gli abusi
edilizi quali gli: «interventi eseguiti in totale difformità dal permesso
di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio
integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o
di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione
di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire
un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed
autonomamente utilizzabile».
Sospensione
L'azione penale relativa alle violazioni edilizie, va detto, che rimane
sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di
sanatoria, eventualmente, intrapresi. Il rilascio in sanatoria del permesso
di costruire, infatti, estingue i reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti.
Azione penale
Per le opere abusive di cui trattasi, ad ogni buon conto, è previsto che il
giudice penale, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo
44 del Dpr 380/2001, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non
sia stata altrimenti eseguita.
La sentenza
Ora, la Corte di Cassazione - Sez. III penale, con la
sentenza
12.03.2021 n. 9915, ha ribadito il principio per cui l'estinzione per
prescrizione del reato di costruzione abusiva dichiarata dal giudice
dell'appello comporta come conseguenza la dichiarazione di revoca
dell'ordine di demolizione impartito con la sentenza di primo grado.
Il meccanismo
Tale meccanismo si applica alle sole sentenze di condanna per il reato di
cui all'articolo 44 del Testo unico edilizia, come disposto dall'articolo
31, comma 9, del citato testo normativo (in punto si veda, Corte di
Cassazione 8409/2007 del 30.11.2006).
Conclusione
Nel caso trattato -in effetti, per come è dato leggere- la sentenza
impugnata aveva omesso di disporre, a fronte della intervenuta estinzione
del reato di cui all'articolo 44 citato, la revoca dell'ordine di
demolizione e la restituzione in pristino dello stato dei luoghi.
Pe cui, a
fronte di quanto sopra, il giudice di legittimità ha, in punto, annullato
senza rinvio limitatamente alla mancata revoca la già menzionata misura
demolitoria e disposto di conseguenza
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 15.03.2021). |
AGGIORNAMENTO AL 30.01.2024 |
"Un uomo non
muore mai se c’è qualcuno che lo ricorda." |
(Ugo Foscolo) |
30.01.2021
- 30.01.2024 |
Avv. Mario VIVIANI |
|
Repressione abusi edilizi:
i Responsabili dell'Ufficio Tecnico e
della Polizia Locale, nonché i Segretari Comunali, si premurino
di leggere attentamente e memorizzare per bene la recentissima "direttiva"
della Procura della Repubblica di Bergamo (qui sotto riportata) tenuto conto che "La
mancata, scorretta o parziale ottemperanza alla direttiva de qua
costituisce intralcio all’attività dell’Autorità Giudiziaria e,
come tale, verrà valutata dal Magistrato titolare del
procedimento in ordine ad eventuali responsabilità penali e/o
disciplinari". |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: direttive di intervento in materia edilizio-urbanistica (D.P.R.
380/2001), vincoli paesaggistici e storico-architettonici (D.Lgs 42/2004 e
L. 22/2022) e aree protette (L. 394/1991) (PROCURA della Repubblica di
Bergamo,
nota 24.01.2024 n. 218 di prot.).
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Sommario
1. Premessa - 2. Contenuti, tempistica e modalità di
deposito della comunicazione di notizia di reato - 3. Attività d’indagine
d’iniziativa - 4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero - 5.
Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine - 6. Reati
di “falso” in ambito edilizio, ambientale e paesaggistico - 7. Gli “elenchi
mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 - 8. La comunicazione di avvio
del procedimento - 9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R.
380/2001 e l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma
1-quater, D.Lgs. 42/2004 - 10. Gli interventi di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi - 11. La segretezza delle indagini di polizia
giudiziaria, nonché delle informazioni e della documentazione contenute
nelle CNR - 12. Conclusioni
1. Premessa
La gestione delle comunicazioni di notizia di reato
attinenti agli ambiti richiamati all’oggetto crea, a volte, disguidi.
Vengono, infatti, periodicamente riscontrate problematiche inerenti allo
svolgimento delle indagini di polizia giudiziaria e agli accertamenti
tecnici, nonché relative alle modalità di inoltro delle comunicazioni di
notizia di reato.
In particolare, continuano a pervenire, a volte da parte della
Polizia Locale a volte da parte dell’Ufficio Tecnico, isolate ordinanze di
sospensione lavori o di demolizione o isolati permessi a costruire in
sanatoria, comunicazioni prive addirittura delle complete generalità dei
soggetti denunciati, senza l’indicazione del numero di procedimento a cui
fanno riferimento, in assenza di qualsivoglia atto di indagine o, comunque,
in mancanza di una comunicazione di notizia di reato completa, ossia redatta
con i contenuti espressamente indicati all’art. 347 c.p.p..
Ciò comporta la moltiplicazione dei fascicoli inerenti al medesimo
fatto-reato e, soprattutto, una dispersione di energie e risorse perché, in
mancanza delle necessarie indagini, che il Magistrato sarà costretto a
disporre, non sarà possibile definire celermente il procedimento, con
fondato rischio di prescrizione del reato e, quindi, di vanificazione del
lavoro di tutti.
Lo scopo di questa direttiva è, quindi, quello di regolamentare il
flusso delle c.n.r. ed evitare che pervengano alla Procura della Repubblica
segnalazioni incomplete o improprie, ovvero la duplicazione delle stesse.
Pertanto, la presente direttiva viene trasmessa a tutti gli Enti e
Organi competenti negli ambiti di cui all’oggetto.
La presente direttiva fa, ovviamente, principale riferimento al
Comune e ai suoi Organi e Uffici. Ognuno degli altri Enti in indirizzo
individuerà i propri paralleli Organi e Uffici competenti.
La necessità di ultimare le indagini entro tempi prestabiliti, di
approfondirle attraverso eventuali consulenze tecniche, i brevissimi tempi
di prescrizione del reato e l’aggravio di lavoro per la Segreteria del
Magistrato che la circolazione della corrispondenza comporta,
impongono
l’adozione di precise regole di carattere generale.
Pertanto, ritengo utile inoltrare la presente direttiva anche alle
Autorità territorialmente competenti in ordine ai Comuni attribuiti alla
giurisdizione della Procura della Repubblica di Bergamo.
La presente direttiva viene emessa ai sensi del
D.Lgs. 20.02.2006
n. 106.
2. Contenuti, tempistica e modalità di deposito della
comunicazione di notizia di reato
La comunicazione della notizia di reato (di seguito
denominata CNR) deve pervenire alla Procura della Repubblica esclusivamente
da parte di un organo di polizia giudiziaria, completa anche di ogni atto
investigativo utile: pertanto, in ambito comunale, procederà unicamente la
Polizia Locale e a essa si rivolgerà, quindi, il personale degli Uffici
Tecnici ai sensi dell’art. 331, commi 1 e 2, c.p.p..
Le CNR e i seguiti devono essere caricati sul Portale NdR.
Il personale degli Uffici Tecnici comunali è tenuto a collaborare e
a fornire alla Polizia Locale tutti i dati tecnici, le informazioni e la
documentazione di cui dispone: in particolare, stilerà un’apposita relazione
contenente la descrizione tecnica e la qualificazione urbanistico-edilizia
delle opere abusive, la loro conformità agli strumenti urbanistici e la loro
eventuale sanabilità, l’indicazione circa l’eventuale titolo abilitativo che
avrebbero richiesto per essere regolarmente eseguite, la zonizzazione
dell’area nella quale sono state realizzate e la presenza di eventuali
vincoli ambientali, paesaggistici, storico-architettonici, l’identificazione
catastale delle predette aree e della relativa proprietà, la presenza in
Comune di eventuali precedenti pratiche ecc. Fornirà, altresì, il
certificato di destinazione urbanistica dei mappali sui quali insistono gli
abusi. In caso di rifiuto o ritardo nella collaborazione da parte del
personale degli Uffici Tecnici comunali la Polizia Locale procederà alla
nomina dello stesso quale ausiliario di p.g. ex
art. 348, comma 4, c.p.p.
e
comunicherà tempestivamente dette omissioni al Pubblico Ministero per le
valutazioni di sua competenza in ordine alla eventuale responsabilità
penale.
La CNR deve pervenire completa, in ogni sua parte, dei dati
essenziali successivamente indicati. Qualora non sia possibile inoltrarla da
subito completa di tutti i dati essenziali verrà inviata una prima
comunicazione alla quale dovrà seguire, nel più breve tempo possibile, la
documentazione completa. Nel seguito dovrà, in tal caso, essere sempre
chiaramente indicato, in grassetto e nella parte alta della prima pagina,
che si tratta di “SEGUITO” e il numero del procedimento penale
(ricavabile anche tramite il numero di NDR).
La CNR deve pervenire all’Autorità Giudiziaria senza ritardo, ai
sensi dell’art. 347 c.p.p.. La locuzione utilizzata dal legislatore consente,
in termini generali, di posticipare il deposito di qualche giorno, a volte
di qualche settimana, rispetto alla data di acquisizione della notitia
criminis, a seconda della complessità degli accertamenti da compiere.
Mai, però, giustifica il deposito con mesi o, addirittura, anni di ritardo.
Richiamo l’attenzione sulla possibile rilevanza penale e disciplinare in
caso di omessa o ritardata denuncia ex artt.
361 c.p. e
16 e ss. disp. att.
c.p.p..
In caso di atti urgenti che richiedono convalida da parte del
Pubblico Ministero i relativi verbali, corredati della relativa CNR, devono
essere trasmessi alla Procura della Repubblica entro 48 ore dal compimento
dell’atto medesimo a mezzo APU.
Il documento che contiene la CNR non potrà ordinariamente essere
utilizzato dal Giudice nel dibattimento, cosicché le notizie rilevanti
dovranno essere trasfuse anche nel verbale di sopralluogo che, quale atto
irripetibile ex artt.
354 c.p.p. e
113 disp. att. c.p.p., ha invece ingresso
nel fascicolo del dibattimento e può essere preso in considerazione dal
Giudice.
È necessario numerare le pagine che compongono il fascicolo ed
evitare di allegare fotografie in bianco e nero che, spesso, non sono in
grado di assolvere al loro compito (ossia di consentire, al Pubblico
Ministero prima e al Giudice poi, di apprezzare la reale consistenza degli
abusi accertati).
Non devono pervenire alla Procura della Repubblica CNR relative ad
abusi edilizi non penalmente rilevanti poiché, per esempio, puniti con mera
sanzione amministrativa.
Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a
più abusi commessi da soggetti diversi, a meno che si tratti di un unico
cantiere.
Elementi essenziali della CNR sono i seguenti:
a) Indicazione delle generalità dei responsabili
Costoro sono, di regola,
individuabili, ai sensi dell’art. 29 D.P.R. 380/2001, nel committente, nel
titolare del titolo abilitativo (qualora rilasciato), nel progettista, nel
costruttore e nel direttore dei lavori (se esistenti). Altri soggetti
possono, ovviamente, concorrere nel reato secondo i principi generali del
diritto penale (ad esempio, il proprietario del terreno, se non dimostra la
propria estraneità ai fatti).
Tali soggetti vanno tutti identificati compiutamente e, se trattasi
di persone giuridiche, va individuato e generalizzato il legale
rappresentante pro-tempore (riferito all’epoca del commissi delicti),
acquisendo la documentazione relativa alla posizione assunta all’interno
dell’ente (visura CCIAA), nonché eventuali deleghe di responsabilità ad
altri soggetti (procure notarili, scritture private ecc.). A carico di tutti
i soggetti indicati si procederà con redazione del verbale di
identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore
di fiducia o designazione del difensore d’ufficio, informazioni sul diritto
alla difesa.
b) Breve descrizione dell’abuso accertato
Va tenuto presente che il Pubblico Ministero deve fornire una
esauriente descrizione dei lavori abusivi nel capo di imputazione.
Ciò non è possibile qualora gli stessi vengano indicati in CNR con
frasi generiche tipo “ampliamento ala ovest di manufatto preesistente come
riportato in colore rosso nell’allegata planimetria”, ovvero “realizzazione
di più manufatti in tempi diversi su area di proprietà”.
È, pertanto, necessario che la descrizione riportata nella CNR sia
sintetica ma esauriente, ad esempio “realizzazione di un manufatto in
muratura con copertura in legno di m. 2,00x 3,00 x 2,50 h massima”, oppure
“demolizione e ricostruzione di preesistente edificio ad uso abitazione di mc complessivi 650”, oppure “modifica della destinazione d’uso di manufatto
da stalla ad abitazione mediante esecuzione di opere consistenti in
variazione del distributivo interno e suddivisione in due piani in contrasto
con lo strumento urbanistico e mediante corresponsione di oneri di
urbanizzazione in misura inferiore al dovuto (€ 3.000 in luogo di €
15.000)”, o altre simili.
Se si tratta di più violazioni esse andranno indicate con
numerazione progressiva, in modo tale da essere facilmente individuate.
c) Altre informazioni sull’abuso
Va specificato, previo accertamento da effettuarsi dal personale
dei competenti Uffici Tecnici comunali, se le opere denunciate come abusive
siano state eseguite in assenza di permesso di costruire (o di altro titolo
abilitativo), ovvero in variazione essenziale o difformità totale dallo
stesso (indicandone gli estremi) nonché, nel caso, quale eventuale titolo
abilitativo avrebbero richiesto per essere regolarmente realizzate.
È importante, inoltre, specificare se le opere realizzate rientrino
tra quelle sottoposte alla normativa in materia di strutture in conglomerato
cementizio armato, indicando in modo specifico eventuali violazioni.
d) Indicazione della presenza di vincoli
Tale informazione è di particolare importanza in quanto rende
possibile l’esatta qualificazione giuridica del fatto denunciato. I vincoli
che assumono rilevanza sono quelli paesaggistici e storico-architettonici la
cui inosservanza costituisce violazione anche del D.Lgs. 42/2004.
È essenziale indicare anche gli estremi del vincolo, tenendo
presente che il semplice riferimento alla legge, senza ulteriore
precisazione, non ha alcuna utilità. Vanno, quindi, indicati gli estremi
esatti dell’atto d’imposizione del vincolo (Decreto Ministeriale,
disposizione di legge con articolo e comma ecc.).
Evidenzio che taluni abusi realizzati in area vincolata configurano
delitto e non contravvenzione secondo quanto disposto dall’articolo 181,
comma 1-bis, D.Lgs. 42/2004, con evidenti conseguenze ed è, quindi,
indispensabile che le relazioni degli Uffici Tecnici comunali, allegate alla CNR, contengano esplicite indicazioni circa la sussistenza di tali
fattispecie (per esempio quantificazione della cubatura illecita ecc.).
Inoltre, segnalo che sono stati recentemente introdotti nel codice penale,
con L. 09.03.2022 n. 22, gli artt.
518-duodecies e
518-terdecies, aventi
rispettivamente ad oggetto “Distruzione, dispersione, deterioramento,
deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o
paesaggistici” e “Devastazione e saccheggio di beni culturali e
paesaggistici”.
Va, altresì, segnalata la presenza di eventuali ulteriori e diversi
vincoli, quale quello ambientale ai sensi della legge sulle aree naturali
protette (Legge 394/1991). Il vincolo ambientale e quello paesaggistico sono
tra loro diversi e i rispettivi reati previsti in caso di violazione
concorrono tra loro e con quelli edilizi.
e) Classificazione urbanistica dell’area e compatibilità
dell’intervento con la stessa
Anche tale informazione è
essenziale per la qualificazione giuridica del fatto. Occorre indicare la
destinazione urbanistica dell’area ove insiste l’abuso e la conformità di
quanto realizzato con la normativa urbanistica e con gli strumenti
urbanistici locali.
Tale particolare, giova ricordarlo, serve anche per
verificare le eventuali illegittimità e illiceità di titoli abilitativi
(anche in sanatoria) eventualmente rilasciati dalla struttura comunale.
f) Data e luogo del fatto
Il luogo ove insiste l’abuso
va indicato con gli estremi del foglio e del mappale catastale o, in
mancanza, con via e numero civico, ovvero con ogni altra indicazione utile
all’individuazione del luogo del commesso reato.
La data di consumazione del reato coincide con quella di
sospensione effettiva dei lavori, ovvero di ultimazione degli stessi.
A tale proposito giova ricordare che, per costante giurisprudenza,
l’ultimazione dei lavori coincide con il completamento dell’intero manufatto
in ogni sua parte, ivi comprese le finiture, gli infissi, la tinteggiatura
ecc. Non è, pertanto, sufficiente la copertura del fabbricato al grezzo.
Ricordo, inoltre, che la data di ultimazione dei lavori è cosa
diversa dalla data di accertamento del fatto.
L’accertamento della data di ultimazione dei lavori, indispensabile anche ai
fini del calcolo dell’eventuale prescrizione del reato, andrà eseguito
attraverso l’acquisizione di dichiarazioni di eventuali persone informate
sui fatti (vicini, esponenti ecc.) ex
art. 351 c.p.p. (che, in quanto tali,
hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità), l’acquisizione di
pregressi rilievi fotografici o aerofotogrammetrici, l’acquisizione di
contratti di forniture, la pregressa conoscenza diretta dei luoghi da parte
degli operanti o del personale tecnico comunale ecc.
In nessun caso può
considerarsi sufficiente la mera dichiarazione degli indagati (che, in
quanto tali, non hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità).
g) Persone in grado di riferire
Vanno indicati tutti i
possibili soggetti informati sui fatti. Quando si tratta del personale di
polizia giudiziaria che ha proceduto all’accertamento lo stesso non va
indicato genericamente con espressioni tipo “i verbalizzanti”, ma occorre
inserire nome, cognome e qualifica.
Per gli altri soggetti indicare, oltre al nome cognome e indirizzo,
anche l’eventuale qualifica come, ad esempio, “ausiliario di p.g.”, “tecnico
comunale”, “denunciante” ecc.
3. Attività d’indagine d’iniziativa
L’attività d’indagine d’iniziativa non può essere limitata ai soli
interventi espletati a seguito di denuncia di privati ma deve essere il
risultato di un effettivo, costante e capillare controllo del territorio di
competenza.
Infatti, il combinato disposto degli
artt. 27, 31 e 33 D.P.R.
380/2001 attribuisce al dirigente o al responsabile del competente ufficio
comunale e alla polizia giudiziaria (quindi anche alla Polizia Locale),
nonché al personale dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, precisi
e penetranti poteri (e doveri) di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, cautelari e di repressione degli abusi.
Analoghi poteri-doveri sono attribuiti a detto personale comunale
in materia di conglomerati cementizi armati dagli
artt. 68, 69 e 70 D.P.R.
380/2001, mentre gli
artt. 27, 29 e 30 L. 394/1991 attribuiscono analoghi
poteri-doveri al personale dell’Ente Gestore dell’area protetta in caso di
violazioni commesse all’interno di parchi regionali.
L’esecuzione, sin da subito, di un’accurata attività di
accertamento e indagine renderà superfluo l’invio di delega da parte del
Pubblico Ministero, accelerando notevolmente i tempi del procedimento.
Per il compimento di singoli atti si rinvia, pertanto, al
successivo capitolo 5.
4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero
Come sopra già indicato, la CNR dovrà possibilmente pervenire, sin
da subito, completa in ogni sua parte (compresi gli allegati) e, qualora ciò
non fosse possibile, dovrà pervenire quanto prima (e, comunque, senza
ritardo) un apposito seguito.
La delega d’indagine dovrà, pertanto e d’ora in poi, costituire un
evento eccezionale e riguardare accertamenti specifici che verranno indicati
direttamente dal Pubblico Ministero.
Evidenzio che gli atti d’indagine delegati devono essere eseguiti
rispettando scrupolosamente le modalità indicate in delega. Non va,
tuttavia, dimenticato che, nell’ambito dell’attività delegata, è sempre
possibile per il personale di polizia giudiziaria procedere al compimento di
atti d’iniziativa che si rendano necessari per l’accertamento dei fatti e la
prosecuzione delle indagini.
Qualora la delega riguardi un fatto già oggetto d’indagine
indirizzata al medesimo Comando nell’ambito di altro procedimento penale, si
sospenderanno gli accertamenti comunicando che, per i fatti per i quali si
procede, è in corso altro procedimento penale (del quale si indicherà il
numero di registro generale e il nome del Magistrato assegnatario). Tale
indicazione è essenziale per una rapida eventuale unione dei procedimenti.
Qualora pervenga un sollecito o una richiesta già evasi, è
opportuno non limitarsi a indicare semplicemente che si è già risposto, ma è
necessario inviare nuovamente quantomeno il frontespizio della precedente
segnalazione.
Va tenuto presente che il numero del procedimento (RGNR) è il mezzo
più rapido ed efficace per l’individuazione del fascicolo, mentre
l’indicazione di altri dati (nome indagato, numero di protocollo della
segnalazione ecc.) rende la ricerca da parte della Segreteria lunga e
complessa.
Se viene indicato in delega un termine per l’espletamento delle
indagini lo stesso deve essere tassativamente rispettato, salvo motivata
richiesta di proroga al Magistrato delegante, che deve essere depositata con
congruo anticipo per evitare che, nel frattempo, scada il termine per le
indagini preliminari. Ricordo che la scadenza del termine massimo per
l’espletamento delle indagini, in mancanza di una motivata e tempestiva
richiesta di proroga al G.I.P. da parte del P.M., impedisce al Pubblico
Ministero medesimo l’utile compimento di altre indagini.
È estremamente importante che in tutta la corrispondenza
intrattenuta con l’ufficio del Pubblico Ministero si indichino in modo bene
visibile:
1) il numero del procedimento (RGNR)
2) il nome del Magistrato assegnatario
3) ogni altro elemento utile per l’individuazione
della precedente corrispondenza.
Gli accertamenti delegati alla Polizia Locale non possono essere
dalla stessa “subdelegati” agli Uffici Tecnici comunali, perché i relativi
addetti non rivestono la qualifica di ufficiale o di agente di polizia
giudiziaria e possono, pertanto, solo essere sentiti a verbale come persone
informate sui fatti ex
art. 351 c.p.p., ovvero nominati ausiliari di p.g. ai
sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
La Polizia Locale non potrà trasmettere la delega d’indagine
all’Ufficio Tecnico perché la stessa potrebbe contenere l’indicazione di
ulteriori indagini coperte da segreto istruttorio che non devono essere
portate a conoscenza di soggetti diversi da quelli appartenenti alla polizia
giudiziaria.
Di conseguenza, la Polizia Locale inoltrerà all’Ufficio Tecnico
comunale una propria richiesta che faccia riferimento all’ordine d’indagine
della Procura della Repubblica e che conterrà in virgolettato unicamente lo
stralcio degli accertamenti che devono essere condotti direttamente
all’Ufficio Tecnico.
5 Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine
Quanto segue rappresenta una sintesi dell’attività di indagine da
eseguire in via ordinaria. E’ ovvio che il personale di polizia giudiziaria
potrà sempre predisporre ogni ulteriore accorgimento e iniziativa idonei
all’accertamento dei fatti.
Le disposizioni di seguito elencate andranno integrate con quanto
già sopra indicato al precedente capitolo:
a) acquisizione documentazione
Tale attività è fondamentale per l’accertamento dei fatti e per
l’individuazione dell’abuso. Essa riguarderà tutta la documentazione
esistente presso il Comune o altri Enti e relativa all’abuso edilizio
(pratica edilizia, sanatoria se richiesta, rilievi, pareri, verbali ecc.).
Se non diversamente ordinato dalla Procura della Repubblica potrà essere
effettuata in copia. L’attività di acquisizione dovrà essere formalizzata
con apposito verbale.
Le copie acquisite saranno accompagnate da un indice e, comunque,
numerate e saranno allegate al verbale di acquisizione.
In caso di rifiuto o ritardo nel fornire la suddetta documentazione da parte
di soggetti pubblici o privati, ne verrà data immediata notizia al Pubblico
Ministero procedente, il quale potrà emettere, secondo i casi, Decreto di
esibizione ex
art. 256 cod. proc. pen.,
o di perquisizione e sequestro ex
art. 252 c.p.p..
b) accertamento sui luoghi
È uno degli accertamenti più importanti
perché irripetibile ex
art. 354 c.p.p..
Il verbale delle operazioni compiute avrà ingresso nel fascicolo
del dibattimento e potrà essere letto e utilizzato dal Giudice. Grazie al
contenuto di questo atto, il Giudice potrà rendersi conto di ciò di cui si
discuterà nel dibattimento. E’ necessario che tale atto contenga tutti gli
elementi essenziali per l’individuazione dei fatti.
L’accertamento non avverrà esclusivamente con la descrizione a
verbale di quanto verificato: saranno, invece, eseguiti rilievi fotografici
e, se necessario, planimetrici dei luoghi, avvalendosi eventualmente di
ausiliari di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
I soggetti nominati ausiliari di p.g. non potranno rifiutarsi di
prestare la propria opera. In caso di rifiuto andranno denunciati ex
art.
366 cod. pen. (rifiuto di uffici legalmente dovuti).
Nell’ambito dell’attività edilizia gravitano spesso altre
fattispecie di reato quali evasione fiscale (in alcune circostanze),
inquinamenti ambientali, lavoro in nero (in alcune circostanze), violazioni
alla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Raccomando, pertanto,
interventi di controllo sinergici con le forze specialistiche [ad esempio,
Guardia di Finanza (per le violazioni fiscali e tributarie),
Nucleo
Ispettorato Lavoro dei CC, Ispettorato Nazionale del Lavoro e PSAL della ATS
(per la sicurezza e la regolarità del lavoro), ARPA e servizi ispettivi
degli Enti Parco (per le violazioni ambientali ecc.)].
c) documentazione fotografica
Continuano a pervenire fotografie in bianco e nero, o
singole immagini, che non consentono, per dimensioni e caratteristiche, di
avere una cognizione completa dell’abuso.
Le fotografie dovranno, al contrario, essere a colori e in numero
adeguato per consentire al Pubblico Ministero e al Giudice di valutare la
consistenza dell’abuso. Andranno munite di didascalia.
I rilievi fotografici e tecnici andranno allegati al verbale di
sopralluogo del quale dovranno costituire parte integrante. Ne consegue che,
qualora per comodità di lettura e per facilitare la comprensione si ritenga
opportuno alternare parti di testo della CNR a fotografie, queste ultime
dovranno necessariamente essere allegate in ulteriore copia a colori munite
di didascalia anche al verbale di sopralluogo.
Per la predisposizione del fascicolo fotografico si tengano
presenti i criteri utilizzati normalmente per la documentazione degli
incidenti stradali.
d) Accesso ai luoghi
I sopralluoghi dovranno necessariamente essere espletati
congiuntamente da personale della Polizia Locale e da quello dell’Ufficio
Tecnico comunale: solo così sarà possibile, infatti, giungere a una CNR
completa sia degli atti investigativi (verbale di identificazione, verbale
di sequestro, verbale di sopralluogo, verbale di sommarie informazioni
testimoniali, verbale di spontanee dichiarazioni da indagato ecc.),
sia di
quelli tecnici (rilievi tecnici, relazione inerente la qualificazione edilizio-urbanistica delle opere abusive, identificazione catastale,
ordinanza di sospensione dei lavori, ordinanza di demolizione, permesso a
costruire in sanatoria ecc.).
Capita che venga impedito al personale ispettivo di accedere ai
luoghi per accertare compiutamente l’abuso. In tal caso dovrà essere
interpellato il Magistrato assegnatario del procedimento o, in mancanza,
assenza o impedimento, quello di turno, che valuterà se emettere Decreto di
ispezione di cose e luoghi ex artt.
244 e
246 c.p.p.
al fine di consentire
l’accesso ai luoghi, anche con autorizzazione alla rimozione degli ostacoli
fissi.
Va, in ogni caso, evidenziato che tali comportamenti, potendo
astrattamente concretizzare, in talune circostanze, ipotesi delittuose di
violenza o minaccia o resistenza a pubblico ufficiale ex artt.
336 e
337
cod. pen., ovvero di impedimento del controllo ex
art. 452-septies c.p.,
dovranno essere tempestivamente denunciati alla Procura della Repubblica.
e) Accertamento della proprietà dell’area ove insiste l’abuso
Si tratta di un dato essenziale che dovrà
essere sempre acquisito, allegando anche l’atto di proprietà o altra idonea
documentazione (visura presso la Conservatoria dei registri immobiliari
ecc.). Non sono ammissibili le semplici dichiarazioni dei soggetti presenti
sul posto.
d) Qualificazione dei luoghi, vincoli ecc.
Andrà accertata la destinazione urbanistica dei luoghi oggetto di
abuso allegando il relativo certificato di destinazione urbanistica che
attesti la destinazione d’uso, sia alla data di realizzazione dell’abuso,
sia con riguardo alla data del relativo accertamento. Verrà verificato anche
se le opere eseguite siano o meno conformi alla normativa urbanistica e agli
strumenti urbanistici locali. Ciò dovrà avvenire attraverso idonea
dichiarazione scritta da parte del responsabile dell’Ufficio Tecnico
comunale.
Gli eventuali vincoli (paesaggistici, ambientali,
storico-architettonici, idrogeologici ecc.) se non indicati nel dettaglio
nel certificato di destinazione urbanistica andranno indicati in modo
completo con gli estremi (articolo, comma e dati completi della legge di
riferimento) nella relazione del personale dell’Ufficio Tecnico comunale. In
caso di vincolo imposto con provvedimento ministeriale o con altro
provvedimento amministrativo andrà allegata copia dello stesso.
e) Identificazione soggetti responsabili
Oltre a quanto ho già detto al precedente
punto 2.21 a), aggiungo che sarà necessario allegare il certificato
anagrafico degli indagati (la cui reperibilità, da parte della Polizia
Locale, appare agevole anche attraverso subdelega ad altri comandi
territorialmente competenti per la residenza degli indagati), perché ciò
rende meno frequenti gli errori di trascrizione e accelera i tempi di
registrazione del fascicolo.
L’assuntore dei lavori potrà essere inizialmente identificato anche
attraverso la targa dei mezzi utilizzati per l’esecuzione dei lavori, ovvero
tramite la documentazione contabile o di altro tipo in possesso del
committente.
Non è accettabile che, in molte CNR, venga omessa l’individuazione
di tutti i responsabili degli abusi e ciò anche in piccoli comuni ove
l’acquisizione di tali informazioni è estremamente facile.
Nelle more di redazione del verbale di identificazione,
dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore e informazioni
sul diritto alla difesa ricordo che, nel caso di mancata nomina del
difensore di fiducia da parte dell’indagato, è consigliabile per la p.g.
procedere alla nomina del difensore d’ufficio, che dovrà essere
necessariamente individuato in quello indicato dall’Ordine degli Avvocati
del Foro di Bergamo (anche se nominato da un organo di p.g. avente sede
altrove).
Al verbale di identificazione dovrà essere allegata fotocopia di un
valido documento di riconoscimento dell’indagato.
Si richiama l’attenzione degli operanti circa la corretta e
completa compilazione di detti verbali evitando, per esempio, parziali
indicazioni dell’esatto domicilio eletto o dell’esatto nominativo del
difensore nominato (per esempio, eleggo domicilio in via Rossi n. 5 senza
indicare la località, ovvero nomino difensore di fiducia lo studio legale
Rossi senza indicare l’esatto nominativo del difensore), che comporterebbero
la nullità dell’atto medesimo.
f) Accertamento provvedimenti adottati dall’Autorità comunale
La vigente legislazione urbanistica contempla alcuni provvedimenti,
di regola di competenza dell’Autorità comunale (ad esempio, ordinanze di
sospensione lavori o di demolizione), la cui emissione da parte della stessa
Autorità costituisce, in presenza dei prescritti presupposti, un obbligo e
non una facoltà.
Basti pensare, a tale proposito, che l’eventuale mancata
ottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta l’acquisizione
dell’immobile abusivo e dell’area di sedime al patrimonio del Comune.
Occorrerà, pertanto, verificare quali provvedimenti siano stati
adottati dalle competenti Autorità, allegandone copia munita della relativa
relata di notifica.
Qualora l’abuso non sia ancora noto alle predette Autorità ne verrà
data alla stessa specifica informativa da parte della Polizia Locale e prova
dell’avvenuta consegna verrà allegata agli atti della CNR.
L’ordinanza di sospensione dei lavori prevista dagli artt. 27,
comma 3, D.P.R. 380/2001,
167 D.Lgs. 42/2004 e
29 L. 394/1991 non va emessa,
come spesso accade, esclusivamente allorquando le opere abusive sono in
corso di realizzazione all’atto del sopralluogo; al contrario, andrà sempre
emessa (e tempestivamente notificata) in tutti i casi in cui le opere
abusive non siano già integralmente completate.
Ricordo che, di regola, la sequenza dei provvedimenti che devono
essere emessi dall’Autorità comunale, a norma dell’articolo 27 D.P.R.
380/2001, è la seguente:
a) ordinanza di sospensione lavori e relativa
notifica;
b) verifica circa l’ottemperanza di detta
ordinanza con apposito verbale;
c) comunicazione alla Procura della Repubblica
circa l’eventuale inottemperanza in ordine al reato ex
art. 44, lett. b),
D.P.R. 380/2001 e valutazione sulla opportunità di procedere con sequestro
preventivo ex
art. 321 c.p.p..
d) ordinanza di demolizione e ripristino e
relativa notifica;
e) verifica circa l’ottemperanza all’ordinanza
con apposito verbale;
f) notifica dell’eventuale verbale di
inottemperanza;
g) applicazione, in caso di inottemperanza, della
sanzione amministrativa ex
art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001
(nei casi
di interventi eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale
del permesso di costruire);
h) acquisizione al patrimonio del Comune del
fabbricato e dell’area di sedime e successiva demolizione d’ufficio a cura
del Comune e spese del responsabile dell’abuso (nei casi di interventi
eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale del permesso
di costruire);
i) esecuzione d’ufficio della demolizione a cura
del Comune e a spese del responsabile dell’abuso medesimo nei casi di
interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire
o in totale difformità da esso nei casi di cui agli artt.
33, comma 1, e
34,
comma 1, D.P.R. 380/2001.
Occorrerà, pertanto, verificare che l’Autorità comunale abbia
effettivamente adempiuto ai doveri impostigli dalla vigente normativa
urbanistica.
Non è, in nessun caso, consentito inserire nella segnalazione che “il
provvedimento è in corso di redazione” o altre diciture simili. Il
provvedimento deve essere acquisito completo delle relate di notifica.
g) Verifica dell’agibilità
Sebbene l’articolo 221 R.D. 1265/1934 comprenda violazioni
depenalizzate, la presenza o meno dell’agibilità andrà verificata e
segnalata alla competente Autorità comunale per l’irrogazione delle sanzioni
amministrative e per gli altri adempimenti di competenza.
h) Accertamento della data di ultimazione lavori
La data da accertare è quella effettiva di ultimazione lavori.
Detto accertamento potrà essere effettuato acquisendo ogni documento
(fatture, scontrini etc.) relativo all’acquisto dei materiali e recante data
certa.
Dovranno, inoltre, essere sentiti a verbale ex
art. 351 c.p.p.,
quali persone informate sui fatti, i vicini, gli esponenti ecc. (non i
soggetti da sottoporre a indagine le cui dichiarazioni non sono
utilizzabili) sulla data di ultimazione delle opere.
Si potrà anche verificare se vi siano contratti di fornitura
(acqua, luce, gas ecc.) recanti data certa e, nel caso, acquisirne copia.
Si dovrà sempre procedere, quando disponibili, alla verifica e
all’acquisizione di copia a colori dei rilievi aerofotogrammetrici presso il
Comune o la Regione.
i) Illecita attivazione di utenze
L’art. 48 D.P.R. 380/2001 vieta la fornitura di acqua, energia
elettrica e gas per gli immobili abusivi. Nel caso in cui ciò avvenga, il
responsabile del servizio è passibile di sanzione amministrativa.
In caso d’immobile abusivamente realizzato sarà, quindi, opportuno
verificare se e a quale titolo siano stati stipulati eventuali contratti di
utenza per acqua, energia elettrica, gas, al fine di accertare eventuali
responsabilità di altri soggetti che hanno agevolato l’utilizzazione del
manufatto abusivo.
Frequentemente i responsabili degli abusi stipulano contratti per
l’erogazione di energia elettrica dichiarando falsamente (in violazione
dell’art. 483 cod. pen. – falsità ideologica commessa dal privato in atto
pubblico) che la fornitura erogata viene utilizzata per “irrigazione”,
“sollevamento acqua”, “apertura cancello elettrico”, “cantiere”
ecc.
Sarà, pertanto, essenziale accertare se l’immobile abusivo sia
fornito di acqua, luce, gas acquisendo, in caso positivo, copia del
contratto, al fine di consentire la successiva valutazione in sede penale
della condotta dei soggetti fornitori, nonché quella relativa alle false
dichiarazioni rese al fine di ottenere le forniture.
l) Esecuzione dei sequestri
Qualora l’organo di vigilanza accerti l’esecuzione di opere abusive
ovvero, a maggior ragione, la prosecuzione dei lavori illeciti nonostante
l’ordine di sospensione degli stessi, lo stesso organo di vigilanza:
1. non potrà limitarsi a depositare una mera
comunicazione alla Procura della Repubblica;
2. dovrà invece valutare, secondo un prudente
apprezzamento circa la sussistenza di concreti pericoli per il bene
giuridico tutelato (ambiente, assetto urbanistico ecc.) l’eventuale adozione
del provvedimento di sequestro preventivo in via d’urgenza ex art. 321,
3-bis c.p.p.; in tal caso, è consigliabile contattare il P.M. di turno per le
sue determinazioni.
Il sequestro effettuato dalla P.G. rappresenta un atto
particolarmente delicato e importante nella complessiva attività d’indagine.
Con esso si impedisce la prosecuzione dell’intervento abusivo (sequestro
preventivo ex
art. 321 c.p.p.) e si assicurano al processo elementi di
rilievo sotto il profilo probatorio (sequestro probatorio ex
art. 354 c.p.p.).
Il sequestro può riguardare non solo il singolo manufatto abusivo,
ma anche l’area dove esso insiste, il cantiere e le relative attrezzature.
Il sequestro preventivo, inoltre, può essere effettuato, secondo un
orientamento ormai costante della giurisprudenza della Suprema Corte di
Cassazione, anche sulle opere già ultimate (poiché le conseguenze che tale
misura tende ad evitare sono ulteriori rispetto alla fattispecie tipica già
realizzata e, in materia urbanistica, l'esistenza di una costruzione abusiva
può aggravare il cd. carico urbanistico e, quindi, protrarre le conseguenze
del reato).
Qualora si proceda a sequestro (d’iniziativa, ovvero su ordine
dell’A.G.) delle opere abusive e del cantiere, lo stesso andrà effettuato
rendendo effettivamente inaccessibili i luoghi, apponendo sigilli e cartelli
visibili recanti gli estremi del provvedimento. Ove possibile ci si dovrà,
dunque, assicurare che ogni via di accesso all’area e al fabbricato in
sequestro sia fisicamente impedita apponendo, se necessario, ostacoli fissi
(reti, travi ecc.).
Si è notato come talvolta si faccia, ancora, ricorso all’anomala
figura del “sequestro senza sigilli”, inteso come apposizione solo
virtuale del vincolo sul bene sequestrato che viene, in realtà, lasciato
nella disponibilità dell’indagato o del detentore, specie nel caso in cui
l’immobile abusivo sia utilizzato.
Tale figura è del tutto sconosciuta al codice di procedura penale
(la Suprema Corte di Cassazione ha, da tempo, espressamente escluso, con
riferimento al sequestro preventivo, la possibilità che lo stesso sia
sottoposto a termini o condizioni quali, ad esempio, la “facoltà d’uso”
finalizzata alla eliminazione della situazione che ha determinato
l’apposizione del vincolo) e si risolve in un atto del tutto privo di
efficacia, in quanto consente comunque la piena utilizzazione del manufatto
abusivo.
Dovrà quindi curarsi che, all’atto del sequestro, il manufatto non
sia in nessun caso accessibile o altrimenti utilizzabile e sia, pertanto,
libero da persone.
Dovrà, inoltre, assicurarsi una successiva vigilanza al fine di
verificare l’integrità dei sigilli e che permangano le condizioni di
conservazione del bene assicurate al momento del sequestro.
Ricordo, inoltre, che la violazione di sigilli, se commessa dal
custode (che va sempre nominato sin dall’esecuzione del sequestro) consente,
ai sensi dell’art. 349, comma 2, cod. pen. e in presenza dei presupposti di
legge, l’arresto in flagranza.
Il sequestro (d’iniziativa o disposto dall’ A.G.) dovrà essere
tempestivamente eseguito, così come ogni verifica in merito ad abusi in
corso di esecuzione. L’eventuale omissione o il ritardo nell’esecuzione può
configurare gravi ipotesi di reato.
m) Esecuzione di dissequestri
Anche i provvedimenti di restituzione delle cose sequestrate
andranno immediatamente eseguiti.
Evidenzio, però, che il relativo provvedimento dovrà pervenire
direttamente dall’Autorità che l’ha emesso (P.M. o Giudice) nelle forme
previste.
Non è in nessun caso ammissibile procedere all’esecuzione di
dissequestri sulla base di provvedimenti esibiti in copia dall’indagato o
dal suo difensore né, tanto meno, su richiesta verbale.
Detti provvedimenti dovranno pervenire dalla Segreteria del P.M. o
dalla Cancelleria del Giudice nelle forme di legge.
Se la restituzione è disposta nei confronti dell’ ”avente
diritto” e lo stesso non sia compiutamente indicato, dovrà accertarsi
chi sia tale soggetto, potendosi lo stesso individuare in persona diversa
dall’indagato, come nel caso in cui si sia perfezionata l’acquisizione
automatica dell’immobile al patrimonio del Comune a seguito d’inottemperanza
all’ordinanza di demolizione.
In caso di dubbio andrà interpellato per iscritto l’Ufficio che ha
emesso il provvedimento.
n) Procedura di acquisizione
La procedura di acquisizione degli immobili e delle relative aree
di sedime è obbligatoria e dovrà essere portata a termine nel rispetto di
quanto stabilito dal legislatore.
Tale procedura dovrà essere avviata dal competente funzionario
comunale con le cadenze che vengono qui di seguito sinteticamente ricordate:
− emissione ordinanza di demolizione ai sensi
dell’art. 27 D.P.R. 380/2001
e relativa tempestiva notifica. L’ordinanza
dovrà contenere tutti gli estremi per l’identificazione dell’abuso (compresi
foglio e mappale), nonché l’area di sedime acquisibile in caso di
inottemperanza,
− verifica (attraverso sopralluogo della Polizia
Locale) dell’ottemperanza all’ordinanza con redazione del relativo verbale,
− in caso d’inottemperanza, il relativo verbale
(che dovrà contenere gli estremi catastali dell’immobile) dovrà essere
notificato ai soggetti interessati,
− l’accertata inottemperanza determina ope
legis l’automatico passaggio della proprietà dell’abuso e dell’area di
sedime all’Amministrazione comunale nei termini indicati dall’articolo 31
D.P.R. 380/2001,
− il trasferimento di proprietà dovrà essere
rapidamente trascritto.
Ciò posto, si è rilevata spesso una resistenza da parte dei
competenti Uffici comunali a effettuare la trascrizione o a porre in essere
regolarmente e tempestivamente la procedura di cui sopra.
È, pertanto, opportuno che il personale di Polizia Locale sia reso
edotto del fatto che:
− l’eventuale omissione o rifiuto da parte del
personale competente a procedere potrà configurare, a seconda dei casi, i
reati di favoreggiamento, abuso d’ufficio e/o di omissione o rifiuto di atti
d’ufficio, in ordine ai quali vi è l’obbligo di tempestiva comunicazione a
questa A.G.,
− il ricorso innanzi al Giudice amministrativo
non sospende la procedura di acquisizione, se non nel caso in cui venga
emessa Ordinanza cautelare di sospensiva.
Questa Procura della Repubblica provvederà a segnalare alla
competente Procura Regionale della Corte dei Conti omissioni o ritardi che
possano comportare danno erariale.
6. Reati di “falso” in ambito edilizio, ambientale e
paesaggistico
L’art. 20, comma 13, D.P.R. 380/2001
punisce penalmente chiunque
dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti
previsti al comma 1 del medesimo articolo nell’ambito del procedimento per
il rilascio del permesso di costruire.
L’art. 29, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che, per le opere
realizzate nell’ambito di segnalazione certificata di inizio attività, il
progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica
necessità ai sensi degli articoli
359 e
481 del cod. pen. Ne consegue che,
in caso di false dichiarazioni, viene integrato il reato ex
art. 481 cod. pen. (falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un
servizio di pubblica necessità).
L’art. 19, comma 6, L. 241/1990
punisce penalmente chiunque, nelle
dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione
di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti
o presupposti indicati al comma 1° della medesima legge.
È sempre previsto l’obbligo d’informativa, da parte del
responsabile del procedimento, al competente Ordine Professionale per
l’irrogazione delle sanzioni disciplinari. All’informativa può provvedere
ovviamente anche la Polizia Locale, quale organo di polizia giudiziaria.
Restano fermi i restanti reati di falso previsti nel Libro II
Titolo VII Capo III (della falsità in atti) del cod. pen.
È necessario, quindi, che si proceda al controllo sulla veridicità
delle dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni (e relativi allegati)
inserite dalle parti nelle pratiche e si provveda a segnalare
tempestivamente a questa Procura della Repubblica gli eventuali reati,
nonché a darne immediata informativa al competente Ordine Professionale
qualora l’autore del reato sia un professionista.
7. Gli “elenchi mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001
L’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 prevede che: … “Il
Segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione
nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle opere realizzati
abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia
giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e trasmette i dati
anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta
regionale e, tramite l’ufficio territoriale del governo, al Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti”.
Tale norma ha la finalità di consentire il complessivo monitoraggio
sul territorio della giurisdizione del fenomeno dell’abusivismo edilizio.
Gli elenchi di cui all’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001
non
sostituiscono, pertanto, l’obbligo di CNR previsto dall’art. 347 c.p.p.. Né,
al contrario, il deposito della CNR da parte degli operanti fa venir meno
l’obbligo di trasmissione dei suddetti elenchi mensili da parte del
Segretario comunale.
Tali elenchi dovranno essere mensilmente trasmessi, solo se
positivi (ossia solo se vi sono abusi da segnalare), unicamente a mezzo
posta elettronica certificata all’indirizzo: (da indicare).
Tali elenchi non verranno iscritti in alcun registro del S.I.C.P.
(Sistema Informativo della Cognizione Penale) e verranno direttamente
trasmessi al Procuratore.
L’elenco mensile deve contenere unicamente i dati relativi
all’abuso (identificazione del luogo, sintetica descrizione della tipologia
dell’abuso ecc.) e ai soggetti responsabili dello stesso (complete
generalità). Al contrario, non deve contenere allegati (ordinanze, rapporti
ecc.).
È necessario che nell’elenco mensile venga inserita, per ogni
abuso, un’apposita voce “CNR della Polizia Locale n…. inoltrata in
Procura il …”, ovvero “CNR in fase di redazione da parte della Polizia
Locale e di prossimo inoltro in Procura”. In tale ultimo caso sarà onere
del Comune (attraverso il Segretario comunale, ovvero la Polizia Locale)
trasmettere tempestivamente alla Procura apposita integrazione all’elenco
mensile con la quale si darà atto dell’avvenuto deposito della relativa CNR
mancante.
Gli elenchi mensili conterranno sia gli abusi che assumono
rilevanza penale, sia quelli che costituiscono meri illeciti amministrativi,
poiché la norma di riferimento non prevede distinzioni.
È necessario, però, che nell’elenco mensile venga inserita
un’ulteriore apposita voce che indichi esplicitamente se si tratta di abuso
avente carattere penale o solo amministrativo.
8. La comunicazione di avvio del procedimento
L’art. 7 Legge 241/1990 inerente alla comunicazione di avvio del
procedimento dispone che … “Ove non sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del
procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8,
ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove
parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un
provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o
facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari,
l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia
dell’inizio del procedimento. Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la
facoltà dell’amministrazione di adottare, anche prima della effettuazione
delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari”.
Per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 23.01.2012,
n. 282; VI Sez., 24.09.2010, n. 7129; VI Sez., 30.05.2011, n. 3223; VI Sez.,
24.05.2013, n. 2873; V Sez., 09.09.2013, n. 4470, VI Sez., 08.05.2014)
l’adozione di misure repressive edilizie non è assoggettata all’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento, attesa la natura vincolata del
provvedimento finale, rispetto al quale la partecipazione dell’interessato
non può arrecare alcuna utilità.
Particolare rigore deve essere posto con riguardo ad accertamenti
connessi alle opere in corso di esecuzione, sia nel caso di ordinaria
attività di vigilanza, che nel caso di attivazione a seguito di segnalazione
di parte.
In tali casi, al fine di evitare il concretizzarsi di ipotesi
penalmente rilevanti a carico del funzionario comunale firmatario del
provvedimento di avvio del procedimento (per esempio, di favoreggiamento del
potenziale destinatario del provvedimento sanzionatorio che ben potrebbe, se
preventivamente informato, eliminare l’abuso prima dell’accertamento, ovvero
aggravare il reato con il completamento funzionale delle opere e la
potenziale fruibilità delle stesse, con conseguente vantaggio patrimoniale),
l’avvio del procedimento è tassativamente vietato.
Al contrario, non si ravvisano particolari criticità connesse
all’eventuale emanazione della comunicazione di avvio del procedimento per
ciò che concerne le opere illecite pacificamente già ultimate anche nelle
loro rifiniture. Detta prassi è, infatti, utilizzata da molti comuni,
soprattutto per la difficoltà a risalire a documentazione giacente presso
l’archivio storico e, conseguentemente, per evitare di procedere con la
notifica di provvedimenti demolitori riguardanti manufatti regolarmente
assentiti, con conseguente necessità di un successivo provvedimento in
autotutela. Quanto sopra, ovviamente, fermo restando il rispetto del termine
perentorio di cui all’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001.
Nel caso di emissione della comunicazione di avvio del procedimento
occorrerà, pertanto, indicare un termine perentorio alla controparte per
presentare memorie o scritti difensivi utili al procedimento instaurato.
L’utilizzo di detta procedura non può, in nessun caso, portare a una
dilazione dei 30 giorni previsti dall’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001.
In generale corre l’obbligo per il Comune di intervenire senza
indugio con i controlli e i successivi provvedimenti ripristinatori degli
interventi realizzati in assenza di titolo abilitativo.
La facoltà di
presentare istanza di sanatoria, nei casi previsti dalla legge, è in capo
infatti all’avente titolo. Non sono, pertanto,
giustificati ritardi
nell’azione repressiva al fine di agevolare i privati nella presentazione di
eventuali istanze di sanatoria.
9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 e
l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater,
D.Lgs. 42/2004
L’art. 45, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che … “il rilascio
in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali
previsti dalle norme urbanistiche vigenti”.
Parallelamente, l’art. 181, comma 1-ter, D.Lgs. 42/2004 prevede
che, nelle ipotesi di abuso paesaggistico ivi tassativamente elencate e
qualora la competente Autorità amministrativa ne accerti la relativa
compatibilità paesaggistica, non trovano applicazione le sanzioni penali di
cui al comma 1° del medesimo articolo.
Nel corso degli anni si è registrata, da parte dei singoli comuni,
una disomogenea applicazione delle norme e delle procedure in tema di
segnalazione dei reati oggetto di richieste di conformità e di compatibilità
paesaggistica: alcuni comuni non trasmettono mai la CNR in caso di rilascio
delle sanatorie (ovvero delle compatibilità paesaggistiche), altri le
trasmettono solo all’esito delle relative pratiche e indistintamente dal
loro accoglimento o meno, altri le trasmettono solo all’esito della relativa
istruttoria e solo in caso di diniego, altri ancora le trasmettono non
appena pervenute al Comune e ancor prima della relativa istruttoria.
È, pertanto, opportuno chiarire che, solo allorquando la
sussistenza di un abuso edilizio o paesaggistico venga portata a conoscenza
delle strutture comunali (ovvero del parallelo Ente pubblico competente in
materia paesaggistica) unicamente dalla parte tramite richiesta di
accertamento di conformità edilizia (ovvero richiesta di accertamento di
compatibilità paesaggistica), quindi in assenza di qualsivoglia esposto,
segnalazione, ovvero in assenza di accertamenti, sopralluoghi del personale
comunale o di altri Organi pubblici, il deposito della CNR sarà posticipato
all’esito dei relativi procedimenti amministrativi.
Tale obbligo di denuncia all’A.G. sussiste, all’esito
dell’istruttoria, sia qualora l’abuso venga sanato, o ne venga certificata
la compatibilità paesaggistica, sia qualora le relative istanze vengano
rigettate. Ciò perché è stato, comunque, commesso un reato, la cui eventuale
dichiarazione di estinzione compete unicamente al Giudice.
È evidente che, in caso di accoglimento delle istanze di conformità
e/o compatibilità paesaggistica, l’Organo procedente (Polizia Locale, ovvero
il parallelo servizio ispettivo dell’Ente competente in materia
paesaggistica) si limiterà a depositare la CNR contenente i dati essenziali:
la relazione sarà molto sintetica, con esplicito riferimento all’inutilità
di effettuare ulteriori indagini e conterrà proposta di archiviazione del
procedimento.
Andranno, comunque, anche in questo caso, allegati il verbale di
identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore
e informazioni sul diritto alla difesa in capo a tutti i soggetti
responsabili, copia integrale del provvedimento amministrativo di sanatoria
e/o compatibilità, nonché apposita dichiarazione del responsabile dell’
Ufficio Tecnico attraverso la quale si attesta che, con il provvedimento
amministrativo rilasciato e trasmesso, è stato sanato (ovvero ne è stata
certificata la compatibilità paesaggistica), l’intero abuso e che non
residuano ulteriori abusi non sanati.
Tale procedura appare in assoluto la più logica e, al contempo,
ossequiosa del dettato normativo posto che, l’eventuale rilascio dei citati
permessi a costruire in sanatoria (ovvero delle certificazioni di
compatibilità paesaggistica), comporterebbe il mantenimento nell’area della
mera rilevanza sanzionatoria amministrativa dei lavori illeciti eseguiti,
senza alcun obbligo d’immediata informativa all’A.G. (che ben può essere
posticipata, quindi, all’esito delle procedure amministrative).
Al contrario, è appena il caso di ricordare che,
quando sono già
pervenuti esposti, segnalazioni, denunce, ovvero quando il personale
comunale ha già espletato accertamenti, sopralluoghi ecc. prima del deposito
in Comune di un’eventuale istanza di conformità o di compatibilità, la CNR
dovrà necessariamente essere depositata in Procura senza ritardo
(indistintamente dal fatto che pervengano, dopo l’esposto o l’accertamento,
eventuali istanze di conformità o di compatibilità).
A norma dell’art. 45, comma 1, D.P.R. 380/2001, ... “l’azione
penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano
stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’art. 36”.
Di conseguenza, anche il corso della prescrizione del reato rimane
sospeso, a norma dell’art. 159 cod. pen., per tale lasso di tempo. La
prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa
della sospensione.
L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede, inoltre, che: … “sulla
richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale si pronuncia, con adeguata motivazione, entro
sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
È opportuno evidenziare, quindi, che la lettura del combinato
disposto degli artt.
45, comma 1, e
36, comma 3, D.P.R. 380/2001 consente di
affermare che, entro il termine massimo di 60 giorni dalla presentazione
dell’istanza di conformità, il responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale
dovrà provvedere su tale istanza e trasmettere tempestivamente tutta la
documentazione (compreso il provvedimento finale) alla Polizia Locale,
affinché quest’ultima possa celermente notiziare la Procura della Repubblica
(salvo le ipotesi relative ad aree o immobili vincolati, in ordine alle
quali si deve considerare anche il termine di 180 giorni a disposizione
della Soprintendenza per il parere obbligatorio e vincolante di sua
competenza).
In caso di insufficienza della documentazione o delle dichiarazioni
allegate dalla parte nell’istanza, il responsabile del procedimento avrà
cura di inoltrare, con mezzi che ne garantiscano la prova di ricezione,
specifica richiesta di integrazione: la stessa dovrà necessariamente
indicare il termine tassativo entro cui produrre al Comune tale
documentazione e/o dichiarazioni mancanti (che deve essere il più possibile
contenuto), in mancanza delle quali, allo scadere del termine concesso,
l’istanza dovrà essere rigettata.
Non è mai tollerabile la prassi, sin qui tenuta da alcuni comuni, di
inoltrare alla parte richieste di integrazione prive di un termine entro cui
provvedere. Così facendo, infatti, dette pratiche rischiano di rimanere, nel
caso di inerzia della parte, in “istruttoria” spesso ben oltre il
termine massimo concesso dalla legge per la definizione dei procedimenti,
con conseguente elevato rischio di prescrizione del reato.
Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a
più abusi commessi da soggetti diversi, sanati od oggetto di compatibilità
paesaggistica.
È obbligo del Comune, attraverso la Polizia Locale, aggiornare
tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’avvenuto rilascio del
permesso a costruire in sanatoria, ovvero della certificazione di
compatibilità paesaggistica. Ciò senza attendere una specifica delega
d’indagine dell’A.G.. A tal fine sarà onere del responsabile dell’Ufficio
Tecnico comunale trasmettere tempestivamente apposita comunicazione alla
Polizia Locale, contenente copia integrale del provvedimento emesso e
dichiarazione che attesti che non residuano abusi non sanati.
10 Gli interventi di demolizione e di ripristino dello stato dei
luoghi
Gli
artt. 27, 31, 33 e 35 D.P.R. 380/2001 prevedono che il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ordina la
demolizione delle opere abusive.
L’art. 31, comma 9, D.P.R. 380/2001 prevede che il Giudice, con la
Sentenza di condanna, ordina la demolizione delle opere se ancora non sia
stata altrimenti eseguita.
Analoghi poteri-doveri sono previsti in ambito paesaggistico dagli
artt.
167 e
181, comma 2, D.Lgs. 42/2004, nonché dall’art. 29 L. 394/1991,
in caso di attività abusive in aree protette.
L’art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001 prevede, poi, una specifica
sanzione amministrativa in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
E’ indicato, altresì, che … “la mancata o tardiva emanazione del
provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali,
costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di
responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile, del dirigente e del
funzionario inadempiente”.
Ho verificato che, spesso, non viene emessa la citata sanzione
amministrativa e che ci si limita a emettere le ordinanze di demolizione e/o
ripristino senza, però, procedere agli interventi d’ufficio previsti dalle
citate norme in caso di inottemperanza del responsabile dell’abuso.
Ricordo che, in presenza dei presupposti di legge,
l’esecuzione
d’ufficio delle demolizioni e dei ripristini, così come l’acquisizione al
patrimonio pubblico dell’immobile abusivo e della relativa area di sedime e
l’emanazione delle prescritte sanzioni amministrative, costituiscono un
obbligo per l’Autorità amministrativa e non una mera facoltà discrezionale.
Sono evidenti, in astratto, le possibili responsabilità omissive, sia sul
piano penale sia su quello erariale.
La mancata ottemperanza alle ordinanze di demolizione non integra
il reato ex
art. 650 cod. pen.
perché tale fattispecie penale (c.d. “norma
penale in bianco”), così come da consolidato orientamento
giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione, punisce l’inosservanza
di provvedimenti legalmente dati dall’Autorità per ragioni di giustizia,
ordine pubblico, sicurezza pubblica o igiene, esclusivamente allorquando
tali inosservanze non siano già punite dall’ordinamento con specifiche
sanzioni.
Nel caso di specie la sanzione prevista dalla norma in caso
d’inottemperanza è la demolizione, ovvero il ripristino dei luoghi, eseguiti
d’ufficio e a spese del relativo responsabile.
L’art. 181, comma 1-quinquies, D.Lgs. 42/2004 prevede che la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli
paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio
dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga condanna,
estingue il reato paesaggistico di cui al comma 1 del medesimo articolo.
L’art. 131-bis cod. pen. prevede, poi, l’esclusione della punibilità in
taluni casi di particolare tenuità del fatto.
È obbligo pertanto del Comune, attraverso la Polizia Locale,
aggiornare tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’eventuale
avvenuta demolizione, ovvero ripristino dello stato dei luoghi, sia al fine
di valutare l’eventuale estinzione del reato, sia perché tale ottemperanza
costituisce comunque comportamento favorevolmente valutabile nei confronti
dell’indagato.
11 La segretezza delle indagini di polizia giudiziaria, nonché
delle informazioni e della documentazione contenute nelle CNR
L’art. 329 c.p.p. prevede che … “gli atti di indagine compiuti
dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto
fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non
oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
L’art. 326 cod. pen. punisce penalmente il pubblico ufficiale o la
persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti
alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela
notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in
qualsiasi modo la conoscenza.
Ne consegue che ogni richiesta di accesso agli atti trasmessi all’A.G.,
da chiunque proveniente (indagati, difensori, esponenti, soggetti terzi
ecc.), deve essere trasmessa al P.M. titolare per il preventivo vincolante
nulla osta ex
art. 116 c.p.p..
Talune norme vigenti in materia edilizia (per esempio, gli artt.
27, comma 4, e
31, comma 7, D.P.R. 380/2001) prevedono, peraltro, l’obbligo
di informativa alle Autorità amministrative preposte (Regione, Comune,
Ordine Professionale ecc.) circa i reati accertati per i provvedimenti di
rispettiva competenza. In tali casi, ossia quando l’informativa non riveste
carattere di discrezionalità ma deriva da un obbligo ope legis, il
nulla osta del P.M. alla trasmissione degli atti alle suddette Autorità e
per le finalità indicate nella legge s’intende sin d’ora concesso.
Evidenzio che gli atti diretti e provenienti dalla Procura della
Repubblica, ovvero da altri organi di polizia giudiziaria, possono essere
portati a conoscenza del solo personale avente qualifica di agente o
ufficiale di polizia giudiziaria.
Qualsivoglia eventuale comportamento di amministratori locali volto
a interferire, limitare o intralciare le attività di polizia giudiziaria e
di controllo degli abusi deve essere immediatamente segnalato al Procuratore
della Repubblica.
12 Conclusioni
Prego le Autorità in indirizzo di inoltrare la presente direttiva
ai Comandi, Settori, Servizi, Uffici territorialmente e funzionalmente
competenti, onde garantirne la più ampia diffusione.
Le SS.VV. si atterranno alle sopraelencate disposizioni anche in
considerazione della rilevanza che assumono i beni giuridici tutelati dalle
norme in oggetto.
La mancata, scorretta o parziale ottemperanza alla presente
direttiva costituisce intralcio all’attività dell’Autorità Giudiziaria e,
come tale, verrà valutata dal Magistrato titolare del procedimento in ordine
ad eventuali responsabilità penali e/o disciplinari. |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Regolamento sul funzionamento del consiglio comunale in materia
di gruppi consiliari.
Sintesi/Massima
La costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi
gruppi esistenti, sono ammissibili; tuttavia sono i singoli enti locali,
nell'ambito della propria potestà di organizzazione, competenti a dettare
norme statuarie e regolamentari in materia.
Testo
Con nota del ..., un presidente di consiglio comunale ha chiesto l'avviso di
quest'Ufficio in merito al cambio di denominazione di un gruppo consiliare.
In particolare, è stato rappresentato che a seguito delle elezioni svoltesi
nel settembre 2020 il candidato sindaco non eletto comunicava, con nota
acquisita al protocollo dell'ente in data ..., la costituzione del gruppo
consiliare denominato "Progressisti per …" composto da tre
consiglieri.
Successivamente comunicava, con nota acquisita al protocollo
dell'ente in data ... sottoscritta solo da due consiglieri, l'adesione del
predetto gruppo consiliare al Partito Democratico, con la contestuale
modifica del nome originario del gruppo "Progressisti …" in "Partito
Democratico – Progressisti …", precisando di entrare a far parte
organicamente del Partito Democratico, anche all'interno del consiglio
comunale dell'ente.
Tale comunicazione veniva data a seguito dell'autorizzazione rilasciata in
data ... dal Partito Democratico - Coordinamento Provinciale di ….
Il
presidente del consiglio comunale, nella richiesta di parere, ha evidenziato
che il regolamento dell'ente non prevede all'articolo 16, rubricato "Costituzione
dei gruppi consiliari", la modifica di denominazione dei gruppi e la
possibilità di costituirne di nuovi; nel caso di specie, l'adesione al
Partito Democratico con il conseguente cambio di denominazione sopra
menzionato farebbe pensare alla costituzione di un nuovo gruppo consiliare,
tenuto anche conto che nella nota sopra citata del Partito Democratico di …
è utilizzata l'espressione "costituzione del Gruppo consiliare …".
Inoltre, il presidente del consiglio ha precisato che il Partito Democratico
di rilievo nazionale era presente alle elezioni svoltesi nel settembre 2020
nella coalizione a sostegno del candidato sindaco non eletto e non ha avuto
alcun seggio nell'assise comunale. La segretaria generale dell'ente, con
nota in data ..., ha sottolineato che il gruppo consiliare in questione pur
avendo modificato la denominazione, possibilità non contemplata dallo
statuto e dal regolamento, non ha costituito un gruppo nuovo atteso che i
consiglieri hanno mantenuto l'originaria denominazione del gruppo al quale
hanno aggiunto il simbolo del Partito Democratico, sebbene riconosca che
nella nota a firma del commissario cittadino del PD sia utilizzata la
locuzione "costituzione".
Ha anche precisato che il candidato sindaco non eletto alle elezioni del
2020, quale candidato sostenuto da più liste tra cui il PD, una volta eletto
consigliere comunale non si è dichiarato, pur avendone la possibilità, della
lista del PD, lista collegata alla sua candidatura, per assumere in
consiglio la relativa rappresentanza.
Al riguardo, occorre premettere che l'esistenza dei gruppi consiliari non è
espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai
gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del
decreto legislativo n. 267/2000).
La materia è regolata da apposite norme statutarie e regolamentari adottate
dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei
consigli, riconosciuta dall'art. 38 del citato decreto legislativo n.
267/2000.
Giova richiamare la pronuncia del TAR Trentino Alto Adige - sez. di Trento,
n. 75 del 2009, con la quale è stato precisato che "il principio generale
del divieto di mandato imperativo sancito dall'art. 67 della Costituzione …
pacificamente applicabile ad ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni
consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori -pur conservando
verso gli stessi la responsabilità politica- con assoluta libertà, ivi
compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o
alla coalizione di originaria appartenenza". In linea con il principio
generale secondo il quale, all'elemento "statico" dell'elezione in
una lista si sovrappone quello "dinamico", fondato sull'autonomia
politica dei consiglieri, si ritengono in genere ammissibili anche i
mutamenti all'interno delle forze politiche che comportano altrettanti
cambiamenti nei gruppi consiliari.
Anche il TAR Puglia, sez. di Bari, con sentenza n. 506/2005 ha evidenziato
che il rapporto tra il candidato eletto ed il partito di appartenenza "...
non esercita influenza giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di
rapporto di mandato e l'assoluta autonomia politica dei rappresentanti del
consiglio comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla lista
o partito che li ha candidati."
Ciò posto, si osserva che nel caso di specie lo statuto comunale,
all'articolo 13, prevede un rinvio generale al regolamento consiliare anche
per la costituzione ed il funzionamento dei gruppi consiliari.
Il regolamento all'articolo 16 disciplina in modo dettagliato le modalità di
costituzione dei predetti gruppi, ma non contempla, tra le fattispecie
previste, il caso prospettato. La predetta norma dispone, ai commi 1 e 3,
che i consiglieri eletti nella medesima lista formano gruppo consiliare ed
il consigliere che intende far parte di un gruppo diverso da quello
corrispondente alla lista nella quale è stato eletto deve darne
comunicazione al presidente del consiglio, allegando la dichiarazione di
accettazione da parte del gruppo scelto all'atto di insediamento del primo
consiglio comunale.
Il successivo comma 4 stabilisce che "non può essere costituito alcun
gruppo consiliare con meno di due consiglieri", indicando le ipotesi in
cui è possibile prevedere la costituzione di gruppi unipersonali, mentre la
disposizione normativa contenuta nel comma 6 prevede che i singoli
consiglieri che non trovano collocazione nelle varie fattispecie indicate
nei commi precedenti, fanno parte del gruppo misto che ha le stesse
prerogative degli altri gruppi.
Solo in un caso è prevista la costituzione del gruppo nuovo, quello indicato
nel comma 5, il quale dispone che "In caso di scissione di un partito a
livello nazionale i consiglieri rappresentanti tale partito devono
dichiarare a quale formazione politica intendono appartenere e quindi,
eventualmente, costituire un nuovo gruppo al quale saranno riconosciute le
prerogative e la rappresentanza spettanti ad ogni gruppo consiliare".
Sulla base delle norme esaminate, la fattispecie in esame non sembra
rientrare nell'ipotesi contemplata nel citato comma 5 dell'articolo 16 del
regolamento, che prevede la sola possibilità di costituzione di un nuovo
gruppo in caso di scissione di un partito a livello nazionale.
Si osserva che i mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze
politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni
dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi
gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono
ammissibili; tuttavia sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria
potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme,
statutarie e regolamentari, nella materia. Soltanto il consiglio comunale,
nella sua autonomia ed in quanto titolare della competenza a dettare le
norme cui conformarsi in tale materia, è abilitato a fornire una
interpretazione delle disposizioni normative di cui si è dotato.
Pertanto, in assenza di una specifica norma statutaria o regolamentare che
possa contribuire a disciplinare il caso in esame, si ritiene opportuno che
siano apportate le necessarie modifiche all'articolo 16 del regolamento
(parere
26.01.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Questa amministrazione provinciale vorrebbe procedere ad
integrare temporaneamente il proprio organico mediante il ricorso
all'istituto dell'apprendistato, recentemente disciplinato anche per la
pubblica amministrazione.
Quali sono le modalità ed i limiti per l'accesso a tale istituto?
L'apprendistato nella Pubblica Amministrazione è stato recentemente
disciplinato a partire dall'art. 3-ter, D.L. 22.04.2023, n. 44, convertito,
con modificazioni, dalla L. 21.06.2023, n. 74 che demanda ad un successivo
decreto interministeriale la determinazione dei contenuti omogenei delle
convenzioni non onerose che le amministrazioni dello Stato possono
stipulare, fino al 31.12.2026, con le istituzioni universitarie per
l'individuazione di studenti di età inferiore a 24 anni, che abbiano
concluso gli esami previsti dal piano di studi, da assumere a tempo
determinato con contratto di formazione e lavoro, nel limite del 10 per
cento delle facoltà assunzionali esercitabili (e del 20 per cento per
comuni, unioni di comuni, province e città metropolitane).
All'uopo, il Ministro per la pubblica amministrazione ha emanato il D.M.
26.12.2023 che disciplina l'accesso e l'utilizzo di tale istituto.
Le principali caratteristiche individuate sono:
- possono accedervi studenti di età inferiore a 24 anni e
l'assunzione viene effettuata a tempo determinato;
- le procedure di reclutamento si svolgono nel rispetto delle norme
vigenti in materia di accesso al pubblico impiego;
- le amministrazioni procedenti devono utilizzare esclusivamente il
portale InPa;
- le procedure concorsuali finalizzate alle assunzioni prevedono
l'espletamento di una prova scritta, anche a contenuto teorico-pratico, e di
una prova orale;
- le procedure selettive sono bandite dalle amministrazioni sulla
base del proprio ambito territoriale;
- nell'ambito delle selezioni di cui all'articolo 2 sono oggetto di
valutazione i titoli accademici conseguiti dal candidato, compresa la media
ponderata dei voti conseguiti nei singoli esami e gli eventuali titoli di
specializzazione post lauream, nonché le eventuali esperienze
professionali documentate;
- il personale assunto ai sensi del presente provvedimento è
inquadrato nell'area dei funzionari, a livello retributivo iniziale, del
comparto Funzioni centrali, o nella corrispondente area prevista
dall'ordinamento dell'amministrazione procedente.
Sulla scorta di quanto innanzi evidenziamo come si tratti di un istituto
completamente diverso dall'apprendistato disciplinato per il settore privato
dal D.Lgs. 15.06.2015, n. 81 la più rilevante delle quali è sicuramente la
forma contrattuale: nel settore pubblico si tratta di un contratto a tempo
determinato di “formazione e lavoro” mentre nel settore privato è una
delle forme previste di assunzione con contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 22.04.2023, n. 44, art. 3-ter
- L. 21.06.2023, n. 74
Documenti allegati
D.M. 26.12.2023 (24.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Oneri per permessi spettanti agli amministratori locali.
A decorrere dal 01.01.2024, nel caso di amministratori
locali che siano lavoratori dipendenti da un ente locale, gli oneri per i
permessi retribuiti di cui all’articolo 79 TUEL sono a carico dell’ente
presso cui gli stessi esercitano il mandato politico.
Tale ente dovrà provvedere al rimborso delle somme nei confronti dell'ente
datore di lavoro, secondo le modalità di cui all’articolo 80 del medesimo
testo unico.
Il Comune chiede un parere in merito ai permessi spettanti agli
amministratori locali. Più in particolare, desidera sapere se si applichi
anche alla Regione Friuli Venezia Giulia la previsione introdotta dalla
legge finanziaria 2024, secondo la quale gli oneri per permessi retribuiti
dei lavoratori dipendenti da enti locali devono essere rimborsati al datore
di lavoro dall’ente presso il quale gli stessi esercitano il mandato
politico.
L’articolo 1 della legge 30.12.2023, n. 213 (Bilancio di previsione
dello Stato per l'anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il
triennio 2024-2026), al comma 536 prevede, infatti, che “Gli oneri per i
permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti degli enti locali di cui
all'articolo 2 del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267, sono a carico dell'ente presso il quale gli stessi esercitano le
funzioni pubbliche di cui all'articolo 79 del medesimo testo unico. Al
predetto personale si applicano le modalità di rimborso previste
dall'articolo 80 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.”.
L’articolo 80 del D.Lgs. 267/2000 stabilisce che le assenze dal servizio, di
cui al precedente articolo 79 [1], di un amministratore locale, sono allo
stesso retribuite dal datore di lavoro prevedendo, tuttavia, per i soli
lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici che i relativi
oneri siano a carico dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori
esercitano le funzioni pubbliche indicate.
In altri termini, secondo la previsione originaria del TUEL gli oneri per
permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti dagli enti locali, rientranti
tra gli enti pubblici non economici, rimanevano a carico
dell’amministrazione presso la quale svolgono la propria attività di lavoro
dipendente; diversamente per gli amministratori locali, che siano lavoratori
dipendenti da privati o da enti pubblici economici detti oneri dovevano
essere rimborsati al datore di lavoro dall’amministrazione locale di
appartenenza dell’amministratore, secondo le modalità indicate all’articolo
80 TUEL.
A seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 1, comma 536, della legge
213/2023, la disciplina prima applicabile ai soli amministratori locali,
lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici è estesa,
altresì, ai dipendenti degli enti locali: per tutte queste categorie è,
dunque, previsto il diritto del datore di lavoro ad essere rimborsato degli
oneri per permessi retribuiti dei propri lavoratori, dall’ente presso il
quale gli stessi svolgono le funzioni pubbliche. Resta fermo che per gli
amministratori locali che siano lavoratori dipendenti di un ente pubblico
non economico, diverso da un ente locale, detti oneri continueranno a
gravare sul datore di lavoro.
Quanto alle modalità del rimborso la legge finanziaria rinvia espressamente
alla disciplina contenuta all’articolo 80 del D.Lgs. 267/2000 in base alla
quale “l'ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, è tenuto a
rimborsare quanto dallo stesso corrisposto, per retribuzioni ed
assicurazioni, per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore. Il
rimborso viene effettuato dall'ente entro trenta giorni dalla richiesta. Le
somme rimborsate sono esenti da imposta sul valore aggiunto ai sensi
dell'articolo 8, comma 35, della legge 11.03.1988, n. 67.”
[2].
La disciplina sopra riportata, come conseguente alle novità introdotte dalla
legge finanziaria 2024, si applica anche agli amministratori locali del
Friuli Venezia Giulia, con la conseguenza che, a decorrere dal 01.01.2024
[3], gli oneri per permessi retribuiti, di cui all’articolo 79 TUEL, dei
lavoratori dipendenti da un ente locale [4], al pari di quelli dipendenti da
un ente pubblico economico o da un datore di lavoro privato, che siano
amministratori presso un ente locale anche della Regione Friuli Venezia
Giulia, sono a carico dell’ente presso il quale esercitano il mandato
politico, il quale dovrà provvedere al rimborso delle somme nei confronti
del datore di lavoro, secondo le modalità di cui all’articolo 80 del
medesimo testo unico.
-----------------
[1] Si tratta dell’assenza, limitata al tempo strettamente necessario per
la partecipazione a ciascuna seduta del consiglio comunale, e per il
raggiungimento del luogo di suo svolgimento (comma 1); dell’assenza dal
servizio, per i lavoratori dipendenti “facenti parte delle giunte comunali,
[…], metropolitane, delle comunità montane, nonché degli organi esecutivi
dei consigli circoscrizionali, dei municipi, delle unioni di comuni e dei
consorzi fra enti locali, ovvero facenti parte delle commissioni consiliari
o circoscrizionali formalmente istituite nonché delle commissioni comunali
previste per legge, ovvero membri delle conferenze dei capogruppo e degli
organismi di pari opportunità, previsti dagli statuti e dai regolamenti
consiliari,” per partecipare alle riunioni degli organi di cui fanno parte
per la loro effettiva durata, ivi compreso il tempo per raggiungere il luogo
della riunione e rientrare al posto di lavoro (comma 2); dell’assenza, in
aggiunta ai permessi sopra indicati, dal rispettivo posto di lavoro per un
massimo di 24 ore lavorative al mese, per i “componenti degli organi
esecutivi dei comuni, […], delle città metropolitane, delle unioni di
comuni, delle comunità montane e dei consorzi fra enti locali, e i
presidenti dei consigli comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché i
presidenti dei gruppi consiliari delle province e dei comuni con popolazione
superiore a 15.000 abitanti”; il diritto ad assentarsi dal rispettivo luogo
di lavoro è elevato a 48 ore per i “i sindaci, […], sindaci metropolitani,
presidenti delle comunità montane, presidenti dei consigli provinciali e dei
comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti” (comma 4).
[2] Per completezza espositiva si fa presente che l’articolo 79 TUEL, al
comma 6, stabilisce che “l’attività ed i tempi di espletamento del mandato
per i quali i lavoratori chiedono ed ottengono permessi, retribuiti e non
retribuiti, devono essere prontamente e puntualmente documentati mediante
attestazione dell’ente”.
[3] Data di entrata in vigore della legge 213/2023, ai sensi dell’articolo
21 della legge medesima.
[4] Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del D.Lgs. 267/2000
per enti locali si intendono “i comuni, le province, le città metropolitane,
le comunità montane, le comunità isolane e le unioni di comuni”. Detta
previsione deve coordinarsi con l’assetto dell’ordinamento degli enti locali
della nostra Regione, che, nell’esercizio della propria potestà legislativa
primaria in materia attribuitale dallo statuto ha soppresso le province con
la legge regionale 09.12.2016, n. 20, e ha istituito, quali forme di
gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali, le Comunità e le
Comunità di montagna con la legge regionale 29.11.2019, n. 21
(22.01.2024 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Esito votazioni in consiglio comunale. Parità di voti.
Sintesi/Massima
Una disposizione regolamentare che ritenesse approvata una delibera in caso
di parità di voti si porrebbe in contrasto col principio di maggioranza che
regola il funzionamento degli organi collegiali.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la
quale il segretario di un comune ha chiesto l'avviso di quest'Ufficio in
materia di quorum deliberativo del consiglio comunale. In particolare, è
stato chiesto se possa essere introdotta una modifica nel regolamento del
consiglio che riguardi la possibilità di intendere approvata una
deliberazione in caso di parità di voti.
Come noto, l'art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 dispone che il
funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto,
è disciplinato dal regolamento che deve indicare il numero dei consiglieri
necessari per la validità delle sedute. L'unico vincolo posto dalla legge
statale riguarda il quorum strutturale: la norma dispone, infatti, che la
fonte regolamentare deve indicare il numero dei consiglieri necessario per
la validità delle sedute, prevedendo che in ogni caso debba esservi la
presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente,
senza computare a tal fine il sindaco. Nessun limite è posto, invece, da
tale fonte con riferimento al quorum funzionale, la cui disciplina è
interamente posta a carico dell'ente ed alla sua autonomia.
Tuttavia, si osserva che una disposizione regolamentare, che ritenesse
approvata una delibera in caso di parità di voti, si porrebbe in contrasto
con il principio di maggioranza che regola il funzionamento degli organi
collegiali. Ed invero, la volontà dell'organo collegiale si identifica con
quella della maggioranza dei votanti, coincidente, negli organi collegiali
perfetti, con la maggioranza dei componenti (Consiglio di Stato-sez. VI, n.
470 del 05.02.2016).
Tale assunto è stato ribadito recentemente dal TAR Lazio-sez. III che, con
sentenza n. 13157 del 2023, ha ritenuto il principio di maggioranza quale
regola generale di formazione della volontà negli organi collegiali. La
riforma del Titolo V della Costituzione fa espressa menzione del potere
normativo dei comuni, delle province e degli altri enti locali, prevedendo a
livello costituzionale sia un potere statutario (art. 114, comma 2, Cost.)
sia un potere regolamentare (art. 117 Cost.); tuttavia, tale potere
normativo deve essere esercitato nel rispetto dei principi fondamentali
dell'ordinamento.
Infatti, lo stesso d.lgs. n. 267/2000 richiama più volte il principio di
maggioranza come criterio da considerare ai fini della volontà del consiglio
comunale
(parere
19.01.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
TRIBUTI:
L'ufficio tributi di questo comune, nel corso del corrente mese
di gennaio, sta procedendo all'elaborazione di avvisi di accertamento con
riferimento ad IMU 2019.
Le novità in tema di contenzioso tributario ed in particolare l'abrogazione
dell'istituto del reclamo mediazione sono immediatamente efficaci?
Come ricordato nel quesito, sulla Gazzetta Ufficiale n. 2 del 03/01/2024
(con espressa indicazione di efficacia a partire dal giorno successivo alla
pubblicazione in deroga al principio della "vacatio legis") è stato
pubblicato il D.Lgs. 30.12.2023 n. 220 recante "Disposizioni in materia
di contenzioso tributario".
La normativa che ha introdotto alcune novità sostanziali alla gestione del
contenzioso tributario che sono entrate in vigore quasi tutte dal 4 gennaio
(giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) salvo alcune
ipotesi espressamente indicate all'art. 4, comma 2, dello stesso Decreto
Legislativo per le quali l'efficacia è procrastinata al prossimo 1°
settembre.
Ricordiamo brevemente, per completezza di analisi, quali sono le principali
novità introdotte:
- Abrogazione dell'istituto del reclamo-mediazione ex art. 17-bis,
D.Lgs. 31.12.1992 n. 546;
- Novità in tema di ricorsi per vizi dell'atto presupposto da ente
diverso da quello che ha emesso l'atto impugnato che ora vanno proposti nei
confronti di entrambi gli enti (ad esempio, ricorso contro atto dell'Agenzia
delle Entrate Riscossione, che segue un accertamento esecutivo del Comune
mai ricevuto, va proposto obbligatoriamente nei confronti di entrambi);
- Per gli appelli notificati dal 05.01.2024 non sono ammessi nuovi
mezzi di prova ed è vietato produrre nuovi documenti salvo specifiche
eccezioni;
- L'impugnazione dell'ordinanza cautelare innanzi alla Corte di
Giustizia Tributaria - Cgt di secondo grado entro il termine di 15 giorni
(ovvero quella emessa dal giudice monocratico dinanzi alla Cgt di primo
grado in composizione collegiale);
- Lettura immediata del dispositivo dopo l'udienza di merito ovvero
il deposito e la comunicazione entro i successivi 7 giorni.
- Novità in tema di autotutela obbligatoria e facoltativa
prevedendo che tra gli atti impugnabili elencati nell'art. 19, D.Lgs.
31.12.1992 n. 546 sono inseriti il rifiuto espresso o tacito sull'istanza di
autotutela nei casi previsti dall'art. 10-quater, comma 2, L. 27.07.2000, n.
212 e il rifiuto espresso sull'istanza di autotutela nei casi previsti
dall'art. 10-quinquies, della medesima legge;
Con particolare riferimento alla questione proposta alla nostra attenzione e
fermo restando che per gli atti non ancora notificati al 4 gennaio (o non
consegnati all'agente postale per la notifica mezzo posta) occorre
modificare la dicitura sugli avvisi di accertamento eliminando ogni
riferimento al reclamo-mediazione, riteniamo che per il principio del
tempus regit actum, tutti ricorsi notificati dal 4 gennaio non devono
essere più preceduti dal reclamo/mediazione a prescindere dalla data di
notifica dell'accertamento impugnato (con costituzione in giudizio entro 30
giorni dalla notifica).
A nostro parere, pertanto, appare irrilevante la data di notifica ante
abrogazione dell'atto impositivo risultando invece determinante la data di
proposizione del ricorso.
Al contrario, tutti i ricorsi notificati prima del 04.01.2024 rimangono
soggetti a mediazione e seguiranno le regole precedenti (costituzione in
giudizio solo decorsi i 90 giorni per la fase di reclamo).
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 31.12.1992 n. 546,
art. 17-bis - D.Lgs. 31.12.1992 n. 546, art. 19 - L. 27.07.2000, n. 212,
art. 10-quater - L. 27.07.2000, n. 212, art. 10-quinquies - D.Lgs.
30.12.2023 n. 220
(17.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Corretta costituzione del consiglio di Unione Montana. Dimissioni
del consigliere di minoranza.
Sintesi/Massima
La cessazione dalla carica di un consigliere non impedisce all'organo di
funzionare medio tempore, salvo l'obbligo di tempestiva convocazione
dell'assemblea per provvedere alla surroga.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha chiesto l'avviso
di quest'Ufficio in merito alla corretta operatività del consiglio della
Unione ... a seguito della mancata sostituzione di un rappresentante delle
minoranze dei comuni facenti parte dell'Unione.
In particolare, è stato rappresentato che, a seguito della decadenza di un
consigliere di minoranza, l'ente non è riuscito a procedere all'elezione di
altro consigliere in quanto, sia nella prima che nella seconda convocazione
della conferenza straordinaria dei consiglieri di minoranza dei comuni
membri, non è stato raggiunto il numero legale dei partecipanti in ben tre
sedute convocate.
È stato, quindi, chiesto se, nelle more dell'elezione del nuovo consigliere
di minoranza, il consiglio dell'Unione montana, che raggiungerebbe comunque
in caso di convocazione il numero legale, possa essere convocato dal
presidente, attesa la necessità di approvare provvedimenti che risultano in
scadenza.
Al riguardo, si richiama l'art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, come
modificato dall'art. 1, comma 105, lett. a), della legge 56 del 2014, il
quale prevede che il consiglio della Unione di comuni "è composto da un
numero di consiglieri definito nello statuto, eletti dai singoli consigli
dei comuni associati tra i propri componenti, garantendo la rappresentanza
delle minoranze e assicurando la rappresentanza di ogni comune".
Lo statuto dell'Unione montana all'articolo 7, comma 2, prevede che "Il
Consiglio è composto da n. 15 membri compreso il Presidente (art. 37 TUEL
D.Lgs. 267/2000 ss.mm. e ii.): Sindaci o Consiglieri dei Comuni partecipanti
all'Unione stessa, da nominarsi entro 20 giorni dall'insediamento, e membri
individuati fra tra le minoranze comunali ove presenti, fino ad un massimo
di n. 3".
Il comma 3 contiene una clausola di salvaguardia in quanto dispone che, se
entro il citato termine di 20 giorni il Comune non provvede alla nomina del
consigliere, il sindaco è considerato componente a tutti gli effetti del
consiglio dell'Unione in rappresentanza di quell'ente locale. Il successivo
comma 7 demanda l'elezione dei membri della minoranza alla conferenza
straordinaria di tutti i consiglieri di minoranza in carica.
In merito al quesito posto, poiché è da ritenersi prevalente la necessità di
garantire la funzionalità dell'ente, ed in particolare del consiglio, quale
organo che, come recita l'articolo 7, comma 1, dello statuto, "…
determina l'indirizzo politico dell'Unione stessa ed esercita il controllo
politico-amministrativo, adottando gli atti fondamentali previsti della
legge per i Consigli comunali", si condivide l'avviso della Prefettura
in merito all'applicazione nel caso in esame del principio espresso dal TAR
Lombardia - Sez. di Brescia - con sentenza n. 245 del 28.02.2006.
Con tale pronuncia il giudice amministrativo ha affermato che "la
cessazione dalla carica di un consigliere non impedisce all'organo di
funzionare medio tempore, salvo … l'obbligo di tempestiva convocazione
dell'assemblea per provvedere alla surroga". L'orientamento
giurisprudenziale consolidato in materia ritiene non ammissibile un blocco
delle attività del consiglio ogni qualvolta un componente rassegni le
dimissioni
(parere
15.01.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Una
dipendente di questo ministero nel corso della fruizione di cinque giorni di
congedo parentale, al secondo giorno trasmette all'ufficio personale un
certificato di malattia.
I giorni di congedo non usufruiti sono persi oppure vengono sospesi dalla
malattia e quindi sono recuperabili?
Nell'ambito del CCNL Funzioni Centrali l'istituto del congedo parentale (o
congedo dei genitori) è attualmente disciplinato dall'art. 28 del CCNL per
il triennio 2019/2021 disapplicando il precedente art. 44 del CCNL
12.02.2018.
La differenza tra malattia e congedo parentale sia in termini giuridici che
economici è di tutta evidenza e pertanto necessita di un doveroso
approfondimento sia a tutela dell'Ente che del lavoratore stesso.
I commi 3 e 4 del CCNL 2019/2021 così disciplinano il congedo parentale:
"3. Nell'ambito del congedo parentale previsto per ciascun
figlio dall'art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2001, per le lavoratrici
madri o in alternativa per i lavoratori padri, i primi trenta giorni,
computati complessivamente per entrambi i genitori e fruibili anche
frazionatamente, non riducono le ferie, sono valutati ai fini dell'anzianità
di servizio e sono retribuiti per intero secondo quanto previsto dal comma
2.
4. Successivamente al congedo per maternità o di paternità, di cui
al comma 2, e fino al terzo anno di vita del bambino, nei casi previsti
dall'art. 47 del d.lgs. n. 151 del 2001, alle lavoratrici madri ed ai
lavoratori padri sono riconosciuti trenta giorni per ciascun anno computati
complessivamente per entrambi i genitori, di assenza retribuita secondo le
modalità di cui al comma 3".
Tanto ciò premesso, con un orientamento risalente al 2011 ma sempre attuale,
ARAN si era espressa sulla materia (orientamento RAL_873) ritenendo
ammissibile che, sulla base dell'art. 22, D.Lgs. 26.03.2001, n. 151, la
lavoratrice possa interrompere la fruizione in atto del congedo parentale in
caso di malattia specificando che a tal fine "la lavoratrice chiederà la
trasformazione del titolo dell'assenza, da congedo parentale in assenza per
malattia, presentando la necessaria documentazione".
In materia trova applicazione, da quel momento in poi, la generale
disciplina delle assenze per malattia ex art. 29 del citato CCNL.
Come evidenziato da ARAN nell'orientamento RAL_873, infine, sottolineiamo
come per l'utilizzo successivo della giornata di congedo parentale non
usufruito, il dipendente presenterà una nuova domanda all'ente.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 26.03.2001, n. 151,
art. 22 - Acc. 09.05.2022, art. 28 - Acc. 09.05.2022, art. 29 - orientamento
ARAN RAL_873
(10.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Accesso agli atti del consigliere comunale Presidente dalla
Commissione di controllo e Garanzia.
Sintesi/Massima
In materia d'accesso agli atti, la riservatezza non è opponibile ai
consiglieri comunali, perché tenuti al segreto d'ufficio. L'equilibrato
bilanciamento si raggiunge attraverso l'ostensione degli atti, previa "mascheratura"
dei nominativi e dei dati idonei a consentirne l'individuazione.
Testo
Con nota pervenuta in data 20.10.2023, il sindaco del Comune ... ha chiesto
l'avviso di quest'Ufficio in materia di accesso agli atti.
In particolare, è stato chiesto se un consigliere comunale, che è anche
presidente della commissione di controllo e garanzia, possa accedere ad
informazioni riguardanti il pagamento della TARI da parte di enti,
associazioni, cooperative che gestiscono immobili di proprietà comunale,
nonché informazioni relative al pagamento della tassa di occupazione del
suolo pubblico da parte di titolari di esercizi pubblici che espongono merci
all'esterno dei propri negozi, anche su aree delimitate da stalli per il
parcheggio dei veicoli a pagamento.
Al riguardo, nel ribadire quanto espresso nel parere n. 25717 del 21.09.2023
di quest'Ufficio pubblicato in data 11 ottobre scorso, a cui ha fatto
riferimento anche il sindaco nella propria nota, si richiama la sentenza del
Consiglio di Stato del 01.03.2023 n. 2189, secondo cui la riservatezza non è
opponibile ai consiglieri comunali, in quanto gli stessi sono tenuti al
segreto d'ufficio ai sensi dell'art. 43, comma 2, TUEL (cfr. anche sentenza
TAR Lazio-Latina, 03.03.2023, n. 49).
Nel contempo, il giudice amministrativo ha ribadito che il rispetto di un
equilibrato bilanciamento si può utilmente raggiungere attraverso
l'ostensione di tutti gli atti richiesti, previa "mascheratura" dei
nominativi e di ogni altro dato idoneo a consentire l'individuazione degli
stessi. Il diritto di accesso del consigliere, seppur più ampio rispetto
all'accesso agli atti amministrativi previsto dall'art. 7 della legge n.
241/1990, non può esercitarsi, quindi, con pregiudizio di altri interessi
riconosciuti dall'ordinamento meritevoli di tutela.
Sul punto il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4792 del 22.06.2021, ha
evidenziato che l'esercizio del diritto di accesso di cui all'articolo 43,
comma 2, TUEL deve essere letto ed interpretato in stretto rapporto con
l'art. 42 del medesimo TUEL; pertanto, il suddetto limite implica che il
diritto di conoscenza del consigliere debba porsi in rapporto di
strumentalità con la funzione "di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo", propria del consiglio comunale. I dati e le
informazioni di cui viene a conoscenza il consigliere comunale devono essere
utilizzati solo per le finalità realmente pertinenti al mandato, rispettando
il dovere del segreto secondo quanto previsto dalla legge e nel rispetto dei
principi in materia di privacy.
Si osserva che, nel caso in esame, essendo stato rilevato che le richieste
del consigliere in argomento vengono effettuate nella qualità di presidente
della commissione di controllo e garanzia, le cui funzioni sono declinate
dall'articolo 14, comma 5, del regolamento delle commissioni consiliari,
occorre tenere in considerazione anche il comma 8 del citato articolo 14, il
quale prevede che "La Commissione ha diritto di accesso agli atti degli
uffici e servizi comunali per effettuare le verifiche, i controlli e gli
accertamenti previsti dal precedente quinto comma. I responsabili dei
servizi e l'altro personale addetto agli uffici e servizi sono tenuti a
prestare alla Commissione tutta la collaborazione dalla stessa richiesta".
Si evidenzia, comunque, che sul consigliere non può gravare alcun
particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che
rientra nelle prerogative del consigliere comunale il controllo
dell'attività svolta dall'ente, fermi restando gli obblighi di riservatezza
cui lo stesso è tenuto a norma di legge
(parere 09.01.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
ENTI LOCALI:
Questa amministrazione comunale non ha approvato il bilancio di
previsione 2024/2026 entro il termine del 31.12.2023.
A seguito della modifica dei principi contabili ed al fine di aderire
all'esercizio provvisorio, è necessaria -a partire da quest'anno- una
apposita deliberazione consiliare da adottarsi nei primi giorni dell'anno?
Come giustamente ricordato nel
quesito sottoposto alla nostra analisi, la nuova disposizione del punto
9.3.6 del Principio contabile Allegato n. 4/1 al D.Lgs. 23.06.2011, n. 118
come modificato dal Decreto 25.07.2023 del Ministro dell'economia e delle
finanze cita testualmente che "Il rinvio dei termini di approvazione del
bilancio disposto con decreto ministeriale ai sensi dell'art. 151, comma 1,
del TUEL, anche se determinato da motivazioni di natura generale, è adottato
dagli enti locali effettivamente impossibilitati ad approvare il bilancio
nei termini, per le motivazioni addotte nei decreti ministeriali".
A seguito di tale formulazione gli operatori degli uffici finanziari si sono
posti il problema sulla necessità o meno di approvare in sede Consiliare una
apposita deliberazione al fine di "aderire" all'esercizio provvisorio
nelle more dell'approvazione del bilancio di previsione se non avvenuta
entro il 31 dicembre.
Sulla scorta di quanto innanzi, possiamo dire che almeno per questo
esercizio finanziario il D.M. 22.12.2023 del Ministro dell'interno che
proroga i termini per l'approvazione del bilancio di previsione 2024/2026 al
15.03.2024 non lascia spazio a dubbi dove dispone che "Ai sensi
dell'articolo 163, comma 3, del Testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, è
autorizzato per gli enti locali l'esercizio provvisorio del bilancio, sino
alla data di cui al comma 1".
Pertanto, il Ministro ha di fatto autorizzato l'esercizio provvisorio del
bilancio fino al 15.03.2024 per tutti gli enti che non abbiano già approvato
il documento contabile senza necessità di un previo passaggio consiliare.
In ultimo evidenziamo come con la FAQ n. 54 pubblicata lo scorso 28 dicembre
la commissione Arconet secondo cui gli enti che intendono avvalersi del
citato rinvio nell'approvazione del bilancio ‘possono' (e non devono)
indicare le motivazioni che non hanno consentito l'approvazione del
documento contabile nei termini di legge (entro il 31 dicembre) all'interno
del corpo della delibera stessa di approvazione.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art.
163 - D.Lgs. 23.06.2011, n. 118, Allegato n. 4/1 - D.M. 22.12.2023 del
Ministro dell'interno
Documenti allegati
Decreto 25.07.2023 del Ministro dell'economia e delle finanze (04.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI:
Come giustificare la competenza nell’adozione di un provvedimento da parte
di un Ufficio con PEG ancora in attesa di approvazione?
DOMANDA:
Come giustificare la competenza nell'adozione di un provvedimento da parte
di un Ufficio con PEG ancora in attesa di approvazione, ma in esercizio
definitivo in quanto il Bilancio è approvato? Sì può fare riferimento al PEG
relativo all'esercizio precedente?
RISPOSTA:
L’articolo 107 del Tuel, stabilisce che spettano ai responsabili degli
uffici nominati dal Sindaco secondo quanto stabilisce l’art. 50 comma 10 del
Tuel, tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi che impegnano l’amministrazione anche verso l’esterno, non
compresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di
indirizzo e controllo politico–amministrativo degli organi di governo
dell’ente.
Il comma 3 del citato articolo 107, elenca in particolare quali sono i
compiti attuativi degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di
indirizzo adottati dagli organi di governo dell’ente.
Sulla base dei principi sopra richiamati, nel caso esposto nel quesito, si
ritiene che se l’atto adottato dal responsabile di un servizio è relativo
alla gestione ordinaria conseguente a scelte e decisioni, già assunte dalla
Giunta con provvedimenti precedenti (ad esempio: acquistare le forniture
necessarie al normale funzionamento di un asilo nido, acquistare beni di
cancelleria necessari al funzionamento degli uffici, ecc.; cioè qualsiasi
provvedimento conseguente a decisioni che garantiscano l’ordinaria
amministrazione o comunque la prosecuzione di attività già decise in
precedenza dalla Giunta), sia corretto anche in assenza del Peg relativo
all’anno in corso.
Se si tratta, invece, di provvedimenti riguardanti nuove decisioni o nuovi
obiettivi che debbono essere decisi dalla Giunta con il nuovo Peg, si
ritiene che il responsabile di servizio non sia legittimato ad adottare un
provvedimento.
Quindi, nel caso in questione, occorre dimostrare che il provvedimento
adottato dal responsabile del servizio, si è reso necessario in quanto
derivante da norme di legge e necessario ad evitare il cattivo funzionamento
di servizi già attivati dall’ente o comunque necessari ad evitare che siano
arrecati danni patrimoniali certi e gravi per l’ente (dicembre 2023
- tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: UTC:
condizioni per l’attribuzione di funzioni vicarie ad un dipendente di Area
Istruttori.
DOMANDA:
In un comune di 2mila abitanti l'UTC ha come apicale un ingegnere di Cat.
D. Da un paio di anni è stato assunto un geometra di Cat. C che nel
frattempo si è laureato come architetto e presta la sua attività in un
comune vicino con scavalco di eccedenza in funzione apicale però di Cat. C.
In considerazione di questa ultima circostanza il Sindaco, posto che ha
laurea in architettura, vorrebbe attribuire le funzioni vicarie dell'UTC in
assenza o impedimento dell'ingegnere, come hanno fatto tanti enti locali
nella medesima situazione.
Si chiede di sapere se è legittimo e se tali
funzioni vicarie possano portare il dipendente a chiedere in futuro le
mansioni superiori che, comunque, il decreto del Sindaco di conferimento delle
funzioni vicarie espressamente escluderebbero.
RISPOSTA:
In relazione alla situazione prospettata, viste le dimensioni dell’Ente, si
deve presumere che nel settore tecnico del Comune non vi siano in organico
altri Funzionari ex Cat. D in possesso delle competenze necessarie per
l’attribuzione di un incarico ad interim, che dovrebbe normalmente
rappresentare la prima opzione da considerare.
Stando così le cose, le
funzioni vicarie ad un dipendente di Area Istruttori può avvenire a
determinate condizioni.
Il presupposto iniziale deve necessariamente essere
l’assenza di una doppia remunerazione: per la stessa posizione organizzativa
non è consentito corrispondere due retribuzioni di posizione
contemporaneamente. Ogni eventuale riconoscimento economico a favore del
vicario deve vedere una corrispondente decurtazione del trattamento
spettante al titolare; diversamente, la responsabilità del vicario dovrà
essere svolta a titolo gratuito, il che pare per nulla equo oltre che poco
corretto.
Affinché la sostituzione possa avvenire, inoltre, non è
sufficiente la mera nomina del vicario, ma occorre una previsione specifica
all’interno del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, con
la quale disciplinare in quali circostanze l’avvicendamento potrà essere
attivato.
E’ sicuramente da escludere l’assenza per ferie, stante quanto
disposto dall’art. 38, comma 1, del CCNL, perché il titolare continua a
percepire l’intera retribuzione di posizione, o per congedo di
maternità/paternità. Per le altre assenze, è opportuno definire una soglia
minima di assenza oltre la quale può scattare la sostituzione, su decreto
del Sindaco.
Per quanto riguarda le mansioni superiori, esse più che
conseguenza dell’attribuzione del ruolo vicario dovrebbero esserne il
presupposto: per lo svolgimento di funzioni apicali l’ordinamento dell’Ente
prevede una figura di Area Funzionari e secondo la stessa logica durante
tale assegnazione anche il dipendente vicario dovrebbe essere
temporaneamente inquadrato in questa Area.
Non è chiaro dal quesito se si
voglia invece intendere il concetto di mansioni superiori nel senso di
progressione “verticale”, che darebbe luogo ad una crescita professionale di
natura stabile.
Se così fosse, sicuramente l’assegnazione temporanea di un
ruolo apicale potrebbe essere valutata tra gli “incarichi rivestiti”
valutati ai fini delle progressioni tra le aree secondo l’art. 15 del CCNL,
o tra le “competenze acquisite nei contesti lavorativi” di cui all’art. 13
comma 7; tuttavia, non sussiste alcun automatismo in tal senso, né il
lavoratore potrà vantare diritti al reinquadramento sulla base
dell’esercizio temporaneo di funzioni vicarie (dicembre 2023
- tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
TRIBUTI: Fabbricati
collabenti e in corso di costruzione: imposizione fiscale prima e dopo il
2020.
DOMANDA:
Vorremmo fare un po' di sintesi sulla questione dei fabbricati collabenti e
fabbricati in corso di costruzione distinguendo tra periodo di imposta ante
2020 e post 2020.
RISPOSTA:
I titolari di fabbricati fatiscenti, privi di rendita, non pagano l'Imu né
sui fabbricati né sulle aree edificabili sottostanti. Questi beni immobili
non possono essere assoggettati a imposizione fino a quando l’eventuale
demolizione restituisca autonomia alle aree per poter essere nuovamente
edificate.
Si è così espresso il dipartimento delle finanze del Ministero
dell’economia con la risoluzione n. 4 del 16.11.2023.
La presa di
posizione ministeriale, che ha fatto seguito alle richieste di parere di
diversi comuni, è chiara nell’escludere l’assoggettamento a imposizione dei
fabbricati cosiddetti collabenti, iscritti nella categoria catastale F/2. Si
tratta di unità immobiliari privi di rendita (fabbricati fatiscenti,
diroccati, ruderi, etc.,), non soggetti al tributo. Per il Ministero,
dunque, sono “beni immobili caratterizzati da notevole livello di degrado,
che ne determina l’assenza di autonomia funzionale e l’incapacità reddituale
temporalmente rilevante”.
Viene richiamato nella risoluzione l’art. 1, comma 741, lett. a), della legge 160/2019, in base al quale per fabbricato si
intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto
edilizio urbano con attribuzione di rendita catastale, considerandosi parte
integrante del fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne
costituisce pertinenza esclusivamente ai fini urbanistici, purché
accatastata unitariamente; il fabbricato di nuova costruzione è soggetto
all'imposta a partire dalla data di ultimazione dei lavori di costruzione
ovvero, se antecedente, dalla data in cui è comunque utilizzato”.
I
fabbricati collabenti, per il dipartimento, “sono a tutti gli effetti
“Fabbricati” e la circostanza che siano “privi di rendita” li porta ad
essere esclusi dal novero dei fabbricati imponibili”.
Questo comporta che
“non possono essere qualificati diversamente, come vorrebbero invece i
comuni che li definirebbero “terreni edificabili”. Non assume alcuna
rilevanza ai fini dell’imposizione il fabbricato, perché privo di rendita, e
neppure l’area edificabile, in quanto in Catasto risulta iscritto il
fabbricato, “salvo che l'eventuale demolizione restituisca autonomia
all'area fabbricabile che, solo da quel momento, è soggetta a imposizione
come tale, fino al subentro dell’imposta sul fabbricato ricostruito".
Anche
il fabbricato di nuova costruzione non è soggetto al pagamento dell'Imu fino
a quando non è ultimato o effettivamente utilizzato. Queste regole valgono
sia prima che dopo il 2020 (dicembre 2023
- tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Gruppo misto. Composizione delle commissioni consiliari.
Sintesi/Massima
Il TAR Veneto con sentenza n. 1273/2022 introduce il principio di non
imposizione del numero minimo di consiglieri per costituire un gruppo misto.
L'ente che intenda applicare il suddetto principio dovrà apportare le dovute
modifiche statutarie e regolamentari.
Testo
Un segretario generale ha chiesto se, alla luce della sentenza del TAR
Veneto 08.08.2022 n. 1273, il consigliere comunale fuoriuscito
dall'originario gruppo di appartenenza possa confluire nel gruppo misto
unipersonale e, conseguentemente, se possa essere convocato per partecipare
alle commissioni consiliari permanenti.
Tanto è stato chiesto in considerazione del fatto che lo statuto comunale
all'articolo 30 prevede la formazione di nuovi gruppi solo se composti da
due componenti, ad eccezione dei gruppi i cui consiglieri rappresentano
liste che hanno ottenuto un solo seggio, mentre la sopracitata sentenza
introduce il principio che non si può imporre un numero minimo dei
consiglieri per costituire un gruppo misto.
Al riguardo, si premette che il citato articolo 30, al comma 2, prevede, tra
l'altro, che il consigliere che "non sia accettato da nessun gruppo entra
a fare parte del gruppo misto se esistente".
Anche il regolamento del consiglio comunale, approvato con deliberazione n.
35 del 24.07.1995, ossia in data antecedente all'adozione del TUEL n.
267/2000 ed allo statuto comunale approvato nel 2005, all'art. 8 disciplina
la costituzione dei gruppi consiliari.
In particolare, il comma 2 dispone che ciascun gruppo è costituito da almeno
tre consiglieri, mentre un gruppo può essere costituito da un solo
consigliere nel caso che una lista presentata alle elezioni abbia avuto
eletto un solo consigliere. Il successivo comma 5 precisa che il consigliere
che si distacca dal gruppo originario e non aderisce ad altri gruppi non
acquisisce le prerogative che spettano ad un gruppo consiliare. Il predetto
comma 5 prevede ancora che "qualora più consiglieri vengano a trovarsi
nella predetta condizione, essi costituiscono un gruppo misto";
pertanto, anche il regolamento consente la formazione del gruppo misto solo
in presenza di più consiglieri e tale gruppo deve intendersi costituito da
almeno due componenti alla luce di quanto previsto dalla norma statutaria.
In merito alla questione sottoposta occorre evidenziare che il TAR Veneto,
con sentenza n. 1273 dell'08.08.2022, citata dal segretario generale,
afferma, come si è innanzi detto, un importante principio secondo cui "la
disposizione del regolamento del consiglio, che impone un numero minimo di
consiglieri … per costituire il gruppo misto … introduce un irragionevole
sbarramento che preclude non la semplice costituzione di un gruppo
unipersonale, espressivo di un qualche orientamento politico, ma
l'iscrizione necessaria del consigliere fuoriuscito in un gruppo privo di
autonoma connotazione politica (il c.d. gruppo misto) in quanto strumentale
all'accesso alla dimensione superindividuale del mandato elettorale".
Il giudice amministrativo, con la sopracitata pronuncia, ha precisato che "l'alterazione
verificatasi nella rappresentanza proporzionale dei gruppi all'interno della
commissione, legittima il Consiglio comunale a provvedere al ripristino dei
rapporti numerici, specie se … il recesso della ricorrente dal gruppo di
maggioranza ne ha comportato l'iscrizione nel gruppo misto (cui andrebbe
comunque attribuito un commissario) e spostato in una certa percentuale gli
equilibri tra le forze politiche".
Ciò posto, occorre tenere presente che la materia concernente la
costituzione ed il funzionamento dei gruppi consiliari è demandata proprio
allo statuto ed al regolamento di ciascun ente locale e, pertanto, le
problematiche ad essa connesse devono trovare adeguata soluzione nell'ambito
delle suddette fonti normative.
Come è stato più volte evidenziato da quest'Ufficio in pareri già resi,
compete al consiglio comunale, nella sua autonomia, fornire
un'interpretazione delle norme statutarie e regolamentari di cui si è dotato
e valutare l'opportunità di modificare il regolamento al fine di
disciplinare in maniera più puntuale la materia in esame. Riguardo alla
formazione delle commissioni consiliari, occorre garantire il rispetto del
principio di proporzionalità ex art. 38, comma 6, TUEL n. 267/2000,
richiamato anche dall'articolo 10, comma 2, del regolamento comunale.
In proposito, si richiama altresì la sentenza del Consiglio di Stato - sez.
V, n. 4919 del 25.10.2017, con cui si è puntualizzato che "... per
esigenze di funzionalità delle articolazioni interne referenti, costituite
appunto dalle commissioni del consiglio, l'inderogabile principio di
proporzionalità ... può essere attuato non già solo con riguardo alla
composizione dell'organo, ma alle modalità di voto. In particolare … la
commissione può essere composta in modo tale da assicurare la presenza in
essa di tutte le forze politiche presenti in consiglio, ma con la
contestuale previsione di un sistema di voto in grado di rifletterne il
diverso peso rappresentativo, e dunque di rispettare sotto questo diverso
profilo il principio di proporzionalità di cui all'art. 38, comma 6,
t.u.e.l.".
Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sopra citato, se l'ente
intende applicare il principio che si desume dalla menzionata sentenza del
TAR Veneto, dovrà apportare le dovute modifiche allo statuto comunale e
prevedere nel regolamento sul funzionamento delle commissioni consiliari
anche i poteri e l'organizzazione del gruppo misto unipersonale
(parere
14.12.2023 - link a https://dait.interno.gov.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Commissione giudicatrice concorso pubblico. Nomina, in qualità di membro, di
rappresentante sindacale.
Per quanto concerne la presenza di rappresentanti
sindacali all'interno delle commissioni giudicatrici di concorso, la
giurisprudenza non ha espresso orientamenti univoci.
Secondo una certa interpretazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza
28.07.2014, n. 3972), è da rimarcare il significato letterale della
formulazione, da intendersi cioè riferito in generale a “coloro che
ricoprono cariche sindacali”. Un tanto considerando la volontà del
legislatore di fugare ogni possibilità di sviamento dell’interesse pubblico
o di un’imparziale e non trasparente valutazione dei concorrenti.
Secondo un diverso orientamento (cfr., tra le altre, Consiglio di Stato,
sez. III, sentenza 31.01.2020, n. 796 e sez. VI, 01.06.2010, n. 3461),
occorre che vi sia comunque un qualche elemento di possibile incidenza tra
l’attività esercitabile da colui che ricopre cariche politiche, sindacali o
professionali e l’attività dell’ente che bandisce il concorso, altrimenti la
disposizione verrebbe a generalizzare in modo eccessivo e senza adeguata
giustificazione il sospetto di imparzialità anche nei confronti di soggetti
che non gestiscano alcun potere rilevante e perciò non siano comunque
idonei, sia pure da un punto di vista astratto, a condizionare la vita
dell’ente che indice la selezione.
Il Comune chiede alcuni chiarimenti in ordine alla nomina di un
rappresentante sindacale in qualità di membro di una commissione
giudicatrice di un concorso che l’Ente è in procinto di indire per
l’assunzione di un Agente di Polizia, categoria PLA. In particolare, l’Ente
gradirebbe conoscere se un rappresentante sindacale nel comune da cui
dipende possa essere nominato membro esterno di una commissione esaminatrice
di concorso bandito da altra amministrazione.
Come noto, l’art. 35, comma 3, lett. e), del d.lgs. 165/2001 dispone che la
composizione delle commissioni concorsuali nelle pubbliche amministrazioni
si caratterizza per l’esclusiva presenza di esperti di provata competenza
nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni,
docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell’organo di
direzione politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche politiche
e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed
organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali.
[1]
In ordine all’interpretazione della locuzione “rappresentanti sindacali”
si è espressa la giustizia amministrativa, che ha assunto in merito
posizioni non univoche.
Secondo un certo orientamento [2], è da rimarcare il significato letterale
della formulazione, da intendersi cioè riferito in generale a “coloro che
ricoprono cariche sindacali”. Un tanto considerando la volontà del
legislatore di fugare ogni possibilità di sviamento dell’interesse pubblico
o di un’imparziale e non trasparente valutazione dei concorrenti. Ciò si
realizzerebbe infatti per la mera qualità di risultare rappresentante
sindacale, indipendentemente dal conferimento di mandati specifici; la
carica sindacale è assunta in conseguenza di una precisa impostazione sulle
politiche lavorative del singolo settore e potrebbe comunque influenzare il
giudizio del componente [3].
Si è pertanto evidenziato –in tale contesto– che la normativa vigente non
autorizza un’interpretazione restrittiva delle disposizioni, poiché la
formulazione stessa della norma esclude sic et simpliciter ed in astratto i
rappresentanti sindacali dalle commissioni di concorso.
Corre l’obbligo di segnalare che un diverso orientamento, confermato più
recentemente [4] ha invece sottolineato che necessita applicare criteri
puntuali per l’applicazione del divieto di cui si discute.
Si è rilevato che “occorre che vi sia comunque un qualche elemento di
possibile incidenza tra l’attività esercitabile da colui che ricopre cariche
politiche, sindacali o professionali e l’attività dell’ente che indice il
concorso, altrimenti la disposizione verrebbe a generalizzare in modo
eccessivo e senza adeguata giustificazione il sospetto di imparzialità anche
nei confronti di soggetti che non gestiscano alcun potere rilevante e perciò
non siano comunque idonei, sia pure da un punto di vista astratto, a
condizionare la vita dell’ente che indice la selezione. Detto elemento di
collegamento, in mancanza di criteri legali, può essere rinvenuto nella
sfera di influenza dell’attività svolta dal soggetto ricoprente cariche
politiche, sindacali o professionali, per cui se questa in astratto è idonea
a riverberare i suoi effetti anche sull’ente che indice la selezione,
l’incompatibilità deve ritenersi sussistente, altrimenti deve escludersi,
salva la deducibilità delle ipotesi di cui all’art. 51 c.p.c., o del vizio
di eccesso di potere sotto i diversi profili consentiti”.
Si è inoltre rimarcato –in detto contesto– che la possibilità di influire
sull’ente che indice la selezione potrebbe favorire la costituzione, già in
fase concorsuale, di rapporti di “affiliazione” tra il
commissario-rappresentante sindacale ed alcuno dei concorrenti, in funzione
del rafforzamento della posizione dell’esponente sindacale nell’esercizio
dei suoi compiti rappresentativi, con i conseguenti intuibili effetti
perturbatori sulla corretta ed imparziale esplicazione delle valutazioni
concorsuali.
In sostanza, l’estraneità dell’amministrazione che ha indetto il concorso al
raggio di azione del rappresentante sindacale non consentirebbe di
prefigurare la necessaria interferenza tra i suoi compiti sindacali e
l’attività della prima, situazione che integra il presupposto applicativo
del divieto normativo in esame.
-----------------
[1] Analoga previsione è contemplata all’art. 9, comma 3, del D.P.R.
487/1994.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 28.07.2014, n. 3972
[3] In tal senso si sarebbe espresso il Consiglio di Stato, sezione I, 20.03.2002, n. 653/2002 (non reperibile) citato da C.d.S. n. 3972/2014.
[4] Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 31.01.2020, n. 796;
sez. VI, 01.06.2010, n. 3461; Sez. V, n. 6526 del 21.10.2003; sez.
V, 27.07.2002, n. 4056
(21.11.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
VARI:
Contributi in favore degli amministratori di sostegno.
1) L’incarico dell’amministratore di sostegno è
gratuito. Il solo giudice tutelare tuttavia, considerando l'entità del
patrimonio e le difficoltà dell'amministrazione, potrebbe assegnargli
un'equa indennità.
2) Si ritiene che il Comune non possa prevedere una forma
contributiva in favore degli amministratori di sostegno operanti sul
territorio comunale: infatti, un tale beneficio economico sarebbe in
contraddizione con l’essenziale gratuità dell’ufficio di amministratore di
sostegno, espressamente stabilita dalla legge.
Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di prevedere una
forma contributiva in favore degli amministratori di sostegno operanti sul
territorio comunale.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si
formulano le seguenti considerazioni.
In via generale, si ricorda che la definizione di amministratore di sostegno
è contenuta nell’articolo 404 del codice civile il quale recita: “La persona
che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o
psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di
provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di
sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la
residenza o il domicilio.”.
Il legislatore italiano, dopo un lungo iter, con la legge 09.01.2004, n.
6 ha introdotto nel codice civile il titolo XII dedicato alla disciplina
delle misure di protezione dei soggetti privi, in tutto o in parte, di
autonomia [1].
In particolare, l’articolo 411 del codice civile, rinvia,
quanto alle norme da applicare all’istituto in riferimento, ad alcune
disposizioni dettate in tema di tutela, tra le quali, per quanto qui rileva,
vi è l’articolo 379 c.c. il cui primo comma recita: “L'ufficio tutelare è
gratuito.”. Il comma secondo del medesimo articolo dispone, poi, che: “Il
giudice tutelare tuttavia, considerando l'entità del patrimonio e le
difficoltà dell'amministrazione, può assegnare al tutore un'equa indennità.
[…]”.
Con riferimento all’amministratore di sostegno, la dottrina ha rilevato che
“la norma, in considerazione del carattere pubblicistico dell’incarico,
afferma la tendenziale gratuità dello stesso. Ciò, anche in ragione del
fatto che l’incarico, assai frequentemente, è svolto da familiari o stretti
congiunti del beneficiario e che sarebbe contrario ad un comune senso di
equità e ragionevolezza prevedere un compenso per quella che, di fatto, è
l’assistenza di un proprio caro.” [2].
La possibilità di riconoscere all’amministratore di sostegno un’equa
indennità, tenuto conto dell’entità del patrimonio del beneficiario e delle
difficoltà dell’amministrazione, è rimessa esclusivamente al giudice
tutelare. Il permanere, tuttavia, del principio della gratuità dell’incarico
serve a ribadire la funzione solidaristica dell’incarico, che non dovrebbe
essere assunto con la principale finalità di un arricchimento
[3].
Alla luce di quanto sopra segue l’esistenza di un principio generale in base
al quale l’amministratore di sostegno non deve ricevere un compenso per il
suo incarico e la possibilità che lo stesso possa ottenere un rimborso delle
spese sostenute durante l’adempimento dei suoi doveri è rimessa
esclusivamente al giudice tutelare, il quale, in situazioni particolari, può
stabilire un equo indennizzo in base alla natura delle attività svolte.
Quanto alla possibilità per l’ente locale di prevedere una contribuzione in
favore di tale figura giuridica, si ricorda, in generale, che l’articolo 12
della legge 07.08.1990, n. 241, dispone che “la concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati
sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni
procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e
delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi” (comma 1) e
che “l’effettiva osservanza” di tali criteri e modalità “deve risultare dai
singoli provvedimenti” che concedono i benefici (comma 2).
Premesso che rientra nell’autonomia dell’ente locale, garantita dalla
Costituzione, la scelta in ordine al perseguimento degli interessi affidati
alle sue cure, pur tuttavia, “'l’insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della
Corte dei Conti non comporta la sottrazione di tali scelte ad ogni
possibilità di controllo della conformità alla legge dell'attività
amministrativa anche sotto l'aspetto funzionale, vale a dire in relazione
alla congruenza dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via
generale o in modo specifico, dal legislatore.” [4].
La dottrina ha rilevato
come ciò che è escluso dal «sindacato giurisdizionale è unicamente il
“merito” amministrativo e non la scelta discrezionale nella sua interezza
che deve, in ogni caso, rispettare i c.d. “limiti interni” della
discrezionalità–interesse pubblico, causa del potere esercitato,
osservanza dei precetti di logicità e di imparzialità – alla cui violazione
si fa tradizionalmente risalire il vizio dell’eccesso di potere.»
[5].
Interessanti risultano essere le considerazioni di recente espresse dalla
magistratura contabile, la quale ha rilevato che “gli enti locali possono
deliberare contributi a favore di soggetti terzi in relazione alle
iniziative ritenute utili per la comunità amministrata, nel rispetto, in
concreto, dei principi che regolano il legittimo e corretto svolgimento
delle proprie potestà discrezionali, determinati proprio dall'articolo 12
della L. 07.08.1990, n. 241.
Ciascun ente, pertanto, in relazione alle
risorse disponibili, individua gli obiettivi da perseguire e le attività
che, in concreto, possono essere svolte, ricordando, nel contempo,
l'insegnamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui "in ogni
operazione di finanziamento a carico della mano pubblica, il beneficio
economico è riferibile ad un obiettivo essenziale perseguito dalla relativa
disciplina di settore (sia normativa che amministrativa).
Il finanziamento è
preordinato al soddisfacimento di un interesse istituzionale che trascende,
cioè, pur implicandolo, l'interesse dei destinatari; vale a dire che in ogni
operazione di finanziamento non è intellegibile solo un interesse del
beneficiario ma anche quello dell'organismo che l'elargisce, il quale a sua
volta, altro non è se non il portatore degli interessi, dei fini e degli
obiettivi del superiore livello politico istituzionale.
Logico corollario è
che le disposizioni attributive di finanziamenti devono essere interpretate
in modo rigoroso e quanto più conformemente con gli obiettivi avuti di mira
dal normatore" (vd. Consiglio di Stato, Sez. V, 27/06/2012, n. 3778).”
[6].
Alla luce delle considerazioni espresse dalla giurisprudenza si sollevano
perplessità circa l’ammissibilità della contribuzione in riferimento:
infatti, il beneficio economico che l’Amministrazione intenderebbe elargire
pare essere in contraddizione con l’essenziale gratuità dell’ufficio di
amministratore di sostegno, espressamente stabilita dalla legge.
Si osserva,
inoltre, come il servizio pubblico svolto dagli amministratori di sostegno
non rientra tra quelli di competenza dell’ente locale, trattandosi di
incarico conferito da un giudice (quello tutelare): come affermato dalla
dottrina, l’amministratore di sostegno svolge “un'attività «ausiliaria»
all'esercizio di una funzione giudiziaria.” [7].
----------------
[1] L’articolo 1 della legge 6/2004 indica, infatti, quale finalità della
legge quella di “tutelare, con la minore limitazione possibile della
capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia
nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi
di sostegno temporaneo o permanente.”.
[2] “Amministratore di sostegno: gratuità dell'incarico ed equa indennità”,
estratto del volume a cura di Paola Loddo, “L'amministratore di sostegno”,
Wolters Kluwer, 2019, reperibile sul seguente sito internet: https://www.altalex.com/
[3] Afferma la dottrina: “In questi variabili e sempre possibili contesti,
la scelta del legislatore per la gratuità dell’ufficio pare confidare sulla
solidarietà familiare, ma può anche essere letta come una precauzione
opportuna, anche se da sola non sufficiente, ad evitare che persone motivate
nel senso da ultimo descritto abbiano una ragione in più per occuparsi degli
affari del soggetto debole, al solo fine di sbarcare il proprio lunario a
sue spese. La prospettiva del dover fare gratuitamente, agisce, infatti, da
efficace selettore delle offerte di servizi, ogni qual volta di queste vi
sia una sufficiente disponibilità”: così, Morozzo Della Rocca, “L’attività
dell’amministratore di sostegno tra gratuità e onerosità”, citato
nell’articolo indicato in nota 2.
[4] Corte dei Conti, sez. II centrale d’Appello, sentenza dell’08.06.2015, n. 296.
[5] D. Aragno, “Danno erariale: discrezionalità non fa rima con
arbitrarietà”, 26.08.2015, reperibile sul seguente sito internet: https://www.altalex.com/
[6] Corte dei Conti, Lombardia, sez. contr., delibera del 17.04.2019, n.
146.
[7] Così risposta alla Faq 20.08 afferente alla seguente domanda
“L’amministratore di sostegno è pubblico ufficiale?”, in “AmmSostegno, Linee
Guida, a cura di Paolo Cendon, reperibile sul seguente sito internet: https://www.lineeguida-ammsostegno.it/,
ove si prosegue: “Questa sola circostanza è idonea a qualificare come
«pubblica funzione» l'attività svolta. Del pari, la direzione e la vigilanza
del giudice e le finalità assegnate all'istituto evidenziano il carattere
pubblicistico dello stesso.”.
Sulla natura di pubblico ufficiale dell’amministratore di sostegno si veda,
tra le altre, Cass. pen., Sez. VI, sentenza del 22.08.2022, n. 31378
(17.11.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Lavoro sportivo ex d.lgs. 36/2021 e pubblici dipendenti.
Con riferimento al rilascio a pubblici dipendenti, da
parte dell’Amministrazione di appartenenza, dell'autorizzazione a prestare
lavoro sportivo presso soggetti terzi, ai sensi dell'art. 25 del d.lgs.
28.02.2021, n. 36, salve eventuali indicazioni che potrebbero pervenire dai
competenti uffici ministeriali, si ritiene che l’autorizzazione possa essere
concessa soltanto qualora l’attività di cui trattasi si configuri quale
prestazione a carattere occasionale e non continuativo.
Il Comune chiede chiarimenti in ordine alla possibilità, per un dipendente a
tempo indeterminato e pieno, di assumere un incarico di co.co.co. presso una
Associazione sportiva dilettantistica come “lavoratore sportivo” o come
collaboratore in ambito “amministrativo gestionale”.
L’Ente riferisce che i
dipendenti interessati “sostengono che per l’incarico che dovrebbero
assumere il loro impegno in termini temporali rientrerebbe nei canoni della
saltuarietà e dell’occasionalità; inoltre il corrispettivo pattuito
risulterebbe inferiore ad € 5.000. Quindi le caratteristiche di tale
incarico sarebbero riconducibili alla prestazione occasionale.”.
L’Amministrazione fa presente che la forma contrattuale della co.co.co.,
prevista dal d.lgs. 36/2021, risponderebbe, tra le altre finalità della
norma medesima, a quella di avvantaggiare l’operatività delle associazioni
sportive dilettantistiche.
Preliminarmente si osserva che il d.lgs. 28.02.2021, n. 36 è stato
emanato quale attuazione dell’articolo 5 della legge 08.08.2019, n. 86,
recante riordino e riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi
professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo.
L’art. 25, comma 1, del citato decreto definisce come “lavoratore sportivo”
l’atleta, l’allenatore, l’istruttore, il direttore tecnico, il direttore
sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara che, senza alcuna
distinzione di genere indipendentemente dal settore professionistico o
dilettantistico, esercita l’attività sportiva verso un corrispettivo a
favore di un soggetto dell’ordinamento sportivo iscritto nel Registro
nazionale delle attività sportive dilettantistiche, nonché a favore delle
Federazioni sportive nazionali, delle Discipline sportive associate, degli
Enti di promozione sportiva, delle associazioni benemerite, anche paralimpici, del CONI, del CIP e di Sport e salute S.p.a. o di altro
soggetto tesserato.
È “lavoratore sportivo” ogni altro tesserato, ai sensi
dell’articolo 15 del medesimo decreto, che svolge verso un corrispettivo a
favore dei soggetti di cui al primo periodo le mansioni rientranti, sulla
base dei regolamenti tecnici della singola disciplina sportiva, tra quelle
necessarie per lo svolgimento di attività sportiva, con esclusione delle
mansioni di carattere amministrativo-gestionale.
Il successivo comma 2 dispone altresì che, ricorrendone i presupposti,
l’attività di lavoro sportivo può costituire oggetto di un rapporto di
lavoro subordinato o di un rapporto di lavoro autonomo, anche nella forma di
collaborazioni coordinate e continuative ai sensi dell’articolo 409, comma
1, n. 3, del codice di procedura civile
[1].
Il comma 3-bis del medesimo art. 25 dispone altresì che i soggetti ivi
indicati, ricorrendone i presupposti, possono avvalersi di prestatori di
lavoro occasionale, secondo la normativa vigente.
Premesso un tanto, si osserva che il comma 6 dell’art. 25 in esame
[2]
contempla una specifica norma destinata ai lavoratori dipendenti delle
amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001
(enti locali compresi), prevedendo che gli stessi possono prestare in
qualità di volontari la propria attività nell’ambito dei soggetti ivi
indicati, fuori dall’orario di lavoro, fatti salvi gli obblighi di servizio,
previa comunicazione all’amministrazione di appartenenza.
Per quanto qui d’interesse si rileva che la medesima norma stabilisce che,
qualora l’attività dei soggetti di cui al comma 6 rientri nell’ambito del
lavoro sportivo e preveda il versamento di un corrispettivo, la stessa può
essere svolta solo previa autorizzazione dell’amministrazione di
appartenenza che la rilascia o la rigetta entro il termine di trenta giorni
dalla richiesta, decorso il quale se non intervengono il rilascio
dell’autorizzazione o il rigetto dell’istanza, l’autorizzazione è da
ritenersi in ogni caso accordata, sulla base di parametri definiti con
decreto del Ministro per la pubblica amministrazione
[3].
In relazione poi alla fattispecie dell’attività di carattere
amministrativo-gestionale resa in favore dei soggetti sopra indicati, si
rappresenta che, a mente del disposto dell’art. 37, comma 1, del d.lgs.
36/2021, la stessa può essere oggetto, analogamente a quanto può avvenire
per l’attività sportiva, di collaborazioni di cui al già citato articolo
409, comma 1, n. 3, del codice di procedura civile, cioè instaurando un
rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. In considerazione di
un tanto, si anticipa rinviando alle osservazioni successive- che le
collaborazioni a carattere continuativo sono precluse ai pubblici dipendenti
con rapporto di lavoro a tempo pieno.
Ciò premesso, con riferimento specifico al rilascio della prescritta
autorizzazione da parte dell’Amministrazione di appartenenza a propri
dipendenti a tempo pieno a prestare lavoro sportivo, ferma restando
l’autonoma valutazione dell’Ente, si reputa che l’autorizzazione possa
essere concessa soltanto qualora l’attività di cui trattasi si configuri
quale prestazione a carattere occasionale e non continuativo, alla luce
della disciplina generale -richiamata nel prosieguo- che si ritiene
applicabile anche in relazione alla specifica fattispecie degli incarichi in
ambito sportivo
[4].
In particolare, per i pubblici dipendenti con rapporto di lavoro a tempo
pieno o a tempo parziale superiore al 50% di quello a tempo pieno, vige il
principio dell’incompatibilità con altre prestazioni lavorative.
Il principio generale in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi
ed impieghi è espresso dall’art. 60 del d.p.r. 3/1957, secondo il quale
“l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria né alcuna
professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare
cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di
cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e
sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente”.
Detta norma è richiamata espressamente dall’art. 53, comma 1, del d.lgs. n.
165/2001, che recita testualmente: “Resta ferma per tutti i dipendenti
pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e
seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 10.01.1957, n. 3, salva la deroga prevista dall’articolo
23-bis del presente decreto, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo
parziale, dall’articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri 17.03.1989, n. 117 e dall’articolo 1, commi 57 e seguenti,
della legge 23.12.1996, n. 662”.
Ciò premesso, si ritiene opportuno evidenziare quanto emerso in sede di
elaborazione, nell’ambito del già citato tavolo tecnico previsto dall’Intesa
sancita in Conferenza unificata il 24.07.2013, di un documento
riguardante gli incarichi vietati ai dipendenti delle amministrazioni
pubbliche, stilato ai sensi della normativa vigente, degli indirizzi
generali e della prassi applicativa.
In particolare, si è sottolineato in tale contesto –che si riferisce sia
agli incarichi retribuiti che a quelli conferiti a titolo gratuito- come
“l’incarico presenta i caratteri della professionalità laddove si svolga con
i caratteri della abitualità, sistematicità/non occasionalità e continuità,
senza necessariamente comportare che tale attività sia svolta in modo
permanente ed esclusivo”.
Anche la giurisprudenza ha rilevato che «nell’impiego pubblico il divieto di
espletare incarichi extraistituzionali non è così assoluto. Difatti, il
regime vigente, codificato dall’art. 53 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165,
pur individuando, al primo comma situazioni di incompatibilità assoluta […]
prevede anche, al comma 7 del cennato art. 53, attività occasionali
espletabili dal dipendente pubblico previa autorizzazione datoriale […].
Nella specie, la condotta della M. rientra [ ] tra quelle espletabili (ergo
non vietate in assoluto) per la loro occasionalità e “non professionalità”,
ma previa autorizzazione datoriale»
[5].
In conclusione, salve eventuali indicazioni che potrebbero pervenire dai
competenti uffici ministeriali, si è dell’avviso che i dipendenti a tempo
pieno interessati non possano essere destinatari –né quali lavoratori
sportivi né come prestatori di attività di carattere
amministrativo/gestionale- di un incarico di collaborazione coordinata e
continuativa che, per definizione intrinseca, comporta l’effettuazione di
prestazione lavorativa a carattere continuativo e non certo saltuario e
occasionale.
---------------
[1] Si tratta di rapporti di collaborazione che si concretano in una
prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale,
anche se non a carattere subordinato. La collaborazione si intende
coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di
comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente
l'attività lavorativa.
[2] Comma sostituito dall’art. 1, comma 17, lett. d), del d.lgs. 29.08.2023, n. 120.
[3] Che sarà emanato di concerto con l’Autorità politica delegata in materia
di sport, sentiti il Ministro della difesa, il Ministro dell’interno, il
Ministro dell’istruzione e del merito e il Ministro dell’università e della
ricerca.
[4] Si evidenzia, al riguardo, che nella disciplina di cui al d.lgs.
36/2021, con particolare riferimento ai dipendenti delle amministrazioni
pubbliche, l’unico elemento derogatorio rispetto alla disciplina generale di
cui all’art. 53 del d.lgs. 165/2001 sembra rinvenirsi nel meccanismo del
silenzio-assenso previsto qualora –come sopra indicato- entro trenta
giorni dalla presentazione della richiesta, non intervenga il rilascio
dell’autorizzazione né il rigetto dell’istanza.
[5] Corte dei conti, sez. giur. Lombardia, sentenza del 16.04.2015, n.
54. Sulla definizione dei caratteri della saltuarietà e non professionalità,
si è espressa anche la dottrina (G. Fiorillo, C. Lombardi, “Dipendenti
pubblici e incarichi extraistituzionali: incompatibilità e autorizzazioni”,
15.09.2022, reperibile nel seguente sito internet: https://www.filodiritto.com/)
la quale, nel riportare quanto contenuto nelle Linee Guida emanate dalla
Funzione Pubblica in data 16.06.2014, ha affermato che: “l’incarico deve
riguardare prestazioni che presentano i caratteri della saltuarietà e non
professionalità, a favore di soggetti sia pubblici che privati. Occasionali
sono le attività che non determinano l’instaurarsi, tra il dipendente e il
conferente, di un rapporto stabile e continuativo con caratteri di
tendenziale consolidamento nel medio/lungo termine; saltuarie sono le
attività il cui espletamento non richiede un impegno o un’organizzazione
sistematica del lavoro. La temporaneità e l’occasionalità dell’incarico si
declinano nello svolgimento di prestazioni a carattere saltuario, che
comportano un impegno non preminente, non abituale e non continuativo (…)”.
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Nota di aggiornamento
Ad integrazione del parere, si segnala il decreto ministeriale 10/11/2023,
pubblicato in G.U. n. 296 del 20.12.2023, che ha fissato i parametri
per il rilascio delle autorizzazioni allo svolgimento di attività di lavoro
sportivo retribuita al personale delle pubbliche amministrazioni.
Tale
disciplina, attuativa delle disposizioni speciali di cui al d.lgs. 36/2021,
prevale quindi sulle disposizioni generali di cui all’art. 53 del d.lgs.
165/2001.
In particolare, si rileva che il comma 4 dell’art. 2 del predetto D.M.
prevede che “L'amministrazione, per i dipendenti con rapporto di lavoro a
tempo pieno, verifica, altresì, che la prestazione di lavoro sportivo non
rivesta carattere di prevalenza in relazione al tempo e alla durata. Si
considera prevalente l'attività che impegna il dipendente per un tempo
superiore al 50% dell'orario di lavoro settimanale stabilito dal contratto
collettivo nazionale di riferimento.”
(08.11.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Congedo
parentale e ferie.
Dalla chiara formulazione dell’art. 34, comma 5, del
d.lgs. 151/2001 emerge come anche il periodo di congedo parentale retribuito
al 30% non comporti la riduzione delle ferie spettanti.
Il Comune desidera acquisire alcuni chiarimenti in ordine all’istituto del
congedo parentale e all’impatto dello stesso sulla maturazione delle ferie
spettanti al dipendente, in relazione alle disposizioni del vigente
ordinamento, sia a livello legislativo che a livello contrattuale di
comparto, con particolare riferimento al periodo di detto congedo retribuito
al 30%.
Preliminarmente si osserva che il D.P.R. 20.04.2022, n. 57 [1], richiamato
dall’Ente istante, ha per destinatari esclusivamente i dipendenti
appartenenti alle Forze di polizia dell’ordinamento civile e militare
[2];
non riguarda pertanto i dipendenti pubblici di cui all’art. 2 del d.lgs.
165/2001 e in particolare non trova applicazione -per quanto qui
d’interesse- nei confronti dei dipendenti del Comparto unico del pubblico
impiego regionale e locale del Friuli Venezia Giulia.
Premesso un tanto, si rileva che l’art. 34, comma 5 [3], del d.lgs.
151/2001, nell’attuale formulazione, prevede espressamente e in via generale
che i periodi di congedo parentale sono computati nell’anzianità di servizio
e non comportano riduzione di ferie, riposi, tredicesima mensilità o
gratifica natalizia, ad eccezione degli emolumenti accessori connessi
all’effettiva presenza in servizio, salvo quanto diversamente disposto dalla
contrattazione collettiva.
Si rileva che la contrattazione collettiva regionale, all’art. 20 (Congedo
parentale per il personale degli Enti locali) del CCRL del 07.12.2006 -ove è disposto che, nell’ambito del periodo di congedo parentale previsto
all’art. 32 del citato d.lgs. 151/2001, i primi sessanta giorni retribuiti
per intero e computati complessivamente per entrambi i genitori non riducono
le ferie- è intervenuta esclusivamente con riferimento al primo periodo del
congedo parentale.
Pertanto, per quanto concerne gli ulteriori periodi del
predetto congedo, retribuiti al 30%, trova applicazione la disciplina
generale contemplata agli articoli 32 e 34 del d.lgs. 151/2001.
Stante la chiara formulazione dell’art. 34, comma 5, del citato decreto
legislativo come sopra riportato, e considerato l’omogeneo quadro normativo
delineatosi in materia, emerge come anche il periodo di congedo parentale
retribuito al 30% non comporti la riduzione delle ferie spettanti.
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[1] Recepimento dell’accordo sindacale per il personale non dirigente
delle Forze di polizia ad ordinamento civile e del provvedimento di
concertazione per il personale non dirigente delle Forze di polizia ad
ordinamento militare «Triennio 2019-2021».
L’art. 57 di detto decreto
dispone che, in deroga a quanto previsto dall’articolo 34 del decreto
legislativo 26.03.2001, n. 151, i periodi di congedo parentale previsto
dall’articolo 32 del medesimo decreto legislativo sono computati
nell’anzianità di servizio, compresi gli effetti relativi alla maturazione
della licenza ordinaria e alla tredicesima mensilità. Si osserva ad ogni
buon conto che tale disposizione è comunque di data antecedente all’entrata
in vigore del d.lgs. 105 del 30.06.2022, che ha apportato modifiche al
d.lgs. 151/2001.
[2] Si tratta di personale non contrattualizzato, di cui all’art. 3 del
d.lgs. 165/2001.
[3] Comma così sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. i), n. 4), del d.lgs.
105/2022
(08.11.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratto
a tempo determinato per sostituzione personale in aspettativa. Durata
massima.
Nel caso di sostituzione di dipendente collocato in
aspettativa per mandato elettorale non risulta possibile derogare ai termini
di durata attualmente stabiliti dall’ordinamento vigente per il rapporto di
lavoro a tempo determinato (limite massimo di 36 mesi).
Il Comune pone un quesito in ordine alla possibilità di derogare
ai limiti temporali massimi dettati dalla normativa vigente in merito alla
stipula di contratto a tempo determinato, nel caso di sostituzione di
personale collocato in aspettativa per espletamento del mandato elettivo,
indicando nel contratto medesimo una clausola risolutiva al rientro in
servizio del titolare.
In particolare, chiede se sia possibile applicare
quanto enunciato nella circolare n. 3/2008 diramata dalla Presidenza del
Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica - [punto 7,
lett. b)].
Preliminarmente si osserva che allo stato attuale la disciplina
sull’utilizzo di contratti di lavoro flessibile nelle pubbliche
amministrazioni (enti locali compresi) è contemplata all’articolo 36 del
d.lgs. 165/2001.
Il citato art. 36, nel confermare al comma 1 il rapporto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato come modello standard del pubblico
impiego, prevede al comma 2 la possibilità per le pubbliche amministrazioni
di avvalersi, soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente
temporaneo o eccezionale e nel rispetto delle condizioni e modalità di
reclutamento stabilite dall’art. 35 del medesimo decreto, di contratti di
lavoro subordinato a tempo determinato, contratti di formazione lavoro e
contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato.
La norma in esame prevede inoltre espressamente che i contratti di lavoro
subordinato a tempo determinato possono essere stipulati nel rispetto degli
articoli 19 e seguenti del d.lgs. 81/2015, escluso il diritto di precedenza
che si applica al solo personale reclutato secondo le procedure di cui
all’art. 35, comma 1, lettera b), del decreto stesso.
In relazione alle modifiche apportate al citato art. 19 del d.lgs.
81/2015 [1] dalla normativa sopravvenuta, si osserva che, ai sensi di quanto
espressamente disposto dall’art. 1, comma 3, del d.l. n. 87/2018, convertito
in l. n. 96/2018, le disposizioni di cui al medesimo articolo, nonché quelle
di cui agli articoli 2 e 3, non si applicano ai contratti stipulati dalle
pubbliche amministrazioni, cui continuano ad applicarsi le disposizioni
vigenti antecedentemente alla data di entrata in vigore del decreto stesso.
Di conseguenza, non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni la
riforma apportata dall’art. 2 del d.l. n. 87/2018 in materia di disciplina
del contratto di lavoro a tempo determinato; è pertanto consentita anche
allo stato attuale l’assunzione di personale a termine per la durata
contrattuale massima di 36 mesi, come previsto in origine dallo stesso art.
19 del d.lgs. 81/2015, successivamente modificato.
Premesso un tanto in ordine alla regola generale della durata massima dei
contratti di lavoro a tempo determinato, che non ha subito modifiche
sostanziali nel succedersi delle diverse previsioni legislative intervenute
nel tempo, con riferimento alla possibilità di derogare al limite massimo di
durata stabilito in 36 mesi, nel caso di sostituzione di dipendente
collocato in aspettativa, si rappresenta quanto segue.
Innanzitutto si osserva che la circolare n. 3/2008, emanata dalla Presidenza
del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica e
richiamata dall’Ente, si riferisce a un quadro normativo attualmente
modificato e da ritenersi ormai superato, anche per quanto concerne il
riferimento specifico ivi contenuto alla disciplina in materia di finanza
locale e condizioni previste dalla normativa all’epoca vigente
[2].
Si osserva che la vigente disciplina generale di cui all’art. 36 del d.lgs.
165/2001 non contempla fattispecie derogatorie alla durata massima del
contratto a tempo determinato, nemmeno in presenza di esigenze e situazioni
particolari come quella rappresentata dall’Ente. Si rileva al riguardo che
quando il legislatore ha inteso prevedere una deroga in tal senso, lo ha
fatto espressamente [3].
È da notare inoltre a tal proposito che la Corte di Cassazione
[4] ha
ritenuto non condivisibile l’orientamento espresso dal Dipartimento della
funzione pubblica, pur con riferimento a normativa ora abrogata
[5], in
relazione all’ammissibilità di una deroga alla durata massima complessiva
stabilita dei 36 mesi, nel caso particolare di assunzioni disposte in esito
a procedure concorsuali diverse.
In conclusione, con riferimento alla fattispecie in esame non si rinvengono
possibilità di derogare ai termini di durata attualmente stabiliti
dall’ordinamento.
---------------
[1] La durata massima del contratto di lavoro subordinato a tempo
determinato è stata ridotta da trentasei a ventiquattro mesi.
[2] La circolare (punto 7. Deroghe ai limiti temporali connesse ad esigenze
di sostituzione di lavoratori assenti, lett. b)) si riferisce infatti alla
previsione, successivamente abrogata, di cui al comma 9 dell’art. 36 al
tempo vigente, secondo la quale “Gli enti locali non sottoposti al patto di
stabilità interno e che comunque abbiano una dotazione organica non
superiore alle quindici unità possono avvalersi di forme contrattuali di
lavoro flessibile, oltre che per le finalità di cui al comma 1, per la
sostituzione di lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla
conservazione del posto, sempre chE nel contratto di lavoro a termine sia
indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua
sostituzione.”, invocando quindi una disciplina non più applicabile allo
stato attuale.
[3] Cfr., ad es., l’art. 18-ter del d.l. 162/2019, norma di interpretazione
autentica dell’articolo 90, comma 2, del d.lgs. 267/2000, ove si è stabilito
che i contratti del personale degli uffici di staff del sindaco stipulati a
tempo determinato non possono avere durata superiore al mandato elettivo del
sindaco in carica, anche in deroga alla disciplina di cui all’articolo 36
del d.lgs. 165/2001, e alle disposizioni del contratto collettivo nazionale
di lavoro che prevedano specifiche limitazioni temporali alla durata dei
contratti a tempo determinato.
[4] Cfr. Cass. civ., sez. Lavoro,
sentenza 04.03.2021 n. 6089. Cfr. anche
Cass. civ., sez. Lavoro,
ordinanza 14.09.2023, n. 26567.
[5] Cfr. parere prot. n. 38845 del 28.09.2012, in cui si faceva riferimento
al d.lgs. n. 368/2001. Come sopra rilevato, tale disciplina conteneva norme
analoghe a quelle attualmente in vigore, in quanto consentiva
l’instaurazione di rapporti di lavoro a tempo determinato per la durata
massima di mesi trentasei
(07.11.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Giardini del Palazzo Reale di Napoli, Tar
conferma stop ai cani.
Respinto il ricorso dei proprietari. "Va rispettato".
Il Tar della Campania ha respinto il ricorso presentato da
un gruppo di cittadini contro la decisione di vietare
l'accesso ai cani nei giardini storici del Palazzo Reale di
Napoli, divieto disposto da due anni nel regolamento del
sito, ma reso esecutivo lo scorso mese di ottobre.
Il Giardino Romantico, piccolo gioiello di un ettaro e mezzo
è aperto al pubblico gratuitamente tutti i giorni.
Ristrutturato nella metà del 1800 conteneva settemila piante
di quattrocento specie diverse: una ricchezza che si è
andata depauperando nel corso degli anni e che, con un
progetto di restauro, si intende ricostruire in parte nei
prossimi mesi.
"L'ordinanza del Tar rimarca l'importanza del Giardino
Romantico quale luogo della cultura che va preservato e
rispettato più di un normale giardino pubblico.
È un museo en plein air fruibile a tutti così come lo è
ciascuna delle stanze del Palazzo Reale, nelle quali non
potremmo mai immaginare la presenza di cani", ha
dichiarato Mario Epifani, direttore del Palazzo Reale di
Napoli.
"Con tutto il rispetto per gli animali -ha aggiunto-
siamo tenuti ad avere un'attenzione maggiore verso un bene
così prezioso. Stiamo lavorando per fare in modo che il
giardino recuperi l'immagine che aveva quando il palazzo era
ancora una residenza reale, con la cura di alberi che hanno
oltre 200 anni di vita e attraverso la riconfigurazione
dell'impianto arbustivo ottocentesco. Un progetto, sul quale
saranno investiti 2 milioni di euro, che include il
rifacimento della pavimentazione dei viali in battuto di
tufo, eliminando l'asfalto, per restaurare un gioiello da
restituire alla città, ai visitatori e ai turisti, in
sicurezza e con il dovuto decoro".
Nell'ordinanza del Tar si specifica che il ricorso dei
proprietari dei cani, che nelle settimane scorse erano anche
scesi in piazza con i loro animali, non può essere accolto
essendo il divieto giustificato "in ragione sia della
necessità di scongiurare rischi per la sicurezza dei
visitatori, danni ai giardini e ai pilastri di piperno
risalenti al XVII secolo, danni al verde e a materiali
lapidei", sia a causa del "carattere del giardino
storico del bene interessato prossimo oggetto di intervento
di restauro" (24.01.2024 - commento tratto da
www.ansa.it).
---------------
1^ ORDINANZA
... per l'annullamento:
a) del provvedimento, di estremi e data ignoti, con cui il
Direttore dell'Ufficio dotato di autonomia speciale
nell'ambito del MIC “Palazzo Reale di Napoli”, in
attuazione del regolamento impugnato sub b), ha disposto il
divieto di accesso dei cani nel giardino c.d. romantico come
segnalato dai cartelli apposti all'ingresso e nei viali;
b) del regolamento di comportamento nel giardino del Palazzo Reale,
di data ed estremi ignoti, nella parte in cui introduce un
divieto generalizzato di accesso ai cani anche al
guinzaglio;
c) di ogni altro atto agli stessi preordinato, presupposto,
connesso e conseguente, parimenti lesivo, ancorché non
conosciuti, ivi compresi quatenus opus gli ordini di
servizio emanati nei riguardi del personale di vigilanza.
...
Considerato che, ai fini del corretto apprezzamento sia del
fumus delle proposte censure che dell’addotto
periculum, appare necessario attendere la definizione
del riattivato procedimento, attualmente fermo all’adottato
preavviso di rigetto, all’uopo assegnando
all’amministrazione il termine di quindici giorni dalla
comunicazione/notificazione della presente ordinanza per
l’adozione del provvedimento conclusivo;
Rimarcato che il preavviso di rigetto ex art. 10-bis L. 241/1990 è
un atto prodromico al provvedimento finale che verrà
adottato dall'Amministrazione, ossia un atto
endoprocedimentale, non produttivo di effetti immediatamente
lesivi della sfera giuridica dei ricorrenti, cosicché lo
stesso non è autonomamente e immediatamente impugnabile e,
quindi, non sussiste, in generale, un interesse alla sua
impugnativa, con la conseguente inammissibilità del ricorso
proposto avverso lo stesso;
Rammentato, infatti, che la disposizione dell'art. 34, comma 2,
primo periodo, c.p.a. mira a preservare, seppure non in modo
assoluto, il procedimento quale forma della funzione
amministrativa, ossia quale luogo fisiologico di svolgimento
del c.d. rapporto amministrativo; dunque, può ritenersi che
tale disposizione miri a salvaguardare non già il potere
come prerogativa della P.A., bensì la sua specifica modalità
di esercizio, ossia il procedimento amministrativo, con la
conseguenza che al G.A. deve ritenersi precluso l'esercizio
di un potere non ancora estrinsecatosi attraverso un
apposito provvedimento amministrativo;
Ritenuto che, per quanto precede, in assenza del provvedimento
finale, non rileva che il preavviso di rigetto prefiguri un
esito negativo delle interlocuzioni operate, nel mentre la
doverosa conclusione del procedimento, coerente con la
disposta istruttoria, determinerà la emanazione di un
provvedimento sostitutivo del precedente impugnato,
anch’esso passibile di eventuale impugnazione;
Ritenuto di riservare all’esito ogni determinazione anche relativa
alla regolamentazione delle spese di fase;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Napoli
(Sezione Quinta) così provvede:
- dispone che la resistente amministrazione adotti il provvedimento
conclusivo del procedimento pendente relativo alla questione
all’esame entro il termine di quindici giorni dalla
comunicazione/notificazione della presente ordinanza;
- rinvia all’udienza in camera di consiglio del 23.01.2024 per
delibare sulla proposta domanda cautelare (TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
ordinanza 20.12.2023 n. 2434 - link a
wWw.giustizia-amministrativa.it).
---------------
2^ ORDINANZA
Ritenuto che, ad un sommario esame proprio della fase cautelare, le
censure dedotte nell’atto introduttivo del presente giudizio
si profilano prima facie non sorrette da idoneo
fumus, rientrando nella discrezionalità tecnica di cui
gode l'amministrazione deputata alla tutela dei beni
architettonici e culturali individuare il miglior assetto
per garantire la corretta fruizione dei beni monumentali,
con la conseguenza che il sindacato su tali scelte non può
che essere limitato ai casi di evidenti irrazionalità o di
evidenti errori di fatto (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez.
II, sent. 13.04.2017, n. 855; TAR Lazio, Roma, sez. I,
25.11.2022, n. 15792);
Ritenuto che, nella specie, non sono ravvisabili i dedotti profili
di illogicità manifesta, travisamento delle circostanze di
fatto e non proporzionalità della misura adottata, essendo
stata quest’ultima giustificata in ragione sia della
necessità di scongiurare rischi per la sicurezza dei
visitatori, danni ai giardini e ai pilastri in piperno dei
cortili, risalenti al XVII secolo, danni al verde e ai
materiali lapidei, sia con il carattere di giardino storico
del bene interessato, di limitata estensione, e prossimo
oggetto di un intervento di restauro, così da giustificare
prima facie il disposto divieto;
Rammentato, infatti, che il limite di legittimità in cui si iscrive
l'esercizio delle funzioni di tutela, valorizzazione e
fruizione del bene culturale deve essere ricercato in un
ragionevole equilibrio che preservi, da un lato, la
cura e l'integrità del bene culturale e, dall'altra,
che ne consenta la fruizione e la valorizzazione, potendo a
tal fine l’amministrazione escludere un determinato utilizzo
del bene allorquando quest’ultimo sia potenzialmente idoneo
a cagionare un sacrificio superiore a quello necessario per
il soddisfacimento dell'interesse diverso sotteso
all'iniziativa privata;
Considerato, infine, in punto di periculum, che,
nell’assenza di una specifica deduzione circa
l’irreparabilità e la gravità del pregiudizio, presupposto
imprescindibile della tutela cautelare, debba accordarsi
prevalenza, nel contemperamento degli opposti interessi,
alle esigenze di tutela del bene culturale cui è preordinato
il provvedimento impugnato;
Considerato che la peculiarità delle questioni trattate induce a
disporre l’integrale compensazione delle spese della
presente fase cautelare;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Napoli
(Sezione Quinta) così provvede: respinge la domanda
cautelare (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
ordinanza 24.01.2024 n. 179 - link a
wWw.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla natura e sugli effetti dell’atto di ammissione del
concorrente alla gara.
---------------
Demanio e patrimonio dello Stato – Concessioni di beni e
servizi – Procedura di evidenza pubblica – Ammissione alla
gara – Effetti.
L'ammissione del concorrente alla gara è un
atto amministrativo, a forma esplicita o implicita, di
natura preparatoria perché costituisce il presupposto
indispensabile per giungere all'aggiudicazione, ma con
efficacia provvisoria o instabile in quanto può essere
modificato in ogni momento.
Pertanto, essa tutela l'interesse procedimentale del
concorrente in relazione alla sua corretta partecipazione
-c.d. interesse procedimentale- ma non attribuisce al
concorrente stesso un bene della vita, né, più in generale,
gli attribuisce la titolarità di una posizione giuridica
differenziata rispetto a quella degli altri concorrenti
comunque ammessi alla gara (1).
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(1) Conformi: Tar per il Lazio, sez. II, 02/12/2022, n. 16106;
Difformi: non risultano
precedenti difformi.
Nel caso di specie, con atto di citazione innanzi al
Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, il Comune di Terme
Vigliatore aveva chiesto l’annullamento dell’atto di
ingiunzione emesso, ai sensi del r.d. n. 639 del 1910, dal
Comune di Barcellona Pozzo di Gotto per il pagamento di
corrispettivi per il trattamento dei reflui convogliati
all’impianto di depurazione di proprietà di quest’ultimo.
Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto aveva dichiarato,
con sentenza n. 563 del 09.06.2023, il difetto di
giurisdizione del giudice ordinario, ritenendo sussistente,
sulla controversia in questione, la giurisdizione del
giudice amministrativo.
Secondo il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, la
giurisdizione del giudice amministrativo si basava in primo
luogo sull’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2 c.p.a., atteso
che la convenzione tra i comuni relativa all’utilizzazione
del servizio di gestione dei reflui era un accordo tra
pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 15 l. n. 241
del 1990. In secondo luogo, la giurisdizione del giudice
amministrativo doveva ritenersi fondata sull’art. 133, comma
1, lett. p) c.p.a., trattandosi di controversia relativa
alla gestione del ciclo dei rifiuti.
Il Tar non ha condiviso tale ricostruzione, ritenendo che la
controversia non riguardasse l’accordo ma un’ingiunzione di
pagamento di somme dovute per la prestazione del servizio,
riconducibili a rapporti di dare/avere, ossia aspetti per i
quali è, comunque, esclusa la giurisdizione del giudice
amministrativo ai sensi dell’art. 133, co. 1, lett. a), n. 2
c.p.a.
Il Collegio ha richiamato l’orientamento delle Sezioni
unite, secondo cui “Non è quindi la generica (e spesso
opinabile) inerenza (dell'oggetto) della controversia a una
"materia" tra quelle elencate nell'art. 133 c.p.a. a far
radicare la giurisdizione esclusiva, ma la contestazione
delle modalità di esercizio del potere concretamente
esercitato dalla pubblica amministrazione in quella materia
(Cass. Sez. Un. n. 7759/2017 e n. 8186 del 2022).”
Nel caso di specie, poiché la controversia riguarda solo la
somma richiesta quale corrispettivo per l’utilizzo del
depuratore, il Collegio ha sollevato il conflitto negativo
di giurisdizione dinanzi alle Sezioni unite (TAR
Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 22.01.2024 n. 272 -
tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZALAVORO:
Impianti sportivi “pericolosi”, i limiti alla responsabilità del
gestore.
La Cassazione ricapitola la disciplina
accogliendo il ricorso del gestore di un circuito motociclistico condannato
per la morte di un centauro.
La Corte di Cassazione - Sez. IV penale,
sentenza
12.01.2024 n. 1425, fa il punto sulle responsabilità dei gestori
degli impianti sportivi rischiosi, come piscine, piste da sci e, nel caso
specifico, circuiti per il motociclismo. La regola generale, chiarisce la IV
Sezione penale, accogliendo il ricorso del gestore della pista condannato a
6 mesi per la morte di un centauro, è quello della inesigibilità di condotte
non previste dalla legge o comunque dalla relative federazioni.
Nel caso specifico, la vittima dopo aver percorso il rettilineo principale,
anziché impostare la curva, proseguiva dritto a circa 70 km/h, in tal modo
la spalletta del terrapieno che delimitava a destra la curva (la cui
funzione era quella di accompagnare i motociclisti nella esecuzione della
curva) diventava una sorta di trampolino provocando un “volo balistico”
sopra la cd “zona neutra” fino a schiantarsi contro il muro di delimitazione
della ferrovia limitrofa.
Per la Corte di appello, che pure aveva riconosciuto la corretta
omologazione del circuito e l’assenza di responsabilità da parte del tecnico
omologatore, il gestore avrebbe dovuto “effettuare uno studio sulla
sicurezza dell’impianto” e una “valutazione dei relativi rischi, essendo notoriarnente il motocross uno sport di elevata pericolosità, e ciò anche se
detto obbligo non era previsto dalla normativa di settore”. In particolare,
individuando “tutte le probabili traiettorie di uscita dalla curva da parte
dei veicoli” ed “approntando gli idonei accorgimenti di sicurezza”.
Una lettura bocciata dalla Cassazione dopo un ripasso generale delle regole
in materia di impianti sportivi. Così per esempio nelle nello sci l’obbligo
di recintare la pista ed apporre idonee segnaletiche vige “solo in presenza
di un pericolo determinato dalla conformazione dei luoghi che determini
l’elevata probabilità di un’uscita di pista dello sciatore, apparendo
inesigibile pretendere che tutta la pista sia recintata o che tutti i
pericoli siano rimossi”.
In generale, dunque, la giurisprudenza individua il contenuto dell’obbligo
giuridico del gestore “nella vigilanza sul rispetto delle regole di utilizzo
interno dell’impianto (nella specie, nessuna violazione in tal senso è
venuta in considerazione) ovvero delle specifiche regole previste da
normative speciali (si vedano le norme sull’attività sciistica) e dai
regolamenti emanati dalle Federazioni sportive”.
Nel caso di specie, secondo
il regolamento della Federazione motociclismo, la “zona neutra” della curva
doveva rispettare la misura di 100 cm, parametro più che rispettato
considerato che la “zona misurava 180 cm” e, infatti, il circuito era stato ritualmente omologato.
Il gestore dell’impianto, conclude la Corte, “è tenuto a vigilare sulla
regolare organizzazione della attività in base alla disciplina prevista
dalle Federazioni sportive, e non è sostenibile che egli sia tenuto ad
intervenire con un comportamento attivo che superi le previsioni
regolamentari”, in tal modo “ponendo in capo al gestore un obbligo di fatto
inesigibile per ampiezza e genericità”.
In definitiva il ricorrente aveva adempiuto “a tutti gli obblighi” essendosi
affidato al regolamento della Federazione Motociclistica Italiana e alle omologhe del circuito da parte dei “maggiori esperti del settore”. Non era
dunque esigibile una ulteriore “ricerca di tecnici con esperienza ancora
superiore a quelli del comitato impianti della Federazione” (articolo NT+Diritto del 12.01.2024). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Sulla nullità della delibera con cui l’unione dei comuni
provvede alla variazione del bilancio.
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Comune e provincia – Unione di comuni – Bilancio – Atto
amministrativo – Nullità – Giustizia amministrativa – Azione
di nullità – Rilevabilità d’ufficio – Termine di decadenza.
La nullità, per mancanza di
sottoscrizione digitale ai sensi dell’art. 15, comma 2-bis,
l. n. 241 del 1990, della delibera con cui un’unione di
comuni prenda atto della volontà di un comune di sciogliersi
dalla gestione associata dei servizi successivamente
aggiunti, determina anche la nullità degli atti successivi,
quali le delibere di approvazione della variazione di
bilancio; e, qualora tali ultimi atti siano stati impugnati,
il giudice può rilevare la nullità anche successivamente
alla scadenza del termine di decadenza di cui all’art. 31,
comma 4, c.p.a. perché la nullità non viene fatta valere in
via autonoma ma risulta funzionale alla pronuncia sulla
domanda introdotta in giudizio e, quindi, nel giudizio
impugnatorio, alla declaratoria di illegittimità dell’atto
impugnato e al suo conseguente annullamento, ovvero, al
contrario, al rigetto della domanda di annullamento (1).
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(1) Non risultano precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.01.2024 n. 376 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
... per la riforma della
sentenza
11.07.2018 n. 396 del Tribunale Amministrativo
Regionale per il Lazio, sezione staccata di Latina, resa tra
le parti, avente ad oggetto l’approvazione di una variazione
del bilancio dell’Unione relativo all’anno 2017.
...
1. Il Comune di San Giovanni Incarico, facente parte,
insieme ai Comuni di Rocca D’Arce e di Falvaterra, di
un’Unione istituita ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (T.u.e.l.), denominata “Antica Terra di
Lavoro”, ha adito il Tar per il Lazio per l’annullamento
delle deliberazioni, rispettivamente della Giunta e del
Consiglio di quest’ultima, n. 40 del 28.11.2017 e n.
10 del 29.12.2017, con le quali è stata apportata una
variazione al bilancio dell’anno 2017, in assenza dei propri
rappresentanti.
...
6. L’appello è meritevole di accoglimento, nei sensi e
limiti di seguito esplicitati.
7. Al fine di comprendere la complessa vicenda di cui è
controversia, occorre fornire qualche ulteriore
precisazione, in fatto e in diritto, circa la tipologia di
“legame” intercorrente fra i Comuni interessati, non senza
premettere che la relativa ricostruzione presenta plurime
lacune e evidenzia commistioni procedurali.
In particolare,
sia la costituzione, dichiaratamente preesistente ai fatti
di causa, che il potenziamento dell’Unione, sono affidati ad
atti il cui susseguirsi e stratificarsi non risulta
adeguatamente ricostruito, tanto in senso cronologico, che
contenutistico.
7.1. Va detto che l’uso promiscuo dei due distinti modelli
associativi fra Comuni (vale a dire l’unione e la
convenzione) che ne risulta, risente probabilmente anche
dell’inadeguatezza della sottesa cornice normativa.
Il
paradigma generale, contenuto, rispettivamente, nell’art. 30
(convenzione) e 32 (unione) del T.u.el., infatti, è
richiamato dalla legislazione speciale laddove declina i
casi di obbligatorietà del relativo utilizzo, ma senza
fornire maggiori indicazioni procedimentali. Tale
legislazione, peraltro, in quanto ispirata piuttosto ad
esigenze di spending review, che di analisi amministrativa,
attinge al tema delle funzioni fondamentali senza farsi
carico di un’effettiva visione di sistema.
Ridetto approccio
sostanzialmente contabile-finanziario, indubbiamente
limitato e limitante, non a caso è stato da subito oggetto
di critiche, in particolare orientate alla ricerca di
valutazioni di più ampio respiro, mosse da logiche di
valorizzazione della sussidiarietà e di conseguimento di
un’omogeneità tendenziale dei livelli delle prestazioni, da
far confluire in una vera e propria riforma del settore
(l’auspicata “Carta delle autonomie”).
8. La legittima sussistenza del vincolo associativo ovvero,
in senso diametralmente opposto, la correttezza del suo
venir meno, si riverberano dunque necessariamente sulle
decisioni assunte per conto -recte, al posto- degli Enti
aderenti, quale che ne sia il relativo oggetto. L’analisi di quest’ultimo a sua volta incide sulla sussistenza
dell’interesse ad agire, che potrebbe non esservi laddove si
tratti di scelte a contenuto necessitato ovvero estranee
alla futura attività del Comune, seppure non coinvolto
indebitamente nella loro adozione.
8.1. Da qui l’importanza da un lato di valutare la
“consistenza giuridica” dell’Unione al momento dell’adozione
degli atti impugnati in ragione della specifica cornice ordinamentale che connota l’istituto;
dall’altro, di
esaminare gli effetti potenzialmente pregiudizievoli degli
stessi, quand’anche astrattamente rivolti ormai solo agli
altri due Comuni che di sicuro hanno continuato a farne
parte.
9. Quanto detto consente di ulteriormente perimetrare
l’oggetto della controversia, siccome incentrata sulle
delibere di approvazione della variazione del bilancio
dell’Unione del 2017: malgrado la totale mancanza nelle
stesse di una parte narrativa idonea ad esplicitarne la
motivazione, dall’analisi degli schemi di bilancio allegati
parte integrante parrebbe evincersi la sostanziale
decurtazione dal gettito programmato riveniente dalla TARI,
delle somme riguardanti i residenti del Comune di San
Giovanni Incarico, che costituiscono per tabulas la fetta
più cospicua dell’introito quantificato complessivamente in
fase previsionale.
Tale assestamento in diminuzione non può
che risolversi in una partita debitoria a carico del Comune
stesso nei confronti dell’Unione, che quand’anche si chiami
fuori dalla fase della riscossione diretta dai cittadini
delle relative somme, resta creditore, appunto, per
l’avvenuto esercizio del servizio corrispondente. Non è chi
non veda come la questione, destinata ad incidere, finanche
sul piano formale, sulle corrispondenti voci del bilancio
del Comune di San Giovanni Incarico, non possa non rivestire
interesse per lo stesso.
10. Va peraltro ricordato che il bilancio di assestamento è
lo strumento giuridico-contabile destinato ad aggiornare
quello di previsione annuale alle vicende economiche e
finanziarie sopravvenute ed alle nuove situazioni
verificatesi dopo la sua approvazione.
Le conseguenze
“operative” rivenienti dallo stesso, cui entrambe le parti
continuano a riferirsi, seppure in maniera implicita,
paventando finanche profili reciproci di responsabilità
erariale, non attengono al contenuto degli atti impugnati e
saranno caso mai oggetto di scrutinio nelle sedi loro
proprie, cui peraltro risultano essere state già deferite.
Ciò a maggior ragione ove si tenga conto che la vicenda
attiene al solo bilancio del 2017, che in quanto riferibile
a somme esigibili anche negli anni successivi non vincola in
alcun modo le attività future, preso atto altresì della
mancata sospensione dell’esecutività della sentenza
impugnata (e quindi della variazione di bilancio) a seguito
di rinuncia all’istanza cautelare anche da parte
dell’appellante.
11. D’altro canto, le rivendicazioni inerenti eventuali
inadempienze dell’Unione con riferimento allo svolgimento
del servizio di riscossione per l’anno 2017, sono oggetto di
autonomo contenzioso, ovvero il (nuovo) giudizio incardinato
presso il medesimo Tar per il Lazio con il ricorso n.r.g.
436/2022.
12. I Comuni di San Giovanni Incarico, Rocca D’Arce e
Falvaterra, dunque, per quanto verificabile da una mera
consultazione online tutti con popolazione inferiore ai
5.000 abitanti, hanno dato vita ad una “Unione”, denominata
“Antica Terra di lavoro”, cui con successive deliberazioni
consiliari più o meno coeve (dicembre 2012) hanno affidato o riaffidato la gestione congiunta di tre delle funzioni
fondamentali nel frattempo enucleate dalla legislazione
speciale per gli Enti territoriali di dimensione minore
(segnatamente, il catasto, la protezione civile e
l’organizzazione e gestione dei servizi di raccolta, avvio e
smaltimento e recupero dei rifiuti urbani, con contestuale
riscossione dei relativi tributi, di cui, rispettivamente,
alle lettere c), e) ed f), del comma 28 dell’art. 14 del d.l.
31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla
l. 30.07.2010, n. 122).
I passaggi attraverso i quali
ridetta scelta è stata resa operativa, come rilevato poc’anzi,
non risultano oggetto di analitica ricostruzione.
Certo è
che alla data del 31.08.2013, l’originario statuto
dell’Unione è stato modificato con deliberazione del
Consiglio della stessa n. 2, pubblicata sul Bollettino
ufficiale della Regione Lazio n. 75 del 12.09.2013,
prevedendo all’art. 7, rubricato appunto «Funzioni», un
elenco comprensivo anche di quelle sopra richiamate.
Con
deliberazione n. 7 del 30.09.2014, «e successivi
provvedimenti confermativi» (così riporta testualmente la
nota inviata dal Sindaco del Comune di San Giovanni Incarico
al Presidente dell’Unione “Antica Terra di Lavoro”, al
Prefetto di Frosinone e alla sezione delle autonomie locali
della Corte dei conti in data 27.09.2017, prot. 3731)
l’Unione avrebbe poi assunto l’«impegno formale» di
occuparsi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti
solidi urbani e di riscossione del relativo tributo (TARI).
13. La controversia consegue al “ripensamento” da parte del
Comune di San Giovanni Incarico circa il conferimento
all’Unione, avvenuto con delibera del 03.05.2017, n. 15,
di approvazione di una nuova convenzione, di ulteriori
funzioni, ovvero tutte quelle qualificate come
“fondamentali” dal richiamato art. 14, comma 28, del d.l. n.
78 del 2010, come modificato dall’art. 19 del d.l. 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l.
07.08.2012, n. 135, nonché dei «servizi tecnici,
urbanistica, lavori pubblici e manutenzione, servizi sociali
e servizi finanziari» (art. 1).
Dopo che l’Ente, cioè, ha
annullato in autotutela con successiva deliberazione n. 5
del 21.07.2017 tale opzione gestionale per molteplici ed
evidenziati profili di violazione di legge, il Consiglio
dell’Unione lo ha escluso dalla propria compagine
associativa e, conseguentemente, dalla partecipazione alle
sedute degli organi rappresentativi, da ultimo finalizzate
all’approvazione della variazione di bilancio oggetto di
causa.
14. Vanno ora forniti brevi richiami ai principi di diritto
in materia di associazionismo intercomunale.
15. L’atteggiamento del legislatore nei confronti
dell’istituto dell’Unione è variato profondamente nel tempo.
L’analisi normativa porta ad individuare tre principali
stagioni.
Nella prima, tale modalità associativa era
considerata un passaggio transitorio nell’ambito di un
percorso di aggregazione più profondo che avrebbe dovuto
obbligatoriamente portare alla fusione degli enti
partecipanti entro dieci anni, decorsi i quali senza che si
fosse proceduto in tal senso, l’Unione avrebbe cessato di
esistere.
Nella seconda fase, proprio allo scopo di
incentivarne l’utilizzo, le Unioni cessano di rappresentare
un passaggio propedeutico alla fusione e divengono uno
strumento flessibile di cooperazione, dotato di una propria
autonomia. Ciò avviene con la legge 03.08.1999, n. 265,
che qualifica le Unioni come un “ente locale” autonomo. La
disciplina è confluita nell’attuale Testo unico degli enti
locali (T.u.e.l.), che se ne occupa all’art. 32, il cui
modello generale, come già detto, è espressamente richiamato
anche con riferimento all’associazionismo obbligatorio che,
almeno sulla carta, connota la fase successiva di approccio
alla tematica (art. 14, comma 28-bis del d.l. n. 78 del
2010).
A decorrere dal 2010, infatti, si apre una terza
fase. Il divampare della crisi finanziaria, prima, e di
quella del debito sovrano, poi, rendono prioritario
nell’agenda di policy l’obiettivo del consolidamento dei
conti pubblici. Il percorso di risanamento, tracciato nei
documenti ufficiali, prevede una revisione della spesa
pubblica da realizzarsi attraverso una strategia complessiva
che contempli la razionalizzazione del perimetro di azione
delle giurisdizioni locali, la riorganizzazione su base
associativa dell’offerta dei servizi pubblici da parte dei
piccoli Comuni, nonché il riordino delle Province e delle
partecipazioni societarie degli enti territoriali.
In questo
contesto, l’Unione diviene uno strumento obbligatorio,
alternativo alla convenzione, per l’esercizio di quelle che
sono individuate come le funzioni fondamentali da parte dei
piccoli Comuni, considerati tali sulla base di soglie
demografiche sia per i singoli partecipanti sia per l’Unione
nel suo complesso: il limite massimo di abitanti per ciascun
Comune è confermato in 5.000 (come già previsto nella legge
08.06.1990, n. 142, recante «Ordinamento delle autonomie
locali», che consentiva la deroga per un unico ente con
popolazione compresa fra i 5.000 e i 10.000 abitanti), salvo
si tratti di comuni che appartengono o sono appartenuti a
comunità montane.
15.1. Il regime transitorio dettato dal comma 31-ter
dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012 fissava un doppio
termine di adeguamento all’obbligo di aderire ad una delle
due forme di gestione associata, ovvero un’iniziale “messa
in comune” di almeno tre funzioni fondamentali tra quelle
riportate in elenco, e il successivo completamento della progettualità nella forma prescelta.
Come noto, i termini
sono stati prorogati di anno in anno, da ultimo al 31.12.2024 dall’art. 2, comma 2, del decreto legge 30.12.2023, n. 215, che ha spostato in avanti il
precedente, fissato al 31.12.2023 dall’art. 18-bis del
d.l. 30.12.2019, n. 162, introdotto dalla legge di
conversione, 28.02.2020, n. 8, via via modificato.
15.2. L’evoluzione normativa sopra descritta, ivi compresi i
ricordati plurimi rinvii, è emblematica della difficoltà di
individuare un punto di equilibrio fra perseguimento di
economie di scala, cioè migliore allocazione ed
utilizzazione delle risorse finanziarie ed organiche
disponibili, ampliamento del novero dei servizi in concreto
erogati –o in astratto erogabili– alla cittadinanza dai
Comuni associati, e rispetto delle tradizioni e della
cultura specifica dei luoghi.
È chiaro infatti che il
raggiungimento di un livello omogeneo delle prestazioni non
può non imporre un minimo di sacrificio alle esigenze identitarie del microcosmo di minuscoli Enti locali, spesso
caratterizzati da strutture burocratiche pressoché
inesistenti in territori connotati anche da problematiche di
accessibilità agli uffici.
16. Per completezza vanno poi ricordate la legge 07.04.2014, n. 56, recante «Disposizioni sulle città
metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di
comuni», che ha mantenuto ferme le due tipologie di unione
(quella facoltativa per l’esercizio associato di determinate
funzioni e quella obbligatoria per i comuni con popolazione
fino a 5.000 abitanti per l’esercizio delle funzioni
fondamentali), riservando allo Stato e alle regioni, secondo
le proprie competenze, la possibilità di attribuire alcune
funzioni provinciali anche alle stesse; la legge 06.10.2017, n. 158, recante «Misure per il sostegno e la
valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per
la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei
medesimi comuni», nota come legge sui piccoli comuni, che
all’art. 13 ha stabilito che quelli tenuti ad esercitare
obbligatoriamente in forma associata le funzioni
fondamentali, svolgano con la medesima modalità anche le
attività di programmazione in materia di sviluppo
socio-economico, e quelle che riguardano l’impiego delle
occorrenti risorse finanziarie, pure se derivanti dai fondi
strutturali dell’Unione europea; nonché l’art. 12, comma 1,
del d.lgs. 02.01.2018, n. 1, Codice della protezione
civile, che ha ribadito la natura di funzione fondamentale
dei comuni lo svolgimento nel proprio territorio delle
attività di pianificazione di protezione civile e di
direzione dei soccorsi con riferimento alle strutture di
appartenenza.
17. La materia è stata infine incisa da un’importante
sentenza del giudice delle leggi, che ha ritenuto in
contrasto con l’art. 3, nel combinato disposto con gli artt.
5, 97 e 118 della Costituzione, il comma 28 dell’art. 14 del
d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non consente ai
Comuni di non accedere alla gestione associata, ove la
stessa non sia conveniente, avuto riguardo, ad esempio, alla
particolare collocazione geografica e ai caratteri
demografici e socio ambientali del Comune obbligato, che non
realizzerebbe, con le forme associative imposte, economie di
scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed
efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle
popolazioni di riferimento (Corte cost., 24.01.2019, n.
33).
La complessità delle situazioni locali merita dunque
un’attenzione in concreto per valutare quando «l’ingegneria
legislativa non combacia con la geografia funzionale
[sicché], il sacrificio imposto all’autonomia comunale non è
in grado di raggiungere l’obiettivo cui è diretta la
normativa stessa; questa finisce così per imporre un
sacrificio non necessario, non superando quindi il test di
proporzionalità (ex plurimis sentenze n. 137 del 2018, n. 10
del 2016, n. 272 e n. 156 del 2015)».
D’altro canto, proprio
l’estenuante numero dei rinvii dei termini originariamente
previsti per consociarsi obbligatoriamente è considerato
sintomatico delle criticità di una normativa che non tiene
evidentemente conto dell’«[…] esistenza di situazioni
oggettive che, in non pochi casi, rendono di fatto
inapplicabile la norma».
18. Le convenzioni, disciplinate in termini generali
dall’art. 30 del T.u.e.l., ove opzionate quale forma di
gestione associata dai Comuni obbligati, devono avere una
durata «almeno» triennale, termine che comunque indica
l’unità di tempo minimo trascorsa la quale si dovrebbe
procedere a “misurare” l’effettività dei risparmi
conseguiti, secondo modalità demandate ad apposito
provvedimento attuativo (v. ancora l’art. art. 14, comma
31-bis, del d.l. n. 78 del 2010).
19. Rispetto alla gestione associativa in Unione, i Comuni
in convenzione mantengono la titolarità giuridica delle
funzioni, delle risorse e del personale e non “si avvalgono”
degli organi amministrativi colà appositamente previsti.
Essa pertanto costituisce un modello connotato da maggiore
flessibilità, tanto da risultare la forma associativa
largamente più diffusa tra i piccoli Comuni.
Al contrario,
la natura di Ente di secondo livello dell’Unione fa sì che
le modalità organizzative della stessa siano rimesse agli
atti adottati dai relativi organi, in particolare lo Statuto
e i regolamenti, ferma restando, una volta che la stessa si
sia costituita, l’applicabilità dei principi previsti per
l’ordinamento dei comuni, «con particolare riguardo allo
status degli amministratori, all’ordinamento finanziario e
contabile, al personale e all’organizzazione» (art. 32,
comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000).
In fase di prima
istituzione, lo Statuto deve essere approvato dai consigli
dei comuni partecipanti; le successive modifiche invece sono
rimesse alla competenza di quello dell’Unione.
19.1. I rapporti tra Enti consociati, quindi, non sono
oggetto di convenzione. Nella prassi, tuttavia, accade
sovente che si affidi ad una fase negoziale la concreta
attuazione degli obiettivi statutari, così da generare
possibili equivoci interpretativi in ordine alla fonte degli
obblighi gestionali e alle conseguenze delle inadempienze.
Ciò accade soprattutto in ragione del fatto che per espresso
disposto normativo (art. 30, comma 4, del T.u.e.l.) le
convenzioni possono prevedere la costituzione di uffici
comuni che operano con personale distaccato degli enti
partecipanti, ai quali affidare l’esercizio delle funzioni
pubbliche in luogo degli stessi, ovvero la delega di
funzioni da parte degli enti partecipanti all’accordo a
favore di uno di essi, che opera in luogo e per conto degli
enti deleganti.
20. Va infatti ricordato che le convenzioni ex art. 30 del
d.lgs. n. 267 del 2000 altro non sono che una species del
più ampio genus di accordi contemplati dall’art. 15 della l.
n. 241 del 1990, come ancora di recente affermato dal
Consiglio di Stato.
Tale tipologia di rapporto emerge «con
nitore tanto dal confronto testuale delle due disposizioni,
quanto, più in generale, dal rapporto fra le coordinate
logico-sistematiche, contenutistiche e teleologiche dei due
testi legislativi che, rispettivamente, le contengono» (Cons.
Stato, sez. IV, 16.11.2023, n. 9842).
A ciò consegue
la necessità che la loro stipula soddisfi i requisiti di
forma previsti da ridetta disposizione a carattere generale
quale, a far data dal 30.06.2014, la sottoscrizione con
firma digitale (art. 15, comma 2-bis, della l. n. 241 del
1990, introdotto dal d.l. n. 104 del 2013, successivamente
modificato dal d.l. n. 145 del 2013). Essi inoltre sono
sottoposti ai principi del codice civile in materia di
obbligazioni e contratti, in quanto compatibili, ove non
diversamente previsto.
21. Nell’ambito della disciplina dell’Unione, invece, solo i
commi 2 e 5-bis dell’art. 32 del T.u.e.l. fanno riferimento
all’utilizzo della convenzione: la prima ipotesi (comma 2),
quale esercizio da parte dell’Unione, al pari di qualsiasi
altra amministrazione, della sua capacità negoziale, estrinsecantesi nella possibilità di sottoscrivere accordi
con altre Unioni o con singoli comuni, aderenti o meno alla
stessa; la seconda (comma 5-bis, introdotto dal d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla
l. 17.12.2012, n. 221), per consentire ai Sindaci dei
comuni aderenti di delegare le funzioni di ufficiale dello
stato civile e di anagrafe a personale idoneo dell’unione o
dei singoli comuni associati.
L’ampliamento delle funzioni
assegnate all’Unione “Antica Terra di Lavoro” deliberato con
atto n. 15 del 03.05.2013 pare attingere al modello della
convenzione tra l’Unione e un singolo Comune, seppure
facente parte della stessa e dunque si pone al di fuori
della funzionalità per così dire istituzionale propria
dell’Ente in questione.
Anche per tale ragione, quindi, esso
si palesa estraneo al rapporto originario tra gli Enti
riconducibili alla stessa e alla “fiducia” che lo ha
generato, intesa in accezione tutt’affatto soggettiva ed
emozionale, ma giuridica, come orientamento ad un risultato
che si confida di raggiungere solo o comunque meglio
mettendo a sistema le proprie risorse, economiche, umane e
strumentali.
21.1. D’altro canto, anche il conferimento in concreto della
gestione associata delle tre funzioni fondamentali oggetto
della scelta del 2012, sull’evidente scia della richiamata
legislazione speciale “propulsiva” in tal senso, ha trovato esplicitazione nella sigla di convenzioni, il cui contenuto
vincolante tuttavia si innesta nell’assetto organizzativo
dell’Unione, in termini di modifica statutaria.
Non a caso,
la convenzione mutua l’indicazione della durata dell’accordo -recte, parrebbe, delle condizioni di svolgimento dei
servizi, evidentemente demandati alla fonte pattizia– dalla
lettera dell’art. 14, comma 31-bis, del d.l. n. 78 del 2010
(«almeno un triennio»), evidentemente non coincidente con i
trenta anni di vita presunta dell’Unione indicati nello
Statuto (art. 5).
L’organizzazione in concreto dei servizi
associati, ivi compresa quella degli uffici, è demandata ad
ulteriori e tutt’altro che chiare «Convenzioni regolamentari
adottate nel rispetto dei principi fissati dalla legge»
(art. 3 dell’«Atto di convenzione tra i Comuni di San
Giovanni Incarico, Rocca D’Arce e Falvaterra per la gestione
associata nell’Unione di Comuni “Antica Terra di Lavoro di
funzioni e servizi fondamentali»).
In assenza di
qualsivoglia esplicitazione aggiuntiva da ambo le parti, si
presume che uno di tali accordi sia quello poi sfociato,
quanto meno con riferimento al servizio di gestione dei
rifiuti, nella deliberazione del Consiglio dell’Unione n. 7
del 30.09.2014, contenente in verità il Regolamento
del servizio di gestione (consociato) dei rifiuti urbani.
Né
in tale stratificazione di atti è possibile comprendere
appieno l’esatta portata ed operatività dell’Ente
originariamente costituito: l’art. 17, comma 2, dello
Statuto, fa riferimento al 20.09.2006 quale data di
sua costituzione; con riferimento alla protezione civile, la
documentazione intercorsa fra le parti consente di
ipotizzare la preesistenza della gestione congiunta,
evidentemente ribadita senza esplicitare i cambiamenti
ampliativi e/o migliorativi; lo stesso dicasi per una parte
dell’attività di gestione dei rifiuti, in relazione alla
quale è il medesimo Comune di San Giovanni Incarico a
riferire al Prefetto di Frosinone lo svolgimento congiunto,
a far data dal 2011, della raccolta differenziata attuata
con la modalità “porta a porta” nel proprio territorio e in
quello del Comune di Falvaterra, tramite appositi
contenitori per strada in quello di Rocca D’Arce (v. lettera
di rendicontazione prot. n. 4662 del 31.10.2014).
21.2. Con riferimento, infine, ad eventuali funzioni
«ulteriori» rispetto a quelle in elenco, il comma 3
dell’art. 7 dello Statuto, ne demanda la possibilità di
«attribuzione» all’Unione da parte dei singoli Comuni con
apposita deliberazione, anche in questo caso lasciando in
dubbio se ciò debba avvenire nell’ambito di un rapporto
negoziale bilaterale (una convenzione, ai sensi del
ricordato art. 30, comma 2, del T.u.el.), ovvero dando luogo
ad una sorta di eterointegrazione ordinamentale,
coinvolgente l’Unione e, conseguentemente, tutti gli Enti
facenti parte della stessa.
Nella prima direzione parrebbe
muoversi la decisione del Comune di San Giovanni Incarico n.
15 del 03.05.2017, successivamente annullata, stante che
l’accordo siglato il 24.05.2017 ha interessato solo lo
stesso e il Presidente dell’Unione, peraltro individuati
nella medesima persona fisica che cumulava illo tempore
entrambe le cariche, stabilendo un vincolo destinato a
sopravanzare nel tempo la durata originaria dell’Unione
(ventinove anni, a decorrere dalla sigla).
22. La ricostruzione effettuata evidenzia dunque con
chiarezza l’elemento caratterizzante l’istituto dell’Unione,
che ne ha costituito anche nel tempo il ravvisato fattore di
criticità impediente l’utilizzo: essa si concretizza nella
creazione di un Ente distinto dai Comuni che la compongono,
a finalità normalmente settoriale, dotato di propri organi e
competenze esclusive, nell’ambito dell’oggetto della
gestione condivisa.
Per contro, l’accordo gestionale cui si
addiviene con una mera convenzione può risolversi in una
delega, ma non spoglia mai il Comune che la conferisce della
titolarità in astratto della relativa funzione.
23. La previsione del difetto assoluto di attribuzione come
causa di nullità dell’atto richiama in modo diretto il
concetto di carenza di potere e il fatto che il legislatore,
con l’art. 21-septies della l. n. 241 del 1990, non abbia
utilizzato tale espressione conduce a ritenere che nel mai
sopito dibattito al riguardo si sia voluto fare riferimento
alla carenza di potere in astratto, e non in concreto.
Va
dunque considerato nullo il provvedimento adottato da
un’amministrazione totalmente priva del potere, appunto, di
emanarlo, o perché esso appartiene ad un’amministrazione
radicalmente diversa -si parla in questo caso di
incompetenza assoluta- oppure perché si tratta di un potere
precluso ad ogni amministrazione e riservato ad un altro
potere dello Stato, giurisdizionale o legislativo (carenza
di potere in astratto).
Ritiene il Collegio che la seconda
ipotesi sia quella effettivamente verificatasi nel caso di
specie. Il potere di estromettere con decisione unilaterale
uno dei Comuni che compongono un’Unione non è previsto
dall’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000, né trova -o
potrebbe trovare- riscontro nelle previsioni statutarie di
quella denominata “Antica Terra di Lavoro”.
Queste ultime
caso mai da un lato disciplinano quale causa di cessazione
dell’Ente la scadenza del termine di durata ovvero una
deliberazione assunta a maggioranza qualificata da parte dei
propri organi deliberanti. Il recesso del singolo
partecipante, invece, può avvenire solo ad iniziativa dello
stesso, ferma restando la (effettiva) presa d’atto da parte
dell’Unione: recesso che nel caso di specie, per quanto
ampiamente chiarito, non è stato in alcun modo esercitato in
relazione all’adesione all’Unione, ma limitato all’ulteriore
e pattizio conferimento di funzioni alla stessa tramite
autonoma convenzione accessiva.
24. É di tutta evidenza, cioè, che l’Unione, una volta nata
su base volontaristica ovvero, a maggior ragione, coatta
(nel momento in cui entreranno in vigore le relative
previsioni legislative) non ha il potere di modificare
unilateralmente la propria compagine associativa, quando ciò
si ripercuota su scelte spettanti ai suoi singoli
componenti, estromettendoli a prescindere dall’avvenuta
espressione di volontà in tal senso da parte degli stessi,
ovvero perfino contro la relativa volontà.
25. Va detto che la scelta espulsiva, enfatizzata dalla
difesa dell’Unione quale effettivo oggetto del proprio
deliberato, non è in realtà immediatamente percepibile ad
una prima lettura del dispositivo dello stesso.
Essa cioè
non è fatta oggetto di un’autonoma, e chiara, enunciazione precettiva, ma va desunta da una sorta di
obiter dictum
letteralmente “perso” all’interno di uno dei lunghi periodi
descrittivi contenuti nella decisione, laddove si afferma
cioè «di ritenere risolto e sciolto, come in effetti si
risolve e si scioglie, a causa degli atti deliberativi
adottati dal Comune di San Giovanni Incarico, ed indicati in
premessa, il vincolo associativo con il Comune di San
Giovanni Incarico, con revoca altresì delle deliberazioni
consiliari dell’Unione dei Comuni n. 2/02 e n. 11/2014 nelle
parti in cui prevedono l’esercizio in forma associata dei
servizi e delle funzioni ivi indicati con il Comune di San
Giovanni Incarico, e di tutti gli atti connessi e
conseguenti, in esecuzione della volontà espressa
dall’Organo consiliare di San Giovanni Incarico […]».
Così
utilizzando addirittura l’istituto della revoca, riferendolo
a scelte consensuali altrui, in maniera del tutto incongrua,
oltre che palesemente immotivata.
25.1. Ciò giustificherebbe peraltro l’omessa comprensione
immediata della portata lesiva dell’atto da parte del
rappresentante del Comune appellante (unico presente tra i
tre previsti) che pure ha partecipato alla deliberazione
consiliare, con conseguente impugnativa dello stesso solo al
momento della concretizzazione dei relativi effetti, ovvero
con l’approvazione della variazione di bilancio di cui è
causa.
26. Il Comune di San Giovanni Incarico ha, dunque,
legittimamente e, ritiene il Collegio, doverosamente,
annullato in autotutela la delibera del maggio 2017, con
altra di poco successiva, n. 5 del 21.07.2017,
sull’assunto che è stato violato l’art. 35, comma 5, del T.u.el., che vieta al Consiglio comunale “uscente”
l’adozione di provvedimenti non qualificabili come «urgenti
e improrogabili» dopo l’avvenuta pubblicazione dei comizi
elettorali per l’effettuazione delle nuove consultazioni
(decreto del Prefetto di Frosinone del 04.04.2017, n.
4183, riferito alle elezioni amministrative fissate per l’11.06.2017).
Ciò non senza rilevare altresì la mancanza «di
appositi atti di conferimento mai stipulati dagli Enti e tra
gli Enti interessati».
Con tale scelta, peraltro, per tali
aspetti rispondente a mere esigenze di certezza del diritto,
ha posto in luce le conseguenze della precedente
-inopportuna anche sotto il profilo dell’unicità del
soggetto decisore, seppure in procinto di decadere da una
delle due cariche- che quella pregressa avrebbe comportato
sul piano sostanziale, ovvero la sostanziale riduzione del
Comune appellato ad una scatola vuota, esautorato «dei suoi
servizi e funzioni istituzionali più significativi, anche
fondamentali ex art. 117 della Costituzione ed art. 14, co.
27, D.L. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010 e s.m.i.»,
in palese contrasto con lo spirito della legislazione in
materia.
Valutazioni tutte di diritto, prima che di opportunità, che
in alcun modo potevano assurgere a causa nel senso
civilistico della risoluzione del rapporto derubricato a
mera convenzione tra le parti.
27. La deliberazione n. 7 del 02.08.2017 è invece
chiaramente neutra, nel senso di inidonea a produrre
qualsivoglia lesione nella sfera giuridica dell’appellante,
laddove riguardata solo dall’ottica della dichiarata «presa
d’atto» della decisione autoemendativa assunta dal Comune di
San Giovanni Incarico, una volta chiarita l’esatta ed
inequivoca portata dell’actus primus che con il suo
contrarius si è inteso rimuovere.
Esso infatti, come ormai
ampiamente evidenziato, aveva ad oggetto solo il
conferimento di ulteriori funzioni in via pattizia
all’Unione, non condizionanti i precedenti requisiti
costitutivi della stessa e anzi in maniera ad essa
sostanzialmente estranea. La circostanza poi che l’accordo
conseguitone non fosse neppure idoneo, per carenza dei
prescritti requisiti di forma, a produrre alcun effetto
giuridico, fa sì che tale pretesa «presa d’atto» si palesi
anche del tutto tautologica.
A prescindere, infatti,
dall’acquisita efficacia o meno della sottesa delibera del
maggio del 2017, in quanto non fatta oggetto di
pubblicazione on-line, è innegabile la radicale nullità
testuale, dichiarata a soli fini di certezza dei rapporti
giuridici, dell’accordo conseguitone. Come pure già
chiarito, infatti, allo stesso trova applicazione il comma
2-bis dell’art. 15 della l. n. 241, introdotto per la prima
volta dal d.l. n. 179 del 2012, convertito con legge n. 221
del 2012 (e poi modificato in seguito solo quanto alla
decorrenza del vincolo di forma ivi delineato), che
prescrive che gli accordi fra Pubbliche Amministrazioni
debbano essere sottoscritti con firma digitale, «pena la
nullità degli stessi».
Tale nullità “testuale” rende quelli
non corredati dalla specifica tipologia di sottoscrizione
inidonei a produrre un qualunque effetto giuridico. Ciò in
quanto il comma 2 dell’art. 15 stabilisce che «per detti
accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni
previste dall’articolo 11, commi 2 e 3», che a loro volta
rimandano, «ove non diversamente previsto, ai principi del
codice civile in materia di obbligazioni e contratti in
quanto compatibili».
Il richiamo in parola, quindi, non può
che essere riferito all’istituto civilistico della nullità,
che, come noto, si connota, inter alia, per l’assoluta
inidoneità dell’atto a produrre effetti giuridici:
altrimenti detto, dal punto di vista degli effetti (ossia in
un’ottica pragmatica attenta al dato funzionale della
capacità concreta dell’atto di modificare la realtà
giuridica), l’atto essenzialmente non esiste (sul punto, v.
ancora Cons. Stato, n. 9842/2023, cit. supra).
27. Condivisa dunque la propugnata ricostruzione del vizio
che affligge la delibera presupposto degli atti impugnati
come nullità per difetto di attribuzione per avvenuta
invasione di un settore attribuito ai singoli Comuni,
titolari della scelta associativa, ne va ora scrutinata la
valutabilità alla luce dell’avvenuto decorso del termine
decadenziale fissato dal codice ai fini del promuovimento
della relativa azione dichiarativa (art. 31, comma 4, c.p.a.),
siccome eccepito dall’amministrazione appellata.
28. La norma processuale richiamata ha infatti assoggettato
la declaratoria di nullità dell’atto amministrativo alla
proposizione della relativa domanda al giudice da parte di
chi vi abbia interesse, entro il termine di centottanta
giorni, da intendersi come decorrente dalla piena conoscenza
dell’atto medesimo, con ciò recependo solo in parte gli
aspetti tipici della nullità -come tradizionalmente
operante nell’ambito del diritto civile- quale nuova forma
di invalidità dello stesso oggi declinata all’art.
21-septies della l. n. 241 del 1990.
Vero è che la medesima
norma ha anche affermato per altro verso -come per i
contratti così anche per l’atto amministrativo- sia la opponibilità
in perpetuum della nullità ad opera della parte
resistente, sia la rilevabilità di ufficio di tale
invalidità, da parte del giudice.
28.1. La compatibilità della rilevabilità d’ufficio della
nullità con il termine di decadenza è apparsa da subito ai
commentatori alquanto oscura, in un sistema che prima facie
non sembra particolarmente simmetrico in termini di garanzie
tra le parti.
Al fine dunque di non rendere vana la
previsione stessa del termine decadenziale per la deduzione
del vizio in via autonoma da parte del ricorrente, è stato
dunque affermato in giurisprudenza che la perpetua
rilevabilità d’ufficio da parte del giudice incontra il
limite del caso in cui sia la parte stessa a far valere
detta forma di invalidità, in via di azione (Cons. Stato,
sez. III, 03.07.2019, n. 4566; sez. VI, 05.07.2022, n.
5593).
29. Nel caso di specie, tuttavia, si versa nella differente
ipotesi in cui la nullità di atti amministrativi (ovviamente
in un giudizio diverso da quello ex art. 31, comma 4, c.p.a.)
risulta funzionale alla pronuncia sulla domanda introdotta
in giudizio (e quindi, nel giudizio impugnatorio, alla
declaratoria di illegittimità dell’atto impugnato e al suo
conseguente annullamento, ovvero, al contrario, al rigetto
della domanda di annullamento).
In aderenza dunque al principio di corrispondenza tra
chiesto e pronunciato, cui si ispira anche la giurisprudenza
di legittimità sull’efficacia invalidante del vizio radicale
dell’atto presupposto su quello conseguente, non può non
rilevarsi come la nullità della deliberazione dell’Unione n.
7 del 2017, seppure per altri versi portata ad esecuzione
con provvedimenti non fatti oggetto di gravame, si riverbera
necessariamente sulla legittimità degli atti impugnati,
ovvero le delibere di approvazione della variazione di
bilancio.
Ciò in quanto la lettura dei tabulati riportanti
le varie voci di spesa e di entrata evidenzia la
rivisitazione della allocazione delle somme quale
conseguenza della estromissione del Comune di San Giovanni
Incarico, che, al contrario, almeno per quelle riferite ai
servizi in gestione associata (recte, da parte dell’Unione),
non poteva essere effettuata.
30. All’accoglimento dell’appello d’altro canto può
pervenirsi anche con riferimento al terzo motivo di censura.
In esso l’appellante invoca l’avvenuta violazione dell’art.
6 dello Statuto dell’Unione che fa decorrere l’efficacia
anche di un regolare recesso dal 31 dicembre dell’anno in
corso.
A tutto concedere alla tesi dell’appellata, dunque,
quand’anche cioè la scelta risolutiva fosse da ascrivere
alla volontà del Comune di San Giovanni Incarico, nel
prenderne atto l’Unione non poteva certo anticiparne la
decorrenza.
A ciò consegue che alla data del 28.11.2017 (di deliberazione da parte della Giunta) e del 29.12.2017 (di approvazione da parte del Consiglio, nella
cui epigrafe il Presidente dell’Unione viene
contraddittoriamente indicato ancora quale rappresentante
del Comune di San Giovanni Incarico), l’Amministrazione
appellante doveva a pieno titolo essere convocata e
assistere alle sedute degli organi rappresentativi.
31. L’applicabilità all’Unione dei principi generali in
materia di Comuni, sancita dall’art. 32 del T.u.e.l. e
ribadita dallo Statuto di quella denominata “Antica Terra di
Lavoro” all’art. 17, comma 1, consente di conformarsi a
quanto costantemente affermato in giurisprudenza per le
ipotesi di irritualità delle convocazioni, estendendole a
maggior ragione al caso di totale omissione delle stesse,
come accaduto nel caso di specie.
Trattasi di vicende che
arrecano un vulnus alle prerogative del consigliere comunale
pregiudicandone il corretto svolgimento del mandato.
31.1. La lesione dello ius ad officium, ha dunque
radicalmente pregiudicato la possibilità di esercitare con
pieno e libero convincimento il munus pubblico del quale il
consigliere dell’Unione è stato investito a tutela degli
interessi dell’Ente che ne faceva ancora parte, con
conseguente inibizione nell’espletamento dei diritti propri
dello status e impossibilità di esercitare le facoltà
espressamente previste dall’art. 43 del Testo unico degli
Enti locali.
32. Per tutto quanto sopra detto, l’appello deve essere
accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza del
Tar per il Lazio, Latina, n. 396 del 2018, deve essere
accolto il ricorso di primo grado promosso dal Comune di San
Giovanni Incarico, e annullata la variazione di bilancio
approvata in via definitiva con delibera n. 10 del 2017 del
Consiglio dell’Unione “Antica Terra di Lavoro”, nelle sole
parti in cui rivedono le voci in entrata e in uscita non
considerando come facente parte della stessa
l’Amministrazione ricorrente.
Tenuto conto della
circostanza, evidenziata dalla difesa dell’Unione, che la
stessa è in via di definitivo scioglimento, l’effetto conformativo della presente decisione non può che esplicare
i propri effetti nei confronti del Commissario liquidatore,
chiamato ad adeguare la propria rendicontazione ai principi
in questa sede affermati e a valutarne l’impatto sui bilanci
successivi.
Laddove il liquidatore abbia esaurito la propria rendicontazione, all’attuazione della decisione provvederà
un Commissario ad acta, individuato da subito nel Prefetto
di Frosinone o in uno o più funzionari dallo stesso
incaricati (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 11.01.2024 n. 376 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione e prescrizione in una sentenza penale
irrevocabile – Effetti su gli interventi edilizi di
prosecuzione e/o di completamento – Ordine di demolizione
dell’intero manufatto – Eseguibilità – Funzione
ripristinatoria e non sanzionatoria – Effetti della
caducazione di ulteriori ordini di demolizione – Profilo
sistematico e profilo delle conseguenze – Artt. 31 e 44
T.U.E..
Un ordine di demolizione pronunciato in
una sentenza penale irrevocabile rimane eseguibile anche
quando ulteriori ordini di demolizione aventi ad oggetto il
medesimo immobile vengano caducati per la declaratoria di
prescrizione del reato oggetto di accertamento nel diverso
processo.
Sotto il profilo sistematico, va rilevato, che l’ordine di
demolizione impartito da una sentenza divenuta irrevocabile,
avendo indubbia funzione ripristinatoria e non sanzionatoria,
costituisce titolo autosufficiente rispetto ad altri ordini
di demolizione aventi il medesimo oggetto, ma emessi in
conseguenza di altre condotte.
Invero, ogni ordine di demolizione pronunciato dal giudice
penale ex art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 viene
emesso all’esito di un giudizio avente ad oggetto uno
specifico fatto sussunto in una delle fattispecie di cui
all’art. 44 T.U.E., e si riferisce alle opere realizzate con
quella specifica condotta.
Sicché la caducazione di ulteriori ordini di demolizione per
ragioni determinate dall’esito dei processi nei quali questi
ultimi erano stati emessi non esplica alcuna incidenza in
ordine alla efficacia di quello “cristallizzato” in una
sentenza di condanna irrevocabile.
Sotto il profilo delle conseguenze, una diversa opzione
ermeneutica determinerebbe un effetto “criminogeno”, in
quanto potrebbe costituire un incentivo a commettere
condotte di illecita prosecuzione dei lavori abusivi nella
speranza di ottenere una causa di estinzione del reato, e
così di paralizzare una statuizione altrimenti
definitivamente eseguibile. Pertanto, è legittimo l’ordine
di demolizione dell’intero manufatto anche se per alcune
opere, meramente complementari, sia in precedenza
intervenuta revoca dell’ordine di demolizione, conseguente a
declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
In conclusione, l’ordine di demolizione conseguente alla
sentenza di condanna, previsto dall’art. 31, comma 9, d.P.R.
n. 380/2001, anche se relativo ad interventi edilizi di
prosecuzione e/o di completamento di un precedente abuso
edilizio dichiarato estinto per prescrizione ed in relazione
al quale il precedente ordine demolitorio era stato
revocato, deve comunque essere eseguito sull’immobile
considerato nella sua interezza.
---------------
Unitarietà dell’ordine di demolizione – Dovere di “restitutio
in integrum” dello stato dei luoghi – Verifica
dell’unitarietà o della pluralità degli interventi edilizi.
L’ordine di demolizione del manufatto
abusivo, ex art. 31, c. 9, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
riguarda l’edificio nel suo complesso, comprensivo di
eventuali aggiunte o modifiche successive all’esercizio
dell’azione penale e/o alla condanna, atteso che l’obbligo
di demolizione si configura come un dovere di “restitutio in
integrum” dello stato dei luoghi e, come tale, non può non
avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente
contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché
le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il
carattere abusivo dell’originaria costruzione.
Nel verificare l’unitarietà o la pluralità degli interventi
edilizi, peraltro, non può tenersi conto del mero profilo
strutturale, afferente alle tecniche costruttive del singolo
manufatto, ma deve prendersi in esame anche l’elemento
funzionale, al fine di verificare se le varie opere, pur
strutturalmente separate, siano, tuttavia, strumentali al
perseguimento del medesimo scopo pratico, consentendo la
realizzazione dell’interesse sostanziale sotteso alla loro
realizzazione.
E qualora le opere abusive siano tra loro connesse, dando
luogo ad un intervento unitario, l’istante è tenuto a
scegliere tra l’integrale ripristino dello stato dei luoghi,
mediante la demolizione e rimozione di tutte le opere
accertate come abusive dall’Amministrazione, ovvero la
presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
riferita al complessivo intervento abusivo, unitariamente
considerato, sempre che lo stesso sia conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della
sua realizzazione e al momento di presentazione della
domanda.
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Sentenze accertative degli abusi edilizi o paesaggistici –
Ordine di demolizione pronunciato dal giudice penale in
funzione di supplenza dell’autorità amministrativa – Art.
31, c. 9, d.P.R. n. 380/2001.
L’’ordine di demolizione, non va
dimenticato, viene pronunciato dal giudice penale in
funzione di supplenza rispetto all’autorità amministrativa,
rispetto al quale la condanna rappresenta solo l’occasione
che consente al giudice penale di pronunciarsi “anche”
sull’ordine demolitorio, quale sanzione amministrativa
restitutoria da disporsi obbligatoriamente (a meno che non
risulti che la demolizione sia già avvenuta, che l’abuso sia
stato sanato sotto il profilo urbanistico, che il consiglio
comunale abbia deliberato la conservazione delle opere in
funzione di interessi pubblici ritenuti prevalenti sugli
interessi urbanistici) e da eseguirsi con riferimento
all’immobile nella sua interezza, come reso palese dalla
stessa consecutio lessicale dell’art. 31, comma 9, d.P.R. n.
380 del 2001 (Per le opere abusive di cui al presente
articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il
reato di cui all’articolo 44, ordina la demolizione delle
opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita).
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Reati edilizi e diritto all’abitazione – Immobile abusivo
adibito ad abituale abitazione – Attuazione/esecuzione
dell’ordine di demolizione – Principio di proporzionalità –
Esigenze di tutela di un bene collettivo – Tutela della
salute e dell’incolumità – Artt. 2 e 3 della Costituzione e
all’art. 8 della CEDU.
in tema di reati edilizi, il giudice,
nel dare attuazione all’ordine di demolizione di un immobile
abusivo adibito ad abituale abitazione di una persona, è
tenuto a rispettare il principio di proporzionalità
enunciato dalla giurisprudenza della Corte Edu valutando la
disponibilità, da parte dell’interessato, di un tempo
sufficiente per conseguire, se possibile, la sanatoria
dell’immobile o per risolvere, con diligenza, le proprie
esigenze abitative, la possibilità di far valere le proprie
ragioni dinanzi a un Tribunale indipendente, l’esigenza di
evitare l’esecuzione in momenti in cui sarebbero compromessi
altri diritti fondamentali, nonché l’eventuale
consapevolezza della natura abusiva dell’attività
edificatoria.
Sicché, il rispetto della normativa in materia edilizia
risponde non solo all’ovvia esigenza di tutelare un bene
collettivo, come tale sottratto alla libera ed
indiscriminata disponibilità dei singoli, ma anche alla
necessità che questi stessi possano usufruire del bene in
sicurezza, proprio perché regolarmente edificato, tutelando
la propria salute e la propria incolumità –in sintesi, il
proprio benessere– anche (e soprattutto) per l’ipotesi di
eventi superiori come le calamità naturali (si pensi alla
normativa antisismica o a tutela dal rischio idrogeologico)
o, per l’appunto, le malattie o situazioni invalidanti che
costringano un soggetto a vivere, magari costantemente,
all’interno di uno spazio chiuso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.01.2024 n. 870 - link a www.ambientediritto.it).
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SENTENZA
2. Infondato è anzitutto il primo motivo.
2.1. Non può invero trovare anzitutto accoglimento la
doglianza relativa alla non estensibilità dell’ordine
demolitorio agli abusi oggetto della declaratoria di
prescrizione pronunciata in data 05.11.1996.
È il caso di riassumere i fatti che hanno preceduto la
proposizione dell’incidente di esecuzione la cui definizione
ha dato origine al provvedimento ora impugnato: da quanto
risulta in atti, i ricorrenti, soggetti terzi interessati
iure ereditatis di Ve.U. e D’Al.C., soggetti
ingiunti e deceduti, hanno proposto incidente di esecuzione
relativamente all’ordine demolitorio disposto con sentenza
ex art. 444, cod. proc. pen., per i reati di violazione di
sigilli e per alcuni reati edilizi ed antisismici in
relazione alla costruzione, senza permesso di costruire, di
un manufatto di mq. 220 circa composto da due piani fuori
terra già sottoposto a sequestro in data 10.08, 20.08 e
27.08.1991, proseguendo in violazione dei sigilli i lavori
edili abusivi, presentandosi al momento dei fatti il
manufatto diviso in quattro appartamenti completi
parzialmente; la pronunzia in questione è divenuta
definitiva in data 04.12.2006.
Tale pronunzia, secondo quanto affermato dai ricorrenti -e
sul punto la circostanza non appare essere stata posta in
discussione né tanto meno smentita nell’ordinanza ora
impugnata- non riguardava i lavori edilizi abusivi oggetto
del sequestro dell’anno 1991 (di cui quelli oggetto della
sentenza di condanna munita di ordine demolitorio
rappresentano la prosecuzione, eseguiti successivamente ed
oggetto dei verbali di sequestro 06.12.2003, 16.02.2004,
23.02.2004, 25.03.2004 e 13.12.2004, in occasione
dell’accertata plurima violazione dei sigilli), per i quali
è intervenuta declaratoria di estinzione del reato per
prescrizione con sentenza del Pretore di Napoli del 05.11.1996, ma solo quelle successivamente accertate dal
2003 in poi, indicate nell’imputazione ex art. 44, lett. c),
TU edilizia.
2.2. Ora, posto che, secondo quanto emerge dalla lettura
della ordinanza impugnata, la contestazione da cui è
scaturita la sentenza della cui esecuzione si tratta ha ad
oggetto l’avvenuta prosecuzione di lavori edili relativi al
manufatto di due piani fuori terra composto da due solai di
220 mq. circa, per i quali è intervenuta sentenza di
proscioglimento per prescrizione, si osserva che i principi
giurisprudenziali evocati dal giudice dell’esecuzione a
sostegno della propria decisione di rigetto del ricorso
presentato dagli eredi Ve. si palesano astrattamente ed
in concreto condivisibili.
Infatti, non può censurarsi che
il Tribunale di Napoli non avrebbe considerato né la
circostanza che la prosecuzione dell’attività̀ edilizia da
parte dei danti causa Ve./D’Al. ha avuto ad
oggetto il manufatto di due piani fuori terra composto da
due solai di 220 mq. circa in relazione al quale vi è stata
una pronunzia giurisdizionale di intervenuta prescrizione
del reato all’epoca contestato, né l’obbiettivo contenuto
della decisione assunta con la sentenza con la quale è
stato definito il giudizio a carico dei danti causa.
Ed
invero, premesso che secondo la consolidata giurisprudenza
di questa Corte l’ordine di demolizione (nonché quello di rimessione dei luoghi in pristino stato), corollario delle
sentenze accertative degli abusi edilizi o paesaggistici,
può conseguire, ove si eccettui la ipotesi della
lottizzazione abusiva per, la quale vale un regime normativo
derogatorio più severo (cfr. infatti, Sez. 3, n. 21910 del
07/04/2022, Rv. 283325; Sez. 3, n. 5816 del 18/01/2022, Rv.
282833), solamente nel caso in cui la conclusione del
procedimento penale abbia condotto alla affermazione della
penale responsabilità dell’imputato, non essendo idonea a
tal fine la sola sentenza dichiarativa della prescrizione (Sez.
3, n. 37836 del 29/03/2017, Rv. 270907; Sez. 3, n. 50441 del
27/10/2015, Rv. 265616), va rilevato che i precedenti
giurisprudenziali alla cui autorevolezza il Tribunale si
richiama (come gli altri pronunziati in materia da questa
Corte) appaiono sicuramente pertinenti rispetto al caso ora
in esame, non rilevando la circostanza che gli stessi non
siano stati pronunziati in una fattispecie, quale è la
presente, in cui le opere abusive (la cui prosecuzione ha
costituito oggetto della sentenza cui è collegato l’ordine
demolitorio) avevano formato oggetto di una sentenza di
estinzione del reato per effetto della intervenuta
prescrizione.
La rivalutazione, sia pure ai soli fini della esecuzione
dell’ordine di demolizione dell’opera abusiva da parte
dell’autorità giudiziaria –ordine si precisa che, per
quanto è dato desumere dall’ordinanza, non risulta essere
stato impartito quanto al manufatto di due piani fuori terra
composto da due solai di 220 mq. circa eseguito nel 1991,
esulante rispetto al contenuto della sentenza del tribunale
del 05.11.1996 in quanto per lo stesso vi era stata
sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione,
laddove l’ordine demolitorio riguardava gli interventi
edilizi in prosecuzione intervenuti tra il 2003 ed il 2004–
non costituisce infatti violazione di quanto disposto con la
sentenza dichiarativa dell’avvenuta estinzione del reato a
suo tempo contestato, né integra una violazione del
principio del ne bis in idem processuale, nel senso che
sarebbe oggetto di una determinata previsione
giurisdizionale, indubbiamente peggiorativa, un fatto per il
quale già vi è stata sentenza di proscioglimento, sia pure
per prescrizione (come diversamente afferma un recente
precedente di questa stessa Sezione, rimasto isolato e non
condiviso da questo Collegio: Sez. 3, n. 19424 del 09.01.2023, Sorrentino, non massimata).
2.3. Né può sostenersi, come adombra tale decisione qui non
condivisa, che il giudice dell’esecuzione non avrebbe tenuto
conto del dato, acclarato dalla giurisprudenza di questa
Corte, che, a differenza del caso in cui non vi sia stata
una precedente sentenza, la prosecuzione dei lavori posta in
essere dopo una sentenza di condanna (ma deve ritenersi che
ciò valga a maggior ragione ove vi sia stata una sentenza di
proscioglimento) integra non la prosecuzione della
precedente condotta illecita ma un nuovo reato edilizio
(così Sez. 3, n. 36215 del 15/05/2019, Rv. 277582), in
relazione al quale la eventuale sentenza di condanna
costituisce un nuovo, autonomo, titolo esecutivo e non la
estensione del precedente.
Tale affermazione, se può valere –al di fuori dei casi di
illecito lottizzatorio– nei casi in cui l’abuso per cui è
intervenuta la declaratoria di prescrizione sia del tutto
autonomo rispetto a quello eseguito successivamente, non può
tuttavia essere invocata nei casi, come quello in esame, in
cui l’abuso edilizio per il quale è intervenuta condanna (e
su cui si fonda il successivo ordine demolitorio)
costituisce lo sviluppo (rectius, l’ostinata e dolosa
prosecuzione) di un’attività edilizia riguardante il
medesimo immobile in relazione al quale è intervenuta la
precedente declaratoria di proscioglimento per prescrizione,
che ha comportato la revoca del relativo ordine di
demolizione.
Quanto sopra, infatti, è la naturale
conseguenza del principio, più volte affermato da questa
Corte, secondo cui in caso di abusi realizzati in
progressione, la demolizione deve necessariamente
coinvolgere tutte le opere complessivamente e unitariamente
intese.
In tale ultimo senso questa Suprema Corte ha infatti
precisato che l’ordine di demolizione del manufatto abusivo,
previsto dall’art. 31, comma nono, del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, riguarda l’edificio nel suo complesso, comprensivo
di eventuali aggiunte o modifiche successive all’esercizio
dell’azione penale e/o alla condanna, atteso che l’obbligo
di demolizione si configura come un dovere di “restitutio in integrum” dello stato dei luoghi e, come tale, non può non
avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente
contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché
le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il
carattere abusivo dell’originaria costruzione (tra le tante,
Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016, dep. 2017, Rv. 268831 – 01;
di recente, si v. anche Sez. 3, n. 43236 del 11/10/2023, La
Menza ed altro, non massimata).
2.4. Ad avviso del Collegio, peraltro, come già del resto
affermato in una recente decisione di questa stessa Sezione
(Sez. 3, n. 46197 del 26/09/2023, Giaquinto, non massimata),
un ordine di demolizione pronunciato in una sentenza penale
irrevocabile rimane eseguibile anche quando ulteriori ordini
di demolizione aventi ad oggetto il medesimo immobile
vengano caducati per la declaratoria di prescrizione del
reato oggetto di accertamento nel diverso processo.
Va rilevato, infatti, sotto il profilo sistematico, che
l’ordine di demolizione impartito da una sentenza divenuta
irrevocabile, che ha indubbia funzione ripristinatoria e non
sanzionatoria (tra le tante: Sez. 3, n. 3979 del 21/09/2018,
dep. 2019, Rv. 275850), costituisce titolo autosufficiente
rispetto ad altri ordini di demolizione aventi il medesimo
oggetto, ma emessi in conseguenza di altre condotte.
Invero,
ogni ordine di demolizione pronunciato dal giudice penale ex
art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 viene emesso
all’esito di un giudizio avente ad oggetto uno specifico
fatto sussunto in una delle fattispecie di cui all’art. 44
d.P.R. cit., e si riferisce alle opere realizzate con quella
specifica condotta. Sicché la caducazione di ulteriori
ordini di demolizione per ragioni determinate dall’esito dei
processi nei quali questi ultimi erano stati emessi non
esplica alcuna incidenza in ordine alla efficacia di quello
“cristallizzato” in una sentenza di condanna irrevocabile.
Sotto il profilo delle conseguenze, poi, una diversa opzione
ermeneutica determinerebbe un effetto “criminogeno”, in
quanto potrebbe costituire un incentivo a commettere
condotte di illecita prosecuzione dei lavori abusivi nella
speranza di ottenere una causa di estinzione del reato, e
così di paralizzare una statuizione altrimenti
definitivamente eseguibile.
Ancora, identica conclusione
appare già enunciata in un precedente, nel quale si afferma
che è legittimo l’ordine di demolizione dell’intero
manufatto, anche se per alcune opere meramente complementari
(nella specie, casseformi armate dirette alla
sopraelevazione) era in precedenza intervenuta revoca
dell’ordine di demolizione, conseguente a declaratoria di
estinzione del reato per prescrizione (Sez. 3, n. 38947 del
09/07/2013, Amore, Rv. 256431-01).
2.5. Piuttosto, in sede di esecuzione, come si evince anche
dal precedente appena citato, potrebbe essere necessario
verificare se le condotte oggetto del processo in relazione
al quale è emesso l’ordine di demolizione poi caducato,
siccome diverse da quelle giudicate nel processo definito
con sentenza di condanna penale irrevocabile, abbiano
comportato la realizzazione di opere strutturalmente
autonome rispetto a quelle oggetto del provvedimento di
abbattimento contenuto in quest’ultima decisione.
Ed
infatti, se l’ordine di demolizione caducato ha ad oggetto
opere strutturalmente autonome da quelle interessate dal
provvedimento rimasto fermo, le prime non potranno essere
demolite. Se, invece, come nel caso sottoposto all’esame di
questo Collegio, l’ordine di demolizione caducato ha ad
oggetto opere rispetto alle quali quelle interessate dal
provvedimento da eseguire costituiscono il naturale
sviluppo, un completamento o una prosecuzione, anche le
prime dovranno essere demolite, proprio in applicazione del
principio dell’unitarietà dell’abuso.
In questo senso, del resto, si è ripetutamente pronunciata
la giurisprudenza, secondo la quale l’ordine di demolizione
del manufatto abusivo, previsto dall’art. 31, comma 9,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, riguarda l’edificio oggetto
del procedimento che ha dato vita al titolo esecutivo ma
anche ogni altro intervento, che, per la sua accessorietà
all’opera abusiva, renda ineseguibile l’ordine medesimo, non
potendo consentirsi che eventuali ulteriori edificazioni
possano, in qualche modo, ostacolare l’integrale attuazione
dell’ordine giudiziale (cfr., tra le tantissime, Sez. 3, n.
41180 del 20/10/2021, La Rosa, e Sez. 3, n. 6049 del
27/09/2016, dep. 2017, Molinari, Rv. 268831-01).
2.6. Utili elementi interpretativi, del resto, possono
agevolmente essere tratti dalla giurisprudenza
amministrativa.
Pacifico, infatti, è che, proprio in relazione
all’esecuzione di un ordine demolitorio, la giurisprudenza
amministrativa ritiene che al fine di valutare l’incidenza
sull’assetto del territorio di un intervento edilizio,
consistente in una pluralità di opere, va compiuto un
apprezzamento globale, atteso che la considerazione
atomistica dei singoli interventi non consente di
comprenderne in modo adeguato l’impatto effettivo
complessivo. I molteplici interventi eseguiti non vanno
considerati, dunque, in maniera “frazionata” (Cons. St.,
sez. VI, 26/09/2022, n. 8238; Cons. St., sez. VI, 08/09/2021,
n. 6235).
In tal senso, non può che convenirsi con
l’affermazione dei giudici amministrativi secondo cui “nel
verificare l’unitarietà o la pluralità degli interventi
edilizi, peraltro, non può tenersi conto del mero profilo
strutturale, afferente alle tecniche costruttive del singolo
manufatto, ma deve prendersi in esame anche l’elemento
funzionale, al fine di verificare se le varie opere, pur
strutturalmente separate, siano, tuttavia, strumentali al
perseguimento del medesimo scopo pratico, consentendo la
realizzazione dell’interesse sostanziale sotteso alla loro
realizzazione”.
E che “qualora le opere abusive siano tra
loro connesse, dando luogo ad un intervento unitario,
l’istante è tenuto a scegliere tra l’integrale ripristino
dello stato dei luoghi, mediante la demolizione e rimozione
di tutte le opere accertate come abusive
dall’Amministrazione, ovvero la presentazione dell’istanza
di accertamento di conformità riferita al complessivo
intervento abusivo, unitariamente considerato, sempre che lo
stesso sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente al momento della sua realizzazione e al momento di
presentazione della domanda” (cfr., in tal senso, Cons. St.,
Sez. VI, 16.03.2020 n. 1848).
Ciò comporta, ad esempio,
quale naturale conseguenza che deve escludersi che al
destinatario dell’ordine di demolizione sia consentito
selezionare se e quali delle opere rimuovere, stante il
principio dell’unitarietà dell’abuso, sanzionato –e dunque
da demolire– in ciascuna delle sue componenti: si tratta di
una valutazione già operata dall’amministrazione procedente
in sede di irrogazione della sanzione e che, ove rimasta
incontestata, non può venire surrettiziamente rimessa in
gioco in fase esecutiva. Pertanto, l’esecuzione parziale
dell’ordinanza di demolizione espone il destinatario alla
sanzione pecuniaria prevista per mancata ottemperanza
all’ordinanza stessa, non essendo al riguardo possibile
distinguere tra parziale e totale inottemperanza (TAR
Firenze, Toscana, sez. III, 05/10/2020, n. 1136).
2.7. Posto, quindi, che l’ordine di demolizione disposto con
sentenza penale irrevocabile rimane eseguibile anche quando
ulteriori provvedimenti di identico contenuto relativi al
medesimo immobile vengano caducati per la declaratoria di
prescrizione del reato, deve concludersi che l’ordine di
demolizione conseguente alla sentenza di condanna, pur
essendo relativo agli interventi edilizi di completamento
dell’abuso “prescritto” per il quale il precedente
ordine demolitorio è caducato, deve essere eseguito
sull’immobile considerato nella sua interezza.
Deve, quindi, essere affermato il seguente principio di
diritto: «L’ordine di demolizione conseguente alla sentenza
di condanna, previsto dall’art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche se relativo ad interventi edilizi di
prosecuzione e/o di completamento di un precedente abuso
edilizio dichiarato estinto per prescrizione ed in relazione
al quale il precedente ordine demolitorio era stato
revocato, deve comunque essere eseguito sull’immobile
considerato nella sua interezza».
3. Facendo, pertanto, applicazione di tale principio al caso
in esame, ne discende che l’azione esecutiva fondata
sull’ordine demolitorio delle opere abusive, in data 16.10.2006, con sentenza emessa dal Tribunale di Napoli,
definitiva in data 04.12.2006, non è preclusa o sospesa
solo perché era stato in precedenza revocato l’ulteriore
ordine di demolizione sul medesimo manufatto, relativo alle
opere preesistenti in relazione alle quali è intervenuta
sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato.
L’ordine di demolizione, infatti, non va dimenticato, viene
pronunciato dal giudice penale in funzione di supplenza
rispetto all’autorità amministrativa, rispetto al quale la
condanna rappresenta solo l’occasione che consente al
giudice penale di pronunciarsi “anche” sull’ordine demolitorio, quale sanzione amministrativa restitutoria da
disporsi obbligatoriamente (a meno che non risulti che la
demolizione sia già avvenuta, che l’abuso sia stato sanato
sotto il profilo urbanistico, che il consiglio comunale
abbia deliberato la conservazione delle opere in funzione di
interessi pubblici ritenuti prevalenti sugli interessi
urbanistici: Sez. 3, n. 43294 del 29/09/2005, Rv. 232645) e
da eseguirsi con riferimento all’immobile nella sua
interezza, come reso palese dalla stessa consecutio
lessicale dell’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 (Per
le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice,
con la sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo
44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non
sia stata altrimenti eseguita).
Il motivo di ricorso deve, pertanto, essere respinto.
4. Manifestamente infondata è inoltre la doglianza relativa
alla mancata valutazione della proporzionalità dell’ordine
demolitorio.
Ed infatti, come, peraltro già affermato da questa Corte, il
diritto all’abitazione, riconducibile agli artt. 2 e 3 della
Costituzione e all’art. 8 della CEDU, non è tutelato in
termini assoluti in sede di esecuzione dei provvedimenti
giurisdizionali, ma esso è oggetto di bilanciamento con
altri valori di pari rango costituzionale, come l’ordinato
sviluppo del territorio e la salvaguardia dell’ambiente, che
giustificano, secondo i criteri della necessità,
sufficienza e proporzionalità, l’esecuzione dell’ordine di
demolizione di un immobile abusivo, sempre che tale
provvedimento si riveli proporzionato rispetto allo scopo
che la normativa edilizia intende perseguire, rappresentato
dal ripristino dello status preesistente del territorio (Sez.
3, n. 48021 del 11/09/2019, Rv. 277994; Sez. 3, n. 21198 del
15/02/2023, Rv. 284627 – 01).
Ciò considerato e rilevato
anche che, in tema di reati edilizi, il giudice, nel dare
attuazione all’ordine di demolizione di un immobile abusivo
adibito ad abituale abitazione di una persona, è tenuto a
rispettare il principio di proporzionalità enunciato dalla
giurisprudenza della Corte Edu valutando la disponibilità,
da parte dell’interessato, di un tempo sufficiente per
conseguire, se possibile, la sanatoria dell’immobile o per
risolvere, con diligenza, le proprie esigenze abitative, la
possibilità di far valere le proprie ragioni dinanzi a un
Tribunale indipendente, l’esigenza di evitare l’esecuzione
in momenti in cui sarebbero compromessi altri diritti
fondamentali, nonché l’eventuale consapevolezza della natura
abusiva dell’attività edificatoria (Sez. 3, n. 5822 del
18/01/2022, Rv. 282950 – 01; Sez. 3, n. 423 del 14/12/2020,
dep. 2021, Rv. 280270 – 01), ritiene questa Corte che
nell’occasione il Giudice della esecuzione si sia ben dato
carico di valutare il rispetto dei principi dianzi evocati.
Il Tribunale ha, infatti, posto in luce implicitamente sia
la evidente esorbitanza dell’immobile in questione,
costituito da un manufatto di due piani fuori terra,
composto da due solai di 220 mq. circa, rispetto alle
sufficienti esigenze abitative; ha altresì segnalato –in
presenza di fattori deponenti per la esistenza di situazioni
di bisogno economico/sanitario a carico dei ricorrenti
oggetto di bilanciamento-, che nel tempo intercorso fra la
avvenuta definitività della sentenza della cui esecuzione
oggi si tratta ed il provvedimento con il quale si è
disposta autoritativamente tale esecuzione (non potendo, del
resto, il condannato lucrare sul tempo inutilmente trascorso
dalla data di irrevocabilità della sentenza, posto che
l’ingiunzione a demolire trova causa proprio dalla sua
inerzia: cfr. Sez. 3, n. 21198 del 15/02/2023, cit.), i
ricorrenti non risultano essersi attivati onde risolvere in
termini di liceità il proprio problema abitativo, avendo non
solo beneficiato di un congruo lasso temporale per
individuare altre soluzioni abitative, ma anche facendo leva
sulla commissione di contravvenzioni urbanistiche e
paesaggistiche e del reato di violazione di sigilli,
aggiungendo come gli stessi avrebbero potuto avvalersi di
plurimi rimedi per la tutela in giudizio delle proprie
ragioni, né essendo state indicate specifiche esigenze tali
da giustificare un rinvio dell’esecuzione dell’ordine di
demolizione onde evitare la compromissione di altri diritti
fondamentali.
Trattasi di motivazione che si conforma del resto alla
giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 5822 del
18/01/2022, Rv. 282950, che ha già ritenuto corretta la
decisione di rigetto dell’istanza di revoca dell’ingiunzione
a demolire un immobile abusivo, rilevando che i ricorrenti
avevano commesso numerose contravvenzioni urbanistiche e
paesaggistiche e più delitti di violazione dei sigilli,
avevano potuto avvalersi di plurimi rimedi per la tutela in
giudizio delle proprie ragioni, avevano beneficiato di un
congruo tempo per individuare altre situazioni abitative e
non avevano indicato specifiche esigenze che giustificassero
il rinvio dell’esecuzione dell’ordine di demolizione onde
evitare la compromissione di altri diritti fondamentali),
dovendosi peraltro rilevare, in armonia con quanto già
evidenziato dal PG, l’assoluta genericità dell’istanza “non
supportata (quanto a inadeguatezza delle risorse economiche
della famiglia genericamente indicata, alla condizione
urbanistica dell’area nella quale grava l’immobile abusivo,
all’impossibilità di ottenere un alloggio popolare o
comunque una sistemazione alternativa) da alcuna concreta
allegazione, quantomeno sotto il profilo dei redditi
dell’indefinito nucleo familiare, della richiesta di alloggi
popolari, della attuale condizione urbanistica dell’area)”.
4.1. A ciò, infine, va aggiunto, come recentemente affermato
da questa Corte con sentenza cui il Collegio ritiene di
dover dare continuità, che il diritto alla salute, specie a
fronte di patologie gravi ed invalidanti, trova attuazione
in primo luogo ponendo il malato in un ambiente –non
necessariamente ospedaliero– del tutto salubre, edificato
ed attrezzato nel pieno rispetto della disciplina di legge,
proprio perché questa è volta a garantire anche il benessere
di chi abita in quei luoghi, specie se malato.
In altri termini, il rispetto della normativa in materia
edilizia risponde non solo all’ovvia esigenza di tutelare un
bene collettivo, come tale sottratto alla libera ed
indiscriminata disponibilità dei singoli, ma anche alla
necessità che questi stessi possano usufruire del bene in
sicurezza, proprio perché regolarmente edificato, tutelando
la propria salute e la propria incolumità –in sintesi, il
proprio benessere– anche (e soprattutto) per l’ipotesi di
eventi superiori come le calamità naturali (si pensi alla
normativa antisismica o a tutela dal rischio idrogeologico)
o, per l’appunto, le malattie o situazioni invalidanti che
costringano un soggetto a vivere, magari costantemente,
all’interno di uno spazio chiuso (Sez. 3, n. 48820 del 02.11.2023, F., non massimata). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimo estendere gli effetti inibitori della sanzione
ANAC a una procedura di gara aggiudicata anni prima.
---------------
CONTRATTI pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione - Risoluzione - ANAC - Sanzione. Efficacia.
Al disposto del comma 12 dell’art. 80, a
termini del quale “In caso di presentazione di falsa
dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure di
gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione
appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che, se ritiene
che siano state rese con dolo o colpa grave in
considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti
oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di
falsa documentazione, dispone l'iscrizione nel casellario
informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara
e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1 fino
a due anni, decorso il quale l'iscrizione è cancellata e
perde comunque efficacia.”, va riconosciuto il carattere di
norma di stretta interpretazione poiché connotata
dall’evidente natura afflittiva e compressiva dei diritti
del destinatario, quali quello di partecipazione a pubbliche
gare, espressivo della libertà di iniziativa economica
privata sancito dall’art. 41, co. 1, della Costituzione, e
appare funzionale solo a un’applicazione pro futuro.
Ritenere che siffatta inibizione, stabilita per le gare e
per i subappalti futuri, possegga idoneità a riverberarsi
anche sui contratti di appalto o di subappalto già
sottoscritti dalla stazione appaltante, per di più quasi
cinque anni addietro –come nel caso di specie– equivale a:
1) confliggere con il divieto generale di applicazione estensiva o
analogica di norme di stretta interpretazione;
2) conferire alla norma stessa, efficacia retroattiva e attitudine
a produrre effetti, inammissibilmente, anche su di una
vicenda procedimentale ormai conclusa da oltre cinque anni,
quale la procedura di gara sfociata nell’aggiudicazione
presupposta alla stipulazione del contratto d’appalto
risolto con l’impugnato provvedimento.
(In punto di fatto la Prefettura aveva risolto un precedente
contratto atteso che il divieto di partecipazione dalle
procedure di gara, sia pur per soli 90 giorni, pronunciato
ai danni della Cooperativa dall’ANAC, quantunque emesso in
occasione della nuova procedura di gara indetta dalla
Prefettura, importerebbe la risoluzione del precedente
contratto in virtù del principio di necessaria permanenza
dei requisiti di partecipazione alle pubbliche gare per
tutta la durata dell’esecuzione del contratto)
(TAR Campaia-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.01.2024 n. 132 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
6. Approdando al merito del gravame, sintetizzando il nesso
della suesposta pregressa vicenda procedimentale sul
provvedimento impugnato, conviene ricordare che il divieto
di partecipazione, dalle procedure di gara, sia pur per soli
90 giorni, pronunciato ai danni della Cooperativa dall’ANAC
con comunicazione prot. n. 64540 del 02/09/2020,
successivamente integrata in data 18/11/2020 (prot. 87674),
quantunque emesso in occasione della nuova procedura di gara
indetta dalla Prefettura il 09/04/2019, importerebbe,
secondo il provvedimento oggetto del ricorso in trattazione,
la risoluzione del precedente contratto del 15.09.2016, in
virtù del principio di necessaria permanenza dei requisiti
di partecipazione alle pubbliche gare per tutta la durata
dell’esecuzione del contratto.
La Sezione ha già sancito, con l’Ordinanza cautelare
07.05.2021, n. 789 di accoglimento della domanda incidentale
di sospensiva, “che la disposta risoluzione del contratto
si fonda solo sulla delibera n. 4 del 07.01.2021”;
cosicché va scrutinata l’incidenza e l’idoneità inficiante
della pronuncia inibitoria recata da tale deliberazione
dell’ANAC, sul contratto d’appalto del 15.09.2016 stipulato
dalla Prefettura resistente con la Cooperativa.
7. Al riguardo ritiene il Collegio che fondato ed assorbente
si prospetti il primo motivo di ricorso, con il quale,
rubricando, tra l’altro, violazione dell’art. 80, commi 12 e
14, del Codice dei contratti pubblici, la ricorrente, in
sintesi, deduce che l’art. 80 del Codice dei Contratti
Pubblici, il cui comma 12 nel prevedere l’iscrizione nel
casellario informatico della pubblicità notizia, persegue
due sole finalità: l’esclusione del destinatario dalla
partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica e
l’esclusione dall’affidamento del subappalto. Nel corso del suindicato lasso temporale il provvedimento di iscrizione in
questione costituisce motivo ostativo alla stipula di
contratti, sulla scorta di quanto previsto sia dalla lettera
f-ter) del comma 5 che dal successivo comma 14 dell’art. 80,
d.lgs. n. 50 del 2016.
Per la ricorrente l’impianto della norma in esame, dunque, è
tale da dirigere l’efficacia delle sanzioni ivi previste
–anche di tipo interdittivo– unicamente alla fase
dell’evidenza pubblica, impedendo destinatario della
sanzione inibitoria di partecipare a gare e di stipulare il
contratto nel lasso di tempo determinato dalla sanzione
afflittiva. Conclusione suffragata anche dalla norma di
chiusura dell’art. 80 D.Lgs. n. 50/2016, costituita dal
comma 14, secondo cui “Non possono essere affidatari di
subappalti e non possono stipulare i relativi contratti i
soggetti per i quali ricorrano i motivi di esclusione
previsti dal presente articolo”.
Da tale norma del Codice dei contratti pubblici discende,
secondo la deducente, che l’efficacia del provvedimento
dell’Anac non può riflettersi nel rapporto contrattuale
tuttora in essere tra la ricorrente e la Prefettura di
Benevento, per effetto di un contratto già stipulato, in un
momento oltretutto antecedente altresì alla gara –del tutto
autonoma- dalla quale la Cooperativa è stata espulsa.
8. La censura si presta a favorevole considerazione e va
pertanto accolta.
Osserva il Collegio che colora di persuasività la doglianza
della deducente, non tanto l’invocato disposto dell’art. 80,
comma 14, del d.lgs. n. 50/2016, a mente del quale “Non
possono essere affidatari di subappalti e non possono
stipulare i relativi contratti i soggetti per i quali
ricorrano i motivi di esclusione previsti dal presente
articolo”, giacché tale norma ha una ampia latitudine e una
portata generale, involgendo tutte le ipotesi di esclusione
annoverate dall’art. 80, quanto il disposto di cui al comma
12 dell’art. 80 in esame, a termini del quale “In caso di
presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione,
nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalto,
la stazione appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che,
se ritiene che siano state rese con dolo o colpa grave in
considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti
oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di
falsa documentazione, dispone l'iscrizione nel casellario
informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara
e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1 fino
a due anni, decorso il quale l'iscrizione è cancellata e
perde comunque efficacia.”
La disposizione, cui va riconosciuto il carattere di norma
di stretta interpretazione poiché connotata dall’evidente
natura afflittiva e compressiva dei diritti del
destinatario, quali quello di partecipazione a pubbliche
gare, espressivo della libertà di iniziativa economica
privata sancito dall’art. 41, co 1, della Costituzione,
appare funzionale ad un’applicazione pro futuro, in quanto
preordinata a inibire la partecipazione alle gare e
l’affidamento di subappalti cui l’impresa raggiunta dalla
iscrizione nel casellario informatico ambisca a prender
parte ovvero, quanto ai subappalti, che aspiri a stipulare.
8.1. Depone nel divisato senso anzitutto l’ermeneusi
letterale della norma, laddove stabilisce che l’iscrizione
nel casellario informatico è effettuata “ai fini
dell'esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti
di subappalto ai sensi del comma 1” ma solo “fino a due
anni, decorso il quale l'iscrizione è cancellata e perde
comunque efficacia”: il che postula di necessità
l’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine
durante “fino a due anni”, dies che non può che individuarsi
nel momento dell’avvenuta iscrizione.
Del resto –ed è forse l’osservazione di maggior momento-
la stessa formulazione diacronica del termine in questione,
insita nell’inciso finale “decorso il quale l'iscrizione è
cancellata e perde comunque efficacia”, presuppone che
l’operatività e gli effetti dell’iscrizione nel casellario
informatico si proiettino e riverberino nel futuro.
8.2. Suffraga inoltre, in secondo luogo, l’esegesi qui
suggerita, anche la considerazione della ratio e del
carattere di norma di stretta interpretazione che vanno
fondatamente annessi all’art. 80, comma 12, d.lgs. n.
50/2016, dianzi tratteggiato.
Invero, ritenere che siffatta inibizione, ripetesi,
stabilita per le gare e per i subappalti futuri, possegga
idoneità a riverberarsi anche sui contratti di appalto o di
subappalto già sottoscritti dalla stazione appaltante, per
di più quasi cinque anni addietro –come nel caso di specie–
equivale a:
1) confliggere con il divieto generale di applicazione estensiva o
analogica di norme di stretta interpretazione;
2) conferire alla norma stessa, efficacia retroattiva ed attitudine
a produrre effetti, inammissibilmente, anche su di una
vicenda procedimentale ormai conclusa da oltre cinque anni,
quale la procedura di gara sfociata nell’aggiudicazione
presupposta alla stipulazione del contratto d’appalto del 15.09.2016 (all. 3 del ricorso) risolto con l’impugnato
provvedimento.
8.3. L’efficacia limitata al solo periodo di validità
dell’iscrizione nel casellario, risalta inoltre con maggiore
evidenza ove si consideri che il termine di due anni è un
termine massimo (“fino a due anni”), il che elide ab imis la
possibilità di estendere gli effetti inibitori portati
dall’iscrizione de qua, ad un arco temporale già decorso.
In tale ultima corretta visuale di indagine, rimarca inoltre
il Collegio che nel caso di specie l’ANAC ha ulteriormente
circoscritto il periodo di inibizione dalla partecipazione
alle gare e dalla stipula di contratti di subappalto
pronunciato a carico della ricorrente, a soli tre mesi. Come
già anticipato nelle premesse infatti, con il provvedimento
n. 4 del 07/01/2021, con cui ha irrogato la sanzione
pecuniaria di € 15.000,00, l’ANAC ha disposto l’annotazione
della Cooperativa ricorrente nel casellario informatico dei
contratti pubblici comminando altresì l’ulteriore sanzione
di inibizione per novanta giorni dalla partecipazione alle
procedure di gara e dall’affidamento di subappalti.
Ora, come fondatamente deduce sul punto anche la ricorrente
Cooperativa (punto 1.3. del primo motivo), tale limitazione
temporale fa emergere la portata meramente inibitoria
dell’iscrizione, a valere sulle future gare e sui futuri
subappalti.
8.3.1. Accreditando, invece, la tesi su cui si fonda
l’impugnato provvedimento risolutivo -come parimenti
sostiene la ricorrente- decorso il lasso di tempo di
efficacia della sanzione inibitoria (nella specie, pari a
novanta giorni o comunque, al massimo a due anni ex art. 80, co. 12,
d.lgs. n. 50/2016), si perverrebbe ad una situazione
dicotomica in cui mentre per la partecipazione alle gare o
per l’affidamento dei subappalti non vigerebbe più la
preclusione, viceversa, per effetto di un provvedimento di
risoluzione contrattuale derivante dall’estensione del
divieto in argomento anche ai contratti di appalto già
stipulati ed in corso di esecuzione, l’appaltatore
subirebbe, come nel caso all’esame, una lesione permanente e
non più limitata ai soli novanta giorni inferti dal
provvedimento di iscrizione nel casellario emesso dall’ANAC.
8.3.2. Il che, soggiunge il Collegio, trasmoderebbe anche in
una lampante lesione del principio di uguaglianza e in una
non consentita disparità di trattamento tra il futuro
appaltatore o subappaltatore, che tale non potrebbe
diventare solo per il termine di durata dell’iscrizione ANAC
nel casellario informatico, e l’appaltatore già esecutore di
un contratto d’appalto in corso di svolgimento, pregiudicato
invece in via permanente e definitiva dalla disposta
risoluzione.
9. Non risulta constino precedenti giurisprudenziali sul
punto.
Segnala comunque il Collegio che la giurisprudenza ha
espresso un principio analogo, agganciando la delimitazione
dell’operatività dell’effetto dell’iscrizione nel casellario
informatico al periodo corrispondente alla durata della
inibizione ANAC.
Si è in tal senso affermato che: “L'iscrizione
nel casellario informatico è efficace, perché dà luogo a
effetti escludenti, solo per il periodo corrispondente alla
durata della sanzione interdittiva inflitta dall'Anac, pur
se tali effetti possono essere fatti valere anche dopo, «ora
per allora», quando la verifica da parte delle Stazioni
Appaltanti è eseguita dopo lo spirare del termine di
interdizione ma relativamente a gare rientranti in tale
periodo” (TAR Lazio–Roma, Sez., 07.01.2020, n. 63).
Più di recente anche questo TAR si è espresso nel medesimo
senso estendendo la possibilità di escludere l’impresa
raggiunta dal provvedimento di iscrizione nel casellario
informatico anche oltre l’aggiudicazione, precisando che:
“Dall'art. 80, comma 5, lett. f- ter) e comma 6, d.lgs. n.
50/2016 è possibile ricavare che l'operatore economico deve
essere escluso ogni volta in cui la sanzione interdittiva
ANAC venga irrogata in pendenza di una procedura di gara. La
sanzione non produce un mero effetto preclusivo, bensì
espulsivo. Invero, il comma 6 prevede che l'esclusione degli
operatori economici privi dei requisiti di partecipazione
possa intervenire in qualunque momento della procedura, a
causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della
procedura stesso. Inoltre, la lett. f-ter) nel prevedere che
«Il motivo di esclusione perdura fino a quando opera
l'iscrizione nel casellario informatico», da un lato
preclude l'ultrattività della sanzione, dall'altro, però, ne
conferma in modo inequivoco la natura di motivo di
esclusione che, alla stregua di quanto sopra evidenziato,
produce i propri effetti nelle procedure in corso, rendendo
doverosa la misura espulsiva, anche successiva
all'aggiudicazione, della società destinataria della
sanzione” (TAR Campania-Napoli, sez. VIII, 07.10.2022, n.
6203).
9.1.Ma varcare la soglia di una già pronunciata
aggiudicazione fino ad invadere un contratto già in corso di
svolgimento –peraltro, nel caso che occupa, da quasi cinque
anni- vulnerandolo con un provvedimento di risoluzione in
danno, è un effetto che l’ordinamento, anche costituzionale,
ad avviso del Collegio non consente, per le ragioni sopra
spiegate (TAR
Campaia-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.01.2024 n. 132 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'onere di comunicare alla ricorrente l’avvio del
procedimento ex art. 7 della legge 241/1990 (preordinato
alla adozione del impugnato provvedimento prefettizio teso
alla risoluzione del contratto d’appalto stipulato con la
ricorrente stessa) si rende(va) necessario poiché la risoluzione
contrattuale decretata, appunto, con l’impugnato provvedimento
prefettizio opera al pari di un atto di secondo grado, sia
nella sostanza provvedimentale che negli effetti,
risolvendosi in un provvedimento di ritiro emesso alla
stregua di un atto di autotutela decisoria, del quale
condivide i caratteri sostanziali ed effettuali.
Milita a suffragio della tesi ricorrente circa la
sostanziale riconduzione del gravato provvedimento
all’esercizio dei poteri di autotutela della p.a.,
l’argomento incentrato sulla valorizzazione del dato
sostanziale rispetto a quello meramente formale del
provvedimento in questione; seppur di “risoluzione” si è
trattato, in quanto avente l’effetto tipico di sciogliere il
vincolo contrattuale stipulato con il privato dopo
l’aggiudicazione, esso non rimonta a vizi e/o a condotte
manifestate nel rapporto contrattuale, né ad un
inadempimento dell’appaltatore, adducendo a ragione del
provvedimento di esclusione elementi relativi alla fase prodromica all’aggiudicazione stessa di un’altra gara
autonoma rispetto al contratto risolto.
Gara d’appalto
espletata nell’anno 2020, mentre il contratto in essere tra
le parti è stato stipulato nel 2016 in esito alla
intervenuta aggiudicazione di una gara precedente ed
autonoma.
...
Relativamente ai provvedimenti espressione di autotutela
decisoria della pubblica amministrazione, è incontrastato
l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa che predica
la necessità dell’inoltro al privato da esso inciso, della
comunicazione di avvio ex art. 7, l. n. 241/1990.
Giova al riguardo rammentare che l’art. 7 L. 241/1990
stabilisce che «ove non sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del
procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato,
con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei
confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono
intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di
impedimento predette, qualora da un provvedimento possa
derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente
individuabili, diversi dai suoi di-retti destinatari,
l'amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse
modalità, notizia dell'inizio del procedimento».
Operando l’impugnato decreto prefettizio, come detto, alla
stregua e con i medesimi effetti sostanziali di un
provvedimento in autotutela, la comunicazione di avvio del
procedimento era obbligatoria. Sul punto la giurisprudenza è
unanime.
Al riguardo il Tribunale ha anche di recente sancito che
«laddove si tratti -come nel caso di specie- di
procedimenti volti all’adozione di provvedimenti di secondo
grado di ritiro in autotutela (revoca o annullamento) di
precedenti atti amministrativi favorevoli, la giurisprudenza
amministrativa è, infatti, consolidata nel riconoscere alla
preventiva comunicazione di cui all’art. 7 della l. n.
241/1990 il valore di principio generale dell’azione
amministrativa, fatta salva (soltanto) la sussistenza di
particolari ragioni di urgenza adeguatamente esplicitate
nella motivazione del provvedimento finale – ragioni di
urgenza nella fattispecie in alcun modo evidenziate.
Ed invero non può disconoscersi in capo al ricorrente,
proprietario del bene al momento dell’emissione del
provvedimento di secondo grado, un interesse qualificato a
partecipare al relativo procedimento sia in fase iniziale
(previo avviso di avvio del procedimento ai sensi dell’art.
7 della legge n. 241 del 1990) sia in fase istruttoria e
decisionale (ai sensi dell’art. 10 della medesima legge)».
Sulla scia del cennato orientamento la giurisprudenza ha
ribadito che “come è noto, laddove si tratti -come nel caso
di specie- di procedimenti volti all'adozione di
provvedimenti di secondo grado di ritiro in autotutela
(revoca o annullamento) di precedenti atti amministrativi
favorevoli, la giurisprudenza amministrativa è consolidata
nel riconoscere alla preventiva comunicazione di cui
all'art. 7 della l. n. 241/1990 il valore di principio
generale dell’azione amministrativa, fatta salva (soltanto)
la sussistenza di particolari ragioni di urgenza
adeguatamente esplicitate nella motivazione del
provvedimento finale, ragioni di urgenza nella fattispecie
in alcun modo evidenziate”.
---------------
10. Del pari fondato è anche il terzo motivo di
ricorso, con cui, in sintesi, la ricorrente Cooperativa
lamenta l’omissione della comunicazione di avvio del
procedimento, ex art. 7, l. n. 241/1990, preordinato alla
adozione del impugnato provvedimento del Prefetto di
Benevento, teso alla risoluzione del contratto d’appalto
stipulato con la ricorrente, avente ad oggetto lo
svolgimento dei servizi di accoglienza di cittadini
stranieri richiedenti la protezione internazionale, nel
Centro di accoglienza straordinario in Frasso Telesino.
Deduce al riguardo parte ricorrente che, alla stregua di
qualsiasi provvedimento amministrativo, la risoluzione in
disamina avrebbe dovuto essere preceduta dalla instaurazione
di un corretto procedimento, caratterizzato dalle garanzie
partecipative allestite dal legislatore in favore del
destinatario del provvedimento finale.
Nel caso di specie ha fatto difetto, invece, l’assolvimento
del divisato onere e “Il provvedimento autoritativo,
nonostante sia caratterizzato da una portata gravemente
lesiva della posizione della ricorrente, è stato calato
dall’alto, senza cioè la previa instaurazione di un
procedimento caratterizzato dalla comunicazione del relativo
avvio, la fissazione di un termine in capo al destinatario
per produrre osservazioni e\o giustificazioni” (Ricorso,
pag. 14).
11. La sintetizzata censura coglie nel segno e va dunque
accolta.
Invero, l’onere di comunicare alla ricorrente l’avvio del
procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge sul
procedimento si rendeva necessario poiché la risoluzione
contrattuale decretata con l’impugnato provvedimento
prefettizio opera al pari di un atto di secondo grado, sia
nella sostanza provvedimentale che negli effetti,
risolvendosi in un provvedimento di ritiro emesso alla
stregua di un atto di autotutela decisoria, del quale
condivide i caratteri sostanziali ed effettuali.
Milita a suffragio della tesi ricorrente circa la
sostanziale riconduzione del gravato provvedimento
all’esercizio dei poteri di autotutela della p.a.,
l’argomento incentrato sulla valorizzazione del dato
sostanziale rispetto a quello meramente formale del
provvedimento in questione; seppur di “risoluzione” si è
trattato, in quanto avente l’effetto tipico di sciogliere il
vincolo contrattuale stipulato con il privato dopo
l’aggiudicazione, esso non rimonta a vizi e/o a condotte
manifestate nel rapporto contrattuale, né ad un
inadempimento dell’appaltatore, adducendo a ragione del
provvedimento di esclusione elementi relativi alla fase prodromica all’aggiudicazione stessa di un’altra gara
autonoma rispetto al contratto risolto.
Gara d’appalto
espletata nell’anno 2020, mentre il contratto in essere tra
le parti è stato stipulato nel 2016 in esito alla
intervenuta aggiudicazione di una gara precedente ed
autonoma.
Relativamente ai provvedimenti espressione di autotutela
decisoria della pubblica amministrazione, è incontrastato
l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa che predica
la necessità dell’inoltro al privato da esso inciso, della
comunicazione di avvio ex art. 7, l. n. 241/1990.
Giova al riguardo rammentare che l’art. 7 L. 241/1990
stabilisce che «ove non sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del
procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato,
con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei
confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono
intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di
impedimento predette, qualora da un provvedimento possa
derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente
individuabili, diversi dai suoi di-retti destinatari,
l'amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse
modalità, notizia dell'inizio del procedimento».
Operando l’impugnato decreto prefettizio, come detto, alla
stregua e con i medesimi effetti sostanziali di un
provvedimento in autotutela, la comunicazione di avvio del
procedimento era obbligatoria. Sul punto la giurisprudenza è
unanime.
Al riguardo il Tribunale ha anche di recente sancito che
«laddove si tratti -come nel caso di specie- di
procedimenti volti all’adozione di provvedimenti di secondo
grado di ritiro in autotutela (revoca o annullamento) di
precedenti atti amministrativi favorevoli, la giurisprudenza
amministrativa è, infatti, consolidata nel riconoscere alla
preventiva comunicazione di cui all’art. 7 della l. n.
241/1990 il valore di principio generale dell’azione
amministrativa, fatta salva (soltanto) la sussistenza di
particolari ragioni di urgenza adeguatamente esplicitate
nella motivazione del provvedimento finale – ragioni di
urgenza nella fattispecie in alcun modo evidenziate (ex
multis, questo TAR, Sezione IV, n. 2907/2014).
Ed invero
non può disconoscersi in capo al ricorrente, proprietario
del bene al momento dell’emissione del provvedimento di
secondo grado, un interesse qualificato a partecipare al
relativo procedimento sia in fase iniziale (previo avviso di
avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n.
241 del 1990) sia in fase istruttoria e decisionale (ai
sensi dell’art. 10 della medesima legge)» (TAR Campania–Napoli, sez. IV, n. 70/2022).
Negli stessi sensi si è pronunciato il giudice d’appello (Cons.
di Stato, sez. II, 07.09.2020, n. 5392).
Sulla scia del cennato orientamento la giurisprudenza ha
ribadito che “come è noto, laddove si tratti -come nel caso
di specie- di procedimenti volti all'adozione di
provvedimenti di secondo grado di ritiro in autotutela
(revoca o annullamento) di precedenti atti amministrativi
favorevoli, la giurisprudenza amministrativa è consolidata
nel riconoscere alla preventiva comunicazione di cui
all'art. 7 della l. n. 241/1990 il valore di principio
generale dell’azione amministrativa, fatta salva (soltanto)
la sussistenza di particolari ragioni di urgenza
adeguatamente esplicitate nella motivazione del
provvedimento finale, ragioni di urgenza nella fattispecie
in alcun modo evidenziate (cfr. Cons. Stato, sez. II, 07.09.2020, n. 5392; TAR Campania, sez. IV,
02.08.2019, n. 4246)” (TAR Sicilia-Catania, sez. I, n.
959/2022).
11.1. Il provvedimento prefettizio impugnato è stato
adottato senza la previa comunicazione di avvio del
procedimento, sicché alla deducente Cooperativa non è stato
consentito di partecipare al procedimento attraverso la
presentazione di documentate osservazioni che avrebbero
permesso all’Amministrazione di acquisire elementi e notizie
utili ai fini dell’istruttoria
(TAR Campaia-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.01.2024 n. 132 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Giusta l'inveterato insegnamento della
giurisprudenza, “L'intervenuta impugnazione dell'atto
presupposto, lesivo dell'interesse del soggetto destinatario
dello stesso, esonera quest'ultimo dall'onere di impugnare
anche l'atto conseguenziale, attesa l'automatica sua
caducazione per effetto dell'eventuale annullamento
dell'atto ad esso antecedente”.
Principio ribadito più di recente, sia pur nella speculare
prospettiva di indagine degli effetti dell’omessa
impugnazione dell’atto presupposto sull’impugnazione
dell’atto confermativo, condivisibilmente precisandosi che
“In assenza d'impugnazione del provvedimento presupposto,
divenuto inoppugnabile, l'impugnazione dell'atto conseguenziale è inammissibile, con la sola eccezione
dell'ipotesi in cui il rapporto di conseguenzialità sia
necessario, nel senso che l'atto successivo si pone come
inevitabile conseguenza di quello precedente perché non vi
sono da compiere nuove e ulteriori valutazioni di interessi,
né del destinatario dell'atto presupposto, né di altri
soggetti, ipotesi ove vige la diversa regola della
caducazione automatica”.
Nella visuale di indagine collimante col caso di specie si è
negli stessi sensi precisato che “L'omessa impugnazione dei
provvedimenti successivi a quello impugnato, aventi effetti
analoghi ed incidenti sulla medesima pretesa del ricorrente,
determina l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta
carenza di interesse con l'unica eccezione a tale generale
principio, che si rinviene allorché l'atto superveniens
abbia natura confermativa, evidenziando, quindi,
l'inesistenza di qualsiasi connotato di autonomia decisoria:
circostanza, quest'ultima, che comporta, in caso di
annullamento del primo provvedimento, la conseguenziale
caducazione dell'atto confermativo”.
---------------
12. Quanto all’omessa impugnazione della successiva decisione
prefettizia di spostamento dei cittadini stranieri ospitati
nel Centro per cui è causa, circostanza segnalata dalla
Prefettura resistente con nota difensiva n. prot. 2348 del
17/03/2023 depositata in giudizio in data 21/03/2023 (all. 3.
produz. Avvocatura di Stato), il che potrebbe far sorgere il
dubbio della procedibilità del gravame, valga osservare
quanto segue.
La Prefettura di Benevento con il citato rapporto
informativo rappresenta sia che, a seguito dell’adozione del
provvedimento di risoluzione contrattuale, avvenuta in data
12/03/2021, la ricorrente società ha continuato a prestare
il servizio in regime di “proroga tecnica” ex art. 106,
comma 11, D.lgs. n. 50/2016, fino a che l’Amministrazione
appaltante ha individuato il nuovo affidatario a conclusione
della nuova gara indetta con determina a contrarre prot. n.
2601 del 14.03.2019 sia che, al fine di eseguire quanto
già decretato nel gravato provvedimento di risoluzione
contrattuale, ha adottato in data 22/06/2021 l’atto prot.
46279 con il quale ha deciso il trasferimento dei migranti
presso le strutture individuate mediante la nuova gara,
sancendo così il termine del regime di proroga al
30/06/2021.
13. Ritiene il Collegio che la mancata impugnazione da parte
della ricorrente della decisione di trasferimento suindicata,
non è ostativa alla definizione del giudizio, in tesi
comportandone l’improcedibilità per sopravvenuto difetto di
interesse.
Invero, come evidenziato dalla ricorrente in memoria, la
decisione di cui all’atto prot. 46279/2021 di trasferire i
migranti dalla struttura utilizzata dalla Cooperativa
Dell.An. presso altra struttura individuata a seguito di
una nuova gara, consegue automaticamente all’impugnato
provvedimento di risoluzione quale atto conseguenziale
inteso a conferire ad esso effettività, non integrando
quindi un nuovo provvedimento autonomamente lesivo soggetto
quindi all’onere di impugnazione, onde scongiurare la
sanzione di improcedibilità del gravame avverso il
provvedimento di risoluzione del contratto d’appalto
stipulato con la ricorrente.
13.1. Soccorre al riguardo inveterato insegnamento della
giurisprudenza, espresso già da tempo dal giudice d’appello,
secondo il quale “L'intervenuta impugnazione dell'atto
presupposto, lesivo dell'interesse del soggetto destinatario
dello stesso, esonera quest'ultimo dall'onere di impugnare
anche l'atto conseguenziale, attesa l'automatica sua
caducazione per effetto dell'eventuale annullamento
dell'atto ad esso antecedente” (Consiglio di Stato, sez. VI,
28.06.1995, n. 635).
Principio ribadito più di recente, sia pur nella speculare
prospettiva di indagine degli effetti dell’omessa
impugnazione dell’atto presupposto sull’impugnazione
dell’atto confermativo, condivisibilmente precisandosi che
“In assenza d'impugnazione del provvedimento presupposto,
divenuto inoppugnabile, l'impugnazione dell'atto conseguenziale è inammissibile, con la sola eccezione
dell'ipotesi in cui il rapporto di conseguenzialità sia
necessario, nel senso che l'atto successivo si pone come
inevitabile conseguenza di quello precedente perché non vi
sono da compiere nuove e ulteriori valutazioni di interessi,
né del destinatario dell'atto presupposto, né di altri
soggetti, ipotesi ove vige la diversa regola della
caducazione automatica” (Consiglio di Stato, sez. V, 03.05.2012, n. 2530).
Nella visuale di indagine collimante col caso di specie si è
negli stessi sensi precisato che “L'omessa impugnazione dei
provvedimenti successivi a quello impugnato, aventi effetti
analoghi ed incidenti sulla medesima pretesa del ricorrente,
determina l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta
carenza di interesse con l'unica eccezione a tale generale
principio, che si rinviene allorché l'atto superveniens
abbia natura confermativa, evidenziando, quindi,
l'inesistenza di qualsiasi connotato di autonomia decisoria:
circostanza, quest'ultima, che comporta, in caso di
annullamento del primo provvedimento, la conseguenziale
caducazione dell'atto confermativo” (TAR
Calabria–Catanzaro, sez. I, 22/07/2009, n. 786)
(TAR Campaia-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.01.2024 n. 132 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sui nuovi confini della vicinitas commerciale.
---------------
Dall’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011 si ricava un
limite agli interessi
che sulla base della semplice vicinitas commerciale si
possono far valere.
Il
ricorso è pertanto limitato alla tutela di interessi
concernenti “la necessità di
garantire la tutela della salute, dei lavoratori,
dell'ambiente, ivi incluso
l'ambiente urbano, e dei beni culturali”, ciò è a dire degli
unici interessi per i
quali la pubblica autorità può limitare o escludere
l’insediamento di esercizi
commerciali.
Ammettere il ricorso a tutela di interessi di
tipo diverso, infatti,
andrebbe a servire un interesse di mero fatto a limitare la
concorrenza a
salvaguardia di una propria posizione già acquisita
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.12.2023 n. 11367 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
1. Si controverte dell’iniziativa giudiziaria della
ricorrente appellante, nota impresa del settore della grande
distribuzione, intesa a contrastare, con l’impugnazione di
tutti gli atti relativi, l’insediamento da parte della
controinteressata appellata, anch’essa nota impresa del
settore, di una grande struttura di vendita di generi
alimentari a Genova, nella zona nota come Promontorio di San
Benigno.
...
27. È fondato e va accolto il primo motivo
dell’appello incidentale, centrato sul presunto difetto di
legittimazione della ricorrente appellante.
27.1 La questione concernente la possibilità per un
imprenditore di impugnare l’autorizzazione commerciale,
ovvero un titolo abilitativo ampiamente inteso, rilasciata
ad altro imprenditore in concorrenza per svolgere l’attività
di questi è tradizionalmente affrontata dalla giurisprudenza
di questo Consiglio con il richiamo al noto criterio della
“vicinitas commerciale”: fra le molte, C.d.S. sez. IV
05.09.2022 n. 7704, fra le più recenti, ma già sez. IV 26.11.2004 n. 7447.
27.2 Si deve però evidenziare che la vicinitas commerciale,
così come l’analogo concetto di vicinitas
urbanistico-edilizia, è una semplice formula riassuntiva,
adottata nella sostanza per comodità di esposizione; è
quindi necessario darvi concretezza per individuare i suoi
contenuti e precisare quali elementi effettivamente valgano
a fondare la legittimazione e l’interesse ad agire, ovvero i
presupposti di ammissibilità del ricorso, in questa materia.
27.3 Nel far ciò, ad avviso del Collegio, vanno tenute
presenti sia la normativa di legge sostanziale con la sua
recente evoluzione, sia la normativa processuale.
27.3.1 Sotto il primo profilo, va osservato che la
concorrenza sul mercato fra le imprese è uno degli obiettivi
che l’Unione Europea, e in precedenza la Comunità Economica
Europea, promuove nel proprio interno, come risulta
attualmente dall’intero capo I del titolo VII del Trattato
sul funzionamento dell’Unione- TFUE, e in particolare dagli
articoli 101 e 102 di esso, che vietano le intese
restrittive e l’abuso di una posizione dominante sul mercato
stesso.
27.3.2 A queste norme di principio, l’Unione europea ha
fatto seguire norme di dettaglio, e segnatamente, per quanto
qui interessa, la direttiva 2006/123/UE; essa all’art. 10
prevede, fra le condizioni di rilascio delle autorizzazioni
commerciali, che i relativi regimi debbano basarsi “su
criteri che inquadrino l’esercizio del potere di valutazione
da parte delle autorità competenti affinché tale potere non
sia utilizzato in modo arbitrario” (comma 1), criteri che
devono essere “non discriminatori” e “giustificati da un
motivo imperativo di interesse generale” (comma 2, lettera a
e lettera b).
27.3.3 In dichiarata attuazione di queste norme europee, il
legislatore nazionale ha poi introdotto l’art. 31, comma 2, del d.l.
06.12.2011 n. 201, correttamente citato
dall’appellante incidentale, secondo il quale “Secondo la
disciplina dell'Unione Europea e nazionale in materia di
concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di
servizi, costituisce principio generale dell'ordinamento
nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi
commerciali sul territorio senza contingenti, limiti
territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura,
esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei
lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e
dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i
propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma
entro il 30.09.2012, potendo prevedere al riguardo,
senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree
interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad
aree dove possano insediarsi attività produttive e
commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la
tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi
incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali”.
27.3.4 Sotto il secondo profilo, va poi tenuto presente il
principio affermato dall’Adunanza plenaria di questo
Consiglio con la sentenza 09.12.2021, n. 22, con
riferimento specifico alla vicinitas urbanistico-edilizia,
ma con valore del tutto generale: la legittimazione e
l’interesse sono presupposti di trattabilità del ricorso nel
merito autonomi e distinti fra loro, ognuno dei quali va
allegato e provato; in particolare non si può affermare che
“il criterio della vicinitas, quale elemento di
individuazione della legittimazione, valga da solo ed in
automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al
ricorso”, interesse che va inteso e provato come “specifico
pregiudizio derivante dall’atto impugnato”, distinto quindi
da un mero interesse di fatto al rispetto della legalità.
27.3.5 Il Collegio non condivide quanto afferma la
ricorrente appellante (memoria 24.10.2022 p. 49),
ovvero che l’art. 31 d.l. 201/2011 –e per implicito le
norme presupposte di cui si è detto- sarebbero norme
sostanziali, dalle quali non si potrebbe desumere alcuna
conseguenza in materia di legittimazione processuale.
In
proposito, è sufficiente osservare in termini di principio
che la dimensione sostanziale e quella processuale di una
norma sono strettamente collegate, dal momento che la norma
giuridica non è tale se non se ne può dare applicazione
attraverso il processo, e in termini di diritto positivo che
una norma di principio di rango europeo, e quindi superiore
alla legge ordinaria, non può non orientare
l’interpretazione in tutti i settori dell’ordinamento,
incluso il diritto processuale.
27.4 Tanto premesso, si ricorda che il concetto di vicinitas
commerciale è definito in generale dalla giurisprudenza come
la posizione dei soggetti i quali “agendo come imprenditori
nel medesimo settore, attingono al medesimo bacino di utenza
e risentono, pertanto, di un effettivo danno al loro volume
d'affari, in caso di apertura di una nuova impresa
commerciale illegittimamente autorizzata”; così la costante
giurisprudenza, fra le molte C.d.S. sez. IV 28.06.2022 n. 5353,
dalla quale è tratta la citazione, nonché sez. IV 03.09.2014 n. 4480, entrambe con ulteriori ampi rimandi.
27.5 Ad avviso del Collegio, questa definizione va precisata
sotto tre profili, concettualmente distinti, ma
intersecantisi fra loro: in primo luogo, il tipo di
interesse che con il ricorso in materia può esser fatto
valere, in dipendenza dall’evoluzione legislativa di cui si
è detto; in secondo luogo, la definizione del bacino di
utenza rilevante e in terzo luogo la prova dell’effettivo
danno al volume di affari.
27.5.1 Sotto il primo profilo, la giurisprudenza ha già
avuto modo di affermare che l’interesse azionabile in
termini di vicinitas commerciale è appunto un interesse di
tipo commerciale; ha quindi ritenuto che dedurre a questo
titolo motivi di carattere edilizio – ove beninteso non vi
siano gli autonomi presupposti della vicinitas edilizia-
rappresenti “un uso strumentale della tutela accordata ai
soggetti terzi, in materia di provvedimenti di natura urbanistico-edilizia, a tutela di un interesse di fatto,
finalizzato ad ostacolare la realizzazione di uno
stabilimento concorrente”: così C.d.S. sez. VI 02.03.2016
n. 1156.
La giurisprudenza ha ancora ritenuto in via
generale, pur senza richiamare in modo esplicito l’art. 31
d.l. 201/2011, che “la legittimazione al ricorso non può di
certo configurarsi allorquando l'instaurazione del giudizio
appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi, di mero
fatto o contra ius, siccome volti nella sostanza a
contrastare la libera concorrenza e la libertà di
stabilimento”: così sez. IV 29.03.2018 n. 1977.
27.5.2 Ad avviso del Collegio, questa linea interpretativa
va sviluppata, nel senso che dall’art. 31 d.l. 201/2011 si
debba ricavare un limite agli interessi che sulla base della
semplice vicinitas commerciale si possono far valere, e
limitare quindi il ricorso alla tutela di interessi
concernenti “la necessità di garantire la tutela della
salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso
l'ambiente urbano, e dei beni culturali”, ciò è a dire degli
unici interessi per i quali la pubblica autorità può
limitare o escludere l’insediamento di esercizi commerciali.
Ammettere il ricorso a tutela di interessi di tipo diverso,
infatti, andrebbe a servire un interesse di mero fatto a
limitare la concorrenza a salvaguardia di una propria
posizione già acquisita.
27.5.3 Ciò ovviamente non significa, lo si precisa per
chiarezza, che l’imprenditore, quale soggetto stabilmente
insediato sul territorio al pari di altri, non possa
impugnare atti di tipo urbanistico-edilizio che consentono
l’insediamento di altre attività sulla base delle regole
generali in materia, ovvero della vicinitas edilizia, nei
limiti disegnati dalla ricordata sentenza dell’Adunanza
Plenaria 22/2021.
27.5.4 Sotto il secondo profilo, il concetto di bacino di
utenza è stato definito come “l’area in cui si dispiega
l'influenza economica del concorrente ed è quindi idonea a
incidere sulle posizioni di mercato del controinteressato”:
per tutte, C.d.S. sez. IV 03.09.2014 n. 4480.
Si tratta
però, come evidente, di una definizione non determinata con
precisione, e quindi tendenzialmente inadatta a selezionare
i ricorsi ammissibili in un sistema in cui la concorrenza,
come si è visto, è il principio generale e quindi le
eccezioni devono essere interpretate in modo tassativo.
27.5.5 La giurisprudenza più recente, in particolare la già
citata sentenza 5353/2022 della Sezione, ha allora chiarito
che il bacino di utenza è un concetto scientifico, e
coincide con “l'area raggiungibile a partire da un punto
prefissato su una cartina, il cosiddetto "baricentro",
seguendo gli assi stradali. L'individuazione del "bacino di
utenza" implica, quindi, l'applicazione di criteri
specialistici e metodi di calcolo non surrogabili attraverso
la comune esperienza o la scienza privata del Giudice”, né tanto meno surrogabili con le semplici allegazioni di una
parte, che la controparte contesti.
La sentenza 5353/2022 ha
quindi ritenuto che “per poter fornire la prova della c.d. vicinitas commerciale e, conseguentemente, della
legittimazione a ricorrere, si palesa del tutto
insufficiente la mera affermazione di parte della
sussistenza di un comune "bacino d'utenza" fra la struttura
commerciale erigenda e quella che agisce in giudizio a
tutela del suo interesse commerciale (id est, la libera
iniziativa economica) asseritamente leso”.
27.5.6 Sotto il terzo profilo, la considerazione di fondo
per cui la concorrenza è principio del sistema, salve
tassative eccezioni, porta a ritenere che la prova del
pregiudizio derivante dall’insediamento della nuova impresa
che si vuol contestare debba esser data in modo rigoroso,
senza che esso si possa presumere, e che si debba trattare
di un pregiudizio significativo: per un esempio in proposito
vedasi C.d.S. sez. IV 05.09.2022 n. 7704, in
particolare al § 10.2.
27.5.7 Ad avviso del Collegio, è poi necessaria una
considerazione ulteriore, correttamente individuata
dall’appellante incidentale (p. 17 dell’atto).
Il concetto
appena illustrato di bacino di utenza e il concetto di
mercato rilevante ai fini dell’applicazione delle norme in
tema di condotte anticoncorrenziali e di abuso di posizione
dominante sono distinti, dato che il secondo si identifica
con lo “scenario territoriale, tendenzialmente omogeneo
quanto a domanda e offerta in questione, dove si svolge il
rapporto di concorrenza”: così per tutte C.d.S. sez. VI
08.04.2014 n. 1673 a p. 13.
27.5.8 Non si può però escludere che in casi concreti,
riferiti a zone particolari del territorio, il bacino di
utenza di una struttura venga a costituire anche un mercato
rilevante ai fini della tutela della concorrenza, e che
quindi, sempre nel caso concreto, il ricorso, pur in
astratto del tutto lecito, proposto da chi in quell’ambito
rivesta una posizione dominante costituisca abuso non
consentito di questa posizione, ciò che costituirebbe un
motivo in più per affermare che l’interesse azionato non è
in realtà tutelabile.
Di conseguenza, la prova del
pregiudizio al bacino di utenza dovrà consentire anche di
escludere quest’eventualità.
27.6 Applicando i criteri interpretativi sin qui delineati
al caso di specie, l’ammissibilità del ricorso introduttivo
va esclusa per difetto di interesse.
27.6.1 Sul punto specifico, la parte ricorrente appellante
(memoria 24.10.2022, pp. 40-46) allega “almeno quattro
cumulativi e concorrenti fattori di legittimazione”, che a
suo dire “separatamente l’uno dall’altro giustificherebbero
e fonderebbero, di per sé, l’impugnativa” (p. 40), ovvero:
1) la vicinitas commerciale di cui si è detto, consistente a
dire della parte nel rischio di chiusura del proprio punto
vendita; 2) la presunta posizione qualificata che essa
vanterebbe sulla base del protocollo 27.05.1999; 3) la vicinitas edilizia; 4) un presunto “interesse a contestare
l’azione amministrativa proprio sulla base delle regole e
dei principi relativi alla concorrenza”.
27.6.2 A sostegno di queste allegazioni, la parte ricorrente
appellante produce in particolare due documenti, il doc. 78
in I grado, che è una relazione sul mercato della grande
distribuzione organizzata a prevalenza alimentare in
provincia di Genova, predisposta dal proprio ufficio studi,
e il doc. 14 in appello, che è uno studio sul presunto
impatto della nuova struttura sul punto vendita già
esistente, predisposto da un proprio dipendente.
27.6.3 Queste allegazioni e questi documenti non dimostrano
l’interesse ad agire nel senso richiesto. Come va subito
chiarito, i fattori di legittimazione primo e quarto di cui
sopra si identificano nella vicinitas commerciale come
formula riassuntiva, la cui ricorrenza è da verificare, dato
che evidentemente al di fuori della vicinitas non si può
invocare un interesse a sé stante al rispetto delle norme.
27.6.4 Si deve poi escludere che il protocollo 27.05.1999 possa essere invocato a sostegno dell’interesse ad
agire, dato che esso, come già affermato dalla sentenza
parziale 2283/2023 di cui sopra, è un accordo restrittivo
della concorrenza, al quale, a tutto voler concedere, non
può essere riconosciuta perdurante efficacia a tempo
indeterminato, a pena di contrasto con gli illustrati
principi nazionali ed europei.
Come ritenuto dalla sentenza
2283/2023, si deve al contrario ritenere che l’accordo abbia
esaurito le sue funzioni nel momento in cui è stato recepito
nel SAU e nel PUC dell’epoca, salve le successive modifiche
di questi atti per cui è causa.
27.6.5 Non ricorrono, ancora, gli estremi della vicinitas
edilizia, come delineati dalla sentenza A.P. 22/2021, dato
che le due strutture non sono confinanti né si fronteggiano,
e che non è stato nemmeno allegato uno specifico
pregiudizio, diverso da quello “concorrenziale”, che dal
nuovo insediamento deriverebbe a quello esistente.
27.6.6 Per quanto poi riguarda la vicinitas commerciale, va
osservato anzitutto, a semplice lettura dell’atto relativo
come sopra riassunto, che i motivi dedotti sono
prevalentemente di carattere formale-procedurale, ovvero
vertono su un presunto mancato rispetto del protocollo 27.05.1999, ma non allegano lesioni agli interessi
tutelabili, che come si è detto riguardano “la necessità di
garantire la tutela della salute, dei lavoratori,
dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni
culturali”.
Già sotto questo profilo, quindi, la
legittimazione potrebbe essere esclusa.
27.6.7 Si osserva poi che in base agli stessi atti di parte,
che la controparte come è ovvio contesta per il solo fatto
di avere proposto impugnazione sul punto, non è chiaro quali
siano il bacino di utenza, e quindi il pregiudizio temuto,
rispetto ai quali è chiesta la tutela.
27.6.8 Sul punto del bacino di utenza, premesso che
valutazioni scientifiche obiettive o incontestate agli atti
di causa non ve ne sono, la relazione doc. 78 in I grado
oscilla fra il riferimento ad un criterio presentato come
tradizionale, il riferimento all’intera provincia (p. 8) e
un criterio più ristretto (pp. 12 e ss.), che in sostanza
considera solo il punto vendita già esistente nelle
vicinanze e quello della controinteressata, così come è
presupposto nel doc. 14.
27.6.9 Considerando il primo criterio, l’ambito provinciale,
la stessa ricorrente appellante dà lealmente atto di
detenere una quota di mercato pari a circa il 25%, seconda a
brevissima distanza da quella di altro gruppo estraneo alla
causa, e che la quota della controinteressata è minima.
Sempre la ricorrente appellante poi non contesta
l’allegazione della controinteressata (v. sopra § 20.2.1),
per cui nel Comune di Genova sono presenti 36 supermercati
della prima, contro una sola media struttura di vendita
propria. In questi termini, quindi, un pregiudizio
apprezzabile non è né evidente né dimostrato.
27.6.10 Considerando invece il secondo criterio, peraltro
non univocamente presentato negli stessi atti di parte (v.
doc. 78 in I grado ricorrente appellante a p. 12, ove si
presentano due possibili ipotesi), manca l’analisi condotta
con obiettivi criteri scientifici che si richiede secondo la
più recente giurisprudenza sopra citata, analisi che come si
è detto dovrebbe essere o il risultato di un accertamento
tecnico imparziale, o di una non contestazione degli atti di
parte (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 29.12.2023 n. 11367 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sul principio del contrarius actus.
---------------
Atto amministrativo – Autotutela – Annullamento –
Incompetenza – Principio del contrarius actus – Conseguenze
– Competente la stessa autorità che ha adottato l’atto –
Altri profili di illegittimità – Tempo trascorso superiore a
quello previsto dalla norma o comunque irragionevole –
Annullamento – Ammissibilità - Esclusione.
In base al principio del contrarius
actus, l’autorità competente ad annullare il provvedimento è
la stessa che lo ha adottato anche quando il vizio
riscontrato sia quello dell’incompetenza.
Gli ulteriori profili di illegittimità, in quanto inerenti
al ripristino della legalità lesa, non consentono di
procedere all’annullamento d’ufficio laddove il tempo
trascorso sia superiore a quello indicato dalla norma,
ovvero comunque non ragionevole (1).
Il Consiglio di Stato ha precisato che, all’art. 21-nonies
della l. n. 241 del 1990, il legislatore non ha fatto
distinzioni tra tipologie dei vizi tradizionali che si vanno
ad emendare.
---------------
(1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. III, 03.04.2023, n.
3431.
Precedenti difformi: non
risultano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.12.2023 n. 11307 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
1. La vicenda trae origine dall’avvenuto annullamento da
parte del Comune di Rapino della procedura concorsuale
riservata al personale interno bandita con delibera di
Giunta del 28.11.2009, n. 89, per la copertura di un
posto di “Istruttore di vigilanza”, Categoria C, vinta dal
signor -OMISSIS-, conseguentemente inquadrato nella
qualifica con decorrenza 01.04.2010.
L’esercizio dell’autotutela
avveniva con delibera di Giunta n. -OMISSIS-, motivata
espressamente sul vizio di incompetenza dell’atto
originario, salvo richiamare anche in premessa,
dichiaratamente parte integrante del provvedimento, la
precedente delibera n. 11 dell’11.02.2017, di avvio
del relativo procedimento, ove sono enunciati una serie di
atti, riconducibili a plurimi soggetti anche esterni
all’Ente (Dipartimento della Funzione pubblica della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Prefetto, Difensore
civico regionale, revisore dei conti) contenenti rilievi
critici o richieste di chiarimenti.
Sempre in tale atto
presupposto si dà altresì conto degli esiti del giudizio risarcitorio intentato dal precedente Sindaco e dall’odierno
appellato all’esito dell’avvenuta archiviazione del
procedimento penale instaurato a loro carico per ipotizzato
abuso d’ufficio, sfavorevole ai richiedenti (Tribunale
civile di Chieti, -OMISSIS-).
In tale pronuncia, i cui
passaggi più significativi sono riportati fedelmente nella
deliberazione n. 11 del 2017, si denunciano «gravissime e
sconcertanti irregolarità, nessuna delle quali segnalate
dallo stesso presidente della commissione […]», ravvisate,
per quanto qui di specifico interesse, nell’avvenuta
valorizzazione di un’esperienza professionale pregressa del
tutto eterogenea al profilo di vigilanza (cinque anni in
qualità di “esecutore di servizi idrici”, non potendo
assumere rilievo l’aver svolto, per un periodo limitato a
tre mesi, mansioni di vigile urbano nel 1982) al fine di
accedere ad un posto che avrebbe dovuto più correttamente
essere oggetto di selezione pubblica.
Nessuna menzione,
invece, è dato rinvenire negli atti impugnati alla ricordata
archiviazione sia del procedimento penale da parte del G.u.p. presso il Tribunale penale di Chieti, per mancanza
dell’elemento psicologico del reato, giusta la rilevata
prassi conforme da parte dell’Ente (-OMISSIS-), che di
quello per danno erariale.
Il riferimento, infatti,
all’avvenuta condanna da parte della Corte dei conti, afferisce alla nomina del responsabile dell’ufficio tecnico
comunale, che in tale ruolo ha rivestito la carica di
Presidente della Commissione esaminatrice.
2. Il Tar per l’Abruzzo, sede di Pescara, adito dal
dipendente comunale per l’annullamento della deliberazione
n. -OMISSIS-, ha accolto il ricorso «stante l’assorbente
preliminare rilievo dell’incompetenza della Giunta Comunale
ad adottare l’atto di autotutela impugnato».
Ciò in quanto
«il provvedimento di autotutela diretto ad eliminare l’atto
illegittimo per incompetenza dell’organo che lo ha adottato,
secondo i principi costantemente affermati dalla
giurisprudenza amministrativa, deve essere a sua volta
adottato dall’organo competente (Cons. Stato, sez. V, n.
701/2006)».
In sintesi, la peculiarità del vizio renderebbe
inapplicabile il principio del contrarius actus, che
normalmente sovraintende alla riedizione del potere
amministrativo, non potendo un organo incompetente valutare
la sussistenza di vizi sostanziali o di sopravvenienze che
non rientrano tra le proprie spettanze (Cons. Stato, sez. IV,
n. 7941/2004 e sez. V, n. 424/1997).
3. Con l’odierno appello il Comune di Rapino ha contestato
la decisione articolando tre distinti motivi di gravame.
3.1. Con il primo motivo lamenta l’erronea applicazione
degli artt. 107 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, Testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali e
21-novies della l. 07.08.1990, n. 241, giusta
l’inaccettabilità della ricostruzione propugnata dal primo
giudice che, in dispregio proprio della regola sulla
separazione tra competenze politiche e competenze
gestionali, che vorrebbe affermare, finisce per attribuire
al dirigente il potere di caducare provvedimenti adottati
dall’organo di governo.
Ciò peraltro senza tenere in alcun
conto il fatto che egli avalla comunque gli atti collegiali
apponendovi il proprio visto di regolarità tecnica, come
accaduto in quelli di cui è causa.
3.2. Con un secondo motivo ha dedotto la violazione dei
principi che sovraintendono alla tutela degli interessi e
alla effettività della stessa in sede giurisdizionale. Il
primo giudice, cioè, valorizzando un dato esclusivamente
formale, avrebbe consolidato una situazione riconosciuta
come illegittima da plurimi soggetti pubblici.
In
particolare, avrebbe ignorato che l’Amministrazione si è
attivata dopo avere ricevuto un chiaro input in tal senso
dal Dipartimento per la Funzione pubblica della Presidenza
del Consiglio dei Ministri, che in risposta ad apposita
richiesta di parere avanzata dal Comune medesimo, avrebbe
ribadito (con note del 05.10.2016 e 15.12.2016) la
necessità di procedere all’annullamento in autotutela,
ricordando la natura eccezionale dei concorsi interni in
quanto derogatori della regola della pubblicità degli stessi
quale modalità ordinaria di accesso al pubblico impiego.
La
richiesta di parere, peraltro, sarebbe stata avanzata alla
luce della sentenza del Tribunale civile di Chieti
-OMISSIS-, che, come sopra ricordato, si è espresso in
maniera inequivoca sulla illegittimità degli atti del
procedimento.
3.3. Con il terzo motivo infine ha lamentato l’erronea
applicazione degli artt. 26 c.p.a. e 91 e 92 c.p.c., avuto
riguardo alla condanna alle spese di lite, per un importo
pari ad euro duemila.
Il primo giudice, cioè, non avrebbe tenuto conto delle
responsabilità penali ex artt. 323 e 328 c.p. ed
amministrativo-contabili cui l’Amministrazione si sarebbe
esposta ove non avesse adottato l’atto impugnato a fronte di
vizi così palesi. Esso inoltre si sarebbe concentrato da
subito sul presunto vizio di incompetenza, ignorando che il
ricorso di primo grado era incentrato prioritariamente sulla
lamentata tardività dell’atto impugnato, per contro
tempestivo alla luce delle richiamate sopravvenienze
(sentenza del giudice civile e note del Dipartimento della
Funzione pubblica).
Infine, non avrebbe tenuto in minima
considerazione le esigenze di efficienza del Comune di
Rapino, che si era visto costretto ad utilizzare in mansioni
di rilevanza strategica quali quelle inerenti il profilo di
vigilanza un dipendente con scarsa disponibilità di tempo,
in quanto beneficiario degli istituti previsti dalla legge 05.02.1992, n. 104, per assistenza a familiare gravemente
disabile, di cui peraltro avrebbe fatto anche un utilizzo
improprio, fruendone per coadiuvare il figlio nella gestione
di un’attività di ristorazione.
4. Si è costituito in giudizio il signor -OMISSIS- per
chiedere il rigetto dell’appello.
4.1. Con memoria versata in atti il 23.10.2023 ha controdedotto sulle tesi avversarie, nel contempo
riproponendo i motivi di censura non esaminati dal primo
giudice in quanto assorbiti nel ritenuto vizio di
incompetenza.
In particolare ha ribadito l’intervenuta
decadenza del Comune di Rapino dal potere di autotutela,
giusta l’avvenuta adozione dell’atto ben oltre un tempo
“ragionevole”, nonché addirittura successivamente allo
spirare di quello di 18 mesi previsto dall’art. 21-novies
della l. n. 241 del 1990, seppure calcolato dalla data
dell’entrata in vigore della sua introduzione ad opera della
legge 07.08.2015, n. 124 (28.08.2015).
Ha richiamato
la possibilità di consolidare gli effetti del concorso,
l’approvazione del cui bando sarebbe al più affetta da
incompetenza relativa, come tale riconducibile al regime
giuridico di cui all’art. 21-octies, comma 2, della legge n.
241 del 1990.
Ha evidenziato la mancanza di motivazione
sulle ragioni di interesse pubblico sottese
all’annullamento, non potendo le stesse identificarsi nel
mero richiamo alla ritenuta necessità di avvalersi di una
selezione pubblica; specularmente, non si sarebbe tenuto
conto dell’interesse del destinatario dell’atto, qualificato
come recessivo rispetto a quello alla buona organizzazione
dell’amministrazione con motivazione del tutto apparente.
Ha
ribadito la correttezza della scelta procedurale, in quanto
espressamente prevista dall’art. 91, comma 3, del T.u.e.l.,
nonché specificamente ammessa per la figura di vigile urbano
dall’art. 89 del Regolamento degli uffici e dei servizi del
Comune di Rapino. Ha invocato i contenuti della sentenza di
proscioglimento riferita anche al Sindaco che presiedeva la
Giunta nel 2009, nonché ricordato le precedenti selezioni
interne basate sugli stessi presupposti ordinamentali (v. ad
esempio la delibera n. 89 del 23.12.1999), richiamate
anche dal G.u.p. nella propria decisione.
5. In data 27.11.2023, la difesa civica ha formulato
istanza di rinvio ovvero di riunione al procedimento n.r.g.
-OMISSIS-, la cui udienza è fissata per la data del 12.12.2023.
Ciò in quanto lo stesso si riferisce
all’impugnativa della sentenza, sfavorevole all’odierno
appellato (Tar per l’Abruzzo, sezione staccata di
Pescara, Sez. I, 06.06.2019, n. 152), che ha riconosciuto
come legittima la (nuova) determina del Responsabile
dell’Area finanziaria-amministrativa del Comune di Rapino,
n. -OMISSIS-, di annullamento in autotutela degli atti della
procedura concorsuale di cui è causa.
A tale riguardo,
tuttavia, ha ribadito il proprio interesse alla decisione,
salvo in quella sede si addivenga ad un rigetto
dell’appello, nel qual caso sarebbe disponibile alla
rinuncia.
6. Il signor -OMISSIS- ha replicato chiedendo dichiararsi la
sopravvenuta carenza di interesse all’appello, stante che il
provvedimento sopravvenuto avrebbe superato quello oggetto
di impugnazione, integrandone la motivazione.
Il fatto che
in tal senso abbia provveduto un dirigente, senza attendere
la formazione del giudicato sull’attuale controversia,
confermerebbe tuttavia la correttezza della ricostruzione
operata dal Tar in ordine alla incompetenza della Giunta.
Ha quindi chiesto comunque che venga accertata la soccombenza virtuale di controparte al fine della condanna
alle spese.
...
9. In via preliminare il Collegio ritiene di respingere
l’istanza di rinvio avanzata dalla difesa civica, al fine di
acquisire gli esiti, ovvero riunire, il procedimento in
esame con quello di cui al n.r.g. -OMISSIS-, relativo
all’appello avverso la sentenza del medesimo Tar per
l’Abruzzo n. -OMISSIS- del 2018, di rigetto dell’impugnativa
proposta dal signor -OMISSIS- avverso la determina
dirigenziale -OMISSIS-, di reiterazione dell’annullamento
d’ufficio della procedura concorsuale di cui è causa.
Con
tale richiesta, infatti, l’Amministrazione pretenderebbe di
collocarsi in una sorta di limbo giuridico, lasciandosi
aperte entrambe le porte, senza peraltro prendere posizione
sulla natura di conferma o meramente confermativa dell’atto
sopravvenuto. É noto, infatti, che da tale inquadramento può
discendere, a seconda dei casi, o l’improcedibilità del
procedimento avente ad oggetto l’atto presupposto, o
l’inammissibilità di quello afferente all’atto sopravvenuto.
10. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia
meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di
conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e
da impugnarsi nei termini), occorre verificare se esso sia
stato adottato o meno a seguito di una nuova istruttoria e
di una nuova ponderazione degli interessi.
In tale seconda
ipotesi, andrebbe dunque richiamato l’insegnamento
giurisprudenziale per il quale «ogni nuovo provvedimento
innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera
giuridica del suo destinatario, anche di conferma propria
(che si ha quando la pubblica amministrazione, sulla scorta
di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova
motivazione, dimostri di voler confermare la volizione
espressa in un precedente provvedimento) ed anche se frutto
di un riesame non spontaneo, ma indotto da un provvedimento
del Giudice amministrativo, che tuttavia rifletta nuove
valutazioni dell'Amministrazione e implichi il definitivo
superamento di quelle poste a base di un provvedimento
impugnato giurisdizionalmente, comporta la sopravvenienza di
carenza di interesse del ricorrente alla coltivazione del
relativo gravame» (v. Cons. Stato, sez. VI, 15.01.2018,
n. 195, che, a sua volta, richiama Cons. Stato, III, 02.09.2013, n. 4358 e sez. IV, 25.06.2013, n. 3457).
11. A ben guardare, tuttavia, e senza invadere la sede
propria del giudizio avverso la determina dirigenziale
-OMISSIS-, da un confronto meramente testuale tra la stessa
e la precedente delibera del 2017 non sembrano emergere
elementi di diversificazione o di approfondimento
sopravvenuto, palesandosi i due provvedimenti sovrapponibili
perfino quanto a tecnica redazionale, basata sul sostanziale
richiamo ad un atto precedente, più ampiamente motivato e
afferente all’avvio del procedimento.
12. Il Collegio non ritiene necessario un più approfondito
scrutinio della questione, stante che la rimarcata volontà
di non rinunciare all’appello se non all’esito (ove
favorevole) dell’altro giudizio implica l’avvenuta adozione
di quell’atto senza alcuna adesione ai principi affermati
nella sentenza che si è andati ad eseguire.
Ed è noto che
non è configurabile l’improcedibilità del ricorso proposto
per l’annullamento di un provvedimento se l’adozione del
nuovo atto regolante la fattispecie da parte
dell’Amministrazione non è spontanea, ma, appunto, di mera
esecuzione della decisione del giudice, con rilevanza
provvisoria, in attesa che una sentenza di merito definitiva
accerti se quello originariamente impugnato sia o meno
legittimo.
Nei casi, cioè, di riedizione del potere in mera
ottemperanza di una sentenza, si configura un comportamento attuativo necessitato dalla volontà di non vedersi esposto
ad un’esecuzione coattiva sotto il controllo e la vigilanza
del giudice, assunto il presupposto che non vi sia stata,
come nella specie, sospensione dell’esecutività della
decisione (Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2011, n. 1757).
12.1. In sintesi, come da affermazione giurisprudenziale che
qui si condivide, «l’esecuzione della sentenza di primo
grado da parte dell’amministrazione soccombente, non fa
venir meno l’interesse della stessa all’appello, poiché si
tratta della mera (e doverosa) ottemperanza ad un ordine
giudiziale provvisoriamente esecutivo» (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 02.01.2019, n. 16).
Ciò salvo emerga che
l’Amministrazione, a seguito della decisione del giudice,
abbia sostituito il provvedimento annullato in sede
giurisdizionale con un nuovo provvedimento frutto di una
rinnovata valutazione degli interessi coinvolti, così
adeguandosi al suo pronunciamento senza attendere il
giudicato, ma anche innovando rispetto all’assetto di
interessi già pregiudizievole per il privato.
12.2. Nel caso di specie il dirigente ha dichiarato
espressamente di agire in esecuzione della sentenza del
Tar per l’Abruzzo n. -OMISSIS- del 2018, ovvero, avuto
riguardo al principio di separazione tra politica e
gestione, «in ottemperanza a quanto stabilito» (nella
sentenza medesima), ma senza dimostrare alcuna acquiescenza
alla relativa statuizione. Prova ne è l’avvenuto deposito
dell’appello successivamente all’adozione di ridetta
determina, rivendicando ancora una volta la competenza della
Giunta a provvedere all’annullamento.
12.3. A quanto detto consegue anche, quale diretta
conseguenza della non ravvisata sussistenza di quei «casi
eccezionali» cui l’art. 73, comma 1-bis, condiziona la
possibilità di rinviare la trattazione della causa, il
rigetto dell’eccezione di improcedibilità dell’appello
avanzata dall’appellato.
13. Sempre in limine litis, al fine di delimitare il
thema
decidendum del presente giudizio, va delibata l’eccezione,
proposta da parte appellante con memoria di replica, di
irricevibilità delle doglianze formulate in prime cure dal
signor -OMISSIS- e rimaste assorbite, riproposte in questa
sede ex art. 101, comma 2, c.p.a., basata sul rilievo che le
stesse non sarebbero state avanzate con il primo scritto
difensivo, ma con successiva memoria.
13.1. Il Collegio la ritiene fondata.
13.2. Ed invero l’art. 101, comma 2, c.p.a. al riguardo
precisa che «si intendono rinunciate le domande e le
eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella
sentenza di primo grado che non siano state espressamente
riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse
dall’appellante, con memoria depositata a pena di decadenza
entro il termine per la costituzione del giudizio».
Pertanto
quel che rileva, ai sensi della richiamata norma, è che le
domande, ovvero anche i motivi di ricorso, e le eccezioni
assorbite in prime cure siano proposte dalla parte appellata
a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in
giudizio ex art. 46 c.p.a., e con il primo scritto in cui
sono effettivamente articolate le difese.
La “memoria” cui
fa riferimento la norma, infatti, in quanto non preordinata
alla articolazione delle difese, ma alla definizione,
necessariamente liminare ed incipitaria, del thema
decidendum, si identifica e rappresenta, al di là dalla sua
tempestività (non a caso presidiata dalla attitudine
decadenziale del relativo termine), il primo atto difensivo.
Essa si pone cioè nella logica del principio di
concentrazione che connota la delimitazione, anche ai fini
del contraddittorio tra le parti e tra le parti ed il
giudice, della concreta materia del contendere (cfr., per
analogo principio, Cass. SS.UU., 21.03.2019, n. 7940 e id.,
09.11.2021, n. 32650).
Nel caso di specie tale scritto
si identifica nella seconda memoria versata in atti, che
seppure rechi la data dell’atto di costituzione (17.10.2018), è stata depositata solo in data 27.10.2023.
A
ciò consegue la tardività della riproposizione dei motivi di
gravame, non potendosi ritenere tempestivamente integrata la
costituzione del 17.10.2018, concretizzatasi in un atto
di costituzione di mero rito, privo di qualsivoglia
enunciazione difensiva, «con riserva di specificare nei modi
e termini di rito ogni argomento a sostegno delle
sopraccennate conclusioni» (richiedendo, come per prassi, la
declaratoria del gravame «inammissibile, improcedibile,
nullo e, comunque, infondato […]» (al riguardo, v. Cons.
Stato, sez. V, 26.05.2023, n. 5205).
14. Nel merito, il Collegio ritiene di accogliere in parte
il primo motivo di appello. A ciò consegue tuttavia, per le
ragioni di seguito esplicitate, la conferma della sentenza
del Tar per l’Abruzzo, seppure con diversa motivazione.
15. Punto essenziale della controversia è l’individuazione
dell’organo competente ad annullare un atto viziato da
incompetenza.
Secondo il primo giudice, infatti, che
richiama sul punto giurisprudenza del Consiglio di Stato –in
verità alquanto risalente nel tempo– in tale ipotesi non
troverebbe applicazione il principio c.d. del contrarius
actus stante che le valutazioni sostanziali sottese (anche)
ad una valutazione di secondo livello non potrebbero essere
legittimamente effettuate da un soggetto non fornito della
necessaria competenza.
Sicché, essendo stata la procedura
concorsuale bandita in dispregio dell’art. 107 del d.lgs. n.
267 del 2000, che riserva ai vertici burocratici degli
uffici l’adozione degli atti gestionali, distinti e autonomi
rispetto a quelli politici, la Giunta non avrebbe potuto
reiterare l’errore, annullando ciò che non avrebbe dovuto
adottare.
16. La ricostruzione non può essere condivisa.
17. La disciplina legislativa dell’annullamento d’ufficio è
stata, come noto, introdotta nel nostro ordinamento
dall’art. 1, comma 136, della legge finanziaria per il 2005
(legge 30.12.2004, n. 311) e dalla legge 11.02.2005, n. 15, che ha inserito nella legge
07.08.1990, n.
241, l’art. 21-novies, in seguito più volte modificato.
Con
tale norma sono stati legificati i principi ricostruiti in
passato soltanto in via dottrinaria e giurisprudenziale,
fornendo un quadro compiuto della materia, al fine di
assicurare stabilità ad un istituto di particolare rilevanza
per la cura degli interessi dei cittadini.
17.1. Anche in epoca antecedente la sua codifica, tuttavia,
si riconosceva tale prerogativa della pubblica
amministrazione, ravvisandone il fondamento nella titolarità
della potestà inizialmente esercitata, quale sua facoltà
implicita o per meglio dire potenziale sviluppo.
Si è sempre
parlato, cioè, di una sorta di ius poenitendi di natura
pubblica, consistente nella possibilità per
l’amministrazione di tornare sui suoi passi ripristinando la
legalità (dalla stessa) lesa ovvero valutando diversamente
le circostanze di contesto.
Il legame tra titolarità del
potere originario e possibilità di riesercizio dello stesso
è stato riconosciuto così inscindibile dal comportarne il
trasferimento ogni qualvolta venga trasferita la competenza
primaria da un’autorità ad un’altra (Cons. Stato, sez. V, 30.06.1995, n. 955).
18. L’articolo 21-novies della legge n. 241 del 1990,
dispone dunque che il provvedimento illegittimo possa essere
annullato d’ufficio dallo stesso organo che lo ha emanato,
demandandone la facoltà ad un altro solo ove previsto dalla
legge.
Ciò avviene attraverso l’adozione di un provvedimento
amministrativo di secondo grado che comporta la perdita di
efficacia, con effetto retroattivo, di quello originario,
inficiato dalla presenza di uno o più vizi di legittimità,
dei quali l’amministrazione si avvede successivamente.
In
pratica, oggetto dell’annullamento d’ufficio è un
provvedimento che, pur constando di tutti gli elementi
essenziali per la sua giuridica esistenza, presenta uno dei
tradizionali vizi di legittimità delineati dall’articolo 26
del Testo Unico 26.06.1924, n. 1054 sul Consiglio di
Stato.
La legge n. 15 del 2005, infatti, ha ovviamente
inteso conformarsi a tale norma e all’unanime dottrina e
giurisprudenza dell’epoca, specificando all’articolo
21-octies della medesima legge n. 241/1990 che è annullabile
il provvedimento amministrativo adottato in violazione di
legge, viziato da eccesso di potere o, per quanto qui di
interesse, da incompetenza.
18.1. La disposizione ha altresì codificato la tipologia di
valutazione richiesta alla pubblica amministrazione che
decide di autoemendarsi, ovvero l’individuazione di un
interesse pubblico che in comparazione con l’affidamento
riposto dal privato sulla correttezza dell’operato della p.a.,
risulti comunque prevalente.
Esso non si identifica nel mero
ripristino della legalità lesa, ma richiede una approfondita
analisi di contesto costituzionalmente orientata secondo i
canoni dell’imparzialità e del buon andamento (articolo 97 Cost.), retta altresì dai principi generali dell’azione
amministrativa sanciti dall’art. 1 della medesima legge n.
241/1990, non a caso di recente modificato mediante
l’introduzione di un comma espressamente consacrato al
rispetto della leale collaborazione e della buona fede nei
rapporti reciproci (comma 2-bis, introdotto dall’art. 12 del
d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni,
dalla l. 11.09.2020, n. 120).
Di fatto, dunque,
occorre tenere conto in particolare della necessaria
“proporzionalità” dell’azione amministrativa, intesa quest’ultima
come dovere di non comprimere le situazioni giuridiche
soggettive dei privati, se non nei casi di stretta necessità
ovvero di indispensabilità, procedendo all’annullamento
d’ufficio quando ciò sia necessario al fine di evitare un
danno non proporzionato agli interessi dei privati coinvolti
nel procedimento (v. direttiva del Ministro della Funzione
pubblica del 17.10.2005, emanata nell’immediatezza
dell’entrata in vigore della novella).
19. La discrezionalità valutativa sottesa all’esercizio del
potere di autotutela implica per regola quella sottesa anche
all’adozione del provvedimento che si intende rimuovere.
L’eliminazione dalla realtà giuridica di un atto, cioè, non
può che spettare allo stesso soggetto pubblico che lo ha
adottato, così da assicurare la costante aderenza
dell’attività amministrativa al principio di legalità che
deve conformarla.
Di regola, cioè, solo all’ organo che ha
adottato un atto, in quanto titolare della competenza c.d.
primaria, è riconosciuta la capacità di rivalutarlo,
rivedendo lo stesso ordine di questioni di cui il
provvedimento annullato costituiva espressione. In sintesi,
è la stretta connessione che sussiste tra il provvedimento
illegittimo e quello di secondo grado finalizzato al suo
annullamento a richiedere l’attribuzione congiunta dei
relativi poteri al medesimo organo amministrativo.
In tal
modo, infatti, si salvaguarda anche la pienezza e
esclusività della potestà amministrativa di base,
preordinata al perseguimento dell’interesse pubblico
affidato all’organo di amministrazione attiva tenendo conto
pure dell’eventuale riesercizio del potere, una volta che ne
sia stata caducata la manifestazione provvedimentale
originaria, in via giurisdizionale o auto emendandosi (sul
punto, cfr. Cons. Stato, sez. III, 03.04.2023, n. 3431).
Da qui l’utilizzo della felice espressione latina del contrarius actus, che sintetizza proprio l’azione intesa ad
annullare gli effetti della propria azione precedente (actus
primus).
20. Il legislatore non ha fatto distinzioni tra tipologie
dei vizi tradizionali che si vanno ad emendare.
In tutti i casi previsti dall’art. 21-octies, tra i quali
rientra anche l’incompetenza non destinata a tradursi in un
vero e proprio difetto di attribuzione (causa di nullità
assoluta ex art. 21-septies), il provvedimento illegittimo
può essere annullato d’ufficio solo «dall’organo che lo ha
emanato […]».
Ragioni di ordine letterale, dunque, prima
ancora che logico e sistematico, si oppongono alla lettura
propugnata dal primo giudice nel senso della scissione
soggettiva delle due potestà, rimessa esclusivamente ad una
disposizione espressa di legge, nel caso di specie non
esistente.
Ammettere, infatti, che il sindacato sulla
competenza sia rimesso ad un organo diverso che si ritenga
-ma non è detto che sia- competente sovrapponendosi ad
altro, che si è già espresso in merito sulla base di una
lettura evidentemente di senso diametralmente opposto e non
ha inteso tornare sui suoi passi, equivarrebbe a
riconoscergli un potere di controllo che la legge demanda
esclusivamente alle proprie scelte.
21. La questione, peraltro, assume contorni particolarmente
delicati laddove si tratti di delineare la linea di
demarcazione –operazione non sempre semplice, al di là
delle affermazioni di principio– tra atti politici e atti
di gestione, essenziale al fine di garantire la qualità
dell’azione amministrativa, funzionalizzando l’apparato
burocratico al raggiungimento degli obiettivi politici nel
rispetto della legalità.
22. In tale ottica, l’ordinamento degli enti locali (d.lgs.
n. 267/2000), in combinato disposto con quello del pubblico
impiego (d.lgs. n. 165/2001), tenta di fornire indicazioni
chiare per tenere distinte le due aree. L’importanza delle
stesse è intrinseca alla loro ricordata finalizzazione, che
vuole valorizzare le competenze tecniche, asservendole, in
accezione costruttiva, alle scelte programmatiche che
spettano agli organi di governo, così da garantire una piena
sinergia di azione e un giusto punto di equilibrio fra
autonomia della “macchina” e titolarità delle scelte
decisionali.
In particolare l’art. 107 del T.u.e.l. fornisce
un’elencazione degli atti di competenza dirigenziale (e,
dunque, sicuramente gestionali), mentre gli artt. 42 e 48
declinano rispettivamente le competenze del Consiglio
comunale e della Giunta, queste ultime desumibili in via
residuale dalla mancata inclusione nelle altre previsioni.
L’art. 107, tuttavia, inevitabilmente qualifica come
meramente esemplificativa ridetta elencazione (comma 3:
«Sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione
degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di
indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in
particolare […]»), lasciando all’interprete l’inquadramento
delle variegate situazioni che si collocano in una sorta di
zona grigia, in quanto non immediatamente tipizzabili.
Tra
queste si individuano molto spesso, soprattutto nei Comuni
di minore dimensione territoriale, quelle decisioni per così
dire a contenuto intermedio, o misto, che da un lato
vogliono dare l’avvio ad un procedimento, dall’altro già si
addentrano nel suo concreto sviluppo. Trattasi di una
discutibile prassi molto spesso riconducibile all’esigenza
degli stessi responsabili dei servizi di vedersi
“rassicurati” in talune scelte di merito, quali tipicamente
quelle in materia di personale.
22.1. Per quanto qui di interesse, dunque, è innegabile che
l’approvazione del bando di una selezione non rientri tra i
compiti dell’organo politico, cui è riservata caso mai la
pianificazione a monte delle scelte assunzionali sulla base
delle disponibilità finanziarie dell’Ente.
L’art. 48, comma
3, del T.u.e.l., infatti, invocato da parte appellata,
riserva alla Giunta l’approvazione del regolamento sugli
uffici e servizi, che è ben altra cosa dall’avvio di una
selezione pubblica, in quanto attiene all’architettura
organizzativa dell’Ente, non alle sue specificazioni
attuative.
Quale che fosse pertanto la volontà della Giunta,
ovvero pure se essa avesse avuto il mero intento di dare
avvio ad un procedimento da perfezionarsi a cura degli
uffici comunali preposti allo scopo, certo è che essa si è
avocata una competenza non propria e che del tutto
legittimamente, sotto tale aspetto, poteva tornare sui suoi
passi annullando l’atto originario.
23. Né la ricostruzione cambia valorizzando la portata del
parere di regolarità tecnica che deve accompagnare ogni
proposta di atto deliberativo sottoposto alla Giunta o al
Consiglio, garantendone la correttezza sul piano giuridico,
tanto più che lo stesso era ovviamente presente sia a
corredo della delibera n. -OMISSIS-, che di quella n. 89 del
2009.
Esso conferma caso mai l’avallo da parte del dirigente
che lo ha apposto, almeno sul piano formale, della scelta
interpretativa che ha ravvisato nella Giunta l’organo
competente ad approvare il bando e, successivamente, ad
annullarlo. Ma non ne comporta la co-intestazione al
dirigente medesimo.
23.1. Il parere di regolarità tecnica, infatti, costituisce
soltanto uno strumento di controllo preventivo, al pari del
parere di regolarità contabile del responsabile del servizio
finanziario per gli aspetti relativi alla copertura dei
costi.
Non a caso la relativa disciplina è oggi contenuta in
una norma introdotta da una legge intitolata «Rafforzamento
dei controlli interni degli enti locali» (art. 3 del
decreto-legge n. 174 del 10.10.2012, convertito in
legge 07.12.2012, n. 213, che ha inserito l’art.
147-bis nel T.u.e.l.), che ha modificato anche l’art. 49 nel
senso della prevista obbligatorietà a corredo di ogni
provvedimento sottoposto alla Giunta o al Consiglio comunale
«che non sia mero atto di indirizzo».
Solo la programmazione
della futura attività, dunque, che necessita di ulteriori
atti di attuazione e di recepimento da adottarsi da parte
dei dirigenti preposti ai vari servizi, secondo le proprie
competenze, è esente dal richiamato parere. L’individuazione
delle regole di dettaglio di una procedura concorsuale, a
maggior ragione ove implicanti la scelta, a monte, della
natura “interna” della stessa, a maggior ragione ove non
riveniente da specifica indicazione programmatoria
formalizzata, non può tuttavia in alcun modo esservi
ricondotta.
24. Il Collegio ritiene quindi che entro tali limiti debba
essere accolto il primo motivo di appello, non potendosi
condividere l’affermazione del primo giudice che nega sic et
simpliciter il potere di annullamento d’ufficio di un atto
viziato da incompetenza allo stesso organo che lo ha
adottato.
25. L’individuazione di un vizio di incompetenza, d’altro
canto, è di per sé sufficiente ad “azzerare” la situazione
ripristinando lo status quo ante mediante la caducazione
dell’atto cui si riferisce.
Trattandosi, tuttavia, di un vizio che la giurisprudenza ha
da ultimo qualificato come formale (v. Cons. Stato, sez. III,
03.08.2015, n. 3791), in conformità del resto con le
indicazioni comunitarie, ben avrebbe potuto il Comune di
Rapino farsi carico di convalidare l’atto, piuttosto che caducarlo.
Ragioni di economia dei mezzi dell’azione
amministrativa e di conservazione dei relativi effetti
giuridici hanno portato infatti a codificare il relativo
principio, già affermato dalla giurisprudenza, nel medesimo
art. 21-novies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, che
prevede appunto la sanatoria «sussistendone le ragioni di
pubblico interesse ed entro un termine ragionevole»
(dicitura quest’ultima mai fatta oggetto di quantificazione
nelle successive novelle).
26. Una volta assunta la decisione di senso diametralmente
opposto di dare rilievo all’incompetenza, ritiene il
Collegio che tutte le esplicitazioni aggiuntive, seppure non
vietate, non possano assumere rilievo ai fini dell’efficacia
dell’atto, dovendo al più essere derubricate a suggerimenti
interpretativi, comunque non vincolanti nei confronti del
soggetto competente ad adottare gli atti conseguenti
all’annullamento.
L’annullamento per incompetenza, infatti,
ha l’esclusiva funzione di riaffermare un ordinato assetto
delle regole organizzative, teleologicamente orientato alla
salvaguardia dell’autonomia gestionale da ingerenze
politiche, riportando ogni vicenda alla sua più equilibrata
dimensione che demanda agli organi di governo il mero
indirizzo, all’apparato burocratico la (ri)valutazione delle
scelte tecniche.
Confondere l’interesse pubblico, che
comunque deve sovraintendere all’esercizio dell’autotutela,
con l’elencazione di ulteriori violazioni di legge, peraltro
riferite sempre de relato, pretendendo di individuarne gli
esiti (la doverosa effettuazione, all’epoca, di una
selezione pubblica), equivale ad esercitare ora per allora
quello stesso potere che si è negato sussistere in capo al
medesimo organo.
Nel caso di specie, pertanto, la Giunta
municipale, in applicazione del principio del contrarius
actus, doveva limitarsi, ammesso e non concesso ne
sussistessero ancora i presupposti, ad annullare la
precedente delibera, non potendo certo addentrarsi nella
valutazione delle conseguenze della scelta, spingendosi
finanche a dare indicazioni sulle sorti dello stipendio del
vincitore del concorso de quo, per giunta espressamente
qualificato come in buona fede.
27. In maggior dettaglio, la deliberazione n. -OMISSIS-
motiva espressamente solo sul vizio di incompetenza
dell’atto del 2009, affermando che «la procedura concorsuale
in premessa richiamata è stata indetta e il vincitore è
stato proclamato con deliberazioni dell’organo esecutivo […]
anziché con determinazioni dirigenziali […]».
In premessa,
tuttavia, richiama anche le motivazioni contenute nella
precedente deliberazione n. 11 dell’11.02.2017, avente
ad oggetto “avvio del procedimento”. Tale atto a sua volta
fornisce in parte narrativa una analitica ricostruzione
delle (presunte) sollecitazioni esterne all’annullamento
dell’atto, senza peraltro mai appropriarsi esplicitamente
delle relative motivazioni, fornendo la propria lettura del
quadro ordinamentale. C
on riferimento alla condanna da parte
della Corte dei conti per le irregolarità nell’assunzione
del responsabile dell’Ufficio tecnico comunale -non è chiaro
se successivamente annullata a sua volta- si spinge fino ad
inferirne un ulteriore vizio della procedura concorsuale
(non del bando, dunque), ravvisandolo nella illegittimità
derivata della composizione della Commissione dallo stesso
presieduta, a prescindere dalla possibile valorizzazione
dell’attività comunque svolta quale funzionario di fatto.
27.1. Di tali aspetti, tuttavia, il primo giudice non ha
tenuto alcun conto, avendo fermato il proprio vaglio alla
questione, preliminare e dirimente, della conclamata
sussistenza del vizio di incompetenza.
28. Ridetti richiami tornano all’attenzione del Collegio in
quanto enfatizzati dalla difesa civica nel secondo motivo di
appello.
Il Collegio non intende evidentemente entrare nel
merito della legittimità o meno della modalità di
reclutamento prescelta, a maggior ragione in un Comune le
cui dimensioni ben difficilmente consentirebbero la
valorizzazione di pregresse attività professionali
“omogenee” giusta la carenza di pluralità di profili della
stessa tipologia nella relativa dotazione organica (non a
caso, la dotazione organica consta di un solo istruttore di
vigilanza).
Vero è tuttavia che è in ragione degli stessi
che il Comune di Rapino ha inteso dare rilevanza ad un vizio
tipicamente formale come l’incompetenza, scegliendo non di
salvare il procedimento, ma di annullarlo. Emerge dunque
l’equivoco di fondo della tesi della difesa civica, che ha
inteso ricondurre sotto l’egida della effettività della
tutela la salvaguardia, ex art. 21-octies, comma 2, della l.
n. 241 del 1990, dell’annullamento d’ufficio effettuato,
rivendicandone il contenuto necessitato.
Nessuno dei
documenti richiamati, tuttavia, è tale da trasformare
l’esercizio dell’autotutela nel caso di specie in
“necessitato”, anziché discrezionale, come da sua
connotazione tipica. Anzi, proprio le note del Dipartimento
della Funzione pubblica del 05.10.2016 e del 15.12.2016, rese in risposta alla domanda del Comune circa
l’obbligatorietà o meno dell’annullamento d’ufficio, dopo
avere riepilogato i passaggi ricostruttivi della vicenda per
come prospettati dal Comune medesimo, non prendono alcuna
specifica posizione sul punto (né avrebbero del resto potuto
farlo), limitandosi a richiamare le competenze dell’Ente,
anche in riferimento alla possibilità di annullamento
d’ufficio ( spetta «unicamente all’Amministrazione, in
quanto soggetto titolare, agire e comunque valutare
l’esercizio dell’azione di annullamento in autotutela»).
La
portata non vincolante, quale che voglia assumersene come
significato esatto, dei richiami normativi contenuti nelle
note della Funzione pubblica da ultimo richiamati, non può
infatti implicare finanche il tentativo di rimessione in
termini nell’esercizio, a maggior ragione ove riferita ad un
vizio, come l’incompetenza, il cui accertamento non
necessitava certamente di istruttorie particolarmente
complesse.
Esse, al più, avrebbero dovuto indurre ad una
approfondita riflessione anche sotto il profilo delle
responsabilità, che non a caso l’art. 21-novies della l. n.
241 del 1990 mantiene “ferme”, sia con riferimento
all’avvenuta adozione che al mancato annullamento del
provvedimento illegittimo, ove veramente rispondente ad
esigenze di pubblico interesse.
Il che, lo si ricorda per
doverosa completezza, avrebbe dovuto avvenire entro un
termine “ragionevole”, anche a non voler valorizzare quello
di diciotto mesi vigente al momento dell’adozione dell’atto,
comunque scaduto ove calcolato, sulla base dei principi
ormai consolidati in giurisprudenza, dalla data di entrata
in vigore della modifica (art. 6, comma 1, lettera d), n.
1), della legge 07.08.2015, n. 124), non rilevando al
riguardo l’avvenuta comunicazione di avvio del procedimento,
peraltro a pochi giorni di distanza dalla scadenza del
termine medesimo.
Il contenuto «non parametrico ma
relazionale, riferito al complesso delle circostanze
rilevanti nel caso di specie» (Cons. Stato, A.P., n. 8 del
2017) del termine “ragionevole”, infatti, non può non tenere
conto da un lato, come già detto, della natura del vizio;
dall’altro, dalla piena conoscenza dello stesso, giusta
l’intersecarsi nella vicenda di contenziosi civili,
contabili e penali, che hanno visto come protagonisti i
medesimi amministratori locali, succedutisi a fasi alterne.
Quanto detto a tacere della considerazione, più etica che
giuridica, che essendo la tutela della legalità dell’azione
amministrativa, affidata alla macchina organizzativa, la cui
autonomia è garantita in primo luogo proprio dalle regole
sulla separazione fra politica e gestione, essa dovrebbe
essere impermeabile ai cambi di governo locale, venendo
all’evidenza interpretazioni oggettive e non soggettive di
norme ordinamentali.
28.1. Né può attribuirsi cogenza al dictum del giudice
civile, che peraltro fa stato caso mai con riferimento allo
svolgimento dei fatti, ma non alla loro qualificazione
giuridica, tanto più che in direzione opposta avrebbero
potuto essere valorizzate le ragioni espresse dal giudice
civile e da quello contabile, con specifico riferimento al
procedimento di cui è causa.
29. In conclusione, va accolto in parte il primo motivo di
appello.
A ciò consegue comunque la conferma del dispositivo
della sentenza del Tar per l’Abruzzo, Pescara, n.
-OMISSIS- del 2018, con la diversa motivazione sopra
esplicitata (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 29.12.2023 n. 11307 - link a
www.giustizia-amministrativa.it) |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, non viola il diritto di difesa l’accertamento
incidentale dell’illegittimità della sanatoria. L’accertamento incidentale
ha poi constatato che la lottizzazione abusiva, difforme dal permesso di
costruire, non può essere sanata col regime che riguarda un altro titolo
edilizio abilitativo.
La difformità dal permesso di costruire di opere che necessitano di tale
titolo non sono sanabili con la sanatoria prevista in caso di attività
edilizie soggette a Super-Scia. Infatti l’art. 37 del testo unico
dell’edilizia prevede un’ipotesi di sanatoria che è applicabile solo a
quegli interventi realizzabili con la segnalazione certificata di inizio
attività e che risultino difformi, ma poi vengono sanati.
Gli interventi realizzabili con la segnalazione certificata di inizio
attività (anche in caso di super Scia) sono limitati a ristrutturazioni e a
piccole modifiche volumetriche e non sono equiparabili alla realizzazione di
manufatti realizzati in un piano di lottizzazione.
La lottizzazione abusiva per gravi difformità dal permesso di costruire non
perdono la loro rilevanza penale neanche con la novella recata dal Dlgs
222/2016 che cancella la vecchia super Dia per varare la super Scia e che di
fatto non ha apportato una differenza apprezzabile tra i due titoli che si
pongono in totale continuità.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, ha respinto il ricorso degli imputati con la
sentenza 01.12.2023 n. 47909.
Rigettando in particolare il motivo con cui veniva lamentata la violazione
del diritto di difesa per avere, in assenza di un pieno contraddittorio, i
giudici di appello ritenuto nullo (oltre che falso) l’atto in sanatoria
adottato ex articolo 37 del Tue.
La Cassazione asserisce che il giudice può accertare incidentalmente
l’illegittimità dell’atto amministrativo senza per questo incorrere nella
violazione lamentata. E l’accertamento incidentale non ha fatto altro che
constatare che la lottizzazione abusiva, perché difforme dal permesso di
costruire, non è ipotizzabile che sia sanata col regime che riguarda un
altro titolo edilizio abilitativo.
Il caso concreto, come rileva la Cassazione, fa emergere un comportamento
all’apparenza illogico da parte degli imputati anche se mossi dal
comprensibile intento di ottenere un titolo sanante a fronte degli abusi
realizzati rispetto al permesso di costruire.
Essi infatti invocando la sanatoria relativa alla segnalazione certificata
hanno creato solo una falsa apparenza di abusi sanati dal Comune: prima
presentando una Scia per fini diversi da quelli a cui è dedicata, poi
chiedendo la sanatoria per alcuni vizi, con la pretesa che questa coprisse
le precedenti e gravi difformità da tutto altro tipo di titolo abilitativo,
il permesso di costruire (articolo NT+Diritto del 01.12.2023). |
CONDOMINIO:
Il diritto di installare l’antenna nella proprietà altrui è
subordinato alla assenza di spazi propri.
Il condomino radioamatore ha il diritto di installare l’antenna
sull’altrui proprietà solo nel caso in cui si trovi nella impossibilità di
utilizzare spazi propri, comportando in caso contrario un ingiustificato
sacrificio per l’immobile gravato.
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
sentenza
08.11.2023 n. 31101 (articolo NT+Diritto del 29.11.2023).
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SENTENZA
1. Con il primo motivo si deduce violazione o falsa applicazione
di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ.,
in relazione agli artt. 1, 2 e 3 legge 06.05.1940, n. 554 e agli artt. 209,
91 e 92 d.lgs. 01.08.2003, n. 259, per non aver ritenuto necessaria la
deduzione e dimostrazione -da parte dell’installatore dell’antenna-
dell’impossibilità di utilizzare spazi propri o spazi condominiali.
Nella prospettazione dei ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe fatto
malgoverno della disciplina normativa a tutela del diritto soggettivo di
natura personale riconosciuto al radioamatore: l’installazione su proprietà
altrui è, infatti, condizionata all’impossibilità di servirsi di spazi
propri o condominiali, che spetta all’installatore provare, come
ripetutamente precisato da questa Corte (Cass. n. 16865/2017; Cass. n.
9427/2009; Cass. n. 9393/2005).
1.1. Il motivo è fondato.
Preliminarmente, deve disattendersi l’eccezione di nuova censura elevata dai
controricorrenti (v. controricorso p. 7, 1° capoverso): la contestazione in
merito alla sussistenza di un diritto illimitato all’installazione
dell’antenna privata per radioamatori su lastrico solare di proprietà
esclusiva era stata elevata dai ricorrenti sin nella comparsa di
costituzione e risposta (pp. 4-7) del giudizio di primo grado, ove con tale
difesa essi avevano chiesto il rigetto della domanda attorea.
1.2. Tanto premesso, al caso di specie trovano applicazione (come meglio si
dirà più innanzi, punto 2.2.) gli artt. 209, 91, 92, comma 7, del Codice
delle Comunicazioni Elettroniche vigente ratione temporis: norme ad
oggi radicalmente modificate a séguito dell’entrata in vigore, dal
24.12.2021, del d.lgs. 08.11.2021, n. 207, che recepisce nell’ordinamento
giuridico italiano la dir. 2018/1972/UE (istitutiva del «Codice europeo
delle comunicazioni elettroniche»).
L’art. 92 d.lgs. n. 259/2003 al comma 7 richiama i diritti del proprietario
servente; l’art. 209 –dopo aver affermato al comma 1 che i proprietari di
immobili non possono opporsi all’installazione, sulle loro proprietà, di
antenne appartenenti agli abitanti dell'immobile stesso destinate –tra
l’altro– alla fruizione dei servizi radioamatoriali- ne determina i limiti
di utilizzo al comma 2, che così recita: «Le antenne, i relativi
sostegni, cavi ed accessori non devono in alcun modo impedire il libero uso
della proprietà, secondo la sua destinazione, né arrecare danno alla
proprietà medesima od a terzi».
La norma riprende la precedente disposizione di cui all’art. 2, comma 2,
legge n. 554 del 1940, a conferma del fatto che il legislatore ha avuto ben
presente che la limitazione imposta alle ragioni del proprietario deve
essere minima: a maggior ragione, dunque, l’installazione di antenne
amatoriali non può essere pretesa da chi, col normale impiego di mezzi
idonei allo scopo, può provvedervi impegnando beni propri o beni
condominiali (nei limiti dell’art. 1102 cod. civ.).
Il diritto vantato dal condómino a tutela del diritto primario alla libera
manifestazione del proprio pensiero (contemplato dall’art. 21 della
Costituzione) non comprende, infatti, la facoltà di scegliere
voluttuariamente il sito preferito per l'antenna ma -come ínsito nei
principi generali in materia di condominio (v. art. 1102 cod. civ.), di atti
emulativi e di imposizione di servitù coattive- va coordinato con
l'esistenza di un'effettiva esigenza di soddisfare le richieste di utenza
degli inquilini o dei condómini (v. art. 91, comma 2, d.lgs. n. 259 del
2003, richiamato dall'articolo 209), e quindi con il dovere della proprietà
servente di soggiacere alla pretesa del vicino solo qualora costui non possa
autonomamente provvedere ai propri bisogni (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9427
del 21.04.2009, Rv. 608109 - 01); ciò a bilanciamento delle ragioni della
proprietà privata, quale diritto che gode anch’esso di garanzia
costituzionale (art. 41, comma 2, Cost.).
Il Collegio intende, pertanto, confermare l’insegnamento di questa Corte che
ha già avuto modo di affermare: «Con riguardo ad un
edificio in condominio ed all'installazione d'apparecchi per la ricezione di
programmi radio-televisivi, il diritto di collocare nell'altrui proprietà
antenne televisive, riconosciuto dalla L. 06.05.1940, n. 554, artt. 1 e 3 e
del D.P.R. 29.03.1973, n. 156, art. 231 (ora assorbiti nel d.lgs. n. 259 del
2003), è subordinato all'impossibilità per l'utente di servizi
radiotelevisivi di utilizzare spazi propri, giacché altrimenti sarebbe
ingiustificato il sacrificio imposto ai proprietari"
(Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16865 del 07.07.2017, Rv. 644843 – 01; Cass. n.
9427 del 2009, cit.; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9393 del 06.05.2005, Rv.
581040 - 01).
Trattandosi di un fatto costitutivo del diritto all'installazione, l'onere
di provare -se del caso anche con una C.T.U.- che non fosse possibile
utilizzare uno spazio proprio o condominiale per l'installazione, resta a
carico del soggetto che intenda effettuarla.
1.3. La sentenza merita, pertanto, di essere cassata, e il giudizio rinviato
alla medesima Corte d’Appello che dovrà valutare la ragionevole possibilità,
per il Fa., di installazione dell’antenna su uno spazio condominiale, senza
che ciò comprometta in modo sensibile l’utilizzo dell’impianto stesso. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
No al rinnovo di contratti a tempo determinato oltre il limite
massimo di 36 mesi. Secondo la Cassazione, anche quando questo avvenga a
seguito di una nuova procedura di selezione.
Non è possibile rinnovare o prolungare i contratti a tempo determinato oltre
il limite massimo di trentasei mesi anche quando questo avvenga a seguito di
una nuova procedura di selezione.
Sono queste le sintetiche, ma chiare, conclusioni della Corte di Cassazione,
Sez. lavoro, contenute nell’ordinanza 14.09.2023 n.
26567.
Come noto, l’articolo 36 del Dlgs 165/2001 nelle diverse versioni che si
sono succedute negli anni ha sempre stigmatizzato la necessità che
l’utilizzo delle forme di lavoro flessibile –tra cui i contratti a termine– sia possibile esclusivamente per esigenze temporanee o eccezionali.
Per le assunzioni a tempo determinato, nello specifico, tenendo anche conto
delle disposizioni contrattuali, si fa riferimento ad un periodo massimo di
trentasei mesi.
Ma se un soggetto si colloca vincitore in una nuova graduatoria, può essere
assunto dalla stessa amministrazione con cui ha già concluso assunzioni a
termine per tre anni? Può bastare questa situazione per superare il chiaro
periodo massimo stabilito dalle norme?
A ben vedere il Dipartimento della Funzione Pubblica, fin dal parere UPPA
49/2008 propende per il superamento dei 36 mesi proprio in caso di nuovo
concorso.
Si legge infatti nel documento: «per il contratto a tempo
determinato la durata non può essere superiore ai 3 anni comprensivi di
proroga. Sono fatte salve le assunzioni riferite a procedure concorsuali
diverse. La valenza della partecipazione ad un nuovo concorso pubblico, in
coerenza con quanto previsto dagli articoli 51 e 97 della Costituzione,
prevale rispetto al limite temporale del triennio che può essere superato
solo in questa circostanza».
Non è però di questo avviso la Corte di Cassazione che nella sentenza in
esame giunge a tutt’altre conclusioni.
I magistrati affermano infatti che il superamento del limite di 36 mesi di
durata complessiva, è da considerarsi abusivo, a nulla rilevando che
l’assunzione a termine sia avvenuta, di volta in volta, all’esito di
distinti concorsi pubblici, come già indicato dalla Corte di Cassazione con
sentenza 04.03.2021 n. 6089.
Viene anche precisato che il criterio di selezione non può interferire con
il fatto che vi sia stata reiterazione oltre i limiti del lecito della
contrattazione a tempo determinato e dunque non impedisce il radicarsi dei
presupposti per il relativo risarcimento.
Una lettura che, se di fatto potrebbe avere una sua logica nel contesto
privato, appare alquanto lontana dai principi costituzionali a tutela
dell’accesso al lavoro pubblico (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.10.2023). |
VARI:
Il furto in un garage si ritiene commesso in privata dimora.
Scatta il reato di furto in privata dimora, e non di furto semplice, per
chi, nonostante non abbia forzato porte o cancelli, sia riuscito ad entrare
nella zona garage di un condominio. Del resto, la rimessa condominiale è
pertinenza dell’edificio, facilitandovi l’accesso e la comodità, per cui il
Codice penale la tutela allo stesso modo di un’abitazione privata.
Lo precisa la Corte di appello di Ancona, Sez. penale, con la
sentenza 07.09.2023 n. 1632
(articolo NT+Condominio del 18.01.2024).
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SENTENZA
Così accertati i fatti, la condotta furtiva integra il reato di cui
all'art. 624-bis c.p. per il quale vi è stata condanna.
Come è noto l'art. 624-bis c.p. intende tutelare non solo la privata dimora
in sé ma,come risulta dalla formulazione testuale della norma, anche i
luoghi che ne costituiscono pertinenza.
Ebbene, che l'area adibita a garage possa essere considerata una pertinenza
delle abitazioni collocate nello stabile condominiale si ricava da quelli
che sono i principi da tempo affermatisi nella giurisprudenza di legittimità
in rapporto alla natura pertinenziale di uno spazio.
Invero il rapporto tra cosa principale e pertinenza non attiene ad una
connessione materiale o strutturale, come nell'incorporazione, ma si
configura come rapporto di strumentalità e complementarietà funzionale,
sicché il vincolo pertinenziale può sussistere anche tra opere dotate di
autonomia strutturale (Cass. Civ. Sez. 2 n. 2804 del 02/02/2017 e Sez. 2, n.
12855 del 10.06.2011).
Ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra bene principale e
bene accessorio è necessaria la presenza del requisito soggettivo
dell'appartenenza di entrambi al medesimo soggetto, nonché del requisito
oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini
del quale è necessario che il bene accessorio arrechi una "utilità"
al bene principale, come appunto nella fattispecie dell'edificio
condominiale, ove l'area adibita a garage assolve appunto a tale funzione ed
è strumentale e complementare alle abitazioni dello stabile condominiale,
essendo evidente che ne incrementa il valore, la facilità di accesso e la
comodità, potendo anche consentire di riporvi oggetti ed attrezzi di
interesse per la manutenzione dell'auto e non solo.
Il fatto che siano riusciti ad accedere alla zona garage senza dover forzare
porte o cancelli, non esclude la configurabilità del reato di cui all'art.
624-bis c.p., giacché il luogo ove è stato commesso il furto costituiva
pertinenza dell'edificio condominiale ove dimorava la p.o. Es.An., e in esso
non era possibile accedere senza il consenso del titolare.
In casi simili, la giurisprudenza ha ritenuto integrare il reato previsto
dall'art. 624-bis cod. pen.
la condotta di chi si impossessa di beni mobili introducendosi all'interno
di un garage, trattandosi di luogo che costituisce pertinenza
dell'abitazione (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 5789 del 04/12/2019, dep.
14/02/2020) e "la condotta di chi si impossessa di una bicicletta
introducendosi nell'androne di un edificio destinato ad abitazioni, in
quanto detto luogo costituisce pertinenza di privata dimora" (v. Cass.
Sez. 5, Sentenza n. 1278 del 31/10/2018, dep. 11/01/2019).
Il giudizio di penale responsabilità dell'imputato Al.At. in relazione al
reato di cui al capo A va pertanto confermato.
Analoghe contestazioni la difesa ha formulato riguardo ai furti tentati di
cui al capo B di imputazione.
La difesa ha sostenuto che nel ridetto capo di imputazione non vi è alcun
riferimento a garage o cantinette private rispetto alle quali gli imputati
possano aver posto in essere atti rilevanti quali tentativo di furto.
L'unica circostanza effettivamente risultata dall'istruttoria dibattimentale
è che i prevenuti stessero passeggiando nel vano garage del condominio, che
non può considerarsi atto idoneo diretto in modo non equivoco ad introdursi
in garage o cantinette comunque protette da porte e che dunque, mai potrebbe
fondare la contestazione della fattispecie ex art. 624-bis c.p.
L'imputazione, inoltre, non conterrebbe la descrizione delle eventuali
condotte dirette in modo non equivoco a sottrarre generici beni; in ogni
caso, gli elementi valorizzati in sentenza dal primo Giudice per pervenire
ad una condanna ovvero l'esistenza di tracce di disordine, mobiletti aperti
e supposte condotte di rovistamento costituiscono un unico indizio che in
assenza di ulteriori elementi a riscontro non può ritenersi idoneo a fondare
la condanna per tentato furto.
Preliminarmente, non può che ribadirsi quanto già ampiamente argomentato con
riferimento al capo di imputazione A) in merito alla sussistenza di un nesso
di pertinenzialità tra il luogo del tentato furto e l'edificio condominiale
ove abitano le odierne pp.oo. suscettibile di integrare la previsione
normativa di cui all'art. 624-bis c.p. contestata nel capo di imputazione.
Quanto alla configurabilità di atti idonei diretti in modo non equivoco a
impossessarsi di beni altrui, questa Corte ritiene idi dover assolvere
l'imputato dal reato di tentato furto ai danni di Fe.Go., poiché
relativamente ad esso l'istruttoria dibattimentale non ha effettivamente
offerto alcun elemento.
La contestazione di tale reato si fonda sulla sola circostanza che, al
momento dell'intervento dei condomini, i due imputati ancora si trovavano
nei pressi dell'area adibita a garage condominiale, elemento obbiettivamente
inidoneo a fare ritenere che gli stessi avessero tentato di realizzare un
furto anche in danno di quest'ultimo.
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Massima redazionale
Furto - Introduzione nella dimora - Pertinenze condominiali - Utilità della
pertinenza -Accesso dell'imputato alla zona garage - Bene principale - Bene
accessorio
In tema di furto, l'art. 624-bis
c.p. intende tutelare non solo la privata dimora in sé ma,come risulta dalla
formulazione testuale della norma, anche i luoghi che ne costituiscono
pertinenza; ebbene, l'area adibita a garage possa essere considerata una
pertinenza delle abitazioni collocate nello stabile condominiale in rapporto
alla natura pertinenziale di uno spazio.
Invero il rapporto tra cosa principale e pertinenza non attiene ad una
connessione materiale o strutturale, come nell'incorporazione, ma si
configura come rapporto di strumentalità e complementarietà funzionale,
sicché il vincolo pertinenziale può sussistere anche tra opere dotate di
autonomia strutturale.
Ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra bene principale e
bene accessorio è necessaria la presenza del requisito soggettivo
dell'appartenenza di entrambi al medesimo soggetto, nonché del requisito
oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini
del quale è necessario che il bene accessorio arrechi una"utilità" al bene
principale, come appunto nella fattispecie dell'edificio condominiale, ove
l'area adibita a garage assolve appunto a tale funzione ed è strumentale e
complementare alle abitazioni dello stabile condominiale, essendo evidente
che ne incrementa il valore, la facilità di accesso e la comodità, potendo
anche consentire di riporvi oggetti ed attrezzi di interesse per la
manutenzione dell'auto e non solo.
Il fatto che gli imputati siano riusciti ad accedere alla zona garage senza
dover forzare porte o cancelli, non esclude la configurabilità del reato di
cui all'art. 624-bis c.p., giacché il luogo ove è stato commesso il furto
costituiva pertinenza dell'edificio condominiale ove dimorava la p.o., e in
esso non era possibile accedere senza il consenso del titolare. |
AGGIORNAMENTO AL 23.01.2024 |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L’inderogabilità dell’art. 9 del d.m. n.
1444/1968, avente la finalità pubblica di garantire,
attraverso l’imposizione della distanza minima tra edifici,
igiene e sicurezza, è principio che costituisce jus receptum
nella giurisprudenza di questa Corte, la quale ha anche
spiegato che, in tema di distanze tra edifici, ove le
costruzioni non siano incluse nel medesimo piano
particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la
disciplina sulle relative distanze non è recata dall'ultimo
comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che consente ai
comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste
dalla normativa statale, bensì dal comma 1 dello stesso art.
9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia
precettiva.
---------------
La
giurisprudenza della Corte costituzionale ha affermato, più
volte, che <<Nel delimitare i rispettivi
ambiti di competenza −statale in materia di «ordinamento
civile» e concorrente in materia di «governo del
territorio»− questa Corte ha individuato il punto di
equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444
del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare
«efficacia precettiva e inderogabile»,
in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della
legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), introdotto
dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed
integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione
regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
In definitiva, le deroghe all’ordinamento
civile delle distanze tra edifici sono consentite «se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio»,
poiché «la loro legittimità è strettamente connessa
agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del
territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti
isolatamente considerati».
I medesimi principi sono stati ribaditi
anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte
dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge
21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio
dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione, infatti, ha sostanzialmente recepito
l’orientamento della giurisprudenza costituzionale,
inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi
fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le
Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m.
n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a
condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio».
La deroga alla disciplina delle distanze
realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione,
ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una
pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata
su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una
capacità progettuale tale da definire i rapporti
spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni
considerate come fossero un edificio unitario (art. 9,
ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).>>
Di conseguenza,
osserva il Collegio che, ove manchi,
perché neppure contemplato o perché (come nel caso in esame)
solo apparentemente evocato, lo scopo del perseguimento del
pubblico interesse (rappresentato dall’effettiva
persecuzione del “governo del territorio”) la deroga al
primo comma del citato art. 9 deve reputarsi “tamquam non
esset”, in quanto promanante da atti amministrativi
illegittimi.
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La pronuncia del giudice amministrativo, investito della
domanda di annullamento della licenza, concessione o
permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti
dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità
dell'esercizio del potere da parte della p.a., ovvero
concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al
rapporto fra il privato e la p.a., sicché non ha efficacia
di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di
fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto
di proprietà determinata dalla violazione della normativa in
tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di
interessi generali ma anche della posizione soggettiva del
privato.
Sotto altro connesso profilo si è già avuto modo di chiarire
che la rilevanza giuridica della
licenza o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del
rapporto pubblicistico tra P.A. e privato richiedente o
costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati,
regolati dalle disposizioni dettate dal codice civile e
dalle leggi speciali in materia edilizia, nonché dalle norme
dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori generali
locali.
Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie
tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie,
sono irrilevanti tanto la esistenza della concessione (salva
la ipotesi della cosiddetta licenza in deroga), quanto il
fatto di avere costruito in conformità alla concessione, non
escludendo tali circostanze, in sé, la violazione dei
diritti dei terzi di cui al codice civile e agli strumenti
urbanistici locali.
E' del pari irrilevante la mancanza della licenza o della
concessione, quando la costruzione risponda oggettivamente a
tutte le disposizioni normative sopraindicate.
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6. Il ricorso è infondato.
6.1. Occorre prendere l’abbrivio dalla motivazione con la
quale la Corte
locale confermò la sentenza del Tribunale.
Come sopra si è ricordato la sentenza qui impugnata
correttamente evidenzia l’inderogabilità dell’art. 9 del
d.m. n. 1444/1968, avente la finalità pubblica di garantire,
attraverso l’imposizione della distanza minima tra edifici,
igiene e sicurezza.
Trattasi di affermazione ampiamente consolidata nella
giurisprudenza di questa Corte, la quale ha anche spiegato
che, in tema di distanze tra edifici, ove le costruzioni non
siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella
stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze
non è recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444
del 1968, che consente ai comuni di prescrivere distanze
inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì
dal comma 1 dello stesso art. 9, quale disposizione di
immediata ed inderogabile efficacia precettiva (Sez. 2,
14.11.2016 n. 23136, Rv. 641684 – 01; conf. già Cass. nn.
5741/2008, 12424/2010).
Consegue a ciò che, nel caso d’illegittima determinazione
negoziale di distanza inferiore a quella legale, la clausola
nulla viene sostituita automaticamente, ai sensi dell’art.
1419, co. 2, cod. civ., salvo importare la nullità
dell’intero contratto nell’ipotesi contemplata dall’articolo
predetto.
6.1.2. L’assetto complessivo
del sistema risulta essere stato puntualmente scolpito dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, con la
sentenza n. 41 del 2007, riafferma (in perfetta sintonia con
le precedenti pronunce), che <<Nel
delimitare i rispettivi ambiti di competenza −statale in
materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di
«governo del territorio»− questa Corte ha individuato il
punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m.
n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare
«efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del
2016, ma anche sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005),
in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della legge
17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), introdotto
dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed
integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione
regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»
(ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016).
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle
distanze tra edifici sono consentite «se inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
(sentenza n. 134 del 2014; analogamente sentenze n. 178, n.
185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro legittimità è
strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e
quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti
tra edifici confinanti isolatamente considerati» (sentenza
n. 114 del 2012; nello stesso senso, sentenza n. 232 del
2005).
I medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo
l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art.
30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69
(Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione, infatti, ha sostanzialmente recepito
l’orientamento della giurisprudenza costituzionale,
inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi
fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le
Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m.
n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a
condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio» (sentenza n. 185 del 2016;
nello stesso senso, ex plurimis, sentenza n. 189 del 2016).
La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli
strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi
legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di
fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni
planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità
progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali
e architettonici delle varie costruzioni considerate come
fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m.
n. 1444 del 1968).>>
Di conseguenza, osserva il Collegio che, ove manchi, perché
neppure contemplato o perché (come nel caso in esame) solo
apparentemente evocato, lo scopo del perseguimento del
pubblico interesse (rappresentato dall’effettiva
persecuzione del “governo del territorio”) la deroga
al primo comma del citato art. 9 deve reputarsi “tamquam
non esset”, in quanto promanante da atti amministrativi
illegittimi.
6.1.3. Nel caso in esame, proprio la sentenza del TAR
Basilicata, invocata dalla
stessa parte ricorrente, siccome riporta la sentenza
d’appello, ha inequivocamente affermato che <<l’utilizzo
del Progetto Planovolumetrico convenzionato (ed approvato
nella delibera di G.M. n. 197 del 26.09.2003) risulta
improprio, in quanto il progetto planovolumetrico, redatto
dalla Pe. s.a.s. ed approvato dal Comune resistente, si
riferisce ad un’area circoscritta, più precisamente ad una
parte di terreno e/o di un lotto edificatorio e non prevede
la realizzazione di opere di urbanizzazione da cedere
gratuitamente al Comune (…), mentre di norma tale strumento
urbanistico riguarda più terreni e/o edifici e/o lotti
edificatori e deve prevedere la creazione di spazi pubblici
e/o ad uso pubblico e/o di opere di urbanizzazione>>.
Il manufatto della ricorrente, pertanto,
non è conforme alla legge. La sentenza n. 1313/2018 delle
S.U., richiamata dalla ricorrente, al contrario di quanto da
quest’ultima sostenuto, non ne supporta l’assunto.
Invero, il provvedimento amministrativo disapplicato dal
giudice non costituisce oggetto della controversia, nel
senso che su di esso non si fonda il diritto dedotto in
giudizio, bensì strumento di cui il giudice conosce, “incidenter
tantum”, nel percorso logico della decisione. Inoltre,
lo stesso è affetto da vizio di legittimità (violazione di
legge), restando estranea al vaglio ogni questione di merito
(conf., S.U. n. 116/2007; a contrario, a riguardo d’ipotesi
nelle quali la censura involge il facere
discrezionale della p.a., si vedano S.U. n. 18263/2004 e n.
4242/2010, nonché Cass. n. 5588/2013).
6.1.4. Per contro, mette conto soggiungere che la pronuncia
del giudice amministrativo, investito della domanda di
annullamento della licenza, concessione o permesso di
costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi),
ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del
potere da parte della p.a., ovvero concerne esclusivamente
il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato
e la p.a., sicché non ha efficacia di giudicato nelle
controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini,
aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà
determinata dalla violazione della normativa in tema di
distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi
generali ma anche della posizione soggettiva del privato (Sez.
2, n. 9869, 14/05/2015, 635492; Sez. 2, n. 23543/2018, non
massimata, la quale in motivazione significativamente
afferma non essere necessaria una delibazione incidentale
del giudice a riguardo della legittimità o meno dei
provvedimenti amministrativi autorizzativi dell’opera in
contrasto con la legge).
In disparte, sul punto, deve, comunque, ulteriormente
rilevarsi che la parte ricorrente non ha neppure allegato il
passaggio in giudicato della sentenza amministrativa, nel
mentre la controricorrente con la memoria ha evidenziato che
il Consiglio di Stato (con sentenza n. 5999/2019 del
30/08/2019) ha definitivamente annullato la decisione del
Giudice amministrativo di primo grado.
Quindi il progetto planovolumetrico approvato con la
delibera di Giunta n. 197/2003, su cui ruota sostanzialmente
il ricorso, è stato definitivamente annullato dal Consiglio
di Stato.
6.1.5. Sotto altro connesso profilo si è già avuto modo di
chiarire che la rilevanza giuridica della licenza o
concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto
pubblicistico tra P.A. e privato richiedente o costruttore,
senza estendersi ai rapporti tra privati, regolati dalle
disposizioni dettate dal codice civile e dalle leggi
speciali in materia edilizia, nonché dalle norme dei
regolamenti edilizi e dei piani regolatori generali locali.
Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie
tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie,
sono irrilevanti tanto la esistenza della concessione (salva
la ipotesi della cosiddetta licenza in deroga), quanto il
fatto di avere costruito in conformità alla concessione, non
escludendo tali circostanze, in sé, la violazione dei
diritti dei terzi di cui al codice civile e agli strumenti
urbanistici locali; è del pari irrilevante la mancanza della
licenza o della concessione, quando la costruzione risponda
oggettivamente a tutte le disposizioni normative
sopraindicate (Sez. 2, n. 12405, 28/05/2007, Rv. 597809;
conf., da ultimo,
20.10.2021 n. 29166; ma già, Cass. nn. 2230/1985,
3878/2007, 13109/1992, 6038/2000).
6.2. In definitiva, va confermato il giudizio incidentale
d’illegittimità dei provvedimenti amministrativi che hanno
permesso la costruzione in violazione dell’art. 9, co. 1,
più volte citato,
non sussistendo le fattispecie che ne avrebbero legittimato
la deroga, ai sensi dell’ultimo comma della disposizione,
che con efficace sintesi la Corte costituzionale ha
individuato nel “governo del territorio”.
Giudizio che, “incidenter tantum”, ex art. 5. L. n.
2248/1865, All. E, impone la disapplicazione dei
provvedimenti amministrativi in discorso (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 17.01.2024 n. 1818). |
EDILIZIA PRIVATA:
È noto che, in tema di distanze
legali, ai sensi dell'art. 873 c.c., rileva una nozione
unica di costruzione, consistente in qualsiasi opera non
completamente interrata avente i caratteri della solidità e
della immobilizzazione rispetto al suolo, indipendentemente
dalla tecnica costruttiva adoperata.
I regolamenti comunali, pertanto, essendo norme secondarie,
non possono modificare tale nozione codicistica, sia pure al
limitato fine del computo delle distanze legali, poiché il
rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 c.c. ai
regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di
stabilire una distanza maggiore.
Vale, quindi, il principio, consolidato nella giurisprudenza
di questa Corte, secondo cui le strutture accessorie di un
fabbricato, non meramente decorative ma dotate di dimensioni
consistenti e stabilmente incorporate al resto dell'immobile
(da accertare in fatto in base ad apprezzamento dei giudici
del merito, non sindacabile in sede di legittimità per
violazione di norme di diritto), costituiscono con questo
una costruzione unitaria, ampliandone la superficie o la
funzionalità e vanno computate ai fini delle distanze
fissate dall'art. 873 c.c. o dalle norme regolamentari
integrative.
La eccezionale non computabilità, ai fini delle distanze, di
elementi della costruzione può quindi riguardare solo quegli
sporti o aggetti che non siano idonei a determinare
intercapedini dannose o pericolose, consistendo in sporgenze
di limitata entità, con funzione complementare di decoro o
di rifinitura, mentre vengono in considerazione le
sporgenze, implicanti, perciò, un ampliamento dell'edificio
in superficie e volume, come, appunto, i balconi formati da
solette aggettanti (anche se scoperti), o i pianerottoli di
prolungamento dei setti in cemento armato, di apprezzabile
profondità, ampiezza e consistenza, stabilmente incorporati
nell'immobile, e ciò a maggior ragione qualora le distanze
tra costruzioni siano stabilite in un regolamento edilizio
comunale che non preveda espressamente un diverso regime
giuridico per le costruzioni accessorie.
---------------
E’ noto che, in tema di distanze
minime tra costruzioni, la rilevanza giuridica della licenza
o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto
pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi a quelli
tra privati e, pertanto, il conflitto tra proprietari
interessati in senso opposto alla costruzione deve essere
risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche
oggettive dell'opera e le norme edilizie che disciplinano le
distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche
quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia,
perché queste riguardano solo l'aspetto formale
dell'attività edificatoria.
Di conseguenza, l'avere eseguito la costruzione in
conformità dell'ottenuta licenza o concessione non esclude,
di per sé, la violazione di dette prescrizioni e, quindi, il
diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in
pristino o al risarcimento dei danni.
Il contrasto della costruzione eseguita
rispetto alle norme in tema di distanze fra costruzioni dà
luogo ad un requisito inerente alla fondatezza della
relativa domanda di riduzione in pristino, ed è quindi,
qualificabile come condizione dell'azione, da porre, perciò,
in relazione alla situazione esistente al momento della
pronuncia e non della proposizione della domanda.
Né rileva che l'attività edificatoria denunziata con la
domanda originaria, rivelatasi lesiva dei diritti del vicino
nella sua consistenza attuale al momento della decisione,
non sia stata ancora ultimata, sicché la violazione delle
distanze potrebbe essere nel prosieguo delle opere
regolarizzata o soppressa dal costruttore.
Soltanto qualora il proprietario convenuto per aver
costruito a distanza illegale faccia venir meno l’illegalità
e riconosca in modo espresso o implicito la integrale
fondatezza della domanda avversa, si determina una
cessazione della materia del contendere, che rende inutile
la pronuncia giurisdizionale di riduzione in pristino.
---------------
5.1. Il ricorso è comunque infondato.
Quanto alla ipotizzata violazione dell'art. 115 c.p.c., essa
può essere dedotta come vizio di legittimità solo
denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di
non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero
ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti,
ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi
riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare
le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza
di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (arg. da
Cass. Sez. Un. n. 20867 del 2020).
5.2. La Corte d’appello ha nella sostanza affermato che il
fabbricato realizzato dai convenuti sorge su un’area per mq
808,83 in zona B, dove le norme tecniche di attuazione
prevedono “distacchi come da norme antisismiche e D.M.
1968 n. 1444” e all’art. 9, in particolare, la distanza
tra fabbricati di m 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti.
La perizia aveva descritto il manufatto come un “balcone
... di dimensioni 1,82 m 4,41”, mentre, “nel caso di
rinterro del piano attualmente seminterrato”, esso “si
configurerebbe invece quale camminamento perimetrale”.
Per i ricorrenti, invece, tale struttura “altro non
rappresenta se non un viale, un camminamento destinato ad
aderire al piano di campagna”.
5.3. Perché possa astrattamente configurarsi nel riportato
motivo di ricorso un vizio rientrante tra quelli
denunciabili per cassazione, occorre ritenere che la censura
rappresenti un errore dei giudici del merito nella
ricognizione del contenuto oggettivo delle risultanze
peritali, nel senso che emergerebbe una effettiva assoluta
impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti
al giudizio, i contenuti informativi che la sentenza
impugnata ha ritenuto di poter trarre, con riguardo a fatto
avente carattere decisivo (ad esempio, Cass. Sez. 1, n. 9507
del 2023; Sez. 3, n. 37382 del 2022; Sez. 3, n. 37382 del
2022).
5.4. È noto che, in tema di distanze
legali, ai sensi dell'art. 873 c.c., rileva una nozione
unica di costruzione, consistente in qualsiasi opera non
completamente interrata avente i caratteri della solidità e
della immobilizzazione rispetto al suolo, indipendentemente
dalla tecnica costruttiva adoperata.
I regolamenti comunali, pertanto, essendo norme secondarie,
non possono modificare tale nozione codicistica, sia pure al
limitato fine del computo delle distanze legali, poiché il
rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 c.c. ai
regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di
stabilire una distanza maggiore.
Vale, quindi, il principio, consolidato nella giurisprudenza
di questa Corte, secondo cui le strutture accessorie di un
fabbricato, non meramente decorative ma dotate di dimensioni
consistenti e stabilmente incorporate al resto dell'immobile
(da accertare in fatto in base ad apprezzamento dei giudici
del merito, non sindacabile in sede di legittimità per
violazione di norme di diritto), costituiscono con questo
una costruzione unitaria, ampliandone la superficie o la
funzionalità e vanno computate ai fini delle distanze
fissate dall'art. 873 c.c. o dalle norme regolamentari
integrative.
La eccezionale non computabilità, ai fini delle distanze, di
elementi della costruzione può quindi riguardare solo quegli
sporti o aggetti che non siano idonei a determinare
intercapedini dannose o pericolose, consistendo in sporgenze
di limitata entità, con funzione complementare di decoro o
di rifinitura, mentre vengono in considerazione le
sporgenze, implicanti, perciò, un ampliamento dell'edificio
in superficie e volume, come, appunto, i balconi formati da
solette aggettanti (anche se scoperti), o i pianerottoli di
prolungamento dei setti in cemento armato, di apprezzabile
profondità, ampiezza e consistenza, stabilmente incorporati
nell'immobile, e ciò a maggior ragione qualora le distanze
tra costruzioni siano stabilite in un regolamento edilizio
comunale che non preveda espressamente un diverso regime
giuridico per le costruzioni accessorie
(Cass.
20.04.2022 n. 12614; n. 859 del 2016; n. 13001
del 2000; n. 5719 del 1998; n. 578 del 1979; n. 3933 del
1975).
5.5. Né hanno pregio le considerazioni dei ricorrenti sulla
diversa consistenza che il manufatto avrebbe rivelato in
base al titolo abilitativo edilizio ed alla proroga
dell'originario permesso di costruire, per gli sviluppi che
l’opera potrebbe assumere una volta ultimata l’attività
costruttiva.
5.4.1. E’ noto che, in tema di distanze
minime tra costruzioni, la rilevanza giuridica della licenza
o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto
pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi a quelli
tra privati e, pertanto, il conflitto tra proprietari
interessati in senso opposto alla costruzione deve essere
risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche
oggettive dell'opera e le norme edilizie che disciplinano le
distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche
quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia,
perché queste riguardano solo l'aspetto formale
dell'attività edificatoria.
Di conseguenza, l'avere eseguito la costruzione in
conformità dell'ottenuta licenza o concessione non esclude,
di per sé, la violazione di dette prescrizioni e, quindi, il
diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in
pristino o al risarcimento dei danni
(tra le tante, Cass.
19.02.2019 n. 4833).
Il contrasto della costruzione eseguita
rispetto alle norme in tema di distanze fra costruzioni dà
luogo ad un requisito inerente alla fondatezza della
relativa domanda di riduzione in pristino, ed è quindi,
qualificabile come condizione dell'azione, da porre, perciò,
in relazione alla situazione esistente al momento della
pronuncia e non della proposizione della domanda.
Né rileva che l'attività edificatoria denunziata con la
domanda originaria, rivelatasi lesiva dei diritti del vicino
nella sua consistenza attuale al momento della decisione,
non sia stata ancora ultimata, sicché la violazione delle
distanze potrebbe essere nel prosieguo delle opere
regolarizzata o soppressa dal costruttore.
Soltanto qualora il proprietario convenuto per aver
costruito a distanza illegale faccia venir meno l’illegalità
e riconosca in modo espresso o implicito la integrale
fondatezza della domanda avversa, si determina una
cessazione della materia del contendere, che rende inutile
la pronuncia giurisdizionale di riduzione in pristino
(Cass. n. 4127 del 2002; n. 26907 del 2019) (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 04.01.2024 n. 239). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 9, ultimo comma, del d.m. 04.04.1968 n.
1444, riguarda soltanto le distanze tra costruzioni
insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo
piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti
parte della medesima lottizzazione convenzionata.
L’ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 444/1968 contempla,
quale ipotesi di deroga alle distanze minime tra fabbricati,
la realizzazione contestuale di "gruppi di edifici" e cioè
di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani
particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi
estranea al caso in esame, in cui si è avuta la
realizzazione di un unico nuovo edificio che si è inserito
nel contesto di un isolato già edificato.
Può pertanto enunciarsi il seguente principio:
"agli effetti dell’art. 9, comma 3, del d.m. n. 1444 del
1968, sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei
precedenti commi di tale norma soltanto a condizione che sia
stato approvato un apposito piano particolareggiato o di
lottizzazione esteso alla intera zona, finalizzato a rendere
esecutive le previsioni dello strumento urbanistico
generale, contenente le disposizioni planivolumetriche degli
edifici previsti nella medesima zona e avente ad oggetto la
realizzazione contestuale di "gruppi di edifici", e cioè di
una pluralità di nuovi febbricati, rimanendo perciò estranea
a tale fattispecie l’ipotesi della realizzazione di un unico
nuovo fabbricato che si sia inserito nel contesto di un
isolato già edificato".
---------------
1. Gi.Gr. ha proposto ricorso articolato in tre motivi
avverso la sentenza n. 762/2020 della Corte d’appello di
Reggio Calabria, depositata il 30.11.2020.
L’intimato En.In., erede di Fr.Za., non ha svolto attività
difensive.
2. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di
consiglio, a norma degli artt. 375, comma 2, 4-quater, e
380-bis.1, c.p.c.
3. La Corte d’appello di Reggio Calabria ha respinto
l’appello principale proposto da Gi.Gr. contro la sentenza
pronunciata il 19.11.2009 dal Tribunale di Reggio Calabria.
La sentenza di primo grado, accogliendo in parte la domanda
spiegata con citazione del 14.04.2003 da Fr.Za., aveva
ordinato la demolizione o l’arretramento dei fabbricati
eretti in Villa San Giovanni da Gi.Gr. a distanza inferiore
a quella minima di dieci metri tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m.
n. 1444 del 1968, ed aveva altresì condannato il convenuto
al risarcimento dei danni liquidati in € 2.000,00.
La Corte d’appello ha rilevato che i fabbricati costruiti
dal Greco insistono sulle part. 472 e 473, fl. 3, N.C.E.U.
del Comune di Villa San Giovanni e ricadono pertanto in zona
B, sottozona B2 del P.R.G. di tale comune, ove sono previste
dalle n.t.a. distanze inferiori a quella di dieci metri ex
art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968.
La deroga alla disciplina stabilita dalla normativa statale,
apportata dagli strumenti urbanistici locali, non era
tuttavia riconducibile, secondo la sentenza impugnata, ad un
caso di gruppi di edifici oggetto di piani particolareggiati
o lottizzazioni convenzionate con previsioni
planovolumetriche, sicché la costruzione doveva ritenersi
illegittima.
4. Il primo motivo del ricorso di Giuseppe Greco
deduce la violazione dell’art. 9, ultimo comma, e la erronea
applicazione del primo comma del d.m. 04.04.1968 n. 1444,
assumendo che la zona B/2 del P.R.G. di Villa San Giovanni
identifica una zona speciale rispetto alla zona B,
finalizzata alla realizzazione di “interventi per
costruzioni di edilizia convenzionata e sovvenzionata”,
sicché all’interno di essa doveva ritenersi consentito al
Comune di prescrivere distanze inferiori a quelle previste
dalla normativa nazionale, ai sensi dell’ultimo capoverso
del citato art. 9.
Il secondo motivo di ricorso lamenta l’omesso esame e
l’omessa valutazione della relazione di consulenza tecnica
d’ufficio e della consulenza tecnica di parte, sempre sul
punto della qualificazione della sottozona B2 del P.R.G.
come “piano particolareggiato”.
Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione
dell’art. 2043 c.c. sempre per l’erronea applicazione del
terzo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, quanto
alla correlata ulteriore conseguenza del risarcimento dei
danni riconosciuto all’attrice.
5. I tre motivi di ricorso possono esaminarsi insieme per la
loro evidente connessione e sono infondati.
5.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in
tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma 2, del
d.m. 02.04.1968, n. 1444, emanato su delega dell'art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge
urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967,
n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità,
altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass.
Sez. Unite, n. 14953 del 2011; Cass. n. 8987 del 2023; n.
624 del 2021; n. 27558 del 2014).
Ne consegue che correttamente la Corte d’appello di Reggio
Calabria ha concluso nel senso che l’art. 16 delle Norme
tecniche di attuazione del P.R.G. e le previsioni del
Regolamento edilizio del Comune di Villa San Giovanni,
essendo in contrasto con le previsioni del citato art. 9,
dovevano essere disapplicate dal giudice ordinario, a norma
dell’art. 5, legge 20.03.1865, n. 2248, all. E.
5.2. Il ricorrente sostiene, tuttavia, che fosse integrata
nella specie l’ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo
comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, la quale
consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a
quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni
siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella
stessa lottizzazione. Ciò in quanto la costruzione era
compresa nella sottozona B/2 per gli “interventi per
costruzioni di edilizia convenzionata e sovvenzionata”.
5.2.1. La censura non ha fondamento.
L’art. 9, ultimo comma, del d.m. 04.04.1968 n. 1444,
riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su
fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano
particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte
della medesima lottizzazione convenzionata (Cass. Sez.
Unite, n. 1486 del 1997).
Nel caso in esame, la Corte d’appello ha negato che si fosse
in presenza di un gruppo di edifici inclusi in un medesimo
piano particolareggiato, ovvero di costruzioni facenti parte
della medesima lottizzazione convenzionata (cfr. Cass. n.
798 del 2022).
Non può seguirsi il ragionamento del ricorrente, secondo cui
la previsione delle n.t.a. sarebbe comunque assimilabile
alle ipotesi, aventi valida portata derogatoria, contemplate
nel comma 3 dell’art. 9, d.m. n. 1444/1968, diverse essendo
le norme tecniche di attuazione dei piani regolatori, le
quali hanno natura regolamentare e danno luogo ad uno
strumento meramente secondario e subalterno, rispetto ai
piani particolareggiati ed alle lottizzazioni convenzionate,
i quali danno luogo ad uno strumento urbanistico esecutivo.
Le censure poste nel ricorso incorrono in un erroneo
presupposto interpretativo.
L’ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 444/1968 contempla,
quale ipotesi di deroga alle distanze minime tra fabbricati,
la realizzazione contestuale di "gruppi di edifici" e
cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani
particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi
estranea al caso in esame, in cui si è avuta la
realizzazione di un unico nuovo edificio che si è inserito
nel contesto di un isolato già edificato.
Il ricorrente comunque neppure ha allegato:
a) l’esistenza di un piano particolareggiato o di un piano di
lottizzazione diretto all'attuazione dei programmi di
edilizia convenzionata e sovvenzionata, avente funzione
esecutiva della disciplina generale del P.R.G. e volto a
garantire l'esistenza di un valido disegno urbanistico,
nonché i tempi di
realizzazione delle opere di urbanizzazione;
b) l’esistenza di tavole plano-volumetriche relative ad un gruppo
di edifici tra i quali sia ricompreso quello eretto.
6. Può pertanto enunciarsi il seguente principio:
agli effetti dell’art. 9, comma 3, del d.m. n. 1444 del
1968, sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei
precedenti commi di tale norma soltanto a condizione che sia
stato approvato un apposito piano particolareggiato o di
lottizzazione esteso alla intera zona, finalizzato a rendere
esecutive le previsioni dello strumento urbanistico
generale, contenente le disposizioni planivolumetriche degli
edifici previsti nella medesima zona e avente ad oggetto la
realizzazione contestuale di "gruppi di edifici", e cioè di
una pluralità di nuovi febbricati, rimanendo perciò estranea
a tale fattispecie l’ipotesi della realizzazione di un unico
nuovo fabbricato che si sia inserito nel contesto di un
isolato già edificato (Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
ordinanza 04.01.2024 n. 236). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze, se la parete non ha finestre (ma luci) non vale il
rispetto del Dm 1444. Il Tar Salerno ribadisce che il parametro si rifesce
solo a pareti «finestrate».
La disposizione dell’art. 9 del Dm 1444/1968 sulla distanza minima tra
«pareti finestrate e pareti di edifici antistanti» si riferisce
esclusivamente a pareti con aperture che si caratterizzano come finestre e
non come semplici luci.
Lo ribadisce il TAR Campania-Salerno nel giudizio su una vicenda in cui la
distinzione tra luce e finestra ha fatto la differenza tra l'accoglimento e
il rigetto di un ricorso.
La vicenda riguarda il residente di un comune campano che ha lamentato la
costruzione di un immobile a una distanza inferiore a quella stabilita dal
Dm 1444.
La parete dell'immobile, tuttavia, pur non essendo completamente cieca aveva
delle aperture che, a una valutazione tecnica, si caratterizzavano solo come
luci e non come finestre. Le aperture sulla parete, infatti, avevano
un'altezza di due metri dal pavimento e avevano delle grate.
I giudici della III Sez. del Tar fanno pertanto osservare che tali aperture
non consentono né la veduta frontale, né quella obliqua e laterale, tramite
affaccio. Infatti, «per la sussistenza della veduta -si ricorda nella
sentenza
01.12.2023 n. 2841- è necessaria la
presenza cumulativa dei requisiti della inspectio, intesa come possibilità
di vedere o guardare frontalmente il fondo del vicino, e della prospectio,
intesa come affaccio mediante la sporgenza del capo dall'apertura che
consente di guardare anche obliquamente e lateralmente il fondo del vicino».
E dal momento che non sono previste ulteriori classificazioni diverse da
luci e finestre, ne consegue, in generale e nel caso specifico, «che
l'apertura priva delle caratteristiche della veduta (o del prospetto) non
può che essere qualificata giuridicamente come luce» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
19.01.2024).
----------------
SENTENZA
9. Va prima di tutto disatteso il primo motivo di ricorso.
9.1. In punto di diritto è necessario ricordare che:
-
“la semplice possibilità di vedere o guardare frontalmente, che del resto è
connaturata al genus “finestre o aperture”, non basta ad integrare la figura
specifica della veduta; né peraltro è incompatibile con la più neutra
nozione di “luce”, che, in negativo, è caratterizzata dal non permettere “di
affacciarsi sul fondo del vicino”.
È questo, di contro, il requisito tipico
ed esclusivo della veduta, la quale proprio perché permette di "affacciarsi"
e quindi di “guardare” non solo di fronte, ma anche “obliquamente e
lateralmente”, conferisce all'apertura quella speciale attitudine visiva -consistente nell'assoggettare il fondo alieno ad una visione mobile e
globale- che esula dalla semplice luce e da essa la discrimina” (Cass. civ.,
Sez. Un., 28.11.1996, n. 10615, poi ribadita da quasi tutta la
giurisprudenza successiva);
-
per la sussistenza della veduta è necessaria la presenza cumulativa dei
requisiti della inspectio, intesa come possibilità di vedere o guardare
frontalmente il fondo del vicino, e della prospectio, intesa come affaccio
mediante la sporgenza del capo dall’apertura che consente di guardare anche
obliquamente e lateralmente il fondo del vicino;
-
in tema di aperture sul fondo del vicino deve escludersi l'esistenza di un
“tertium genus” diverso dalle luci e delle vedute; ne consegue che
l'apertura priva delle caratteristiche della veduta (o del prospetto) non
può che essere qualificata giuridicamente come luce (Cass. civ., Sez. II, 28.09.2007, n. 20577);
-
in tema di aperture sul fondo del vicino, non ammettendo la legge
l'esistenza di un "tertium genus" oltre alle luci ed alle vedute, va
valutata quale luce e, pertanto, sottoposta alle relative prescrizioni
legali, anche in difetto dei requisiti a tale scopo prescritti dalla legge,
l'apertura che sia priva del carattere di veduta o prospetto; in tal caso,
dunque, il proprietario del fondo vicino può sempre pretenderne la
regolarizzazione, tenuto conto che il possesso di luci irregolari,
sprovvisto di titolo e fondato sulla mera tolleranza del vicino, non può
condurre all'acquisto, per usucapione della corrispondente servitù (Cass.
civ., Sez. II, 17.11.2021, n. 34824);
-
l’art. 9 del D.M. 1444/1968 fissa la distanza minima che deve intercorrere
tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”; tale disposizione fa
espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate “per tali dovendosi
intendere, secondo l'univoco e costante insegnamento della giurisprudenza
anche di questa Sezione, unicamente “le pareti munite di finestre
qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono
semplici luci”” (Consiglio di Stato, IV Sez., 05.10.2015, n. 4628);
-
ne consegue la non applicabilità dell’art. 9 predetto in punto di distanza
minima in presenza di aperture da qualificare come luci (v. Consiglio di
Stato, IV Sez., 05.10.2015, n. 4628, TAR Campania, Salerno, II Sez.,
11.04.2022, n. 938);
-
del resto, non vi è “da parte dell’Amministrazione la necessità di procedere
a un'accurata ed approfondita disanima dei rapporti tra i vicini o i
condomini, rientrando la presenza di eventuali diritti ostativi o la
supposta pretesa di lesioni di diritti soggettivi, quali quelli di luce e
veduta, nell’ambito delle controversie tra privati, che gli stessi privati
potranno difendere nelle opportune sedi, e non all’aspetto della legittimità
degli atti autorizzatori dell’esercizio dello ius edificandi anche in sede
di sanatoria” (TAR Puglia, Bari, III Sez., 11.02.2016, n. 162).
9.2. Ciò posto, nella vicenda oggetto di causa dalla verificazione disposta
è risultato che le n. 6 aperture presenti nella facciata lato nord-ovest del
fabbricato di proprietà del controinteressato -OMISSIS- (univocamente
identificate nell’ambito della relazione di verificazione attraverso il
ricorso a numeri arabi ed a plurime fotografie dello stato dei luoghi) non
consentono l’inspectio e la prospectio nel fondo di parte ricorrente (v.
pag. 11 della relazione).
Quanto alle caratteristiche concrete di tutte queste aperture nella
relazione è stato indicato che tali aperture:
-
“sono munite di una inferriata metallica atta a garantire la sicurezza,
costituita da elementi orizzontali, posti ad una distanza verticale di circa
10 cm l’uno dall’altro” (v. pag. 18 della relazione);
-
hanno il lato inferiore ad un’altezza non minore di due metri dal pavimento
(v. pag. 18 della relazione).
In ordine poi all’altezza di queste aperture rispetto al suolo del fondo del
vicino è stato evidenziato che mentre per quanto riguarda le altezze delle
aperture contraddistinte dai nn. 1, 2 e 3 queste sono univocamente
determinabili, lo stesso non può dirsi quanto alle altre aperture a causa
della natura del suolo del fondo del vicino, trattandosi di terrapieno
rispetto al quale la quota di riferimento risulta variabile, “essendo il
terreno potenzialmente soggetto a compattamenti o rigonfiamenti a seconda
delle stagioni e del trattamento delle colture ivi insistenti” (v. pagg. 18
e 19 della relazione).
9.3. Le risultanze della disposta verificazione vanno condivise e fatte
proprie da questo Collegio, in quanto congruamente e logicamente motivate
alla luce delle indagini esperite (sopralluoghi dei luoghi di causa e
misurazione degli edifici coinvolti) e della documentazione esaminata.
9.4. Orbene, tanto premesso in diritto ed in fatto, ne discende che le
aperture in discussione vanno qualificate come luci e non quali vedute.
Stante l’accertata natura di luci delle aperture predette è infondato il
primo motivo di ricorso, in quanto non è configurabile la prospettata
violazione dell’art. 9 del D.M. 1444/1968.
Va poi ritenuta priva di rilievo dinanzi al Giudice Amministrativo la natura
irregolare di tutte le predette luci quanto alla non adeguatezza delle
maglie, nonché quella eventualmente irregolare di tre di tali luci quanto
all’altezza rispetto al suolo del fondo del vicino, trattandosi di questioni
prettamente civilistiche.
Tali questioni esulano della tutela dell’interesse pubblico e dalla
cognizione di questo Giudice. Rispetto ad esse, al più e sussistendone i
relativi presupposti, parte ricorrente potrebbe pretendere la
regolarizzazione ai sensi dell’art. 902 c.c. e dinanzi al Giudice Ordinario. |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di distanze tra costruzioni, si è andata
consolidando in giurisprudenza l'opinione
secondo cui il D.M. n. 1444/1968, essendo stato emanato su
delega della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies,
aggiunto dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia
di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i
fabbricati prevalgono, una volta predisposto lo strumento
urbanistico locale, sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica.
Pertanto in tema di distanze tra
fabbricati, nel regolamento locale che non preveda distanza
alcuna o che
preveda distanze inferiori a quelle minime
prescritte per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del
D.M. 02.04.1968, n. 1444, questa inderogabile disciplina si
inserisce automaticamente, con immediata operatività nei
rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del
regolamento rispetto all'art. 873 c.c., con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in contrasto con
l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata (ove
oggetto di impugnazione) o comunque disapplicata, stante la
sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata
dalla fonte sovraordinata, essendo consentita alle
Amministrazioni locali solo la previsione di distanze
superiori.
La nozione di distanza tra fabbricati
dell'art. 10.4 delle NTA della variante del PRG del Comune,
contrastando con la nozione di edifici antistanti
utilizzata dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 come
interpretato dalla Suprema Corte
(sono stati considerati tali da Cass. 28.08.1991 n. 9207
perfino edifici che si fronteggiavano con le loro pareti
solo per 82 cm) e con lo scopo di tale
norma di cui dovrebbe costituire l'attuazione, non può
quindi essere utilizzata per stabilire se vi sia stata
violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, ma solo per
verificare se vi sia stata violazione delle distanze
previste dalle stesse NTA della variante del PRG del Comune.
In proposito occorre rammentare, infatti,
che la distanza dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 é
applicabile secondo la giurisprudenza di questa Corte a
tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella
principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o
meno parallele all'edificio antistante,
per cui è sufficiente, affinché se ne faccia
applicazione, l'esistenza di finestre in qualsiasi zona
della parete contrapposta ad altro edificio, anche se non
diffuse sull'intera parete, ma soltanto in una parte di essa
che si trovi a distanza minore di quella prescritta.
Quanto al significato del termine
“distanza” usato nell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, il
Consiglio di Stato, considerando la ratio di tale
disposizione, volta ad impedire, come già accennato, la
formazione di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e, pertanto non eludibile, ha chiarito
che "la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di
edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni
punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse
siano o meno in posizione parallela”.
---------------
Preliminare rispetto all'esame dei primi tre motivi del
ricorso principale di Ma.Ce., deve ritenersi quello
dell'unico motivo del ricorso incidentale di Zappa
Gianfranco e degli eredi di Za.Gi.Ad., essendo esso volto ad
ottenere il rispetto della superiore distanza di dieci metri
dal confine da parte della sopraelevazione, della quale é
stato ordinato dalla Corte d'Appello di Brescia
l'arretramento di cinque metri che Ma.Ce. contesta.
Nel ricorso incidentale si lamenta, in relazione all'art.
360, comma primo, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa
applicazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, operante in
virtù dell'inapplicabilità delle contrarie disposizioni
degli articoli 10.4 e 17, punto 5, delle NTA della variante
del PRG del Comune di Coccaglio, per avere la Corte
d'Appello di Brescia rigettato la domanda principale degli
originari attori di arretramento della sopraelevazione al
terzo piano, realizzata da Ma.Ce. nel 2005, per violazione
della distanza minima di dieci metri dalle pareti finestrate
degli originari attori, stabilita dall'art. 9 del D.M. n.
1444/1968, secondo il quale per le zone diverse dalla A
(nella specie zona B di completamento) é prescritta una
distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti.
L'art. 10.4 delle NTA della variante del PRG del Comune di
Coccaglio definisce la distanza tra fabbricati come “la
distanza minima tra le pareti di edifici che si prospettino
per uno sviluppo superiore a 3,00 metri. Due pareti si
considerano prospettanti tra loro quando abbiano
allineamenti paralleli o determinanti un angolo inferiore a
90°”.
L'art. 17, punto 5, delle NTA della variante del PRG del
Comune di Coccaglio, relativo alle distanze dai confini
nella zona B di completamento, stabilisce invece che “è
ammessa la costruzione a confine nel caso di edifici a
cortina continua e nel caso di edificio esistente a confine.
Qualora non esistono edifici a confine è necessario
l’accordo fra i confinanti. Negli altri casi D=H/2 e mai
inferiore a m. 5,00”.
La Corte d'Appello di Brescia nella sentenza non definitiva,
confermando la sentenza di primo grado, e basandosi sulla
CTU, ha accertato in punto di fatto che nella specie “esistono
ben quattro pareti che sono a due a due tra loro
prospettanti in lati sud ovest, in quanto presentano
allineamenti che determinano un angolo inferiore a 90 gradi,
tuttavia dette pareti non si prospettano per uno sviluppo
superiore a m 3. Analogamente in lato Nord, per quanto
riguarda il distacco tra i fabbricati, il nuovo corpo scala
B, non prospetta per uno sviluppo superiore a m 3 rispetto
alla parete finestrata di proprietà degli attori”, e
tale accertamento non é qui contestato, né potrebbe esserlo.
La stessa Corte d'Appello, però, sulla scorta della CTU, ha
escluso che vi sia stata violazione dell'art. 9 del D.M. n.
1444/1968, il quale semplicemente prescrive una distanza
minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti.
L'impugnata sentenza ha ritenuto, infatti, non integrata la
violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, in quanto le
pareti della porzione sopraelevata del Ma. e di quella
finestrata degli originari attori non prospettano tra loro
per una lunghezza superiore a tre metri, in tal modo
applicando nell'interpretazione
dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 una nozione di distanza
tra fabbricati desunta dall'art. 10.4 delle NTA della
variante del PRG del Comune di Coccaglio.
Per converso, l'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 parla solo di
distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici “antistanti”,
ossia di pareti che almeno in qualche punto prospettino tra
loro, senza richiedere una lunghezza minima di tale
reciproco prospetto delle pareti e senza richiedere che le
pareti contrapposte siano anche parallele.
In tema di distanze tra costruzioni, si è andata
consolidando in giurisprudenza, dopo l'intervento della
sentenza 07.07.2011 n. 14953 delle sezioni unite civili
della Corte di Cassazione, l'opinione secondo cui il D.M. n.
1444/1968, essendo stato emanato su delega della L.
17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies, aggiunto dalla L.
06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello
Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti
inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati
prevalgono, una volta predisposto lo strumento urbanistico
locale, sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali
successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione
automatica (vedi in tal senso Cass.
15.01.2021 n. 624; Cass.
14.11.2016 n. 23136).
Pertanto in tema di distanze tra fabbricati, nel regolamento
locale che non preveda distanza alcuna o che, come nella
specie, preveda distanze inferiori a quelle minime
prescritte per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del
D.M. 02.04.1968, n. 1444, questa inderogabile disciplina si
inserisce automaticamente, con immediata operatività nei
rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del
regolamento rispetto all'art. 873 c.c., con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in contrasto con
l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata (ove
oggetto di impugnazione) o comunque disapplicata, stante la
sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata
dalla fonte sovraordinata, essendo consentita alle
Amministrazioni locali solo la previsione di distanze
superiori (vedi Cass. n. 985/2020; Cass. n. 29732/2017;
Cass.
26.07.2016 n. 15458; Cass.
11.11.2014 n. 24013; Cass. n. 741/2012; Cass.
19.11.2004 n. 21899; per la giur. amministrativa, vedi Cons.
Stato n. 374/2017; Cons. Stato n. 354/2013; Cons. Stato n.
5759/2011; Cons. Stato n. 3094/2007).
La nozione di distanza tra fabbricati dell'art. 10.4 delle
NTA della variante del PRG del Comune di Coccaglio,
contrastando con la nozione di edifici antistanti utilizzata
dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 come interpretato dalla
Suprema Corte (sono stati considerati tali da Cass.
28.08.1991 n. 9207 perfino edifici che si fronteggiavano con
le loro pareti solo per 82 cm) e con lo scopo di tale norma
di cui dovrebbe costituire l'attuazione, non può quindi
essere utilizzata per stabilire se vi sia stata violazione
dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, ma solo per verificare se
vi sia stata violazione delle distanze previste dalle stesse
NTA della variante del PRG del Comune di Coccaglio.
In proposito occorre rammentare, infatti, che la distanza
dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 é applicabile secondo la
giurisprudenza di questa Corte a tutte le pareti finestrate
e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal
fatto che esse siano o meno parallele all'edificio
antistante (vedi Cass. 12.12.1986 n. 7391), per cui è
sufficiente, affinché se ne faccia applicazione, l'esistenza
di finestre in qualsiasi zona della parete contrapposta ad
altro edificio, anche se non diffuse sull'intera parete, ma
soltanto in una parte di essa che si trovi a distanza minore
di quella prescritta.
Quanto al significato del termine “distanza” usato
nell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, il Consiglio di Stato,
considerando la ratio di tale disposizione, volta ad
impedire, come già accennato, la formazione di intercapedini
nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e, pertanto non
eludibile, ha chiarito che "la distanza di dieci metri
tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista
dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole
parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e
non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto
che esse siano o meno in posizione parallela” (vedi Cons.
Stato n. 7731/2010; Cons. Stato 05.12.2005, n. 6909) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 31.10.2023 n. 30224). |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
PA: addio all’autoreferenzialità, la svolta nella Valutazione
della Performance.
La Direttiva del 28 novembre sembra finalmente fare propri gli indirizzi
generali di riforma delle Amministrazioni Pubbliche
La
direttiva 28.11.2023 rappresenta un momento di svolta per la
misurazione e valutazione della performance. Strumento ideato per migliorare
l’efficienza e basare sul merito i riconoscimenti ai dipendenti, acquisendo
però nella sua applicazione caratteri di autoreferenzialità. Con l’apertura
alla valutazione dal “basso” e all’esterno delle PP.AA. questa
tendenza può essere invertita.
Al fine di inquadrare la portata innovativa della Direttiva del 28 novembre
del Ministro per la Pubblica Istruzione ripercorriamo brevemente il percorso
di introduzione dello strumento di valutazione e misurazione della
performance nel pubblico impiego in Italia.
La misurazione e valutazione della performance viene introdotta con il
decreto legislativo n. 150/2009. Al quarto comma dell’art. 3 del suddetto
decreto vengono enucleati i criteri con cui le Amministrazioni Pubbliche
definiscono i metodi e gli strumenti per misurare, valutare e premiare la
performance individuale ed organizzativa che devono “strettamente” tener
conto “del soddisfacimento dell’interesse del destinatario dei servizi e
degli interventi”.
L’introduzione di questo strumento comporta un grande passo e cambio di
cultura organizzativa all’interno della Pubblica Amministrazione
diversamente dal settore privato che, operando in regime di mercato
concorrenziale, ha integrato totalmente queste pratiche all’interno della
propria organizzazione.
Dalla sua introduzione si sono poi susseguite una serie di linee guida del
Dipartimento della Funzione Pubblica per dare indicazioni operative
congeniali alla creazione dei sistemi di misurazione e valutazione della
performance.
Il sistema fino ad oggi introdotto ha però mancato nel suo scopo principale
ovvero rendere efficiente l’azione amministrativa e basare sul merito i
riconoscimenti sia economici che non economici.
Ma vediamo quali sono i fattori critici: la definizione degli obiettivi e la
valutazione .
Nella definizione degli obiettivi il Dirigente fungeva da definitore unico
degli stessi assegnandoli al personale sotto la sua diretta responsabilità e
al contempo però rivestiva anche il ruolo di valutatore. Ne sono quindi
conseguiti obiettivi generici e semplici da raggiungere per i Dirigenti
stessi e per i collaboratori si è assistito ad un appiattimento delle
valutazioni, in genere positive, per tutto il personale. Questa pratica ha
portato quindi a considerare la misurazione e valutazione della performance
come un mero adempimento formale perdendo così tutto il suo potenziale in
termini di introduzione di sistemi di premialità basati sul merito e di
produttività.
L’effetto, in tema di gestione delle risorse umane, risulta essere la
frustrazione del personale e la mancanza di motivazione nel proprio lavoro,
difficilmente recuperabile con i classici sistemi di rewarding come il
riconoscimento economico che, come ampia letteratura ha dimostrato, nel caso
del dipendente pubblico data la peculiarità delle sue funzioni, non ha la
stessa forza motivante rispetto ad uno privato. Se l’obiettivo della
performance era quello di rendere efficiente l’azione della Pubblica
Amministrazione, la piega che ha preso fino ad ora si è rivelata tutt’altro
che funzionale.
In questo contesto la nuova Direttiva sembra segnare un cambio di passo.
All’interno vengono inclusi una molteplicità di concetti e di strumenti,
risalenti a una cultura manageriale e non solamente giuridica, sintomatici
di un generale ripensamento dell’organizzazione delle Amministrazioni
Pubbliche.
In apertura viene prontamente disposto che “le modalità di valutazione
vadano oltre, soprattutto per il personale dirigenziale, la sola valutazione
effettuata dal superiore gerarchico e che coinvolgano una pluralità di
soggetti, interni o esterni all’organizzazione, per arrivare gradualmente
alla valutazione a 360°”.
Il coinvolgimento di altri soggetti viene poi definito in maniera più
specifica indicando tra i soggetti i collaboratori, la valutazione fra pari,
la valutazione collegiale e, infine, la valutazione dagli stakeholder
esterni come gli utenti di quel dato servizio.
Insomma, si parla di valutazione dal basso, collegiale e partecipativa ma,
nonostante quest’ultima sia stata già introdotta con il decreto legislativo
n. 74/2017 con il risultato di produrre rilevazioni di customer satisfaction,
a suo supporto non intervenne un vero e proprio sistema di valutazione,
incentivi e reingegnerizzazione dei processi.
Altri focus degni di nota riguardano il merito e la valutazione dei
comportamenti quindi la capacità di leadership dei Dirigenti.
Declinando il principio del merito la valutazione della performance si
inserisce in un quadro più ampio richiedendo al Dirigente di valorizzare il
capitale umano, riconoscendone punti di forza e di debolezza , assegnando
obiettivi performanti e valutarli, attivando così meccanismi virtuosi alla
cui base vi è il principio del merito. Lo sviluppo delle potenzialità delle
risorse umane risponde alle diverse necessità delle Amministrazioni
Pubbliche quali: l’aumento di attrattività, azione imprescindibile per avere
tra le proprie fila le migliori professionalità e al contempo stimolarle e
svilupparle attraverso la misurazione della performance individuale.
L’avvio della tanto attesa riforma sembra faccia emergere, finalmente,
l’urgenza per le nostre amministrazioni di usufruire di una capacità
amministrativa maggiore, in grado di fronteggiare e portare a termine le
riforme relative al PNRR.
Tornando alla Direttiva e in tema di valutazione dei comportamenti si
esplora, come già detto, un aspetto fino ad ora poco conosciuto e praticato:
la capacità di leadership dei Dirigenti individuata “come una delle
capacità fondamentali da tenere in considerazione nella valutazione della
performance individuale del personale dirigenziale”. Da qui appare
sempre più chiaro l’approccio manageriale non più prettamente giuridico
all’organizzazione delle Pubbliche Amministrazione e utilizzo degli
strumenti.
Questo indirizzo è confermato anche da altre recenti mutamenti che non
attengono prettamente l’ambito della valutazione della performance ma
segnano una nuova epoca per l’Amministrazione Pubblica improntata non più su
adempimenti giuridici ma al raggiungimento dei risultati. Ne sono un esempio
il cd. Nuovo Codice degli Appalti il cui principio guida è il raggiungimento
del risultato o, ancora, le modalità di reclutamento del personale
dirigenziale affidate con cadenza annuale alla SNA in cui il futuro
Dirigente deve soddisfare dei requisiti sicuramente tecnici ma anche tutta
una serie di competenze come il problem solving, lo sviluppo dei
collaboratori, l’orientamento al risultato e la gestione delle relazioni
interne ed esterne tipicamente manageriali.
In questo quadro generale la Direttiva del 28 novembre sembra finalmente
fare propri gli indirizzi generali di riforma delle Amministrazioni
Pubbliche. Questione da monitorare rimane ancora l’assegnazione degli
obiettivi per i quali, sicuramente, andranno inseriti dei correttivi tali da
invertire la rotta rispetto alla consuetudine dell’autorefenzialità della
valutazione che si è diffusa (articolo NT+Diritto 19.01.2024). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Lavoro agile anche in deroga.
Per i fragili cede il principio di prevalenza della presenza. Lo chiarisce la direttiva firmata dal Ministro per la p.a., Paolo
Zangrillo, a fine anno.
Lavoro agile anche in deroga al principio di prevalenza del lavoro in
presenza per i dipendenti della p.a. considerati “fragili”.
E' quanto chiarisce la
direttiva 29.12.2023
firmata dal Ministro per la pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo (si
veda ItaliaOggi del 03.01.2024).
La direttiva intende essere un rimedio alla mancata ulteriore proroga del
diritto dei lavoratori fragili di essere collocati in lavoro agile, fissato
da ultimo dall'articolo 8 del dl 132/2023, convertito in legge 170/2023 e
scaduto il 31.12.2023.
Ma, si tratta di un rimedio solo formalmente tale. Infatti, sebbene Palazzo
Vidoni caldeggi l'agevolazione del lavoro agile per i fragili, il regime
normativo cambia radicalmente. Da un diritto soggettivo e pieno per i
fragili allo smart working, tale da non richiedere alcun genere di accordo
ma solo la verifica dell'effettiva sussistenza di una delle patologie
previste, si passa, invece, ad un diritto “a contrattare” lo smart working.
Una situazione non diversa, sul formale piano giuridico, rispetto a quella
di ogni altro dipendente della p.a..
La direttiva non cambia lo stato delle cose. Infatti, altro non fa se non
richiamare la disciplina normativa vigente, che lascia alla contrattazione
collettiva la disciplina dello smart working: una disciplina impostata sulla
necessità di un accordo individuale tra amministrazione datore di lavoro (e
dirigente competente) e singolo dipendente.
Nella sostanza, resta rimessa alla discrezionalità piena di ciascun
dirigente rilevare l'opportunità di sottoscrivere o meno un accordo col
lavoratore fragile. Come massimo effetto, la direttiva costituisce una sorta
di moral suasion, nonché una traccia di motivazione da poter introdurre nel Piao, ove va programmato il lavoro agile, e nei singoli accordi, per
favorire la “salvaguardia dei soggetti più esposti a situazioni di rischio
per la salute”.
La direttiva, indirettamente, chiude un problema aperto da molto tempo,
confermando indirettamente che il principio della prevalenza non è stato
affatto eliminato dalla contrattazione collettiva.
Le linee guida sul lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche del 30.11.2021 prevedono che i datori pubblici possano attivare lo smart
working in presenza di una serie di condizioni abilitanti. Tra questa, vi è
“l'adeguata rotazione del personale autorizzato alla prestazione di lavoro
agile, assicurando comunque la prevalenza per ciascun lavoratore del lavoro
in presenza”. Le medesime linee guida prevedono, però, che “con l'entrata in
vigore dei nuovi Ccnl, le presenti linee guida cessano la loro efficacia per
tutte le parti non compatibili con gli stessi”.
I Ccnl non prevedono espressamente la prevalenza della presenza. Ma, ciò non
basta. La cedevolezza delle linee guida del novembre 2021 rispetto ai Ccnl,
infatti, è condizionata alla non compatibilità della disciplina contrattuale
con le linee guida medesime. Ma, perché si possa evidenziare tale
incompatibilità sarebbe stato necessario che il Ccnl dettasse una regola
nuova e diversa e, quindi, come tale, incompatibile con quella delle Linee
Guida. I Ccnl, come detto, invece, non dicono nulla.
Al contrario, il dm Piao (decreto del ministro per la p.a. 30.06.2022, contenente il
regolamento attuativo del Piao) all'articolo 4 riproduce esattamente le
identiche condizioni abilitanti previste dalle linee guida: “la garanzia di
un'adeguata rotazione del personale che può prestare lavoro in modalità
agile, assicurando la prevalenza, per ciascun lavoratore, dell'esecuzione
della prestazione lavorativa in presenza”.
E' bene notare che il dm Piao non contiene alcuna “cedevolezza” del
principio di prevalenza della presenza una rispetto ad eventuali norme
incompatibili poste dalla contrattazione nazionale collettiva; il dm parla
di una generica “coerenza con la definizione degli istituti del lavoro agile
stabiliti dalla Contrattazione collettiva nazionale”.
Però, il Piao “deve prevedere” l'applicazione del criterio della prevalenza,
come indicato dall'articolo 4 del dm. Pertanto, la “coerenza” tra Piao e
contrattazione collettiva pare debba riguardare gli istituti giuslavoristici
trattati dal contratto, ma non quelli concernenti l'organizzazione, che,
infatti, non può essere materia contrattuale.
La direttiva, nell'affermare che per i fragili si può derogare alla
prevalente presenza, conferma la vigenza di tale principio per tutti gli
altri lavoratori
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2024). |
VARI:
Congedo, indennità quasi piena. Compresa la 13ª. Escluse le voci
variabili dello stipendio. I chiarimenti Inps sul trattamento nei casi di
assenza straordinaria per assistere disabili.
Il
congedo straordinario non taglia lo stipendio. Chi ne fruisce, infatti, ha
diritto a un'indennità corrispondente all'ultima retribuzione che è
precedente il congedo, relativa a tutte le voci fisse e continuative,
incluso il rateo di tredicesima mensilità, nonché delle altre eventuali
mensilità aggiuntive, gratifiche, indennità, premi, etc. Restano esclusi
solamente gli emolumenti variabili della retribuzione, quali, ad esempio,
quelli collegati alla presenza al lavoro.
Lo precisa l'Inps nel
messaggio 04.01.2024 n. 30 (Oggetto: Criteri di computo del
rateo della tredicesima e della quattordicesima mensilità nel calcolo
dell’indennità per il congedo straordinario di cui all’articolo 42, commi 5
e seguenti, del decreto legislativo n. 151/2001, in favore dei lavoratori
dipendenti del settore privato. Precisazioni), a seguito di richieste di
chiarimenti in merito ai criteri di calcolo del rateo di tredicesima e di
quattordicesima mensilità nell'indennità.
Il congedo straordinario
È un periodo di assenza dal lavoro, retribuito, concesso ai lavoratori
dipendenti per assistere i propri familiari con disabilità grave. Si può
chiedere fino a un massimo di due anni nell'arco della vita lavorativa (il
limite è complessivo, fra tutti gli aventi diritto, per ogni disabile).
L'indennità è (quasi) piena
L'indennità per congedo straordinario corrisponde alla retribuzione ricevuta
nell'ultimo mese di lavoro che precede il congedo, calcolata con riferimento
alle voci fisse e continuative, entro un limite massimo di reddito
rivalutato annualmente (si veda tabella).
L'indennità è anticipata dal
datore di lavoro, che la recupera tramite conguaglio con i contributi che
deve versare all'Inps. Ai sensi dell'art. 42 del dlgs n. 151 del 26.03.2001, spiega l'Inps, l'indennità è circoscritta ai soli compensi fissi e
continuativi, mentre sono esclusi gli eventuali elementi variabili della
retribuzione, come quelli collegati alla presenza.
La tredicesima
Riguardo all'inclusione nell'indennità della tredicesima, l'Inps precisa che
il fondamento è nel decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato n.
263/1946, che riconosce ai dipendenti statali «a titolo di gratificazione,
una tredicesima mensilità da corrispondersi alla data del 16 dicembre di
ogni anno …».
Tale gratificazione, spiega l'Inps, nel tempo ha assunto
diverse caratteristiche perché, oltre a essere emolumento fisso e ricorrente
(non è più legato a fattori eventuali, quali il merito) viene corrisposta in
un determinato periodo dell'anno a tutti i dipendenti pubblici e privati.
Peraltro, aggiunge l'Inps, anche la giurisprudenza (Consiglio di stato
sentenza n. 658 del 02/09/1987) ha affermato che la tredicesima costituisce
oggi un emolumento corrente fisso di natura non diversa dello stipendio e
corrisposta a fine anno a tutti gli impiegati indipendentemente dal merito.
Di conseguenza, conclude l'Inps, durante il congedo straordinario, il
richiedente ha diritto a un'indennità pari all'ultima retribuzione che
precede il congedo, riferita a tutte le voci, fisse e continuative (incluso
il rateo di tredicesima, nonché di altre mensilità aggiuntive, gratifiche,
indennità, premi, ecc.), esclusi gli emolumenti variabili della
retribuzione.
Il periodo di congedo, infine, è coperto da contributi
figurativi (utili per il diritto e la misura della pensione) e valido per
l'anzianità di servizio, ma non per la maturazione delle ferie (perché non
c'è stato lavoro), del trattamento di fine rapporto (perché si percepisce
un'indennità, non una retribuzione) e della stessa tredicesima (per evitarne
un doppio incasso: prima con l'indennità e poi da lavoratori)
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2024). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
portale del reclutamento scaricabile su smartphone.
InPa diventa un'app da cellulare. Il Portale del reclutamento, lo strumento
introdotto durante il pieno della pandemia da Covid-19 dedicato ai concorsi
pubblici e alla gestione delle assunzioni di profili professionali da parte
della pubblica amministrazione, sarà fruibile direttamente su smartphone.
Ieri, il ministro della Pa Paolo Zangrillo, ha illustrato le caratteristiche
della nuova applicazione, già scaricabile.
«Candidarsi per un concorso
pubblico non è mai stato così semplice. Già archiviate le domande cartacee,
le raccomandate e le file agli uffici postali grazie a InPa, il portale del
reclutamento della pubblica amministrazione diventa anche una app mobile
disponibile su Play Store e App Store»,
si legge sul sito del ministero.
«Una soluzione al passo con i tempi e che mette a disposizione di tutti,
gratuitamente e in modo capillare, anche la conoscenza e la ricerca delle
opportunità di lavoro pubblico anche attraverso lo smartphone», le parole di
Zangrillo.
Come funziona.
Dopo aver scaricato l'applicazione sullo smartphone, le
modalità di accesso dalla pagina iniziale sono due: come ospite o come
utente già registrato. Usando l'autenticazione digitale si accede all'area
dedicata da cui visualizzare la mappa delle offerte. Nell'area personale è
possibile vedere e candidarsi per le diverse offerte di lavoro presenti che,
tramite una mappa interattiva, possono essere visualizzate regione per
regione e provincia per provincia.
I numeri del portale.
Dal ministero arrivano anche alcuni dati sul
funzionamento di InPa.
I bandi di concorso e gli avvisi di ricerca di
professionisti ed esperti pubblicati sulla piattaforma on-line sono più di
13 mila. Ad oggi, il portale raccoglie oltre 7 milioni di profili
professionali, «anche in virtù delle intese firmate con il mondo delle
professioni, ordinistiche e non ordinistiche, ed estende il suo perimetro di
ricerca alla platea dei 16 milioni di iscritti a LinkedIn Italia», fanno
sapere dal ministero.
«Un numero che, in questa fase di incremento
straordinario dei reclutamenti, è destinato a crescere ancora proprio grazie
alla nuova app»
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2024). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sullo
smart working nella p.a. parola ai dirigenti.
Zangrillo: largo agli accordi individuali per garantire il lavoro agile ai
soggetti fragili.
DIRETTIVA DEL MINISTRO DOPO LA MANCATA PROROGA. I
SINDACATI: UNA PEZZA A COLORI.
Per lo smart
working nella p.a. la parola passa ai dirigenti. Dopo la mancata proroga del
lavoro agile emergenziale per gli statali, non inserita nel testo definitivo
del decreto legge Milleproroghe in Gazzetta Ufficiale (d.l. 30.12.2023 n. 215 pubblicato lo stesso giorno sulla G.U n. 303), il pubblico
impiego si organizza per gestire il passaggio dallo smart working pandemico
a quello a regime che ha trovato regolamentazione negli ultimi contratti
collettivi (triennio 2019-2021).
A indicare la strada è la
direttiva 29.12.2023
firmata dal ministro della Funzione Pubblica Paolo Zangrillo all'indomani
della mancata proroga che, accusano i sindacati, pone gli statali in una
condizione di sfavore rispetto ai lavoratori del settore privato a cui,
invece, la legge di conversione del dl Anticipi (dl 145/2023) ha
riconosciuto per lavoratori fragili e genitori di figli under 14 un
allungamento del lavoro da remoto emergenziale fino al 31.03.2024.
Nella direttiva, Zangrillo osserva come l'ormai superata emergenza pandemica
(dichiarata conclusa dall'Organizzazione mondiale della sanità il 05.05.2023) abbia decretato il passaggio dello
smart working da strumento
emergenziale alla “sua reale natura di strumento organizzativo” che per
forza di cose non può prescindere, per ciascun lavoratore, da un accordo
individuale, sottoscritto con il dirigente/capo struttura, in cui mettere
nero su bianco “obiettivi e modalità ad personam dello svolgimento della
prestazione lavorativa”.
“Il quadro odierno, connotato da una disciplina contrattuale collettiva
ormai consolidata e dalla padronanza, da parte delle amministrazioni, dello
strumento del lavoro agile come volano di flessibilità orientato alla
produttività ed alle esigenze dei lavoratori”, ha spiegato il ministro, “ha
fatto ritenere superata l'esigenza di prorogare ulteriormente i termini di
legge che stabilivano l'obbligatorietà del lavoro agile per i lavoratori che
solo nel contesto pandemico sono stati individuati quali destinatari di una
specifica tutela”.
Il riferimento è ai genitori di figli under 14, a cui lo smart working emergenziale consentiva durante la pandemia “di poter
sopperire alla necessaria e temporanea chiusura degli asili e delle
istituzioni scolastiche”, e ai lavoratori “fragili”, per i quali è stato
previsto lo svolgimento obbligatorio della prestazione lavorativa da remoto.
Ora tutto si azzera, ma, ha chiarito palazzo Vidoni, la tutela dei fragili
nella p.a. non deve certo considerarsi cessata con la mancata proroga dello
smart working.
“Si ritiene necessario evidenziare la necessità di garantire,
ai lavoratori che documentino gravi, urgenti e non altrimenti conciliabili
situazioni di salute, personali e familiari, di svolgere la prestazione
lavorativa in modalità agile, anche derogando al criterio della prevalenza
dello svolgimento della prestazione lavorativa in presenza”, si legge nella
direttiva che affida, dunque, agli accordi individuali e ai dirigenti che
dovranno firmarli il compito di “individuare le misure organizzative
necessarie”.
Sindacati insoddisfatti
La direttiva di Zangrillo non soddisfa però i sindacati. “E' vergognosa la
pezza a colori messa dal governo con questa direttiva”, tuona Rita
Longobardi, Segretario Nazionale Uil Fpl. “La tutela della salute va
garantita a tutti gli individui senza distinzioni. Gli approcci
differenziati definiscono di fatto discriminazioni tra lavoratori di serie A
nel privato, rispetto a quelli di serie B, nel pubblico impiego. Il diritto
alla salute è unico e non si può contrattare o lasciare alla discrezionalità
dei singoli datori di lavoro” (articolo ItaliaOggi del 03.01.2024). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sui requisiti legittimanti l'adozione dell'ordinanza
sindacale contingibile e urgente.
In punto di diritto, occorre rammentare che l'art. 54
(Attribuzioni del Sindaco nelle funzioni di competenza
statale), comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 prevede che: "Il
Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto
motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel
rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di
prevenire o di eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana".
Spetta, quindi, al Sindaco valutare l'esistenza di una
situazione di grave pericolo, vale a dire il rischio
concreto di un danno grave e imminente per l'incolumità
pubblica e la sicurezza urbana; la valutazione, di carattere
eminentemente tecnico, va compiuta sulla base di pareri
acquisiti ed accertamenti tecnico-scientifici effettuati in
sede istruttoria, di cui si deve dar conto nella motivazione
del provvedimento.
Invero, "il potere di ordinanza, inoltre, presuppone
necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di
pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere
suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione,
e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione
dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la
possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la
configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale
tipologia provvedimentale".
L'esito di tali accertamenti tecnico-scientifici deve
condurre con sufficiente grado di attendibilità a ravvisare
come sussistente un nesso causale tra la situazione fattuale
come riscontrata e una possibile lesione della pubblica
incolumità, non potendosi richiedere, per l'urgenza che
connota il momento, che si pervenga ad un giudizio di
certezza della derivazione causale degli eventi.
Secondo costante giurisprudenza, le ordinanze contingibili e
urgenti sono, invero, rivolte alla disciplina del caso
concreto e sono connotate da atipicità: la fonte primaria
non disciplina in maniera specifica né i presupposti di
applicazione di tali provvedimenti, facendosi riferimento
genericamente alla necessità, urgenza e contingibilità, la
cui individuazione concreta compete all'autorità
amministrativa deputata, né tanto meno il contenuto, che può
estrinsecarsi in una serie di provvedimenti che si rivelino
idonei a fronteggiare quella determinata situazione.
È indubbio, tuttavia, che il fondamento del potere di
ordinanza debba comunque essere identificato nella legge,
non potendo esso risiedere nella necessità in sé. Le
ordinanze di necessità e urgenza, quali espressione di un
potere amministrativo extra ordinem, volto a fronteggiare
situazioni di urgente necessità, laddove all'uopo si
rivelino inutili gli strumenti ordinari posti a disposizione
dal legislatore, presuppongono necessariamente situazioni
non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui
sussistenza deve essere suffragata da un'istruttoria
adeguata e da una congrua motivazione, tali da giustificare
la deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi.
Sul tema, la giurisprudenza ha unanimemente osservato che "i
presupposti per l'adozione dell'ordinanza contingibile e
urgente risiedono
- nella sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la
pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i
mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché
- nella provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti,
- nella proporzionalità del provvedimento,
non essendo pertanto possibile adottare ordinanze
contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni
prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di
provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in
essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica
incolumità".
In altri termini, "il potere di urgenza, di cui agli artt.
50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 18.08.2000, può essere
esercitato solo rispetto a circostanze di carattere
eccezionale e imprevisto, costituenti un'effettiva minaccia
per la pubblica incolumità, e unicamente in presenza di un
preventivo accertamento delle condizioni concrete, fondato
su prove empiriche e non su mere presunzioni. Tali
presupposti non ricorrono laddove il Sindaco possa far
fronte alla situazione con rimedi di carattere corrente
nell'esercizio ordinario dei suoi poteri".
In linea di principio, le ordinanze contingibili e urgenti
possono quindi essere adottate al ricorrere di due
presupposti: l'inutilizzabilità di mezzi ordinari di
intervento e la necessità di contrastare una minaccia per
l'incolumità pubblica o la sicurezza urbana.
Si osserva che, ai sensi della citata previsione, anche il
riscontro di uno stato dei luoghi che potrebbe divenire
potenzialmente pericoloso per l'incolumità pubblica può
legittimare il ricorso al potere extra ordinem da parte del
Sindaco, non essendo necessario attendere l'attualizzarsi
della minaccia.
Difatti, la potenzialità di un pericolo grave per
l'incolumità pubblica è sufficiente a giustificare il
ricorso all'ordinanza contingibile e urgente, anche qualora
essa sia nota da tempo o "si protragga per un lungo periodo
senza cagionare il fatto temuto, posto che il ritardo
nell'agire potrebbe sempre aggravare la situazione, nonché
persino allorquando il pericolo stesso non sia imminente,
sussistendo, comunque, una ragionevole probabilità che possa
divenirlo, ove non si intervenga prontamente in seguito al
riscontrato deterioramento dello stato dei luoghi".
Le misure adottate devono, infine, garantire il corretto
bilanciamento degli interessi che vengono in rilievo ed
essere rispettose del principio di proporzionalità e
risultare coerenti con il livello di attendibilità del
giudizio causale e, dall’altro, non eccedere quanto sia
opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato.
---------------
Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato,
l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente non può
essere impiegato per conferire un assetto stabile e
definitivo agli interessi coinvolti, essendo quindi compito
dell’amministrazione individuare nel tempo soluzioni che
consentano l’eliminazione delle cause che avevano
determinato l’evento franoso in questione, ripristinando le
condizioni di sicurezza.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza contingibile e urgente
del Sindaco del Comune di Capri n. 52 del 31.08.2020, avente
a oggetto: “evento franoso in via Grotta delle Felci del
12.08.2020. Provvedimento a tutela della pubblica incolumità
– sgombero immediato immobili in via Grotta delle Felci e in
via Prov. Marina Piccola” e di ogni altro atto
presupposto, connesso o consequenziale e in ogni caso lesivo
degli interessi dei ricorrenti.
...
Il ricorso è fondato.
In punto di diritto, occorre rammentare che l'art. 54
(Attribuzioni del Sindaco nelle funzioni di competenza
statale), comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 prevede che:
"Il Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto
motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel
rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di
prevenire o di eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana".
Spetta, quindi, al Sindaco valutare l'esistenza di una
situazione di grave pericolo, vale a dire il rischio
concreto di un danno grave e imminente per l'incolumità
pubblica e la sicurezza urbana; la valutazione, di carattere
eminentemente tecnico, va compiuta sulla base di pareri
acquisiti ed accertamenti tecnico-scientifici effettuati in
sede istruttoria, di cui si deve dar conto nella motivazione
del provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. V, 02.10.2020 n.
5780; V, 29.05.2019 n. 3580, secondo cui: "il potere di
ordinanza, inoltre, presuppone necessariamente situazioni
non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui
sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e
da congrua motivazione, e in ragione di tali situazioni si
giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli
atti amministrativi e la possibilità di derogare alla
disciplina vigente, stante la configurazione residuale,
quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale";
cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 21.02.2017 n. 774;
22.03.2016 n. 1189; 25.05.2015 n. 2967; 05.09.2015 n. 4499).
L'esito di tali accertamenti tecnico-scientifici deve
condurre con sufficiente grado di attendibilità a ravvisare
come sussistente un nesso causale tra la situazione fattuale
come riscontrata e una possibile lesione della pubblica
incolumità, non potendosi richiedere, per l'urgenza che
connota il momento, che si pervenga ad un giudizio di
certezza della derivazione causale degli eventi.
Secondo costante giurisprudenza, le ordinanze contingibili e
urgenti sono, invero, rivolte alla disciplina del caso
concreto e sono connotate da atipicità: la fonte primaria
non disciplina in maniera specifica né i presupposti di
applicazione di tali provvedimenti, facendosi riferimento
genericamente alla necessità, urgenza e contingibilità, la
cui individuazione concreta compete all'autorità
amministrativa deputata, né tanto meno il contenuto, che può
estrinsecarsi in una serie di provvedimenti che si rivelino
idonei a fronteggiare quella determinata situazione.
È indubbio, tuttavia, che il fondamento del potere di
ordinanza debba comunque essere identificato nella legge,
non potendo esso risiedere nella necessità in sé. Le
ordinanze di necessità e urgenza, quali espressione di un
potere amministrativo extra ordinem, volto a
fronteggiare situazioni di urgente necessità, laddove
all'uopo si rivelino inutili gli strumenti ordinari posti a
disposizione dal legislatore, presuppongono necessariamente
situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo,
la cui sussistenza deve essere suffragata da un'istruttoria
adeguata e da una congrua motivazione, tali da giustificare
la deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi.
Sul tema, la giurisprudenza ha unanimemente osservato che "i
presupposti per l'adozione dell'ordinanza contingibile e
urgente risiedono nella sussistenza di un pericolo
irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non
altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati
dall'ordinamento, nonché nella provvisorietà e la
temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità del
provvedimento, non essendo pertanto possibile adottare
ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni
prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di
provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in
essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica
incolumità" (cfr. Cons. Stato, II, 11.07.2020, n. 4474;
conforme, III, 29.05.2015, n. 2697).
In altri termini, "il potere di urgenza, di cui agli artt.
50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 18.08.2000, può essere
esercitato solo rispetto a circostanze di carattere
eccezionale e imprevisto, costituenti un'effettiva minaccia
per la pubblica incolumità, e unicamente in presenza di un
preventivo accertamento delle condizioni concrete, fondato
su prove empiriche e non su mere presunzioni. Tali
presupposti non ricorrono laddove il Sindaco possa far
fronte alla situazione con rimedi di carattere corrente
nell'esercizio ordinario dei suoi poteri (si veda, sul
punto, Cons. Stato, II, 11.07.2020, n. 4474)" (Consiglio
di Stato, Sez. V, n. 9846/2022).
In linea di principio, le ordinanze contingibili e urgenti
possono quindi essere adottate al ricorrere di due
presupposti: l'inutilizzabilità di mezzi ordinari di
intervento e la necessità di contrastare una minaccia per
l'incolumità pubblica o la sicurezza urbana.
Si osserva che, ai sensi della citata previsione, anche il
riscontro di uno stato dei luoghi che potrebbe divenire
potenzialmente pericoloso per l'incolumità pubblica può
legittimare il ricorso al potere extra ordinem da
parte del Sindaco, non essendo necessario attendere
l'attualizzarsi della minaccia. Difatti, la potenzialità di
un pericolo grave per l'incolumità pubblica è sufficiente a
giustificare il ricorso all'ordinanza contingibile e
urgente, anche qualora essa sia nota da tempo o "si
protragga per un lungo periodo senza cagionare il fatto
temuto, posto che il ritardo nell'agire potrebbe sempre
aggravare la situazione, nonché persino allorquando il
pericolo stesso non sia imminente, sussistendo, comunque,
una ragionevole probabilità che possa divenirlo, ove non si
intervenga prontamente in seguito al riscontrato
deterioramento dello stato dei luoghi" (TAR Lazio, Roma,
n. 5237/2019).
Le misure adottate devono, infine, garantire il corretto
bilanciamento degli interessi che vengono in rilievo ed
essere rispettose del principio di proporzionalità
(Consiglio di Stato, Sez. III, n. 7366/2021) e risultare
coerenti con il livello di attendibilità del giudizio
causale e, dall’altro, non eccedere quanto sia opportuno e
necessario per conseguire lo scopo prefissato.
Nel caso di specie, dalla mera lettura dell’ordinanza
sindacale emerge chiaramente che la situazione incisa dai
provvedimenti si protrae da anni ed era perciò perfettamente
nota all'amministrazione (che fa riferimento alla
conformazione geomorfologica dei luoghi), la quale dunque
ben avrebbe potuto -e perciò dovuto- farvi fronte con i
mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento.
Nel caso in esame, il Comune non ha valutato che la
risalenza della condizione di pericolo e le origini della
sua causazione, come descritte nel medesimo provvedimento
impugnato (che riporta l’esito di accertamenti svolti fin
dal 2007 dal Centro di Geotecnologie dell’Università degli
Studi di Siena, su incarico dell’Autorità di Bacino
Regionale circa l’esistenza di un livello di instabilità
dell’intero versante e la necessità di procedere ad
interventi di mitigazione del rischio con opere di bonifica
e di difesa), non avrebbero giustificato l'emanazione di
un'ordinanza contingibile e urgente, inidonea, per quanto
sopra detto, ad incidere sulle cause del dissesto, ma
avrebbero imposto invece, interventi ben più incisivi,
estesi e conclusivi, a carico soprattutto degli enti
pubblici interessati, questioni, queste ultime, che
ridondano sul piano della stretta necessità, proporzionalità
ed adeguatezza della misura imposta.
In altri termini, il Comune non ha dato conto delle ragioni
per le quali, pur a fronte di un fenomeno noto e monitorato,
risalente a diversi anni addietro e per il quale erano state
svolte attività di rilevamento geologico, geomorfologico,
geostrutturale e geomeccanico (cfr. ordinanza impugnata) che
attestavano le condizioni di rischio per la pubblica
incolumità, abbia insistito con lo strumento extra
ordinem.
Si palesa, quindi, ingiustificata la protrazione dello
strumento extra ordinem che, nella prospettazione
dell’amministrazione, andava disposta “nelle more della
definizione della problematica mediante la definitiva messa
in sicurezza del costone di cui trattasi”, a sua volta
avviata dalle amministrazioni nel 2007 e mai conclusa.
Concludendo, sebbene sia innegabile che lo stato
emergenziale nelle cui more è intervenuta l’ordinanza
sindacale de qua facoltizzava l'emanazione di atti
extra ordinem al fine di scongiurare il pericolo per
l’incolumità pubblica derivante dal ripetersi degli eventi
franosi, l'ente locale non poteva esimersi dalla concreta
adozione delle necessarie opere di messa in sicurezza del
costone roccioso intervenendo sulla mitigazione e rimozione
delle cause della situazione di rischio, anziché limitarsi a
reiterare il contenuto di provvedimenti extra ordinem
adottati più di dieci anni prima.
Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato,
infatti, l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente
non può essere impiegato per conferire un assetto stabile e
definitivo agli interessi coinvolti (Consiglio di Stato,
Sez. V, n. 6875/2021), essendo quindi compito
dell’amministrazione individuare nel tempo soluzioni che
consentano l’eliminazione delle cause che avevano
determinato l’evento franoso in questione, ripristinando le
condizioni di sicurezza.
Ritenuto, in definitiva, che le sopraindicate evidenze
inficino la legittimità dell'ordinanza contingibile e
urgente così come emanata dal Comune, deve concludersi per
la fondatezza del gravame, con il conseguente annullamento
della impugnata ordinanza, fatti salvi i successivi
provvedimenti dell'amministrazione comunale, restando quest’ultima
obbligata a porre in essere i provvedimenti di sua
competenza per l'eliminazione del rischio diffuso e
accertato (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 18.01.2024 n. 487 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Corte Ue, illegittimo lo stop alla monetizzazione delle ferie
nella Pa.
Le esigenze di finanza pubblica non possono travolgere alcuni diritti dei
lavoratori.
Le esigenze di finanza pubblica non possono travolgere alcuni diritti dei
lavoratori, come l’indennità sostitutiva per ferie non godute.
Con
l’affermazione di questo principio, la Corte di giustizia europea (sentenza
18.01.2024 - C-218/22) chiude una vicenda che interessa direttamente il nostro
Paese, in quanto relativa a oggetto una norma italiana.
La questione nasce
dalla controversia promossa da un ex dipendente comunale che, nel 2016, si è
dimesso ed è andato in pensione.
Al momento della cessazione del rapporto
di lavoro, ha chiesto al Comune presso cui lavorava il pagamento di 79
giorni
di ferie accumulati e non goduti. Il Comune ha respinto la richiesta,
invocando l'articolo 5 del Dl 95/2012. Tale normativa, ispirata a esigenze
di
contenimento della spesa pubblica, nega il diritto al pagamento di
un'indennità finanziaria in luogo dei giorni non goduti di ferie annuali
retribuite, quando finisce il rapporto di lavoro nel settore pubblico
(analogo
principio non esiste nel lavoro privato dove l'indennità è dovuta, salvo i
casi
in cui la mancata fruizione delle ferie sia ascrivibile a esclusiva
responsabilità del dipendente).
Il giudice chiamato a decidere la
controversia
in Italia non era, tuttavia, convinto della compatibilità di questa norma
con il diritto comunitario, tanto che ha rinviato
la questione della Corte di giustizia.
Il profilo su cui è stato sollevato
il dubbio riguarda, in particolare, la compatibilità
della legislazione italiana con la direttiva comunitaria 2003/1988 sull'orario
di lavoro, secondo la quale un lavoratore
che non abbia potuto fruire di tutte le ferie annuali retribuite prima della
cessazione del rapporto ha diritto a
un'indennità finanziaria per i giorni non goduti; una direttiva che non
sembra fare eccezioni tra settore pubblico e
privato, su questo tema.
Il dubbio del giudice italiano è confermato dalla
Corte Ue, che ha dichiarato l'incompatibilità
con il diritto comunitario di una normativa nazionale che vieta di versare
al dipendente un'indennità finanziaria per i
giorni non goduti di ferie annuali retribuite qualora tale dipendente ponga
fine volontariamente al rapporto di lavoro.
Questo contrasto, precisa la Corte, non si può giustificate con
considerazioni puramente economiche, quali il
contenimento della spesa pubblica, perché la direttiva sull'orario di lavoro
ha lo scopo di tutelare il diritto dei
lavoratori alle ferie annuali retribuite (di cui fa parte anche il diritto
al pagamento di un'indennità finanziaria, quando
non sia stato possibile fruirle). La direttiva tutela, sempre secondo la
Corte, il diritto-dovere del lavoratore di riposarsi
e, in questa prospettiva, lo incentiva a fruire dei suoi giorni di ferie:
questo diritto deve essere attuato anche dal
datore di lavoro pubblico, che deve programmare in modo razionale e coerente
con le proprie esigenze
organizzative la fruizione delle ferie.
Pertanto, conclude la Corte, il
diritto al pagamento dell'indennità sostitutiva delle
ferie si può escludere solo nel caso in cui il lavoratore si sia astenuto
dal fruire dei suoi giorni di ferie
deliberatamente. Astensione che deve seguire a un esplicito invito del
datore di lavoro, accompagnato dall'informativa circa il rischio di perdere
tali giorni alla fine di un periodo predefinito.
La Corte rinvia quindi al
giudice nazionale il compito di fare verifica: se il
Comune non dimostra di aver esercitato tutta la diligenza necessaria
affinché il lavoratore fosse effettivamente in
condizione di fruire dei giorni di ferie annuali ai quali aveva diritto,
dovrà essere pagata l'indennità economica
sostitutiva dei giorni non goduti.
Nella decisione C-218/2022 si fa
riferimento alla sentenza 95/2016 della Corte
costituzionale, relativa al Dl 95/2012 e quest'ultima a sua volta richiama
la sentenza 286/2013 della Consulta stessa,
in cui si legge che nella prassi amministrativa si è imposta
un'interpretazione volta ad escludere dalla sfera di
applicazione del divieto posto dall'articolo 5 del Dl 95/2012 «i casi di
cessazione dal servizio in cui l'impossibilità di
fruire le ferie non è imputabile o riconducibile al dipendente» (parere
40033/2012 del Dipartimento della funzione
pubblica). Ma a quanto pare tale interpretazione non è diventata la regola (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 19.01.2024).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:
L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 04.11.2003, concernente taluni
aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31,
paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono
essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, per
ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze
organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di versare
al lavoratore un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali
retribuite maturati sia nell’ultimo anno di impiego sia negli anni
precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro,
qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto di lavoro e non
abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto
di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La Pa non può negare l’indennizzo per le ferie non godute per i
limiti di spesa pubblica.
Anche in caso di dimissioni volontarie il diritto può essere escluso solo se
il datore di lavoro pubblico dimostra di aver sollecitato la fruizione e
informato delle conseguenze il lavoratore.
In caso di dimissioni volontarie del dipendente la pubblica amministrazione
non può negare validamente, per ragioni attinenti al contenimento della
spesa pubblica, l’indennità finanziaria corrrispondente ai giorni di ferie
annuali retribuite non godute sia nell’ultimo anno che in quelli precedenti.
Ma a tal fine la il datore pubblico può dimostrare di aver informato
compiutamente il lavoratore del rischio di perdere tale diritto. Non è
quindi legittima, in base al diritto Ue, la legge italiana dove non prevede
alcun obbligo informativo della Pa e la prova che la mancata fruizione sia
frutto di una scelta volontaria del dipendente correttamente informato della
conseeguenza di perdere l’indennità.
Con la
sentenza
18.01.2024 - C-218/22 la Corte
di giustizia Ue ha invece capovolto l’onere probatorio che può
legittimamente escludere il diritto all’indennità ponendolo a carico del
datore di lavoro pubblico che dovrà dimostrare di aver adottato tutta la
necessaria diligenza nell’informare e sollecitare il lavoratore alla
corretta fruizione delle ferie annuali rappresentando il rischio di una
perdita secca del diritto a causa della possibile mancata indennizzazione.
Infatti, in base alle norme Ue il lavoratore che non abbia potuto fruire di
tutti i giorni di ferie annuali retribuite prima delle dimissioni ha diritto
a un’indennità finanziaria.
Il caso a quo italiano
Un dipendente pubblico ha ricoperto, da febbraio 1992 a ottobre 2016, la
carica di istruttore direttivo presso un Comune. Ha poi rassegnato le
dimissioni per accedere alla pensione anticipata, chiedendo il versamento di
un’indennità finanziaria per i 79 giorni di ferie annuali retribuite non
goduti nel corso del rapporto di lavoro.
Il Comune, richiamandosi alla norma
prevista dalla legislazione italiana secondo la quale i lavoratori del
settore pubblico non hanno in “nessun” caso diritto a un’indennità
finanziaria in luogo dei giorni di ferie annuali retribuite non goduti al
momento della cessazione del rapporto di lavoro, ha contestato tale domanda.
Il rinvio pregiudiziale
Il giudice italiano investito della controversia tra il dipendente pubblico
e il Comune ha sottoposto alla Cgue i propri dubbi sulla compatibilità di
tale norma con il diritto dell’Unione, in quanto la direttiva «orario di
lavoro» afferma il diritto del lavoratore, che abbia accumulato ferie
annuali retribuite non fruite al momento della cessazione del rapporto di
lavoro, a ricevere un’indennità finanziaria per tali giorni.
L’interpretazione della Cgue
La Corte Ue ha di fatto confermato che il diritto dell’Unione osta a una
normativa nazionale che vieti di versare al lavoratore la suddetta indennità
nel caso in cui egli ponga fine volontariamente al rapporto di lavoro.
A giustificare una siffatta normativa non basta la finalità del contenimento
della spesa pubblica asseritamente perseguito dal Legislatore nazionale.
Cioè il diritto riconosciuto dall’Unione europea non può essere compresso e
negato in base a considerazioni puramente economiche. La Corte anzi rileva
che l’obiettivo connesso alle esigenze organizzative del datore di lavoro
pubblico per la razionale programmazione del periodo di ferie risponde in
realtà alla finalità della direttiva, consistente nel consentire al
lavoratore di riposarsi, incentivandolo così a fruire dei suoi giorni di
ferie.
La Corte conclude pertanto che solo nel caso in cui il lavoratore si sia
astenuto dal fruire dei suoi giorni di ferie deliberatamente, sebbene il
datore di lavoro lo abbia invitato a farlo, informandolo del rischio di
perdere tali giorni alla fine di un periodo di riferimento o di riporto
autorizzato, il diritto dell’Unione non osta alla perdita di tale diritto.
Ne consegue che, qualora il datore di lavoro non sia in grado di dimostrare
di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore
fosse effettivamente in condizione di fruire dei giorni di ferie annuali
retribuite ai quali aveva diritto, circostanza la cui verifica spetta al
giudice del rinvio, si deve ritenere che l’estinzione del diritto a tali
ferie alla fine del periodo di riferimento o di riporto autorizzato e, in
caso di cessazione del rapporto di lavoro, il correlato mancato versamento
di un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti
costituiscano una violazione, rispettivamente, dell’articolo 7, paragrafi 1
e 2, della direttiva 2003/88, nonché dell’articolo 31, paragrafo 2, della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (articolo NT+Diritto del 18.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
In riscontro alla censura per cui “da parte del
Comune avrebbe dovuto essere accertata la possibilità di
assentire in sanatoria quanto si assume realizzato sine
titulo”, la giurisprudenza ha puntualmente osservato che
l’amministrazione non è tenuta a valutare d’ufficio la
sanabilità dell’opera prima dell’adozione dell’ordine di
demolizione.
Peraltro, la presentazione di un’istanza di sanatoria non
determina né l’illegittimità né l’inefficacia definitiva del
pregresso ordine di demolizione, ma una mera sospensione
dell’efficacia temporanea che viene meno in caso di rigetto
dell’istanza.
E’ stato, infatti, superato il più risalente indirizzo
giurisprudenziale che, sul presupposto dell’inefficacia
definitiva della precedente ordinanza determinata
dall’istanza di sanatoria, imponeva all’amministrazione, in
caso di diniego di sanatoria, l’adozione di una nuova
ordinanza di demolizione.
---------------
9.2 Le censure sono prive di fondamento.
9.3 Contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il
giudice di primo grado non è incorso in alcun travisamento
dei motivi di ricorso, ritenendo erroneamente che essi
sottendessero un preteso avvio d’ufficio del procedimento di
sanatoria, ma li ha correttamente esaminati e respinti sulla
base della documentazione in atti.
9.4 Con il ricorso di primo grado, infatti, il ricorrente ha
lamentato l’illegittimità dell’ordinanza impugnata con
riferimento non solo al soppalco (terzo motivo di
ricorso) che è stato oggetto della sanatoria n. 29/08, ma
anche agli interventi contestati ai n.ri 2, 3, 4
dell’ordinanza medesima (quarto motivo di ricorso)
per i quali, invece, l’istanza di sanatoria è stata
respinta.
9.5 Si legge, in particolare, nel quarto motivo di ricorso
che “Quanto ai manufatti indicati sub 2), 3) e 4)
dell'ordinanza n. 23 del 15.06.2005, non solo a quello sub
1, è da evidenziare che, prima di ingiungersi la
demolizione, avrebbe dovuto essere accertata la possibilità
di assentire in sanatoria quanto si assume realizzato sine
titulo. Tale accertamento è illegittimamente mancato nel
caso di specie, accertamento che se compiuto avrebbe dato
esito positivo. Quanto al soppalco di cui al punto 1) è da
aggiungere che il ricorrente, con istanza in data
22.09.2005, ha presentato denunzia delle opere eseguite ed
accertamento di conformità delle stesse ai sensi dell'art.
36 D.P.R. 380/2001”.
9.6 Il TAR, nell’esaminare il motivo di ricorso, ha respinto
la censura rilevando che “non può ritenersi, come fa il
ricorrente, che il Comune avrebbe dovuto accertarsi, prima
di procedere alla demolizione, della possibilità di
assentire in sanatoria i manufatti indicati ai punti n. 2),
3) e 4) dell’ordinanza impugnata ….e ciò in quanto il
procedimento di conformazione edilizia presuppone l’istanza
dell’interessato e non può essere attivato d’ufficio….;
nella specie, peraltro, l’istanza di sanatoria risulta
presentata in data 30 settembre 2005, ovvero dopo che il
Comune aveva già emesso l’ingiunzione alla demolizione”.
9.7 La semplice lettura del capo di motivazione sopra
riportato evidenzia l’infondatezza della censura relativa
all’errata interpretazione del motivo di ricorso da parte
del giudice di primo grado e all’omessa considerazione delle
istanze di sanatoria presentate dal ricorrente.
9.8 In riscontro alla censura per cui “avrebbe dovuto
essere accertata la possibilità di assentire in sanatoria
quanto si assume realizzato sine titulo”, il TAR ha
puntualmente osservato che l’amministrazione non è tenuta a
valutare d’ufficio la sanabilità dell’opera prima
dell’adozione dell’ordine di demolizione e ha precisato che
l’istanza di sanatoria per le opere di cui ai punti 2), 3) e
4) dell’ordinanza è stata presentata dall’interessato in
data 30.09.2005, ovvero dopo l’emissione dell’ingiunzione
alla demolizione, circostanza evidentemente ostativa al suo
esame prima della suddetta emissione, come preteso
dall’appellante.
9.9 Sotto diverso e concorrente profilo giova osservare,
peraltro, che la presentazione di un’istanza di sanatoria
non determina né l’illegittimità né l’inefficacia definitiva
del pregresso ordine di demolizione, ma una mera sospensione
dell’efficacia temporanea che viene meno in caso di rigetto
dell’istanza (cfr., ex multis, Consiglio di Stato,
Sez. VI, 06.06.2018, n. 3417; Consiglio di Stato, Sez. VI,
28.09.2020, n. 5669; Consiglio di Stato, Sez. VI,
27.09.2022, n. 8320), come accaduto nel caso di specie in
cui l’istanza di sanatoria del 30.09.2005 per le opere
indicate ai punti n. 2), 3) e 4) dell’ordinanza n. 23/05 è
stata respinta con provvedimento definitivo prot. n. 14803
del 06.11.2008 (doc. 3 allegato alla relazione istruttoria
del comune).
9.10 E’ stato, infatti, superato il più risalente indirizzo
giurisprudenziale invocato dall’appellante (pag. 9
dell’appello) che, sul presupposto dell’inefficacia
definitiva della precedente ordinanza determinata
dall’istanza di sanatoria, imponeva all’amministrazione, in
caso di diniego di sanatoria, l’adozione di una nuova
ordinanza di demolizione (Consiglio di Stato, Sez. VII,
sentenza 12.01.2024 n. 401 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Offerte tecniche identiche: esclusione per unicità del centro
decisionale.
Nota a Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.01.2024 n. 353.
La disposizione che prevede l’esclusione dei concorrenti al verificarsi
della fattispecie di unicità del centro decisionale, mira a tutelare il
principio della segretezza delle offerte presentate in gara (e dunque del
divieto di reciproco condizionamento).
La stazione appaltante è tenuta a verificare la sussistenza di tale
fattispecie senza però dover anche dimostrare la concreta idoneità ad
alterare il libero gioco concorrenziale ciò, in quanto, la riconducibilità
di due o più offerte a un unico centro decisionale costituisce ex se
elemento idoneo a violare i generali principi in tema di par condicio,
segretezza e trasparenza delle offerte.
Tale fattispecie va dimostrata su due piani: il piano formale, attraverso
una analisi strutturale delle relazioni societarie o personali intercorrenti
tra due o più operatori; il piano sostanziale, sussidiario al primo,
attraverso un attento confronto contenutistico tra due (o più) offerte
presentate dagli operatori in gara.
I fatti di causa
La vicenda nasce a seguito di una gara di appalto per la sistemazione e il
ripristino di un torrente.
Partecipava all’appalto una società che veniva tuttavia esclusa sia per
mancata presentazione di alcuni documenti (Organizzazione del personale e
progetto migliorie) sia perché aveva formulato un’offerta tecnica del tutto
sovrapponibile rispetto alle altre due offerte presentate da altre due
società.
Di qui l’ipotesi di sostanziale unicità del centro decisionale che per
l’appunto, ai sensi dell’art. 80 del decreto legislativo n. 50 del 2016
(c.d. vecchio codice dei contratti pubblici), comporta l’esclusione dalla
gara.
La Stazione appaltante procedeva con rituale comunicazione ad ANAC di
siffatta esclusione.
Avverso tale provvedimento veniva proposto ricorso innanzi al TAR, in
quanto, a detta della ricorrente, lo stesso sarebbe stato viziato da
incompetenza poiché disposto dal RUP senza che fosse stata previamente
nominata la commissione di gara generando così una sorta di avocazione delle
competenze “valutative” riservate alla sola commissione giudicatrice.
Inoltre, la stazione appaltante non ha inteso sanare la carenza documentale
rilevata non attivando il “soccorso istruttorio procedimentale”.
Il TAR respingeva il ricorso e la società, pertanto, proponeva appello.
La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato ritiene infondato l’appello per le ragioni di seguito
indicate.
Difatti, a detta del Collegio, avendo riguardo a quanto previsto dal
disciplinare di gara, appare chiara la distinzione tra i compiti del “soggetto deputato all’espletamento della gara” (ossia il RUP) e la
commissione di gara. Mentre quest’ultima è chiamata ad esprimere un giudizio
su aspetti tipicamente tecnico-discrezionali, il primo è tenuto ad operare
scelte di carattere più vincolato ossia ad adottare talune decisioni
allorché ne ricorrano i presupposti (tra le tante: esclusione dei
concorrenti).
Pertanto, non bisogna confondere i due piani: l’esame dell’offerta tecnica e
la valutazione della stessa. La prima, infatti, non necessariamente
comprende la seconda.
Viepiù che, nel caso di specie, gli elementi che inducono a ritenere
l’unicità del centro decisionale si possono ricavare ictu oculi e, dunque,
anche a seguito del mero esame dell’offerta tecnica.
A sostegno di tali affermazioni il Collegio rimanda alla numerosa
giurisprudenza sul punto la quale afferma che: “per regola generale (art.
80, comma 5, del D.Lgs. n. 50 del 2016), il provvedimento di esclusione
dalla gara è di pertinenza della stazione appaltante, e non già dell’organo
straordinario-Commissione giudicatrice" (cfr. ex multis Consiglio di Stato,
Sez. V, 12.02.2020 n. 1104).
Nel caso di specie l’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche è
stata effettuata dal RUP che ha provveduto con il mero esame di rispondenza
rispetto a quanto prescritto ai fini della loro mera ammissibilità per la
successiva valutazione da parte della commissione giudicatrice.
L’ammissibilità è stata da subito esclusa posto che, la riscontrata identità
(rectius sovrapponibilità) tra le offerte presentate ha fatto emergere
indizi gravi, precisi e concordanti circa la presenza dell’unicità del
centro decisionale e la conseguente applicazione della sanzione espulsiva.
Alla luce di quanto concretamente avvenuto il Collegio ha ritenuto legittimo
l’operato del RUP in quanto “attesa la esclusione dalla gara di tutte le
imprese che avevano chiesto di partecipare” si è verificata la “sopravvenuta
inutilità di nominare la commissione giudicatrice”.
Per quanto concerne, invece, la mancata attivazione del soccorso istruttorio
procedimentale, precisa il Collegio che tale censura è da ritenere
inammissibile, in quanto, posto che la determinazione di esclusione è atto
plurimotivato che si basa, fra le tante, soprattutto, sulla rilevata unicità
del centro decisionale, anche a voler ritenere fondata tale censura, la
stessa non sarebbe di per sé idonea e sufficiente ad intaccare il
provvedimento (per una più ampia disamina sull’atto plurimotivato si veda
Cons. Stato, sez. IV, 16.11.2023, n. 9849).
La Sezione procede, infine, ad esaminare il cuore del ricorso ovvero la
tematica dell’unicità del centro decisionale.
Richiamando copiosa giurisprudenza sul punto, i giudici affermano che la
ratio della disposizione in esame è quella di tutela del principio della
segretezza delle offerte presentate in gara.
La sussistenza di una posizione di controllo societario ai sensi
dell’articolo 2359 Cod. civ., ovvero la sussistenza di una più generica
“relazione, anche di fatto” fra due concorrenti è condizione necessaria, ma
non anche sufficiente, perché si possa inferire il reciproco condizionamento
fra le offerte formulate.
A tal fine, come prescritto dalla Corte di Giustizia (Corte di Giustizia
della Comunità europea, 19.05.2009, in causa C-538/07), è necessario che
venga fornita adeguata prova.
Tale prova, tuttavia, riguarda la sola “unicità del centro decisionale e non
anche la concreta idoneità ad alterare il libero gioco concorrenziale. Ciò,
in quanto la riconducibilità di due o più offerte a un unico centro
decisionale costituisce ex se elemento idoneo a violare i generali principi
in tema di par condicio, segretezza e trasparenza delle offerte [...]“ (Cons.
Stato, V, 06.02.2017, n. 496).
La verifica che deve svolgere la stazione appaltante
La giurisprudenza amministrativa ha delineato il percorso istruttorio che la
stazione appaltante deve eseguire per porre in essere la verifica:
a) verificare la sussistenza di situazione di controllo sostanziale
ai sensi dell’art. 2359 Cod. civ.;
b) esclusa tale forma di controllo, la verifica dell’esistenza di
una relazione tra le imprese , anche di fatto, che possa in astratto aprire
la strada ad un reciproco condizionamento nella formulazione delle offerte;
c) ove tale relazione sia accertata, la verifica dell’esistenza di
un ’unico centro decisionale’ da effettuare ab externo e cioè sulla base
di elementi strutturali o funzionali ricavati dagli assetti societari e
personali delle società, ovvero, ove per tale via non si pervenga a
conclusione positiva, “mediante un attento esame del contenuto delle offerte
dal quale si possa evincere l’esistenza dell’unicità soggettiva sostanziale”
(Cons. Stato, V, 03.01.2019, n. 69, che richiama Cons. Stato, V, 10.01.2017, n. 39).
Si rivela, dunque, dirimente in siffatte evenienze una puntuale verifica
sulle concrete implicazioni che un tale rapporto possa aver avuto sul
comportamento degli operatori nell’ambito della specifica procedura di gara
e, segnatamente, quanto al confezionamento delle offerte.
Conclusioni
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato affronta un caso di “unicità di centro decisionale” in presenze di 3 offerte identiche (“[…] Si
osserva tuttavia che trattasi in questo caso di ben tre offerte pienamente
sovrapponibili e non di due offerte come nei casi affrontati dalla
giurisprudenza”).
Il Collegio rimarca a più riprese che la segretezza delle offerte
costituisce principio ineludibile del sistema delle gare pubbliche e ciò
anche allo scopo di evitare forme di possibile reciproco condizionamento tra
le offerte stesse atto ad alterare il corretto confronto concorrenziale.
L’unicità del centro decisionale, tra due o più operatori, può di fatto dare
luogo ad ipotesi di reciproco condizionamento.
Tale fattispecie va dimostrata su due piani: il piano formale , attraverso
una analisi strutturale delle relazioni societarie o personali intercorrenti
tra due o più operatori; il piano sostanziale, sussidiario al primo,
attraverso un attento confronto contenutistico tra due (o più) offerte
presentate dagli operatori in gara.
Prive di pregio risultano poi le censure formulate dalla ricorrente in
ordine alla responsabilità del tecnico che ha materialmente redatto
l’offerta e alla sproporzione della segnalazione ad ANAC.
Quanto alla prima, osserva il Collegio che, al di là delle conseguenti
possibili azioni risarcitorie nei confronti del tecnico, quel che rileva è
l’obiettiva rilevanza dell’offerta e del suo contenuto in termini formali e
sostanziali.
Per quanto concerne, invece, la sproporzione della segnalazione i giudici
ribadiscono come secondo prevalente giurisprudenza “l’incameramento della
cauzione provvisoria e l’attivazione del pedissequo procedimento di
segnalazione all’ANAC sono conseguenza automatica del provvedimento di
esclusione, come tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale
con riguardo ai singoli casi concreti, nonché insensibile a eventuali
valutazioni volte a evidenziare la non imputabilità a colpa della violazione
che ha comportato l’esclusione” (ex multis, Cons. Stato, V, 21.01.2020,
n. 479; V, 24.06.2019, n. 4328; V, 10.09.2018, n. 5282; 11.12.2017, n. 5806;
04.12.2017, n. 5709; VI, 15.09.2017, n.
4349; V, 28.08.2017, n. 4086; 15.03.2017, n. 1172; Adunanza plenaria,
29.02.2016, n. 5)” [Cons. Stato, sez. V, 09.09.2020, n. 5420] (articolo NT+Diritto del 15.01.2024). |
APPALTI:
Errore in sede di presentazione di parte dell’offerta sulla
piattaforma telematica – Presentazione offerta
tecnico-qualitativa a valutazione discrezionale – Prevalenza
del bando rispetto alle indicazioni della piattaforma
telematica – Anomalia del sistema – Mancanza dei flag di
obbligatorietà – Principio di autoresponsabilità dei
concorrenti – Soccorso istruttorio.
La mancata indicazione nella piattaforma
telematica predisposta per la partecipazione alla gara
dell’obbligatorietà della trasmissione telematica
dell’offerta tecnica qualitativa a valutazione
discrezionale, nonché il mancato invio di un alert circa
l’incompletezza dell’offerta presentata in via telematica,
possono configurare un’anomalia del sistema telematico a
fronte delle quali, non essendo invocabile il principio di
autoresponsabilità, è applicabile il soccorso istruttorio (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 09.01.2024 n. 295 - link a www.ambientediritto.it).
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SENTENZA
12. Ed invero le censure di parte appellante non sono in
grado di scalfire il limpido ragionamento seguito dal
giudice di prime cure, che nell’ottica del principio
eurounitario di massima partecipazione nonché del principio
di leale collaborazione expressis verbis sancito dall’art. 1,
comma 2-bis, della l. 241 del 1990, unitamente al principio
di buona fede nel rapporto tra pubblica amministrazione e
cittadino, ha ritenuto corretto l’operato dalla stazione
appaltante.
12.1. Giova al riguardo precisare che tale principio è dalla
giurisprudenza applicato anche in riferimento alla
partecipazione alle procedure di gara con modalità
telematiche in ipotesi di anomalie del sistema, a fronte
delle quali, non essendo invocabile il principio di
autoresponsabilità citato da parte appellante, è applicabile
anche il soccorso istruttorio (Cons. Stato, Sez. VII,
02/05/2022, n. 3418 secondo cui il principio della c.d.
“autoresponsabilità” della ditta partecipante per le ipotesi
di mancata (o tardiva) presentazione, con modalità
telematiche, della domanda di partecipazione ad una
procedura di gara non può considerarsi assoluto, essendo
inevitabilmente condizionato dalla idoneità delle
piattaforme informatiche predisposte dalla amministrazione,
al fine di assicurare il regolare e tempestivo inoltro delle
domande da parte dei candidati; il principio di leale
collaborazione tra l’amministrazione e il privato, ora
codificato nell’art. 1, comma 2-bis, L. n. 241 del 1990 e
s.m.i., induce a ritenere applicabile l’istituto del
soccorso istruttorio laddove, nello svolgimento delle
operazioni di presentazione per via telematica della domanda
di partecipazione, il candidato incontri ostacoli oggettivi,
non imputabili in via esclusiva al privato; in senso analogo
Cons. Stato, Sez. VI, 01/07/2021, n. 5008 secondo cui il
principio di leale collaborazione tra l’amministrazione e il
privato, ora scolpito nell’art. 1, comma 2-bis, L. n.
241/1990, evidente precipitato del principio costituzionale
di cui all’art. 97 Cost., induce senza ombra di dubbio a
ritenere applicabile l’istituto del soccorso istruttorio
laddove un candidato incontri ostacoli oggettivamente non
superabili nello svolgimento delle operazioni di
presentazione della domanda di partecipazione ad una
selezione quando queste siano, obbligatoriamente, eseguibili
esclusivamente con modalità digitali, anche nel caso in cui
egli non abbia dimostrato una brillante dimestichezza
nell’utilizzo della metodologia digitale, ma
l’amministrazione non abbia messo in campo idonei strumenti
di accompagnamento alla procedura e di avvertenza in merito
alle insidie che alcune dinamiche di avviamento della
presentazione della candidatura avrebbero potuto
evidenziare, laddove combinate con concomitanti operazioni
di altri candidati idonee a determinare uno stress di
sistema).
12.2. Ed invero la mancata indicazione nella piattaforma
telematica predisposta per la partecipazione alla procedura
di gara de qua dell’obbligatorietà della trasmissione
telematica dell’offerta tecnica qualitativa a valutazione
discrezionale, in uno all’accettazione telematica
dell’offerta dell’aggiudicatario, nonostante la mancata
trasmissione telematica di tale componente dell’offerta
tecnica, nonché il mancato invio di un alert circa
l’incompletezza dell’offerta presentata in via telematica,
ben possono, secondo quanto di seguito indicato, avuto
riguardo alla prescrizione dell’art. 19 del Bando di gara,
configurare l’anomalia del sistema telematico riscontrato
dal primo giudice |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale l’acquisto a titolo originario al
patrimonio indisponibile del comune che incide
sull’iscrizione ipotecaria sull’area di sedime.
---------------
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento
agli artt. 3, 24, 42 e 117, primo comma, Cost., nonché
all’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU (ratificata
con la legge 04.08.1955, n. 848), la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 7, terzo comma, della
legge n. 47 del 1985 e dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n.
380 del 2001.
Secondo le sezioni unite:
a) un primo parametro leso è l’art. 3 Cost., inteso come
principio di ragionevolezza, in quanto “è paradossale”,
che il creditore che abbia iscritto ipoteca sul fondo, senza
avere alcuna responsabilità nell’abuso edilizio e nel
conseguente rifiuto di procedere alla demolizione
dell’immobile, veda di fatto cancellato il suo diritto di
ipoteca; il tutto senza poter partecipare al procedimento,
cioè senza potersi opporre né all’edificazione abusiva né
all’ordine di demolizione;
b) un secondo parametro che appare leso è l’art. 24 Cost.,
in quanto il creditore ipotecario è titolare di una garanzia
che gli consente, attraverso il diritto di sequela e la
conseguente possibilità di procedere ad espropriazione del
bene, di avere una concreta prospettiva di soddisfacimento
delle proprie ragioni; o, almeno, una potenzialità ben
maggiore rispetto a quella che può derivare dal diritto al
risarcimento dei danni (misura che la Corte ha ritenuto non
soddisfacente);
c) un terzo parametro che appare leso, infine, è l’art. 117,
primo comma, Cost., collegato con l’art. 42 Cost., in
considerazione del contrasto tra la norma in esame e l’art.
1 del Protocollo addizionale della CEDU.
È pacifica e ormai consolidata, infatti, la giurisprudenza
costituzionale secondo cui gli eventuali contrasti tra la
norma interna e la CEDU non generano problemi di successione
delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva
collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma
questioni di legittimità costituzionale, sicché il giudice
comune non ha il potere di disapplicare la norma legislativa
ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU,
presentandosi l’asserita incompatibilità tra le due come una
questione di legittimità costituzionale, per eventuale
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva
competenza della Corte costituzionale (sentenze n. 348 e n.
349 del 2007, nonché, più di recente, le sentenze n. 182 del
2021 e n. 131 del 2022).
La norma censurata, ove dirime il conflitto fra il potere di
acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del comune
dell’immobile costruito in totale difformità o assenza della
concessione e il diritto del creditore ipotecario a
soddisfarsi sul fondo oggetto della garanzia, affermando
l’assoluta prevalenza del primo appare contrastante con la
consolidata ed uniforme interpretazione che la
giurisprudenza della Corte EDU offre dell’art. 1 del
Protocollo addizionale, qui invocato quale parametro
interposto (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza interlocutoria 08.01.2024 n. 583 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In linea generale:
a) le scelte di pianificazione sono espressione
di un'amplissima valutazione discrezionale, insindacabile
nel merito;
b) esse non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel
precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso
edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di
tutela la generica aspettativa alla non reformatio in peius
o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da
un previgente P.R.G.;
c) non richiedono, inoltre, una motivazione puntuale, che ponga in
comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente
pianificatore con quelli confliggenti dei privati;
d) sono censurabili oltre che per violazione di legge, solo per
illogicità o irragionevolezza ovvero insufficienza della
motivazione.
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9.1. Il motivo è infondato.
9.1.1. Infatti in linea generale, a fronte di attività di
pianificazione, secondo consolidata giurisprudenza:
a) le scelte di pianificazione sono espressione di un'amplissima
valutazione discrezionale, insindacabile nel merito (fra le
più recenti, cfr. Cons. Stato, Sez. II, 18.05.2020, n.
3163; Sez. II, 04.05.2020, n. 2824; Sez. II, 09.01.2020, n. 161; Sez. II,
06.11.2019, n. 7560; Sez. IV, 17.10.2019, n. 7051; Sez. IV, 29.08.2019, n. 5960; Sez. II,
07.08.2019, n. 5611; Sez. IV, 25.06.2019, n.
4345; Sez. IV, 28.06.2018, n. 3986);
b) esse non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel
precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso
edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di
tutela la generica aspettativa alla non reformatio in peius
o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da
un previgente P.R.G. (Cons. Stato, Sez. II, 18.05.2020,
n. 3163; Sez. II, 20.01.2020, n. 456; Sez. IV, 24.06.2019, n. 4297; Sez. IV, 26.10.2018, n. 6094; Sez. IV, 24.03.2017, n. 1326; Sez. IV, 11.11.2016,
n. 4666);
c) non richiedono, inoltre, una motivazione puntuale, che ponga in
comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente
pianificatore con quelli confliggenti dei privati (Cons.
Stato, sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 04.05.2020, n. 2824; Sez. IV,
03.02.2020, n. 844);
d) sono censurabili oltre che per violazione di legge, solo per
illogicità o irragionevolezza ovvero insufficienza della
motivazione (Cons. Stato, Sez. II, 09.01.2020, n. 161; Sez. II,
04.09.2019, n. 6086; Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; Sez. IV,
09.05.2018 n. 2780; sez. IV, 18.08.2017, n. 4037; sez. VI, 05.03.2013, n. 1323; sez. IV, 25.11.2013, n. 5589; sez. IV, 16.04.2014,
n. 1871) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.01.2024 n. 256 - link a
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URBANISTICA:
Con riferimento all’attività pianificatoria in materia di cave, secondo la
giurisprudenza, in sede di approvazione del piano cave la
Regione non è tenuta a motivare specificatamente le scelte
riguardanti le singole aree.
L'attività estrattiva di cava,
pur non essendo assoggettata al previo rilascio del permesso
di costruire, coinvolge interessi super individuali e valori
costituzionali (ambiente, paesaggio, territorio, salute,
iniziativa economica), incidendo sul governo del territorio
sia per il suo rilevante impatto ambientale che per le
esigenze economiche proprie dell'impresa esercente connesse
allo sfruttamento delle sempre più scarse risorse naturali
disponibili, con la conseguenza che, al pari dell'attività
edilizia, non è mai completamente libera, ma deve inserirsi
in un contesto di interventi pianificati.
Dalla natura programmatica dell'intervento pubblicistico e
dai valori costituzionali in gioco ne discende che in sede
di approvazione del piano delle cave, in applicazione della
norma sancita dall'art. 3, legge n. 241/1990, le scelte
riguardanti le singole aree non abbisognano di una specifica
motivazione in considerazione dell'elevato numero di
destinatari e dell'interdipendenza reciproca delle varie
previsioni, specie se poste a tutela dell'ambiente e del
paesaggio.
Il piano cave, in quanto atto di pianificazione generale,
non necessita pertanto di una particolare motivazione,
tranne nel caso in cui tale piano si discosti dai pareri
obbligatori resi in seno al procedimento, onde evitare
possibili arbitri.
---------------
9.1.2. Più nello specifico, con riferimento all’attività
pianificatoria in materia di cave, va rammentato, come
correttamente rilevato dal primo giudice, che secondo la
giurisprudenza in sede di approvazione del piano cave la
Regione non è tenuta a motivare specificatamente le scelte
riguardanti le singole aree.
L'attività estrattiva di cava,
pur non essendo assoggettata al previo rilascio del permesso
di costruire, coinvolge interessi super individuali e valori
costituzionali (ambiente, paesaggio, territorio, salute,
iniziativa economica), incidendo sul governo del territorio
sia per il suo rilevante impatto ambientale che per le
esigenze economiche proprie dell'impresa esercente connesse
allo sfruttamento delle sempre più scarse risorse naturali
disponibili, con la conseguenza che, al pari dell'attività
edilizia, non è mai completamente libera, ma deve inserirsi
in un contesto di interventi pianificati.
Dalla natura
programmatica dell'intervento pubblicistico e dai valori
costituzionali in gioco ne discende che in sede di
approvazione del piano delle cave, in applicazione della
norma sancita dall'art. 3, legge n. 241/1990, le scelte
riguardanti le singole aree non abbisognano di una specifica
motivazione in considerazione dell'elevato numero di
destinatari e dell'interdipendenza reciproca delle varie
previsioni, specie se poste a tutela dell'ambiente e del
paesaggio (ex multis Cons. Stato Sez. V, 13/06/2018, n.
3625, in senso analogo Cons. Stato, sez. V, 10/04/2018, n.
2164).
Il piano cave, in quanto atto di pianificazione generale,
non necessita pertanto di una particolare motivazione,
tranne nel caso in cui tale piano si discosti dai pareri
obbligatori resi in seno al procedimento, onde evitare
possibili arbitri (Cons. Stato, Sez. VI, 23.12.2008,
n. 6519) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.01.2024 n. 256 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In sede di procedimento pianificatorio
urbanistico, il rigetto o l'accoglimento delle osservazioni
dei privati non richiede una motivazione analitica, essendo
sufficiente che queste siano state esaminate e confrontate
con gli interessi generali rappresentati dallo strumento
pianificatorio.
In questo senso, le osservazioni non sono
rimedi giuridici, ma apporti procedimentali di un interesse
privato che, come tutti gli apporti "esterni" coinvolti
nella pianificazione urbanistica, sono in essa inseriti e
con essa vanno contemperati.
Nell'ambito di un procedimento
urbanistico, pertanto, le osservazioni costituiscono lo
strumento per perseguire -compatibilmente con l'articolato
delle scelte urbanistiche da effettuare- l'interesse
pubblico con un minore sacrificio di quello privato.
---------------
Con particolare riguardo alle classificazioni dei suoli che
eventualmente limitino le facoltà edificatorie dei
proprietari, è stato peraltro precisato che le scelte
urbanistiche “sono il frutto di complesse valutazioni
tecniche e amministrative, riservate al livello politico.
In
tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni istituzionali, in quanto scelte
di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo
che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale
su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al
riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità
apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al
sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della
condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla
sfera del merito
(…).
Le scelte di pianificazione non sono, neppure, condizionate
dalla pregressa indicazione, nel precedente piano
regolatore, di destinazioni d'uso diverse e più favorevoli
rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento
urbanistico o di una sua variante, con il solo limite
dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della
nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto
una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico
esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato,
piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno
adottato, e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa
qualificata alla conservazione della precedente destinazione
o da giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni
edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione o
la modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo”.
---------------
9. Non è fondato il quarto motivo di ricorso.
Deve invece richiamarsi la consolidata giurisprudenza,
secondo cui, in sede di procedimento pianificatorio
urbanistico, il rigetto o l'accoglimento delle osservazioni
dei privati non richiede una motivazione analitica, essendo
sufficiente che queste siano state esaminate e confrontate
con gli interessi generali rappresentati dallo strumento
pianificatorio.
In questo senso, le osservazioni non sono
rimedi giuridici, ma apporti procedimentali di un interesse
privato che, come tutti gli apporti "esterni" coinvolti
nella pianificazione urbanistica, sono in essa inseriti e
con essa vanno contemperati.
Nell'ambito di un procedimento
urbanistico, pertanto, le osservazioni costituiscono lo
strumento per perseguire -compatibilmente con l'articolato
delle scelte urbanistiche da effettuare- l'interesse
pubblico con un minore sacrificio di quello privato (cfr.
Cons. Stato, sez. II, 06.08.2020, n. 4960; cfr. anche
TAR Campania Napoli Sez. VIII, 09.11.2021, n. 7100).
Con particolare riguardo alle classificazioni dei suoli che
eventualmente limitino le facoltà edificatorie dei
proprietari, è stato peraltro precisato che le scelte
urbanistiche “sono il frutto di complesse valutazioni
tecniche e amministrative, riservate al livello politico; in
tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni istituzionali, in quanto scelte
di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo
che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale
su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al
riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità
apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al
sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della
condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla
sfera del merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.04.2020,
n. 2284; 31.12.2019, n. 8917; 12.05.2016, n. 1907)
(…).
Le scelte di pianificazione non sono, neppure, condizionate
dalla pregressa indicazione, nel precedente piano
regolatore, di destinazioni d'uso diverse e più favorevoli
rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento
urbanistico o di una sua variante, con il solo limite
dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della
nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto
una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico
esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato,
piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno
adottato, e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa
qualificata alla conservazione della precedente destinazione
(cfr. Cons. Stato, Sez. II, 06.11.2019, n. 7560; sez. IV, 01.08.2018, n. 4734; sez. IV, 12.04.2018, n.
2204; sez. IV, 25.08.2017, n. 4063) o da giudicati di
annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su domanda di concessione (Cons. Stato,
Sez. II, 10.07.2020, n. 4467; Sez. VI, 08.06.2020, n.
3632; sez. IV, 25.06.2019, n. 4343) o la modificazione
in zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Cons.
Stato Sez. II, 08.05.2020, n. 2893; Sez. IV, 30.12.2016, n. 5547)” (Cons. Stato, Sez. II, 13.10.2021, n.
6883) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 08.01.2024 n. 156 - link a
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APPALTI:
Regolarità fiscale e contributivo-previdenziale: come e
quando valutarli?
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione – Gara - Requisiti di partecipazione -
Regolarità fiscale – Tempo e modalità del controllo –
Deferimento alla plenaria.
Vanno deferiti all’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato i seguenti quesiti:
i) se, fermo restando il principio della insussistenza di un potere
della stazione appaltante di sindacare le risultanze delle
certificazioni dell’Agenzia delle entrate attestanti
l’assenza di irregolarità fiscali a carico dei partecipanti
a una gara pubblica, le quali si impongono alla stessa
amministrazione, il principio della necessaria continuità
del possesso in capo ai concorrenti dei requisiti di ordine
generale per la partecipazione alle procedure selettive
comporti sempre il dovere di ciascun concorrente di
informare tempestivamente la stazione appaltante di
qualsiasi irregolarità che dovesse sopravvenire in corso di
gara;
ii) se, correlativamente, sussista a carico della stazione
appaltante, ferma restando la richiamata regola della
sufficienza delle certificazioni rilasciate dalle Autorità
competenti, il dovere di estendere la verifica circa
l’assenza di irregolarità in capo all’aggiudicatario della
procedura in relazione all’intera durata di essa, se del
caso attraverso l’acquisizione di certificazioni estese
all’intero periodo dalla presentazione dell’offerta fino
all’aggiudicazione;
iii) se, in ogni caso e a prescindere dalla sufficienza o meno
delle verifiche condotte dalla stazione appaltante, il
concorrente che impugni l’aggiudicazione possa dimostrare, e
con quali mezzi, che in un qualsiasi momento della procedura
di gara l’aggiudicataria ha perso il requisito dell’assenza
di irregolarità con il conseguente obbligo
dell’amministrazione di escluderlo dalla procedura stessa.
(1)
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(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, la terza sezione del
Consiglio di Stato ha deferito alla Plenaria, in relazione
ad una vicenda governata dal vecchio codice degli appalti,
una triplice questione inerente: i) al possesso dei
requisiti fiscali dell’operatore economico partecipante ad
una procedura di evidenza pubblica; ii) alla pratica
declinazione del c.d. principio della continuità dei
requisiti generali di partecipazione; iii) alla prova della
continuità.
Il tema di fondo è comune a quello del possesso
e della prova della c.d. regolarità contributiva (previdenziale-assistenziale).
L’appello è stato proposto avverso la sentenza del Tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia, sez. I,
10.05.2023, n. 1403, che ha respinto il ricorso principale
della società seconda classificata, che aveva tentato di
evidenziare l’esistenza della carenza della regolarità
fiscale in capo alla società aggiudicataria.
II. - Questo in sintesi il percorso motivazionale
dell’ordinanza (corredato dalla giurisprudenza in materia):
a) in primis, l’ordinanza in rassegna
richiama il consolidato indirizzo giurisprudenziale, che
esclude ogni facoltà per la stazione appaltante di sindacare
le risultanze delle certificazioni rilasciate dalle autorità
competenti (nella specie, l’Agenzia delle entrate), le quali
fanno fede della regolarità dell’operatore economico, sotto
il profilo fiscale;
b) nella specie, l’assenza di irregolarità
fiscali rilevanti ex lege è stata accertata,
attraverso l’acquisizione di certificazioni, acquisite dalla
stazione appaltante, in plurimi momenti della procedura di
evidenza (e, da ultimo, in sede di verifica sul possesso dei
requisiti prima dell’aggiudicazione);
c) detto indirizzo è radicato sul presupposto,
secondo cui le certificazioni sulla regolarità tributaria e
contributiva degli operatori economici partecipanti, emanate
dagli organi delle amministrazioni e degli enti pubblici
ex lege preposti, si impongono alle stazioni appaltanti,
che non possono sindacarne il contenuto intrinseco, non
residuando alle stesse alcun potere valutativo sul contenuto
o sui presupposti di tali certificazioni;
d) ciò, peraltro, avviene anche riguardo alla
valutazione, circa la gravità o meno di carenze
contributive, riservata agli enti previdenziali;
e) tuttavia, a fronte di un tale consolidato
orientamento –rileva l’ordinanza in epigrafe– è pur vero che
la giurisprudenza ha enunciato anche un ulteriore principio
(Cons. Stato, Ad. plen., 20.07.2015, n. 8), secondo cui,
“proprio perché la verifica può avvenire in tutti i momenti
della procedura (a tutela dell’interesse costante
dell’Amministrazione ad interloquire con operatori in via
permanente affidabili, capaci e qualificati), allora in
qualsiasi momento della stessa deve ritenersi richiesto il
costante possesso dei detti requisiti di ammissione” (c.d.
principio della continuità);
f) ciò sia “a garanzia della permanenza della
serietà e della volontà dell’impresa di presentare
un’offerta credibile” sia a tutela “della sicurezza
per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto
[negoziale] con un soggetto, che […] sia provvisto di tutti
i requisiti di ordine generale e
tecnico-economico-professionale necessari per contrattare
con la P.A.”;
g) ragion per cui vi sarebbe un “onere di
continuità in corso di gara del possesso dei requisiti”,
da ritenersi “non solo […] del tutto ragionevole, siccome
posto a presidio dell’esigenza della stazione appaltante di
conoscere in ogni tempo dell’affidabilità del suo
interlocutore “operatore economico” […], ma è altresì non
sproporzionato, essendo assolvibile da quest’ultimo […],
mediante ricorso all’ordinaria diligenza, che gli operatori
professionali devono tenere al fine di poter correttamente
insistere e gareggiare nel concorrenziale mercato degli
appalti pubblici”;
h) la qual cosa però equivale a “garantire
costantemente la qualificazione loro richiesta e [ma anche]
la possibilità concreta della sua dimostrazione e verifica
[…]”;
i) di conseguenza, sempre stando all’ordinanza in
rassegna, l’applicazione contestuale dei richiamati
indirizzi può “condurre […] a conclusioni suscettibili
[però] di contraddire o l’uno o l’altro degli indirizzi
medesimi (e, quindi, di determinare contrasti o incertezze
di giurisprudenza)”;
j) non è, anzitutto, chiaro normativamente
–secondo la terza sezione– se esista sempre un obbligo del
concorrente di informarsi e, soprattutto, di informare la
stazione appaltante, sulle situazioni di irregolarità
fiscale o contributiva, che dovessero sopravvenire in corso
di gara; e se, per converso, sussista ininterrottamente un
obbligo, per la stazione appaltante, di verificare
l’eventuale esistenza di irregolarità, mediante
l’acquisizione di certificazioni dell’Agenzia delle entrate
(anche riflettenti la posizione “storica”
dell’operatore), in ogni fase della procedura di gara,
atteso che l’affermazione ricorrente in giurisprudenza,
secondo cui la verifica “può” avvenire in ogni
momento della procedura di gara, non implica che la stessa “debba”
essere esperita;
k) infine, nell’ipotesi in cui dovesse
riaffermarsi la sufficienza di un accertamento “puntuale”
ad opera dalla stazione appaltante, mediante l’acquisizione
di certificazione, in un determinato momento della procedura
(che, di regola, coinciderà con quella della verifica delle
dichiarazioni rese dal concorrente sul possesso dei
requisiti), emerge il tema processuale se sia consentito al
concorrente, il quale impugni l’aggiudicazione, di andare al
di là di quanto è sufficiente per la stazione appaltante, e
quindi di riuscire a documentare la sussistenza di
irregolarità “escludenti”, in un qualsiasi momento
della procedura di gara, diverso da quello in cui quest’ultima
ha condotto le proprie verifiche, con il conseguente dovere
del giudice di accertare l’illegittimità dell’aggiudicazione
e annullarla.
III – Per completezza in materia va osservato quanto segue:
l) in via preliminare, va precisato che la
disciplina normativa, nei diversi dispositivi sui contratti
pubblici succedutisi nel tempo, ha, sia pur variamente,
sempre distinto il requisito della regolarità fiscale e
contributivo-previdenziale nella fase (pubblicistica) del
procedimento di gara (spesso assistito da sanzioni
preclusive l’affidamento, senza possibilità di sanatoria),
dal requisito fiscale e contributivo-previdenziale nella
fase (privatistica) dell’esecuzione del contratto, cui
consegue sovente, in prima battuta, la sospensione
dell’obbligazione del pagamento delle spettanze economiche e
solo in via ultimativa la risoluzione del vincolo negoziale,
laddove non sopraggiunga la sanatoria della posizione
debitoria (o anche la compensazione);
m) sul c.d. principio di continuità dei requisiti
si è espressa da ultimo l’Adunanza plenaria (18.03.2021, n.
5, in Foro it., 2021, III, 660, nonché oggetto
News n. 35
del 12.04.2021 a cura dell’US), la quale ha pur ritenuto
che: “La consorziata di un consorzio stabile, non
designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, è
equiparabile, ai fini dell’applicazione dell’art. 63 della
direttiva n. 24/2014/UE e dell’art. 89, co. 3, del d.lgs. n.
50 del 2016, all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché
la perdita da parte della stessa del requisito impone alla
stazione appaltante di ordinarne la sostituzione” e,
tuttavia, la sostituzione nell’avvalimento è possibile, in
quanto “strumento nuovo e alternativo” (così:
Cons.
Stato, sez. III, 25.11.2015, n. 5359, in Urb. e app., 2016,
696, con nota di MANZI; Nuovo dir. amm., 2016, 3, 80, con
nota di URBANI; nonché
Corte di giustizia UE, 14.09.2017,
C-223/16, Casertana costruzioni s.r.l., in Giur. it., 2017,
2458, con nota di GIUSTI e Urb. e app., 2018, 183, con nota
di MANZI, nonché oggetto della
News US in data 05.12.2017),
che non lederebbe il principio della continuità nei
requisiti, poiché detto istituto restituisce al soggetto
avvalso la sua vera natura di soggetto giuridico, che “presta”
i propri requisiti al concorrente, senza però partecipare
alla compagine (e all’offerta formulata) e, quindi, risponde
alla superiore esigenza di evitare l’esclusione del
concorrente, singolo o associato, per ragioni a lui non
direttamente riconducibili o imputabili;
n) sulla continuità dei requisiti anche in
relazione alla fase della esecuzione,
Cons. Stato, sez. V,
14.04.2020, n. 2397 (in Lex.Italia.it, 2020), secondo cui: “La
causa di esclusione prevista dall’art. 80, comma 4, d.lgs.
12.04.2016, n. 50 (concernente le violazioni gravi,
definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi
al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi
previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella
dello Stato in cui sono stabiliti) ha carattere definitivo
nel caso di notificazione delle seguenti tipologie di atti
amministrativi:
a) gli avvisi di accertamento e gli atti di contestazione ex
art. 16 d.lgs. 18.12.1997, n. 472;
b) nel caso in cui costituiscano il primo atto di esercizio
della pretesa impositiva, anche le cartelle di pagamento”;
inoltre: “Il principio di necessaria continuità del
possesso dei requisiti di partecipazione […] si estende a
tutti i requisiti generali e speciali di partecipazione e
postula che gli stessi siano posseduti senza soluzione di
continuità dal momento della presentazione della domanda di
partecipazione all’aggiudicazione e per tutta la fase di
esecuzione, qualora l’impresa sia aggiudicataria
dell’appalto”;
o) in ordine al c.d. DURC in compensazione, cfr.
Cons. Stato, sez. V, 19.06.2019, n. 4188 (in LexItalia.it,
2019, con nota di IUDICA): “Dalla disciplina dell’art.
13-bis, comma 5, d.l. 07.05.2012, n. 52, conv. in l.
06.07.2012, n. 94 e da quanto previsto dalla circolare della
Direzione centrale dell’Inps 30.01.2014, n. 16 (secondo cui
“In presenza di una certificazione di uno o più crediti resa
dalle amministrazioni statali, dagli enti pubblici
nazionali, dalle Regioni, dagli enti locali e dagli enti del
Servizio Sanitario Nazionale, che attesti la sussistenza e
l’importo di crediti certi, liquidi ed esigibili almeno pari
agli oneri contributivi accertati e non ancora versati, gli
Istituti previdenziali e le Casse edili sono tenuti ad
attestare la regolarità contributiva”), si evince che:
a) è onere dell’impresa attivarsi per ottenere la
certificazione dell’esistenza di un credito certo, liquido
ed esigibile nei confronti di un soggetto pubblico (tra
quelli elencati nell’art. 1, comma 2, d.lgs. 30.03.2001, n.
165);
b) tale certificazione deve essere rilasciata nel termine di
trenta giorni dalla ricezione dell’istanza;
c) ottenuta la certificazione può essere richiesto il
rilascio del DURC c.d. in compensazione;
d) il DURC deve attestare la regolarità contributiva
dell’imprenditore. Non è stabilito, né dalle norme primarie
e secondarie, né dagli atti prassi, un termine entro il
quale va richiesta la certificazione dell’esistenza del
credito”;
p) esclude la possibilità che una impresa
concorrente possa fornire la prova contraria delle
risultanze del DURC,
Cons. Stato sez. V, 14.06.2019, n. 4023
(in l’amministrativista.it del 17.06.2019) che ha precisato:
“Il DURC costituisce unico documento attestante il
rispetto degli oneri previdenziali ed assistenziali da parte
dell’operatore economico partecipante alla procedura di
gara, onde, in presenza di DURC regolare a favore
dell’operatore economico, la stazione appaltante non è
tenuta ad alcuna altra verifica, sebbene segnalazioni in
senso contrario a quanto ivi certificato siano pervenute da
terzi interessati all’esclusione dell’operatore dalla
procedura di gara.
La certificazione relativa alla regolarità contributiva
viene in rilievo dinanzi al giudice amministrativo alla
stregua di documento probatorio del requisito di
partecipazione alla gara e, pertanto, la sua regolarità può
essere oggetto di accertamento incidentale da parte del
giudice amministrativo al fine della verifica dell’esistenza
o meno del requisito di partecipazione ove detta questione
gli sia sottoposta come vizio di legittimità del
provvedimento impugnato, spettando alla parte che allega il
contrasto tra la certificazione e reale situazione
dell’operatore economico fornire la prova in giudizio che
l’irregolarità contributiva riportata nel DURC sia in realtà
insussistente ovvero, al contrario, che non sussista la
regolarità accertata”;
q) sull’adempimento tardivo delle obbligazioni
contributive alle assicurazioni sociali obbligatorie e sul
c.d. preavviso di DURC negativo, ex multis, cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 15.09.2017, n. 4349 (in Urb. e app.,
2018, 69, con ampia nota di GIACALONE-PELOSO): “In
applicazione del principio della par condicio e considerato
che la regolarità contributiva deve sussistere dalla
presentazione dell’offerta e deve permanere per tutta la
durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con
la stazione appaltante, restando irrilevante un eventuale
adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva,
l’istituto dell’invito alla regolarizzazione (c.d. preavviso
di DURC negativo), può operare solo nei rapporti tra impresa
ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto
dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione
appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione”;
inoltre, sul punto, sono concordi sia
Cons. St., Ad. Plen.,
29.02.2016, n. 5 (in LexItalia.it, 2016): “L’istituto
dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC
negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del decreto
ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo
dall’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69,
può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente
previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto
dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione
appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione
resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i) ai fini
della partecipazione alla gara d’appalto”, sia Cass. civ.,
sez. un., 29.03.2017, n. 8117 (in LexItalia.it, 2017): “L’istituto
dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC
negativo) può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente
previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto
dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione
appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione
(art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, codice degli appalti 2006)”;
r) sulla impossibilità della regolarizzazione
postuma,
Cons. Stato, Ad. plen. 25.05.2016, n. 10 (in Foro it., 2017, III, 262, con nota di CORDOVA; in Urb. e
app., 2016, 1240, con nota di CALVETTI, nonché oggetto della
News US in data
31.05.2016) ha affermato: “Anche dopo l'entrata in vigore
dell'art. 31, comma
8, d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito, con modificazioni,
dalla l. 09.08.2013 n. 98,
non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione
previdenziale, dovendo
l'impresa essere in regola con l'assolvimento degli obblighi
previdenziali ed assistenziali
fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato
per tutta la durata della
procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione
appaltante, restando dunque
irrilevante un eventuale adempimento tardivo
dell'obbligazione contributiva”, ragion
per cui: “L’ambito di applicazione dell’art. 31 d.l. n. 69
del 2013 è limitato ai rapporti
fra ente previdenziale ed operatore privato richiedente il
rilascio del d.u.r.c.: pertanto va
escluso che detta disposizione abbia determinato una
implicita modifica all’art. 38 d.lgs.
n. 163 del 2006”, peraltro: “Il documento unico di
regolarità contributiva (d.u.r.c.) ha
natura di dichiarazione di scienza e si colloca fra gli atti
di certificazione o di attestazione
facenti prova fino a querela di falso”, e infine: “Rientra
nella giurisdizione del giudice
amministrativo la controversia avente ad oggetto
l'accertamento circa la regolarità del
d.u.r.c., quale atto interno della fase procedimentale di
verifica dei requisiti di
ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara; ed
invero, in materia di contratti
pubblici, il d.u.r.c. viene in rilievo non in via
principale, ma in qualità di presupposto
di legittimità di un provvedimento amministrativo adottato
dalla stazione appaltante”,
per cui la regolarità contributiva è ben suscettibile di
accertamento incidentale,
ai sensi dell’art. 8 c.p.a.;
s) nello stesso senso, Cons. Stato, Ad. plen., 29.02.2016,
n. 5 e
n. 6 (in Foro it., 2017, III, 262; in
Urb. e app., 2016, 787, con nota di CARANTA; in Guida dir.,
2016,
13, 82, con nota di CORRADO), nonché oggetto della
News del
01.03.2016 a
cura dell’US) ha rilevato che: “Anche dopo l’entrata in
vigore dell’art. 31, comma 8,
del d.l. 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell'economia),
convertito con modificazioni dalla L. 09.08.2013, n. 98,
non sono consentite
regolarizzazioni postume della posizione previdenziale,
dovendo l’impresa essere in
regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed
assistenziali fin dalla
presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta
la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto
con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante
un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione
contributiva.
L’istituto dell’invito
alla regolarizzazione (il cd. preavviso di DURC negativo),
già previsto dall’art. 7,
comma 3, del d.m. 24.10.2007 e ora recepito a livello
legislativo dall’art. 31, comma
8, del d.l. 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei
rapporti tra impresa ed Ente
previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto
dall’impresa e non anche al DURC
richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della
veridicità dell’autodichiarazione
resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), del d.lgs.
12.04.2006, n. 163, ai fini della
partecipazione alla gara d’appalto”;
t)
Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2015, n. 1321
(in LexItalia.it, 2015), che aveva ritenuto che: “Non
rientrano nella giurisdizione esclusiva del G.A. in materia
di
contratti della P.A. le questioni in tema di valutazione del
DURC, atteso che gli
eventuali errori contenuti in detto documento, involgendo
posizioni di diritto soggettivo
afferenti al sottostante rapporto contributivo, possono
essere corretti dal giudice
ordinario, o all’esito di proposizione di querela di falso,
o a seguito di ordinaria
controversia in materia di previdenza e di assistenza
obbligatoria”;
u) sull’obbligo della stazione appaltante di verificare la
continuità del possesso dei
requisiti,
Cons. Stato Ad. plen., 20.08.2013, n. 20 (in
Foro amm-C.d.S., 2013,
1843), 05.06.2013, n. 15 (in Foro it., 2014, III, con
nota di A. TRAVI), secondo
cui: “Nelle gare pubbliche, ai sensi dell'art. 38, comma 1,
lett. g), d.lgs. 12.04.2006 n.
163, non è ammissibile la partecipazione alla procedura
selettiva del soggetto che, al
momento della scadenza del termine di presentazione della
domanda di partecipazione,
non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento
dell'istanza di rateizzazione del
debito tributario”, tanto in considerazione del principio
fondamentale della
continuità nel possesso dei requisiti che impone
all’Amministrazione di
verificarne diuturnamente la sussistenza anche in presenza
di DURC negativi;
nello stesso sensi si era espressa l’Autorità di vigilanza
sui contratti pubblici
nella determinazione 16.05.2012, n. 1, in www.avcp.it;
v)
Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2012, n. 8
(in Urb. e app. 2016, 88, con nota di GIACALONE; in Foro
amm.-C.d.S., 2012, 2234 con nota di GOTTI; in Guida dir.,
2012, 23, 82 con nota di PONTE) ha precisato che: “Ai fini
del comma 1, lett. i),
dell'art. 38, l. 163/2006, si intendono gravi le violazioni
ostative al rilascio del
documento unico di regolarità contributiva di cui all'art.
2, comma 2 d.l. 25.09.2002 n. 210 (conv. con l. 266/2002) e pertanto la mancanza
di d.u.r.c. comporta una
presunzione legale iuris et de iure di gravità delle
violazioni previdenziali”;
w) tanto osservato sulla giurisprudenza amministrativa, va
detto che di segno
analogo è stata la giurisprudenza comunitaria; infatti, la
Corte di giustizia
dell’UE, sez. IX, 10.11.2016, causa C-199/15, Ciclat
(oggetto di
News 15.11.2016 a cura di US) ha precisato che: “L’articolo 45
della direttiva
2004/18/CE non osta ad una normativa nazionale che obbliga
l’amministrazione
aggiudicatrice ad escludere dall’appalto l’impresa a causa
di una violazione in materia
di versamento di contributi previdenziali ed assistenziali
risultante da un certificato
richiesto d’ufficio dall’amministrazione aggiudicatrice e
rilasciato dagli istituti
previdenziali, qualora tale violazione sussista alla data di
scadenza del termine di
partecipazione ad una gara d’appalto, anche se
successivamente venuta meno alla data
dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio da parte
dell’amministrazione
aggiudicatrice e nonostante l’ente previdenziale, rilevato
il mancato versamento, abbia
omesso di invitare l’impresa alla regolarizzazione, come
previsto dal diritto italiano, a
condizione che l’operatore economico abbia la possibilità di
verificare in ogni momento la
regolarità della sua situazione presso l’istituto
competente”;
x) inoltre,
Corte di giustizia dell’UE, sez. X,
10.07.2014, C-358/12, Libor (in Urb. e app., 2014, 1170,
con nota di PATRITO) ha parimenti ritenuto conforme al
diritto UE la disciplina italiana in materia di DURC e
regolarità contributiva, in
particolare: “Gli art. 49 e 56 tfUe, nonché il principio di
proporzionalità, vanno
interpretati nel senso che non ostano ad una normativa
nazionale che, riguardo agli
appalti pubblici di lavori il cui valore sia inferiore alla
soglia definita all'art. 7, lett. c),
della direttiva 2004/18/Ce del Parlamento Europeo e del
Consiglio, del 31.03.2004,
relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi, quale modificata dal
regolamento (Ce) n. 1177/2009 della
Commissione, del 30.11.2009, obblighi l'amministrazione aggiudicatrice ad
escludere dalla procedura un offerente responsabile di
un'infrazione in materia di
versamento di prestazioni previdenziali, qualora lo
scostamento tra le somme dovute e
quelle versate sia di importo superiore, al contempo, a Euro
100 e al 5% delle somme
dovute”;
y) tuttavia, la giurisprudenza delle sezioni
unite, sia pure nella peculiare sede del controllo sulla
giurisdizione, ha censurato l’indirizzo della giurisprudenza
amministrativa teso a declinare facilmente l’accertamento
incidentale sulla
regolarità fiscale e contributivo-previdenziale;
segnatamente:
y1)
Cass. civ., sez. un., 29.03.2017, n. 8117 (in l’amministrativista.it 30.03.2017,
nonché oggetto di
News
04.04.2017, a cura dell’US): “Il
Consiglio di
Stato, quando omette di esaminare le censure formulate in
ordine all'accertamento
della regolarità del DURC, nega indebitamente la propria
giurisdizione perché,
nelle controversie relative a procedure di affidamento di
lavori, servizi o forniture
da parte di soggetti tenuti al rispetto delle regole di
evidenza pubblica, costituendo
la produzione del DURC uno dei requisiti posti dalla
normativa di settore ai fini
dell'ammissione alla gara, appartiene alla cognizione del
giudice amministrativo
verificare la regolarità di tale certificazione”;
y2) resta tuttavia fermo che:
“L'istituto dell'invito alla regolarizzazione (il c.d.
preavviso di DURC negativo) può operare solo nei rapporti
tra impresa ed Ente
previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto
dall'impresa e non anche al
DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica
della veridicità
dell'autodichiarazione”; peraltro, in tal senso, già Cass.
civ., sez. un., 09.02.2011, n. 3169 (in Foro amm.-C.d.S., 2011, 1462);
z) ancora, va ricordato che, mentre
l’accertamento diretto (davanti al giudice tributario del
rapporto fiscale o davanti al giudice del lavoro del
rapporto contributivo-previdenziale) ha natura intrinseca è
può condurre all’autorità di
cosa giudicata tra le parti, su un diverso piano si pone
invece l’accertamento
incidentale (davanti al giudice amministrativo), rivestendo
questo natura
estrinseca, quale atto presupposto per la decisione del
ricorso giurisdizionale,
proposto in via principale, da decidersi invero con c.d.
rito speciale abbreviato
(art. 119 c.p.a.);
aa) ciò nonostante, rimane dubbio che, nel rito
ex art. 119 c.p.a., possa procedersi ad un’analitica
disamina dei titoli di credito/debito pendenti, o risoluti,
o esitati,
o in riscossione coattiva, o in giudizio tra
l’amministrazione o l’ente pubblico e
la posizione del contribuente, a mezzo di istruttoria, per
consulenza tecnica,
bensì pare più plausibile ritenere che sia esperibile
un’istruttoria basata su meri
chiarimenti e/o interlocuzioni documentali con i soggetti
pubblici (es. Agenzia
delle entrate o Inps, etc.) depositari del carico del debito
fiscale e/o contributivo-previdenziale;
bb) va rilevato come la regolarità della
posizione fiscale dell’operatore economico derivi da una
pluralità di valutazioni, circa il rapporto debito/credito
con il
Fisco, collegato a fasi procedimentali dell’accertamento,
della liquidazione e/o
del pagamento, ivi compresi c.d. condoni o stralci, o
rateizzazioni e a eventuali
contenziosi pendenti, i cui elementi valutativi sono a
esclusiva conoscenza
dell’Agenzia delle entrate in ordine ai quali la detta
Agenzia può rilasciare
attestazione alla stazione appaltante, essendo, per altro
verso, escluso l’accesso
agli atti, ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. b), della
legge 07.08.1990, n. 241,
per cui “fanno fede” le attestazioni dell’Agenzia, peraltro
non parte necessaria
del processo amministrativo;
cc) va rammentato che, in base all’art. 10, comma
3, del d.m. 30.01.2015, il DURC soddisfa il possesso
del requisito della regolarità contributiva richiesta
dalla disciplina in materia di contratti pubblici; mentre,
in virtù dell’art. 1,
comma 1, dell’Allegato II.10 (al d.lgs. 31.03.2023, n.
36), recante “Disposizioni
in materia di possibile esclusione dell’operatore economico
dalla partecipazione a una
procedura d’appalto per gravi violazioni in materia fiscale
non definitivamente accertate
(articoli 94, comma 6 e 95, comma 2, del Codice)”,
costituiscono gravi violazioni in
materia contributiva e previdenziale quelle ostative al
rilascio DURC; peraltro
anche gli enti pubblici di previdenza non sono parti
necessarie del processo
amministrativo;
dd) resta salva la particolare disciplina in tema
di querela di falso (art. 221 c.p.c.) sul contenuto
intrinseco delle attestazioni dell’Agenzia delle entrate,
degli enti
previdenziali e degli altri enti interessati, laddove ne
sussistano i presupposti;
sul punto, ex multis, cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 28.12.2016, n. 5501, che ha
precisato che: “Nelle gare pubbliche, il documento unico di
regolarità contributiva
(d.u.r.c.) ha natura di dichiarazione di scienza e si
colloca fra gli atti di certificazione o
di attestazione facenti prova fino a querela di falso; esso
viene in rilievo non in via
principale, ma in qualità di presupposto di legittimità di
un provvedimento
amministrativo adottato dalla stazione appaltante”;
ee) nella più gran parte dei casi, gli atti degli
enti preposti in materia tributaria e
contributivo-previdenziale, che operano con procedure in toto informatico-telematiche, dichiarano qual sia la
posizione fiscale e/o contributivo-previdenziale di un dato
soggetto giuridico, per come si presenta, con
riferimento al flusso informatico di dati, al momento della
consultazione in
concreto a disposizione del sistema, il cui input è operato
dai professionisti
incaricati (cd. tele-amministrazione), che si interfacciano
con il portale
telematico-informatico dei predetti enti pubblici, inserendo
o meno determinati
dati e/o informazioni circa l’attività dell’azienda e
adempiendo o meno a oneri
di dichiarazioni ex lege dovuti e/o a pagamenti periodici;
ff) quanto alla puntuale disciplina normativa, è
utile porre a raffronto, nelle sole parti di interesse, il
vecchio codice dei contratti pubblici abrogato (d.lgs. 18.04.2016, n. 50, ma applicabile nel caso di specie
ratione temporis) e il nuovo
codice (d.lgs. 31.03.2023, n. 36);
ff.1) in
particolare, in base alla abrogata disciplina (art. 80,
comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50), un operatore
economico “è escluso […] se ha commesso
violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli
obblighi relativi al
pagamento delle imposte e tasse o dei contributi
previdenziali”; ciò posto:
1) sono
“gravi violazioni” tributarie quelle, definitivamente
accertate, che hanno
comportato un mancato pagamento superiore all'importo di cui
all'art. 48-bis, commi 1 e 2-bis, d.P.R. 29.09.1973, n. 602;
2)
sono “gravi
violazioni” in materia contributivo-previdenziale quelle
ostative al rilascio
del DURC (d.m. 30.01.2015);
ff.2) sempre,
in base alla abrogata disciplina (art. 80, comma 4, d.lgs.
18.04.2016, n. 50), un operatore economico “può essere
escluso” dalla
partecipazione a una procedura d'appalto, se la stazione
appaltante è a
conoscenza (e può adeguatamente dimostrare), che lo stesso
ha commesso
“gravi violazioni”, non definitivamente accertate, relativi
al pagamento di
imposte e tasse o contributi previdenziali; ciò posto:
1)
sono “gravi
violazioni” tributarie quelle stabilite da apposito decreto
del Ministro
dell'economia e delle finanze, che, in ogni caso, devono
essere correlate al
valore dell'appalto e comunque di importo non inferiore a €.
35.000,00
(d.m. 28.09.2022);
2) sono “gravi violazioni”, non
definitivamente
accertate, in materia contributivo-previdenziale quelle
ostative al rilascio
del DURC (d.m. 30.01.2015); tuttavia, l’esclusione
facoltativa non
opera, quando l'operatore economico ha ottemperato ai suoi
obblighi
pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le
imposte o i
contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali
interessi o multe,
ovvero quando il debito tributario o previdenziale sia
comunque
integralmente estinto, purché l'estinzione, il pagamento o
l'impegno si
siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine
per la presentazione delle domande; v’è una “ridondanza” nel
testo, quanto alla
regolarità del DURC; invero il DURC riporta la posizione
dell’operatore
economico, unitariamente considerata, esprimendosi in modo
positivo,
anche quando vi siano vi siano contenziosi pendenti, sulle
pretese
contributive accertate in via amministrativa o ispettiva;
infatti, in base al
d.m. 30.01.2015, che disciplina il rilascio del DURC,
esso soddisfa il
possesso del requisito indicato dall'art. 38, comma 1, lett.
i), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 [ossia dell’art. 80, comma 4, quarto periodo,
d.lgs. n. 50 del
2016] e, quindi, il DURC è preso in considerazione dalle
disposizioni
normative in senso anfibologico sia nel caso di esclusione
obbligatoria sia
nel caso di esclusione facoltativa;
ff.3) in
virtù della nuova disciplina (art. 94, comma 6, d.lgs.
31.03.2023, n. 36) è escluso (esclusione obbligatoria)
l’operatore economico che ha
commesso “violazioni gravi”, definitivamente accertate,
degli obblighi
relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi
previdenziali;
sono “gravi violazioni”, definitivamente accertate, quelle
indicate
nell’allegato II.10; tuttavia, viene previsto che
l’esclusione non operi
quando l'operatore economico ha ottemperato ai suoi
obblighi, pagando o
impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i
contributi
previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o
sanzioni, oppure
quando il debito tributario o previdenziale sia comunque
integralmente
estinto, purché l'estinzione, il pagamento o l'impegno si
siano perfezionati
anteriormente alla scadenza del termine di presentazione
dell’offerta; in
sostanza, a differenza del previdente codice, è stata
prevista, anche per la
c.d. esclusione obbligatoria, la possibilità di
regolarizzare la propria
posizione, purché però entro la data di scadenza della
presentazione delle
offerte;
ff.4) sempre
in base alla nuova disciplina (art. 95, comma 2, d.lgs.
31.03.2023, n. 36) la stazione appaltante esclude (rectius:
ha la possibilità di escludere),
altresì, un operatore economico, qualora ritenga (rectius:
possa ritenere e
dimostrare) “sulla base di qualunque mezzo di prova
adeguato”, che lo
stesso ha commesso “gravi violazioni”, non definitivamente
accertate, agli
obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse o
contributi
previdenziali; costituiscono “gravi violazioni” di tal tipo
quelle parimenti
indicate nell’Allegato II.10; tuttavia, come nel sistema
previgente, la
gravità va in ogni caso valutata, tenendo conto del valore
dell’appalto;
inoltre, anche in questo caso, l'operatore economico non va
escluso, quanto
ha ottemperato ai suoi obblighi, purché entro la data di
scadenza della
presentazione delle offerte, oppure ancora nel caso in cui
l’operatore
economico abbia compensato il debito tributario con crediti
certificati
vantati nei confronti della p.a.
gg) di seguito, i testi normativi per esteso,
utili per una più facile comprensione della pronuncia in
rassegna, nelle parti più rilevanti:
- d.lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 80 (Motivi di esclusione) --- Omissis---
4. Un operatore economico è escluso […] se ha commesso
violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli
obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei
contributi previdenziali, secondo la legislazione italiana o
quella dello Stato in cui sono stabiliti. Costituiscono
gravi violazioni quelle che comportano un omesso pagamento
di imposte e tasse superiore all'importo di cui all'articolo
48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della
Repubblica 29.09.1973, n. 602. Costituiscono
violazioni definitivamente accertate quelle contenute in
sentenze o atti amministrativi non più soggetti ad
impugnazione. Costituiscono gravi violazioni in materia
contributiva e previdenziale quelle ostative al rilascio del
documento unico di regolarità contributiva (DURC), di cui al
decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
30.01.2015, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 125
del 01.06.2015, ovvero delle certificazioni rilasciate
dagli enti previdenziali di riferimento non aderenti al
sistema dello sportello unico previdenziale. Un operatore
economico può essere escluso dalla partecipazione a una
procedura d'appalto se la stazione appaltante è a conoscenza
e può adeguatamente dimostrare che lo stesso ha commesso
gravi violazioni non definitivamente accertate agli obblighi
relativi al pagamento di imposte e tasse o contributi
previdenziali. Per gravi violazioni non definitivamente
accertate in materia contributiva e previdenziale
s'intendono quelle di cui al quarto periodo. Costituiscono
gravi violazioni non definitivamente accertate in materia
fiscale quelle stabilite da un apposito decreto del Ministro
dell'economia e delle finanze, […] che, in ogni caso, devono
essere correlate al valore dell'appalto e comunque di
importo non inferiore a 35.000 euro. Il presente comma non
si applica quando l'operatore economico ha ottemperato ai
suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a
pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti,
compresi eventuali interessi o multe, ovvero quando il
debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente
estinto, purché l'estinzione, il pagamento o l'impegno si
siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine
per la presentazione delle domande. --- Omissis---
6. Le stazioni appaltanti escludono un operatore economico
in qualunque momento della procedura, qualora risulti che
l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o
omessi prima o nel corso della procedura, in una delle
situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5. --- Omissis>>:
- d.m. 28.09.2022 “Disposizioni in materia di
possibile esclusione dell’operatore economico dalla
partecipazione a una procedura d’appalto per gravi
violazioni in materia fiscale non definitivamente accertate”
[ora abrogato]
- d.lgs. 31.03.2023, n. 36 --- Omissis---
art. 94. (Cause di esclusione automatica) ---Omissis---
6. È inoltre escluso l’operatore economico che ha commesso
violazioni gravi, definitivamente accertate, degli obblighi
relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi
previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella
dello Stato in cui sono stabiliti. Costituiscono gravi
violazioni definitivamente accertate quelle indicate
nell’Allegato II.10. Il presente comma non si applica quando
l'operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi
pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le
imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi
eventuali interessi o sanzioni, oppure quando il debito
tributario o previdenziale sia comunque integralmente
estinto, purché l'estinzione, il pagamento o l'impegno si
siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine
di presentazione dell’offerta. ---Omissis---
art. 95. (Cause di esclusione non automatica) ---Omissis---
2. La stazione appaltante esclude altresì un operatore
economico qualora ritenga, sulla base di qualunque mezzo di
prova adeguato, che lo stesso ha commesso gravi violazioni
non definitivamente accertate agli obblighi relativi al
pagamento di imposte e tasse o contributi previdenziali.
Costituiscono gravi violazioni non definitivamente accertate
in materia fiscale quelle indicate nell’Allegato II.10. La
gravità va in ogni caso valutata anche tenendo conto del
valore dell’appalto. Il presente comma non si applica quando
l'operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi
pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le
imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi
eventuali interessi o sanzioni, oppure quando il debito
tributario o previdenziale sia comunque integralmente
estinto, purché l'estinzione, il pagamento o l'impegno si
siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine
di presentazione dell’offerta, oppure nel caso in cui
l’operatore economico abbia compensato il debito tributario
con crediti certificati vantati nei confronti della pubblica
amministrazione.
art. 96. (Disciplina dell’esclusione)
1. Salvo quanto previsto dai commi 2, 3, 4, 5 e 6, le
stazioni appaltanti escludono un operatore economico in
qualunque momento della procedura d’appalto, qualora risulti
che questi si trovi, a causa di atti compiuti od omessi
prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni
di cui agli articoli 94 e 95.
2. L’operatore economico che si trovi in una delle
situazioni di cui all’articolo 94, a eccezione del comma 6,
e all’articolo 95, a eccezione del comma 2, non è escluso se
si sono verificate le condizioni di cui al comma 6 del
presente articolo e ha adempiuto agli oneri di cui ai commi
3 o 4 del presente articolo.
3. Se la causa di esclusione si è verificata prima della
presentazione dell’offerta, l’operatore economico,
contestualmente all’offerta, la comunica alla stazione
appaltante e, alternativamente:
a) comprova di avere adottato le misure di cui al comma 6;
b) comprova l’impossibilità di adottare tali misure prima
della presentazione dell’offerta e successivamente ottempera
ai sensi del comma 4.
4. Se la causa di esclusione si è verificata successivamente
alla presentazione dell’offerta, l’operatore economico
adotta e comunica le misure di cui al comma 6.
5. In nessun caso l’aggiudicazione può subire dilazioni in
ragione dell’adozione delle misure di cui al comma 6.
6. Un operatore economico che si trovi in una delle
situazioni di cui all’articolo 94, a eccezione del comma 6,
e all’articolo 95, a eccezione del comma 2, può fornire
prova del fatto che le misure da lui adottate sono
sufficienti a dimostrare la sua affidabilità. Se tali misure
sono ritenute sufficienti e tempestivamente adottate, esso
non è escluso dalla procedura d'appalto. A tal fine,
l'operatore economico dimostra di aver risarcito o di
essersi impegnato a risarcire qualunque danno causato dal
reato o dall'illecito, di aver chiarito i fatti e le
circostanze in modo globale collaborando attivamente con le
autorità investigative e di aver adottato provvedimenti
concreti di carattere tecnico, organizzativo e relativi al
personale idonei a prevenire ulteriori reati o illeciti. Le
misure adottate dagli operatori economici sono valutate
considerando la gravità e le particolari circostanze del
reato o dell'illecito, nonché la tempestività della loro
assunzione. Se la stazione appaltante ritiene che le misure
siano intempestive o insufficienti, ne comunica le ragioni
all'operatore economico.
7. Un operatore economico escluso con sentenza definitiva
dalla partecipazione alle procedure di appalto o di
concessione non può avvalersi della possibilità prevista dai
commi 2, 3, 4, 5 e 6 nel corso del periodo di esclusione
derivante da tale sentenza.
-
allegato II.10 - disposizioni in materia di possibile
esclusione dell’operatore economico dalla partecipazione a
una procedura d’appalto per gravi violazioni in materia
fiscale non definitivamente accertate (articoli 94, comma 6
e 95, comma 2, del Codice)
art. 1 (Oggetto)
1. Ai sensi e per gli effetti dell’articoli 94, comma 6, del
codice, costituiscono gravi violazioni quelle che comportano
un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all'importo
di cui all'articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del
Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602.
Costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle
contenute in sentenze o atti amministrativi non più soggetti
a impugnazione. Costituiscono gravi violazioni in materia
contributiva e previdenziale quelle ostative al rilascio del
documento unico di regolarità contributiva (DURC), di cui al
decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali
30.01.2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica italiana n. 125 del 01.06.2015, ovvero delle
certificazioni rilasciate dagli enti previdenziali di
riferimento non aderenti al sistema dello sportello unico
previdenziale.
2. In relazione agli articoli 94, comma 6 e 95, comma 2, si
considera mezzo di prova, con riferimento ai contributi
previdenziali e assistenziali, il documento unico di
regolarità contributiva acquisito d'ufficio dalle stazioni
appaltanti presso gli istituti previdenziali ai sensi della
normativa vigente.
art. 2 (Ambito di applicazione)
1. Ai sensi e per gli effetti dell’articolo 95, comma 2, del
codice, si considera violazione l’inottemperanza agli
obblighi, relativi al pagamento di imposte e tasse derivanti
dalla:
a) notifica di atti impositivi, conseguenti ad attività di
controllo degli uffici;
b) notifica di atti impositivi, conseguenti ad attività di
liquidazione degli uffici;
c) notifica di cartelle di pagamento concernenti pretese
tributarie, oggetto di comunicazioni di irregolarità emesse
a seguito di controllo automatizzato o formale della
dichiarazione, ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del
decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973,
n. 600 e dell’art. 54-bis del decreto del Presidente della
Repubblica 26.10.1972, n. 633.
art. 3 (Soglia di gravità)
1. Ai sensi e per gli effetti dell’art. 95, comma 2, del
codice, la violazione si considera grave quando comporta
l'inottemperanza a un obbligo di pagamento di imposte o
tasse per un importo che, con esclusione di sanzioni e
interessi, è pari o superiore al 10 per cento del valore
dell'appalto. Per gli appalti suddivisi in lotti, la soglia
di gravità è rapportata al valore del lotto o dei lotti per
i quali l'operatore economico concorre. In caso di
subappalto o di partecipazione in raggruppamenti temporanei
o in consorzi, la soglia di gravità riferita al
subappaltatore o al partecipante al raggruppamento o al
consorzio è rapportata al valore della prestazione assunta
dal singolo operatore economico. In ogni caso, l'importo
della violazione non deve essere inferiore a 35.000 euro.
Costituiscono gravi violazioni in materia contributiva e
previdenziale quelle ostative al rilascio del DURC, di cui
al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali
30.01.2015, ovvero delle certificazioni rilasciate dagli
enti previdenziali di riferimento non aderenti al sistema
dello sportello unico previdenziale.
art. 4.
1. Ai sensi e per gli effetti dell’articolo 95, comma 2, del
codice, la violazione grave di cui all'articolo 3, comma 1,
del presente allegato si considera non definitivamente
accertata, e pertanto valutabile dalla stazione appaltante
per l'esclusione dalla partecipazione alle procedure di
affidamento di contratti pubblici, quando siano decorsi
inutilmente i termini per adempiere all'obbligo di pagamento
e l'atto impositivo o la cartella di pagamento siano stati
tempestivamente impugnati.
2. Le violazioni di cui al comma 1 non rilevano ai fini
dell'esclusione dell'operatore economico dalla
partecipazione alla procedura d'appalto se in relazione alle
stesse è intervenuta una pronuncia giurisdizionale
favorevole all'operatore economico non passata in giudicato,
sino all'eventuale riforma della stessa o sino a che la
violazione risulti definitivamente accertata, ovvero se sono
stati adottati provvedimenti di sospensione giurisdizionale
o amministrativa.
- D.M. 30.01.2015 (“Semplificazione in materia di documento
unico di regolarità contributiva”) [vigente]
hh) in dottrina, si rinvia a: BALOCCO, Documento
unico di regolarità contributiva e appalti pubblici: una
difficoltosa convivenza, in Urb. e app., 2015, 1002; DE
NICTOLIS, Appalti pubblici e concessioni, Bologna, 2020, in
part. 677 ss., 727 ss.; GAVIOLI, Esclusione dall'appalto per
violazioni fiscali, in Prat. fisc., 14.11.2022, n. 43; DIMICHINA, Le violazioni in materia fiscale nel nuovo Codice
dei contratti, in Giorn. dir. amm., 2023, 167; sulla prassi, è possibile consultare i seguenti atti:
-
INPS-Direzione centrale entrate, circolare 26.06.2015,
n. 126 (“Decreto Interministeriale 30.01.2015 -
Semplificazione in materia di Documento Unico di Regolarità
Contributiva (DURC)”);
-
INPS-Direzione centrale entrate, circolare 31.01.2017,
n. 17 (“Semplificazioni in materia di documento unico di
regolarità contributiva (DURC). Modifiche al decreto
interministeriale 30.01.2015”);
-
INAIL- Direzione centrale rischi, circolare 26.06.2015,
n. 61 (“Semplificazioni in materia di documento unico di
regolarità contributiva. Decreto interministeriale
30.01.2015");
-
INAIL-Direzione centrale rapporto assicurativo, circolare
14.12.2016, n. 48 (“Semplificazioni in materia di documento
unico di regolarità contributiva. Modifiche al decreto
interministeriale 30.01.2015”);
-
Agenzia delle entrate, circolare 12.02.2020, n. 1/E
(“Articolo 4 del decreto-legge 26.10.2019, n. 124,
convertito, con modificazioni, dalla legge 19.12.2019,
n. 157 – primi chiarimenti”), con riferimento al c.d. “DURF”
(“Documento Unico di Regolarità Fiscale”), introdotto
dall’art. 4 decreto-legge del 26.10.2019, n. 124, conv.,
con md., dalla legge 19.12.2019 n. 157, che ha
aggiunto al
d.lgs.
09.07.1997, n. 241, l’art. 17-bis, che
ha posto alcuni obblighi negli appalti e subappalti,
relativi a opere (o servizi) di importo annuo superiore a €
200.000,00 e caratterizzati da prevalente utilizzo di
manodopera.
-
ANAC - Autorità nazionale anti-corruzione, delibera
20.06.2023, n. 261:
(“Adozione del provvedimento di cui all’articolo 24,
comma 4, del decreto legislativo 31.03.2023, n. 36 d’intesa
con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e con
l’Agenzia per l’Italia Digitale”), che ha istituito il
FVOE (ossia il “Fascicolo virtuale dell’operatore
economico”), che consente alle stazioni appaltanti la
verifica dell’assenza delle cause di esclusione e dei
requisiti di partecipazione alle procedure di evidenza
pubbliche (detta banca dati sostituisce il previgente
sistema ACV-pass); segnatamente, il nuovo sistema FVOE
permette alle stazioni appaltanti e agli enti aggiudicatori
l’acquisizione dei documenti a comprova del possesso dei
requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed
economicofinanziario per l’affidamento dei contratti
pubblici e per la verifica del mantenimento dei requisiti in
fase di esecuzione; agli operatori economici permette di
inserire a sistema i documenti la cui produzione è a proprio
carico e di utilizzare tali documenti per ciascuna delle
procedure di affidamento alle quali partecipa, entro il
periodo di validità del documento individuato in via
convenzionale in n. 120 giorni dalla data di emissione, ove
non diversamente indicato; il FVOE è obbligatorio per tutti
gli affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro (Consiglio
di Stato, Sez. III,
ordinanza 04.01.2024 n. 161 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla necessità o meno di verificare che la regolarità
fiscale dell’impresa concorrente persista per tutta la
durata della procedura di evidenza pubblica.
---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione – Requisiti di partecipazione – Regolarità
fiscale – Irregolarità sopravvenuta – Rilevanza – Rimessione
all’Adunanza plenaria.
Vanno rimessi all’Adunanza plenaria
i seguenti quesiti:
i) se, fermo restando il principio della insussistenza di un potere
della stazione appaltante di sindacare le risultanze delle
certificazioni dell’Agenzia delle entrate attestanti
l’assenza di irregolarità fiscali a carico dei partecipanti
a una gara pubblica, le quali si impongono alla stessa
amministrazione, il principio della necessaria continuità
del possesso in capo ai concorrenti dei requisiti di ordine
generale per la partecipazione alle procedure selettive
comporti sempre il dovere di ciascun concorrente di
informare tempestivamente la stazione appaltante di
qualsiasi irregolarità che dovesse sopravvenire in corso di
gara;
ii) se, correlativamente, sussista a carico della stazione
appaltante, ferma restando la richiamata regola della
sufficienza delle certificazioni rilasciate dalle autorità
competenti, il dovere di estendere la verifica circa
l’assenza di irregolarità in capo all’aggiudicatario della
procedura in relazione all’intera durata di essa, se del
caso attraverso l’acquisizione di certificazioni estese
all’intero periodo dalla presentazione dell’offerta fino
all’aggiudicazione;
iii) se, in ogni caso e a prescindere dalla sufficienza o meno
delle verifiche condotte dalla stazione appaltante, il
concorrente che impugni l’aggiudicazione possa dimostrare, e
con quali mezzi, che in un qualsiasi momento della procedura
di gara l’aggiudicataria ha perso il requisito dell’assenza
di irregolarità con il conseguente obbligo
dell’amministrazione di escluderlo dalla procedura stessa
(1).
---------------
(1) Non risultano precedenti negli esatti termini (Consiglio
di Stato, Sez. III,
ordinanza 04.01.2024 n. 161 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Rivendicazione delle differenze retributive – Svolgimento di
mansioni superiori – Operazione di sussunzione trifasica –
Verifica delle caratteristiche dell’inquadramento –
Raffronto tra le attività in concreto svolte –
Contrattazione collettiva nazionale – Contrattazione
collettiva integrativa – Mansioni svolte con abitualità e
prevalenza – Riconoscimento della superiore qualifica –
rilevanza ai fini retributivi – Art. 52, c. 5, D.lgs. n.
165/2001 – Equivalenza formale delle mansioni.
La domanda di inquadramento superiore e
quella di rivendicazione delle differenze retributive
conseguenti allo svolgimento delle mansioni superiori devono
essere distinte. In ambito di mansioni superiori il giudice
è tradizionalmente chiamato ad un’operazione di sussunzione
su base c.d. trifasica, ovverosia data dalla verifica delle
caratteristiche dell’inquadramento posseduto, delle
caratteristiche del livello in ragione del quale è calibrata
la domanda e, quindi, dal raffronto delle une e delle altre
con le attività in concreto svolte.
Il giudizio trifasico dovrà tener conto, oltre che della
contrattazione collettiva nazionale, anche di quella
integrativa di tempo in tempo vigente, al fine di verificare
le mansioni svolte con abitualità e prevalenza in quale
inquadramento vadano sussunte, fermo restando che tale
operazione di sussunzione, nel pubblico impiego
contrattualizzato, non rileva ai fini del riconoscimento
della superiore qualifica, ma solo ai fini retributivi ex
art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001.
L’operazione trifasica dovrà, altresì, tener conto che in
materia di impiego pubblico contrattualizzato, l’equivalenza
formale delle mansioni può essere definita dai contratti
collettivi anche attraverso la previsione di aree omogenee
nelle quali rientrino attività tutte parimenti esigibili e
ciò ancorché, secondo una precedente classificazione, tali
diverse attività –poi ricomprese nelle medesime aree–
fossero da considerare come mansioni di diverso rilievo
professionale e retributivo.
Pertanto, al dipendente che abbia svolto, nel previgente
regime, mansioni considerate superiori a quelle di
inquadramento, ricevendo il corrispondente maggior
trattamento retributivo, e prosegua nello svolgimento delle
medesime nella vigenza della nuova contrattazione –in cui
sia le mansioni di cui al precedente inquadramento, sia
quelle richieste, rientrino nell’ambito della stessa area–
compete il solo trattamento proprio di quell’area e della
posizione meramente economica di inquadramento secondo la
nuova contrattazione, senza che, in mancanza di espresse
previsioni contrarie di diritto transitorio della
contrattazione collettiva sopravvenuta, l’assetto
complessivo dei rapporti di lavoro, quale definito da quest’ultima,
possa essere sindacato o manipolato, in vista della
salvaguardia di pretese individuali fondate sulla previgente
disciplina (Corte
di Cassazione, Sez.
ordinanza 03.01.2024 n. 154 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Impugnazione terza classificata –
Documenti relativi a una procedura di gara – Mancata firma
dei verbali della commissione di gara – Mancata firma
segretarie che assistevano la commissione.
Qualora il provvedimento che fissa le
regole di funzionamento della commissione preveda
esclusivamente che i verbali verranno redatti per il tramite
dei segretari, non ne consegue la necessità anche della
firma da parte degli stessi.
Tale adempimento può essere svolto dai commissari poiché la
sigla in calce al verbale di gara, per il ruolo e la
funzione rivestita dai commissari stessi, è senz’altro
idonea ad attestare, in via assorbente, la effettiva
provenienza dell’atto da parte della commissione stessa
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.01.2024 n. 29 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
SENTENZA
7.2. Si lamenta poi, con il secondo dei motivi, che
tre verbali della commissione di gara non sarebbero stati
firmati anche dalle due segretarie che assistevano la
commissione. Al riguardo osserva il collegio che:
7.2.1. Il motivo non può trovare ingresso in quanto, come
correttamente evidenziato dal giudice di primo grado,
nessuna norma del codice dei contratti ratione temporis
vigente impone, in effetti, una simile formalità;
7.2.2. Inoltre il provvedimento in data 01.02.2023,
con cui si nominavano i membri della commissione e si
fissavano alcune delle regole di funzionamento della
commissione, così stabiliva: “La Commissione giudicatrice
avrà il compito di svolgere le operazioni di gara nel
rispetto delle norme di gara, redigendo, per il tramite dei
segretari, appositi verbali”.
Dunque si prevedeva che il segretario di commissione dovesse
“redigere” il verbale e non anche necessariamente siglarlo o
firmarlo. Adempimento questo che ben avrebbe potuto essere
svolto dai commissari (come in effetti è stato) la cui sigla
in calce al verbale di gara, per il ruolo e la funzione
rivestita dai commissari stessi, è senz’altro idonea ad
attestare, in via assorbente, la effettiva provenienza
dell’atto da parte della commissione stessa;
7.2.3. In ogni caso non è contestata la provenienza di tali
verbali dalla commissione di gara.
Si veda al riguardo la pacifica giurisprudenza sulla assenza
di firma dei provvedimenti tributari o amministrativi in
generale secondo cui, più da vicino: “Sebbene la firma
apposta in calce ad un provvedimento o ad un atto
amministrativo costituisce lo strumento per la sua concreta
attribuibilità, psichica e giuridica, all’agente
amministrativo che risulta averlo formalmente adottato, è
pur vero che la giurisprudenza ha recentemente (e
condivisibilmente) osservato, anche in omaggio al più
generale principio di correttezza e buona fede cui debbono
essere improntati i rapporti tra pubblica amministrazione e
cittadino, che non solo la “non leggibilità” della firma, ma
anche la stessa autografia della sottoscrizione non possono
costituire requisiti di validità dell’atto amministrativo,
ove concorrano elementi testuali (indicazione dell’ente
competente, qualifica, ufficio di appartenenza del
funzionario che ha adottato la determinazione, emergenti
anche dal complesso dei documenti che lo accompagnano), che
permettono di individuare la sua sicura provenienza (C.d.S.,
sez. IV, 07.07.200, n. 4356; sez. VI, 29.07.2009, n. 4712);
è stato anche rilevato (Cass. sez. lav., 10.06.2009, n.
13375) che l’atto amministrativo esiste come tale allorché i
dati emergenti dal procedimento amministrativo consentano
comunque di ritenerne la sicura provenienza
dall’amministrazione e la sua attribuibilità a chi deve
esserne l’autore secondo le norme positive, salva la facoltà
dell’interessato di chiedere al giudice l’accertamento
dell’effettiva provenienza dell’atto stesso dal soggetto
autorizzato a firmarlo” (Cons. Stato, sez. V,
28.05.2012, n. 3119).
Elementi questi (indicazione ente competente, qualifica,
ufficio, etc.) che nel caso di specie non solo risultano ad
una attenta lettura dei verbali in contestazione ma che,
come già anticipato, neppure hanno formato oggetto di più
specifica contestazione da parte della difesa di parte
appellante; |
APPALTI:
Circa il motivo
di appello secondo cui il RUP non
si sarebbe fatto effettivamente assistere dalla commissione
di gara per la valutazione di anomalia dell’offerta
formulata dalla prima classificata devesi osservare
che la norma primaria del codice dei contratti prevede
una mera facoltà in tal senso.
La giurisprudenza ha avuto modo, al
riguardo, di rilevare che: “Per principio generale
il giudizio di congruità delle offerte è riservato alla
competenza del RUP il quale può decidere di avvalersi o di
delegare, a tal fine, la commissione di gara”.
---------------
7.3. Con il terzo motivo di appello si lamenta, inoltre, che il RUP non
si sarebbe fatto effettivamente assistere dalla commissione
di gara per la valutazione di anomalia dell’offerta
formulata dalla prima classificata. Al riguardo si osserva
che:
7.3.1. La norma primaria del codice dei contratti prevede
una mera facoltà in tal senso. La giurisprudenza ha avuto al
riguardo avuto modo di rilevare che: “Per principio generale
il giudizio di congruità delle offerte è riservato alla
competenza del RUP il quale può decidere di avvalersi o di
delegare, a tal fine, la commissione di gara (Cons. Stato,
sez. V, 11.10.2021, n. 6784; Cons. Stato, sez. III, 11.05.2021, n. 3709; Cons. Stato, sez. III, 11.05.2021,
n. 3710)” [Cons. Stato, sez. V, 19.05.2022, n. 3975];
7.3.2. Anche il disciplinare di gara prevedeva la sola
eventualità che il RUP si facesse assistere dal RUP per tale
attività. L’art. 23 del richiamato atto di gara prevedeva
infatti che: “Al ricorrere dei presupposti di cui all’art.
97, comma 3, del Codice, e in ogni altro caso in cui, in
base a elementi specifici, l’offerta appaia anormalmente
bassa, il RPA, avvalendosi, se ritenuto necessario, della
commissione giudicatrice, valuta la congruità, serietà,
sostenibilità e realizzabilità delle offerte che appaiono
anormalmente basse”. Dunque nessun autovincolo dal
disciplinare ma soltanto la mera facoltà del RUP (“se
ritenuto necessario”) di avvalersi delle competenze tecniche
della commissione di gara;
7.3.3. La difesa di parte appellante afferma che il RUP, con
proprio atto del 13.04.2023, avrebbe espressamente affermato
che per la valutazione di anomalia si sarebbe avvalso della
commissione di gara. Di qui il formarsi di un autovincolo
che non sarebbe poi stato in effetti osservato.
Si rileva tuttavia che, anche ad interpretare l’atto RUP del
13.04.2023 alla stregua di autovincolo, con i successivi
atti (afferenti al giudizio di anomalia) tale autovincolo è
stato sostanzialmente ed implicitamente rimosso nel rispetto
del contrarius actus ossia mediante provvedimenti dello
stesso RUP che, sebbene per implicito ossia per facta
concludentia o meglio attraverso altri specifici atti
concludenti dello stesso organo della PA (quelli riguardanti
il concreto giudizio di congruità dell’offerta), hanno in
concreto manifestato una intenzione di contrario avviso in
tal senso (assistenza della commissione di gara) da parte
del medesimo RUP;
7.3.4. Si osserva poi che, con memoria difensiva in data
30.11.2023, la difesa di parte appellante contestava altresì
il ritardo con cui sarebbero stati prodotti i giustificativi
da parte della prima classificata. Trattasi tuttavia di
censura per la prima sollevata nel presente giudizio
(peraltro con mera memoria difensiva) e dunque radicalmente
inammissibile per violazione del divieto di nova in appello;
7.3.5. Per tutte le ragioni sopra evidenziate,
anche tale motivo deve pertanto essere rigettato (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.01.2024 n. 29 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Come noto, l’interesse
all’aggiudicazione del terzo classificato sussiste “solo ove
risultino fondate sia le censure proposte avverso la prima
classificata, che quelle spese nei confronti della seconda
graduata”.
È invece inammissibile per carenza di interesse il ricorso
per l’impugnazione degli atti di gara, con il quale la terza
classificata lamenti profili di illegittimità limitatamente
alla posizione dell’aggiudicatario (ipotesi alla quale è
assimilabile quella in cui le censure investano le posizioni
sia del primo che del secondo classificati, ma siano fondate
solo nei confronti di uno dei due), in quanto l’accoglimento
delle suddette censure determinerebbe uno scorrimento della
graduatoria a favore dell’impresa seconda classificata,
senza recare una concreta utilità al ricorrente, non essendo
ravvisabile in capo al medesimo soggetto neppure un
interesse strumentale all’annullamento degli atti ai fini
della rinnovazione della gara, nella misura in cui i vizi
dedotti non si caratterizzino per una generalità tale da
determinare l’illegittimità e il travolgimento dell’intera
procedura.
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7.4. Con ultimo motivo si lamenta che l’offerta della prima
classificata non sarebbe sostenibile. Al riguardo si osserva
che:
7.4.1. In primo luogo la censura è inammissibile, come
correttamente evidenziato dalla difesa dell’amministrazione
aggiudicatrice, in quanto si contesta la sola offerta della
prima e non anche quella della seconda.
La giurisprudenza ha
infatti al riguardo affermato che: “Come noto, l’interesse
all’aggiudicazione del terzo classificato sussiste “solo ove
risultino fondate sia le censure proposte avverso la prima
classificata, che quelle spese nei confronti della seconda
graduata” (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 07.01.2020,
n. 83; Cons. Stato, sez. III, 02.03.2017, n. 972).
È invece inammissibile per carenza di interesse il ricorso
per l’impugnazione degli atti di gara, con il quale la terza
classificata lamenti profili di illegittimità limitatamente
alla posizione dell’aggiudicatario (ipotesi alla quale è
assimilabile quella in cui le censure investano le posizioni
sia del primo che del secondo classificati, ma siano fondate
solo nei confronti di uno dei due), in quanto l’accoglimento
delle suddette censure determinerebbe uno scorrimento della
graduatoria a favore dell’impresa seconda classificata,
senza recare una concreta utilità al ricorrente, non essendo
ravvisabile in capo al medesimo soggetto neppure un
interesse strumentale all’annullamento degli atti ai fini
della rinnovazione della gara, nella misura in cui i vizi
dedotti non si caratterizzino per una generalità tale da
determinare l’illegittimità e il travolgimento dell’intera
procedura (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.11.2020, n.
7065)” (Cons. Stato, sez. III, 08.05.2023, n. 4584).
La circostanza, poi, secondo cui la difesa di parte
appellante non avrebbe potuto muovere contestazione alcuna
in tal senso in quanto la S.A. non aveva ancora effettuato un
giudizio di anomalia anche nei confronti della seconda
classificata (cfr. memoria IT. del 30.11.2023) non
ha pregio in quanto era onere della stessa appellante quello
di evidenziare almeno un principio di prova circa la
possibilità di intaccare e dunque superare, in qualche
misura, la posizione della seconda classificata.
La
giurisprudenza ha infatti in proposito rilevato che, in
siffatte ipotesi, costituisce “preciso e non eludibile onere
… non limitarsi a rilevare … che l’offerta della seconda
classificata era stata sospettata di anomalia dalla
Commissione di gara, bensì evidenziare i profili di
illegittimità e/o inaffidabilità della stessa che, a suo
avviso, non avrebbero potuto trovare giustificazione nel
corso dell’eventuale sub-procedimento di verifica,
analogamente a quanto fatto per l’offerta della prima
classificata” (Cons. Stato, sez. V, 25.06.2018, n.
3921).
Ed ancora che, in simili casi, il ricorso si rivela
“inammissibile per difetto di interesse, non avendo a suo
tempo la ricorrente –odierna appellante– dedotto alcuna
specifica censura in relazione all’offerta della seconda
graduata, al fine di dimostrarne, nel contraddittorio della
parte ed in modo definitivo, l’inaffidabilità e/o
contrarietà con le vigenti norme di legge”.
Ebbene, poiché
tale “dimostrazione minima” è risultata in questa sede del
tutto assente, alla luce di quanto emerge dagli atti del
giudizio, ne deriva la ineludibile assenza di prova di
resistenza da parte della odierna appellante (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.01.2024 n. 29 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Istanza realizzazione opere
urbanizzazione primaria – Realizzazione tronco fognante,
pubblica illuminazione e tronco gas – Preavviso rigetto –
Diniego istanza – Presupposto – Natura agricola dei fondi.
Deve essere rigettata l’istanza di
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria laddove
l’esecuzione delle predette opere non sia stata ritenuta
legalmente obbligatoria dall’Amministrazione comunale, né
corrispondente a criteri di pubblico interesse, essendo le
abitazioni dei ricorrenti edificate in zona agricola.
Inoltre, il fatto che il permesso di costruire sia
rilasciato a titolo oneroso non comporta automaticamente
l’obbligo dell’amministrazione comunale di eseguire le opere
di urbanizzazione, atteso che la norma di cui all’art. 16
del d.P.R. 380/2001 prevede l’esecuzione alternativa a
carico del privato che richiede l’assenso edilizio (1).
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(1) Il Collegio nella decisione trae spunto da quanto statuito dal
Consiglio di Stato con sentenza n. 6434 del 2018 resa inter
partes, nel cui ambito, chiamato a valutare la fondatezza
della pretesa sostanziale dedotta in giudizio dai
ricorrenti, così come posta a base di un’azione avverso il
silenzio della P.a., il giudice di appello afferma che
“Secondo il chiaro disposto letterale contenuto nell’art.
31, comma 3 del c.p.a., il giudice può pronunciare sulla
fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando:
a) si tratta di attività vincolata;
b) quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio
della discrezionalità e non sono necessari adempimenti
istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.
11.3. Nel caso di specie, difettano i suddetti presupposti
giacché:
a) la fattispecie de qua non rientra tra i casi di esercizio
vincolato del potere, non essendovi alcuna base legale o
convenzionale che obblighi l’amministrazione a procedere
all’esecuzione delle dette opere in zona agricola (…);
b) la fattispecie rientra, invece, nell’ambito dell’esercizio
discrezionale del potere e sussistono profili e circostanze
di fatto che debbono essere valutati dall’ente comunale in
sede di amministrazione attiva, la cui verifica resta
inibita a questo giudice anche ai sensi dell’art. 34 del
c.p.a.” (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 02.01.2024 n. 2 - link a www.ambientediritto.it).
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SENTENZA
1. La presente controversia concerne il diniego di
provvedere alla realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria, che il Comune di Alberobello oppone ai deducenti,
sul presupposto della natura agricola dei fondi di loro
proprietà.
Ritiene, in proposito, il Collegio di trarre
spunto da quanto statuito dal Consiglio di Stato con
sentenza n. 6434 del 2018 resa inter partes, nel cui ambito,
chiamato a valutare la fondatezza della pretesa sostanziale
dedotta in giudizio dai ricorrenti, così come posta a base
di un’azione avverso il silenzio della P.a., il giudice di
appello afferma che “Secondo il chiaro disposto letterale
contenuto nell’art. 31, comma 3 del c.p.a., il giudice può
pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in
giudizio solo quando:
a) si tratta di attività vincolata;
b)
quando risulta che non residuano ulteriori margini di
esercizio della discrezionalità e non sono necessari
adempimenti istruttori che debbano essere compiuti
dall’amministrazione.
11.3. Nel caso di specie, difettano i
suddetti presupposti giacché:
a) la fattispecie de qua non
rientra tra i casi di esercizio vincolato del potere, non
essendovi alcuna base legale o convenzionale che obblighi
l’amministrazione a procedere all’esecuzione delle dette
opere in zona agricola, tenuto conto anche delle risultanze
delle relazioni tecniche allegate alle richieste di rilascio
del titolo edilizio presentate da due dei ricorrenti in
primo grado;
b) la fattispecie rientra, invece, nell’ambito
dell’esercizio discrezionale del potere e sussistono profili
e circostanze di fatto che debbono essere valutati dall’ente
comunale in sede di amministrazione attiva, la cui verifica
resta inibita a questo giudice anche ai sensi dell’art. 34
del c.p.a. (in nessun caso il giudice amministrativo può
pronunciare in ordine a poteri non ancora esercitati
dall’amministrazione), quali ad esempio: la possibilità di
stipulare una convenzione con il privato; di cedere
gratuitamente al comune la strada o la porzione di strada
interessata; di trovare un accordo in tal senso anche con
gli altri comproprietari della strada; di espropriare la
sede viaria, sussistendone le ragioni di interesse pubblico;
di valutare lo stato di complessiva urbanizzazione di fatto
della zona, rispetto alle altre abitazioni eventualmente
presenti in loco.”
2. Le argomentazioni sopra richiamate, pur non vincolanti ai
fini della soluzione della odierna controversia, conducono
il Collegio ad una decisione di rigetto dell’azione proposta
dai germani Mi..
3. Ed invero, il diniego alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria si fonda su una motivazione
articolata che permette di comprendere le ragioni per le
quali l’esecuzione di dette opere non è stata ritenuta
legalmente obbligatoria dall’Amministrazione comunale, né
corrispondente a criteri di pubblico interesse.
In
particolare, emerge chiaramente che le abitazioni dei
ricorrenti sono state edificate in zona agricola. La
realizzazione di opere di urbanizzazione primaria in zona
agricola appare in contrasto con la tipizzazione agricola
della zona, che persegue lo scopo di ridurre l’espansione
dell’abitato urbano.
La circostanza ridimensiona
l’osservazione per la quale si tratterebbe di immobili “legittimamente costruiti o sottoposti a interventi di
manutenzione/ristrutturazione regolarmente assentiti dal
Comune di Alberobello, … ubicati in una zona fortemente
edificata, a ridosso del centro urbano, attraversata da una
strada (la Traversa Contrada Vaccari), asfaltata a cura e
spese del Comune, su cui quest’ultimo ha programmato da
tempo (deliberazione di G.C. n. 467 del 23.07.1990) la
realizzazione delle necessarie opere di urbanizzazione a
servizio delle numerose abitazioni presenti in quel
territorio.”
E, d’altra parte, l’edificazione di fatto di un
brano del territorio comunale non impegna l’amministrazione
comunale ad eseguire o completare la rete delle opere di
urbanizzazione primaria, trattandosi pur sempre di scelta
discrezionale della P.a.
4. Quanto al secondo motivo di ricorso, sostengono i
ricorrenti che “dalla lettura dei titoli edilizi rilasciati
ai ricorrenti, si evince chiaramente che questi ultimi non
hanno mai assunto alcun impegno sostitutivo quanto alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria. Né
alcuna autorizzazione in tal senso si rinviene nei
provvedimenti concessori, da cui invece si evince che
l’Amministrazione comunale si è fatta carico di tali opere,
la cui esecuzione era stata infatti approvata sin dal 1990”.
Sennonché, le relazioni tecniche allegate ai titoli edilizi
rilasciati in favore dei germani Bi. e Le.Mi.
indicano che l’allacciamento alla rete idrica, a quella
fognaria e a quella di pubblica illuminazione sarebbe stato
a carico del privato richiedente, senza alcun obbligo posto
a carico dell’amministrazione.
A tutto concedere, e cioè
ammettendo per un attimo la possibilità di realizzare opere
di urbanizzazione primaria a servizio di una piccola zona
tipizzata quale agricola, il relativo onere va inteso come a
carico dei privati.
5. Il fatto che il permesso di costruire sia rilasciato a
titolo oneroso –argomento impiegato con il terzo motivo di
ricorso– non indica automaticamente l’obbligo
dell’amministrazione comunale di eseguire le opere di
urbanizzazione, atteso che la norma di cui all’art. 16 del d.P.R. 380/2001 prevede l’esecuzione alternativa a carico
del privato che richiede l’assenso edilizio “il rilascio del
permesso di costruire comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione… 2. La quota di contributo relativa agli
oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all’atto del
rilascio del permesso di costruire… A scomputo totale o
parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può
obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione… con le modalità e le garanzie stabilite dal
comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate
al patrimonio indisponibile del comune…”.
6. La stessa amministrazione comunale di Alberobello ha poi
chiarito che “le opere di urbanizzazione primaria richieste
non sono incluse nel piano triennale delle opere pubbliche,
né esiste alcun progetto in tale senso approvato dall’Ente”
depotenziando il quarto motivo di ricorso che fa leva sulla
presunta esistenza di una programmazione in tal senso,
peraltro in epoca assai risalente.
7. Il quinto motivo di ricorso appare superato in forza di
quanto osservato dal Consiglio di Stato, con la pronuncia
sopra citata, nella parte in cui si evidenzia la mancata
sussistenza di una procedura ablatoria di acquisizione di
parte della strada privata ad uso pubblico che collega la
proprietà dei ricorrenti al resto della zona agricola di cui
si discute.
Coerentemente con questo ordine di
argomentazioni la P.a. opina nel provvedimento impugnato che
“l’acquisizione della strada privata di uso pubblico
attraverso una procedura espropriativa necessita della sua
previsione e dell’apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio attraverso il PRG e/ o una sua variante; ma ad
oggi, tale previsione urbanistica non esiste; una sua
previsione imporrebbe la verifica della sussistenza delle
ragioni di interesse pubblico: appare difficile immaginare
di poter giustificare l’interesse pubblico all’acquisizione
coattiva di un tratto st5radale che, per caratteristiche e
dimensioni (ridotta sezione stradale e profilo tortuoso che
si dipana tra le proprietà private) è inidoneo a svolgere
alcuna funzione pubblica, essendo, per di più, poco più che
un “tratturo asfaltato” cieco sul quale si affacciano gli
immobili dei germani Mi.”.
8. Anche il sesto motivo di ricorso appare non fondato.
Va
detto che l’assunto per il quale “I provvedimenti impugnati
sono peraltro illegittimi anche per violazione
dell’affidamento ingenerato nei ricorrenti in merito
all’esecuzione delle opere in questione e dunque per
violazione del preciso dovere di correttezza e buona
amministrazione in rapporto alla qualificata aspettativa del
privato”.
A fronte di una scelta ampiamente discrezionale
della p.a. non appare configurabile alcuna aspettativa
qualificate nel privato, meritevole di protezione giuridica. |
PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICO IMPIEGO – Prescrizione dei crediti retributivi –
Pubblico impiego contrattualizzato – Decorrenza della
prescrizione – Rapporto a tempo indeterminato – Rapporto a
tempo determinato – Successione di rapporti a tempo
determinato – Decorrenza in costanza di rapporto –
Inconfigurabilità di un metus – Mera aspettativa del
lavoratore alla stabilità dell’impiego.
La prescrizione dei crediti retributivi
dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato
decorre sempre –tanto in caso di rapporto a tempo
indeterminato, tanto di rapporto a tempo determinato, così
come di successione di rapporti a tempo determinato– in
costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva
insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da
essa), attesa l’inconfigurabilità di un metus.
Nell’ipotesi di rapporto a tempo determinato, anche per la
mera aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego,
in ordine alla continuazione del rapporto suscettibile di
tutela.
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DIRITTO DEL LAVORO – Giurisprudenza e principi regolanti il
rapporto lavoro privato e pubblico contrattualizzato –
Differenze e limiti costituzionali – D.lgs. n. 29/1993, di
“Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni
pubbliche e revisione della disciplina in materia di
pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. n.
421/1992; d.lgs. n. 165/2001, seguito alla c.d. “seconda
privatizzazione” del lavoro pubblico operata dalla L. n.
59/1997 – Artt. 41 2 97 Cost..
Nei principi regolanti i rapporti
lavoro, la privatizzazione non ha comportato una totale
identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro
privato.
In particolare, permangono nel lavoro pubblico privatizzato
quelle peculiarità individuate dalla Corte Costituzionale,
in relazione al previgente regime dell’impiego pubblico,
come giustificative di un differente regime della
prescrizione: sia in punto di stabilità del rapporto di
lavoro a tempo indeterminato (articolo 51, secondo comma
d.lgs. 165/2001 e, all’attualità, articolo 63, secondo comma
d.lgs. cit.), che, in punto di eccezionalità del lavoro a
termine (secondo la disciplina speciale dell’articolo 36
d.lgs. cit.) … ”
(Cass. n. 35676/2021, così, massimata: “In
tema di pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi di
contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia
successivamente accertata la natura subordinata, la
prescrizione dei crediti retributivi decorre in costanza di
rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del
lavoratore alla stabilità dell’impiego e la conseguente
inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata
continuazione del rapporto suscettibile di tutela”).
Pertanto, le modifiche apportate dalla legge n. 92/2012
all’art. 18 non si applicano ai rapporti di pubblico impiego
privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in
caso di licenziamento illegittimo intimato in data
successiva all’entrata in vigore della richiamata legge n.
92, resta quella prevista dall’art. 18 legge cit. nel testo
antecedente la riforma; rilevano a tal fine il rinvio ad un
intervento normativo successivo ad opera dell’art. 1, ottavo
comma, legge n. 92/2012, l’inconciliabilità della nuova
normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con
le disposizioni di cui al d.lgs. 165/2001, neppure
richiamate al sesto comma dell’art. 18 nuova formulazione,
la natura fissa e non mobile del rinvio di cui all’art. 51,
secondo comma, d.lgs. cit., incompatibile con un automatico
recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla
natura della tutela del dipendente licenziato”
(Cass. n. 11868/2016; Cass. n. 23424/2017).
In particolare, una eventuale modulazione
delle tutele nell’ambito dell’impiego pubblico
contrattualizzato richiede da parte del legislatore una
ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per
l’impiego privato; poiché, come avvertito dalla Corte
Costituzionale, mentre in quest’ultimo il potere di
licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di
tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di
risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e
limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse
del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a
protezione di più generali interessi collettivi
(Corte Cost. n. 351/2008).
Viene, cioè, in rilievo non l’art. 41,
primo e secondo comma, della Costituzione, bensì l’art. 97
della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon
andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.
----------------
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Tutela del lavoratore pubblico –
PUBBLICO IMPIEGO – Inconfigurabilità di una situazione
psicologica di soggezione del cittadino verso un potere
dello Stato – Principi costituzionali – Artt. 2, 18, 21, 24,
28, 39, 48, 49, 113, Cost. e 6 CEDU.
In tema di tutela del diritto al lavoro,
deve essere affermata l’inconfigurabilità di una situazione
psicologica di soggezione del cittadino verso un potere
dello Stato, quale la pubblica amministrazione, nella
fisiologia del sistema.
Esso assicura, a tutela del lavoratore pubblico, un concreto
ed efficiente assetto di stabilità del rapporto, che si
articola in concorrenti profili di garanzia attraverso un
articolato ed equilibrato sistema di controlli tra poteri e
di bilanciamento di interessi, orientato da quello
prioritario generale, fondato sui principi dello Stato
costituzionale di diritto.
Il sistema garantisce, infatti, il controllo sulla res
publica dei cittadini, che si esprime sia nella forma
diretta partecipativa attraverso la composizione degli
organi costituzionali rappresentativi con l’esercizio del
diritto di voto (art. 48 Cost.) e la vigilanza critica sul
loro operato come opinione pubblica (art. 21 Cost.), sia in
quella mediata delle formazioni intermedie e della loro
libera associazione (artt. 2 e 18 Cost.) e, in particolare,
delle organizzazioni sindacali (art. 39 Cost.) e dei partiti
politici (art. 49 Cost.); non potendo essere sottaciuta
l’essenziale tutela dell’accesso al giudice (artt. 24 Cost.
e 6 CEDU), anche nei confronti della pubblica
amministrazione attraverso la giurisdizione amministrativa
(art. 113 Cost.).
Il rappresentato assetto ordinamentale di diritti e di
poteri, tutelato dai reciproci controlli di garanzia,
assicura pienamente il lavoratore pubblico negli eventuali
comprovati casi di patologia del sistema (che, in quanto
tale, costituisce deviazione eccezionale dall’ordinario
andamento fisiologico), attraverso la responsabilità diretta
de “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti
pubblici … secondo le leggi penali, civili e amministrative”
per gli “atti compiuti in violazione di diritti” (con
estensione, in tali casi, della responsabilità civile allo
Stato e agli enti pubblici), prevista dal già citato art. 28
Cost..
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PUBBLICO IMPIEGO – Reiterazione della contrattazione a tempo
determinato – Mancato rinnovo del contratto a termine da
parte del datore – Esclusione di una rilettura e di
ampliamento del concetto di metus.
In tema di reiterazione della
contrattazione a tempo determinato –tenuto anche conto in
ordine alla mancanza di prova di una “prassi” di
“stabilizzazioni” da parte della P.A., a fronte di una
normativa limitativa del ricorso alla contrattazione a tempo
determinato e di un suo obbligo di periodica informazione
alle organizzazioni sindacali sulle tipologie di lavoro
flessibile utilizzate, per combatterne gli abusi– appare
ostativa la corretta qualificazione giuridica del metus (non
già del licenziamento, ma) del mancato rinnovo del contratto
a termine da parte del datore.
Contrariamente al pubblico impiego contrattualizzato, che si
colloca all’interno di un rapporto di lavoro fonte (qualora
cessato per illegittimo recesso datoriale) di una posizione
giuridica qualificabile alla stregua di diritto soggettivo
tutelabile, il mancato rinnovo del contratto a tempo
determinato suscita (non tanto un “timore” siffatto, quanto
piuttosto) un’apprensione, che, per quanto meritevole di
giustificabile comprensione, integra tuttavia una mera
aspettativa di fatto, non giustiziabile per la sua
irrilevanza giuridica.
Infine, giova richiamare la radicale negazione
dell’esistenza del metus quale delineato dal giudice
costituzionale
(come chiarito da Cass. S.U. n. 575/2003),
per il riconoscimento ai rapporti a termine, in
caso di illegittimità del recesso, di una piena tutela
attraverso la condanna al pagamento delle retribuzioni
dovute e il risarcimento del danno
(Corte di
Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 28.12.2023 n. 36197 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla formazione del silenzio-assenso in materia di
installazione di stazioni radio base per telefonia mobile.
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Comunicazioni elettroniche – Silenzio-assenso – Istanza per
l’installazione di stazione radio base per telefonia mobile
– Decorso del termine di legge – Domanda non corredata di
tutti gli elementi occorrenti alla valutazione della
pubblica amministrazione -Formazione – Esclusione – Difetto
delle condizioni sostanziali – Formazione - Configurabilità.
L’assenso tacito sull’istanza per
l’installazione di una stazione radio base per telefonia
mobile si forma allorquando sulla domanda, se corredata di
tutti gli elementi occorrenti alla valutazione della
pubblica amministrazione, sia decorso il termine di legge
senza che questa abbia provveduto, mentre non può essere
escluso per difetto delle condizioni sostanziali per il suo
accoglimento, ossia, per contrasto della richiesta con la
normativa di riferimento (1).
Il Consiglio di Stato ha precisato che ove l’istanza non sia
stata corredata da tutta la documentazione necessaria ovvero
si presenti imprecisa o foriera di possibili equivoci, in
modo tale che l’amministrazione destinataria sia stata
impossibilitata per il comportamento dell’istante a svolgere
un compiuto accertamento di spettanza del bene, il
silenzio-assenso non può formarsi, per cui si avrà un’ipotesi di
inesistenza dello stesso e non di sua illegittimità.
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(1) Precedenti conformi: di recente, sul silenzio-assenso in
materia edilizia e sulla configurabilità del
silenzio-assenso anche nel caso in cui l’attività oggetto del
provvedimento di cui si chiede l’adozione non sia conforme
alle norme, Cons. Stato, sez. VI, 30.11.2023, n.
10383; Cons. Stato, sez. IV, 04.09.2023, n. 8156; Cons. Stato, sez. II, 22.05.2023, n. 5072; Cons. Stato,
sez. VI, 16.12.2022, n. 11034; Cons. Stato, sez. VI, 08.07.2022, n. 5746. Di recente, sul silenzio-assenso in
relazione alle fattispecie di tutela degli intessi
paesaggistici, Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2023, n.
8610.
Precedenti difformi: riteneva necessaria
per la formazione del silenzio-assenso la sussistenza di
tutte le condizioni e i presupposti richiesti dalla legge, Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 876 che richiama Cons. Stato, sez. VI, 21.09.2010, n. 7012; Tar per
il Lazio, sez. III-ter, 31.05.2012, n. 4976; Tar per
il Lazio, sez. II-ter, 18.01.2011, n. 401
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.12.2023 n. 11203 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
... per la riforma della sentenza del Tribunale
Amministrativo Regionale per la Liguria, Sezione Seconda, n.
429 dell’11.04.2023.
...
3. Il Tar per la Liguria, Sezione Seconda, con la sentenza
n. 429 dell’11.04.2023, ha dichiarato il ricorso
inammissibile con la seguente motivazione:
“Si rammenta che, per consolidato orientamento
giurisprudenziale, ai fini dell’impugnazione dei titoli
abilitativi relativi ad infrastrutture di comunicazione
elettronica non è sufficiente la sussistenza di una
situazione legittimante determinata dallo stabile
collegamento con il sito di installazione (“vicinitas”), ma
è necessaria anche la dimostrazione degli specifici
pregiudizi in cui risiede l’interesse ad agire, consistenti
nel peggioramento delle condizioni di vita e di salute o nel
deterioramento delle concrete connotazioni urbanistico e
ambientali dell’area ovvero, ancora, nel deprezzamento delle
unità immobiliari poste in prossimità del nuovo impianto.
Considerando che le infrastrutture in questione sono
assimilate alle opere di urbanizzazione primaria e di
pubblica utilità in quanto funzionali all’erogazione di un
servizio a carattere generale, l’esigenza dell’allegazione e
della prova di tali pregiudizi si impone in modo ancora più
intenso di quanto non si verifichi nel caso degli ordinari
titoli edilizi.
Tanto precisato, la documentazione versata in giudizio dai
ricorrenti pare sufficiente a dimostrare la sussistenza
della vicinitas quale requisito di legittimazione ad agire:
la fotografia aerea …, infatti, comprova l’esistenza di
almeno un’abitazione che, per la contenuta distanza (40 m
circa), può ritenersi legata da uno stabile collegamento
materiale con l’area di intervento.
Fa difetto, invece, la rigorosa dimostrazione dell’interesse
ad agire che, secondo la prospettazione di parte ricorrente,
risiederebbe nell’esigenza di conservare le visuali
consolidate, di preservare la salute e il valore delle unità
immobiliari nonché, infine, di garantire la “tenuta sismica”
di un’area soggetta a frane.
Infatti, come dimostra la documentazione versata in
giudizio, il sito di installazione è al di fuori del centro
abitato. Non risultano vincoli ambientali o valori
paesaggistici meritevoli di particolare tutela. Le
fotografie prodotte dai ricorrenti … non offrono evidenza
univoca dell’interferenza dell’impianto sulle visuali
godibili dall’abitato: una di esse (non numerata, ma
identificabile come n. 3) rappresenta l’antenna addossata
alle pendici della collina retrostante, un’altra
(identificabile come n. 5) la raffigura in posizione
apparentemente più bassa, quasi confusa sullo sfondo del
paesaggio urbano, e una terza fotografia … mostra l’antenna
immersa nella vegetazione, senza traccia di abitazioni
vicino ad essa.
Sulla base di tali elementi, non può ritenersi dimostrato
che l’impianto posto all’esterno dell’abitato cagioni un
apprezzabile vulnus alle condizioni di vita nella zona, alla
godibilità delle singole unità abitative o al valore delle
stesse”.
4. Sulle condizioni soggettive dell’azione in materia
edilizia, con la sentenza n. 22 del 2021, l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato ha recentemente espresso i
seguenti principi di diritto: “riaffermata la distinzione e
l’autonomia tra legittimazione e interesse al ricorso quali
condizioni dell’azione, è necessario in via di principio che
ricorrano entrambi e non può affermarsi che il criterio
della vicinitas, quale elemento di differenziazione, valga
da solo ed in automatico a soddisfare anche l’interesse al
ricorso” e che “lo specifico pregiudizio derivante
dall’intervento edilizio che si assume illegittimo, e che è
necessario sussista, può comunque ricavarsi, in termini di prospettazione, dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel
ricorso, suscettibili di essere precisate e comprovate
laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle
controparti o dai rilievi del giudicante, essendo questione
rilevabile d’ufficio nel rispetto dell’art. 73, comma 3,
c.p.a. e quindi nel contraddittorio tra le parti”.
Tali principi, mutatis mutandis, devono ritenersi
applicabili anche all’installazione di una stazione radio
base, la quale, comunque, consiste nella realizzazione di
una struttura avente rilievo urbanistico ed edilizio.
5. Il Collegio ribadisce quanto già evidenziato
nell’ordinanza cautelare n. 2767 del 2023, vale a dire che
sussistono entrambe le condizioni soggettive dell’azione per
ritenere ammissibile il ricorso, in quanto, oltre allo
stabile collegamento con il sito di installazione della
stazione radio base, la c.d. vicinitas, gli appellanti non
solo hanno prospettato problematiche afferenti la nocività
dell’impianto che, in ragione della vicinitas, sarebbero
sufficienti a connotarne l’interesse ad agire, ma hanno
documentato anche che, a seguito, dell’installazione
dell’antenna di consistenti dimensioni, la veduta dalla loro
abitazione risulta alterata (in proposito, assumono rilievo
le fotografie di cui al doc. 3 depositato in giudizio).
In particolare, le statuizioni del giudice di primo grado
sembrano sovrapporre piani differenti, in quanto la mera
prospettazione della nocività per la salubrità dell’ambiente
connota la sussistenza dell’interesse agire, laddove
escludere la stessa si presenta come una valutazione di
merito, inconferente con la questione di rito.
In altri termini, al fine di radicare l’interesse al
ricorso, è sufficiente che il ricorrente prospetti una
possibile nocività per l’ambiente circostante,
un’alterazione delle vedute e del paesaggio, una possibile
diminuzione del valore degli immobili, mentre attiene alle
valutazioni di merito, e non di rito, accertare se in
concreto la nocività per l’ambiente è comprovata ovvero se
il ricorrente ha fornito una prova congrua, o un consistente
principio di prova, del fatto che l’alterazione della veduta
e, comunque, l’installazione dell’antenna, possa riflettersi
sulla qualità di vita e sull’effettiva quotazione
dell’immobile.
Pertanto, il mancato accertamento della nocività
dell’installazione potrebbe comportare, nel merito,
l’infondatezza della relativa censura, ma non può
determinare a monte l’inammissibilità dell’azione, così come
non può tradursi nell’assenza dell’interesse ad agire,
operando anch’esso sul piano del merito, la mancata
dimostrazione che l’alterazione della veduta sia talmente
significativa da incidere sulla qualità della vita ed
eventualmente sul valore del bene posto nei pressi
dell’antenna eretta o erigenda.
Ne consegue che, in ragione della fondatezza del primo
motivo d’appello, la sentenza del Tar deve essere riformata,
in quanto, in presenza di entrambe le condizioni soggettive
dell’azione, il ricorso di primo grado è ammissibile.
6. Nel merito, l’appello è parimenti fondato.
6.1. L’art. 87, comma 9, del d.lgs. n. 259 del 2003 –nel
testo applicabile ratione temporis ai fatti di causa-
sancisce una paradigmatica ipotesi di silenzio-significativo
della pubblica amministrazione.
Infatti, ai sensi di tale disposizione, “Le istanze di
autorizzazione si intendono accolte qualora, entro il
termine perentorio di novanta giorni dalla presentazione del
progetto e della relativa domanda non sia stato comunicato
un provvedimento di diniego o un parere negativo da parte
dell’organismo competente ad effettuare i controlli, di cui
all’articolo 14 della legge 22.02.2001, n. 36, e non
sia stato espresso un dissenso, congruamente motivato, da
parte di un’Amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale o dei beni culturali. Nei
predetti casi di dissenso congruamente motivato, ove non sia
stata adottata la determinazione decisoria finale nel
termine di cui al primo periodo, si applica l’articolo 2,
comma 9-ter, della legge 07.08.1990, n. 241. Gli Enti
locali possono prevedere termini più brevi per la
conclusione dei relativi procedimenti ovvero ulteriori forme
di semplificazione amministrativa, nel rispetto delle
disposizioni stabilite dal presente comma. Decorso il
suddetto termine, l’amministrazione procedente comunica,
entro il termine perentorio di sette giorni, l’attestazione
di avvenuta autorizzazione, scaduto il quale è sufficiente
l’autocertificazione del richiedente. Sono fatti salvi i
casi in cui disposizioni del diritto dell’Unione europea
richiedono l’adozione di provvedimenti espressi”.
6.2. La questione controversa, vale a dire l’intervenuta
formazione o meno del silenzio-assenso nella fattispecie in
esame, involge la tematica centrale dell’istituto, ossia se
il provvedimento tacito di accoglimento dell’istanza
consegue al mero decorrere del tempo oppure consegue al
decorrere del tempo unitamente alla concreta sussistenza dei
presupposti normativi per l’attribuzione del bene della
vita.
In altri termini, è necessario accertare se la mancata
conformità della fattispecie concreta ai presupposti
disciplinati e richiesti dal modello legale di riferimento
determina comunque la formazione del silenzio significativo,
incidendo solo quale vizio di legittimità del provvedimento
amministrativo tacito, ovvero se impedisce in radice la
formazione del silenzio-assenso (cfr. sul tema Cons. Stato,
VI, 16.08.2023, n. 7774).
6.3. Per una prima tesi, la formazione tacita del
provvedimento è subordinata alla mera presentazione
dell’istanza ed al decorrere del tempo previsto dalla legge,
mentre, per un’altra consistente prospettazione (a lungo
maggioritaria), la formazione tacita dei provvedimenti
amministrativi per silenzio-assenso presuppone, quale sua
condizione imprescindibile, non solo il decorso del tempo
dalla presentazione della domanda senza che sia intervenuta
risposta dall’Amministrazione, ma anche la contestuale
presenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti
richiesti dalla legge, ossia degli elementi costitutivi
della fattispecie di cui si deduce l’avvenuto
perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio-assenso
non si forma nel caso in cui la fattispecie rappresentata
non sia conforme a quella normativamente prevista (cfr., ex multis, Cons. Stato IV, n. 569 del 2020; Cons. Stato, VI n.
5384 del 2019; Cons. Stato, VI, n. 2115 del 2019).
Un denominatore comune alle differenti teorie consiste nel
principio per cui non è possibile ottenere per silentium,
quel che non sarebbe altrimenti possibile ottenere mediante
l’esercizio espresso del potere da parte della P.A.
La differenza tra le prospettazioni che si contrappongono,
quindi, afferisce al fatto che, per una tesi, il binomio è
costituito dai concetti esistenza/inesistenza del
silenzio-assenso, con il corollario che può esistere solo un
provvedimento tacito di accoglimento legittimo, mentre, per
altra tesi, il binomio, una volta decorso il termine di
legge, è costituito dai concetti legittimità/illegittimità
del silenzio-assenso, con il corollario che può esistere un
provvedimento tacito di accoglimento illegittimo.
In special modo in materia edilizia, con riferimento al
silenzio-assenso maturato sulle domande di permesso di
costruire, è stato lungamente dibattuto se la conformità
urbanistica dell’intervento rappresenti o meno una
condizione per la formazione del silenzio-assenso.
In definitiva, ad una tesi, più radicale, che attribuisce
alla difformità della fattispecie dal modello legale di
riferimento, la conseguenza della mancata formazione del
silenzio, vale a dire la sua inesistenza, si contrappone una
diversa tesi, che limita alla presentazione della domanda ed
al fluire del tempo la formazione del provvedimento
amministrativo tacito di accoglimento, con conseguente
illegittimità –e non inesistenza– del provvedimento
viziato per difformità dal modello legale.
6.4. L’istituto del silenzio-assenso risponde ad una
valutazione legale tipica in forza della quale l’inerzia
“equivale” a provvedimento di accoglimento e tale
“equivalenza” significa che gli effetti promananti dalla
fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto
amministrativo, sicché, ove sussistano i requisiti di
formazione del silenzio-assenso, il titolo abilitativo può
perfezionarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme
a legge, ferma restando la possibilità di agire in
autotutela per l’amministrazione e di impugnativa giudiziale
per il controinteressato (v., in particolare, la sentenza di
questa Sezione n. 5746 dell’08.07.2022)
Diversamente, ad avviso del Collegio, ritenere che la
fattispecie sia produttiva di effetti soltanto ove
corrispondente alla disciplina sostanziale, significherebbe
sottrarre i titoli così formatisi alla disciplina della
annullabilità e tale trattamento differenziato opererebbe
(in modo del tutto eventuale) in dipendenza del
comportamento attivo o inerte della pubblica
amministrazione.
Inoltre, l’impostazione di “convertire” i requisiti di
validità della fattispecie “silenziosa” in altrettanti
elementi costitutivi necessari al suo perfezionamento,
vanificherebbe in radice le finalità di semplificazione
dell’istituto, atteso che nessun vantaggio avrebbe
l’operatore se l’amministrazione potesse, senza oneri e
vincoli procedimentali, in qualunque tempo disconoscere gli
effetti della domanda.
In altri termini, il Collegio rappresenta che, ove si
ammettesse che il silenzio-assenso non possa formarsi per
difetto delle condizioni sostanziali, verrebbe in concreto
svuotata di contenuto la previsione di legge, consentendo di
fatto all’amministrazione di poter provvedere in ogni tempo
e ciò in spregio delle ragioni sottese alla norma (v.
altresì, da ultimo, la previsione di cui all’art. 2, comma
8-bis, della l. 241 del 1990, introdotta con il d.l. 76 del
2020, destinata a revocare in dubbio la teoria tradizionale
sull’inesauribilità del potere amministrativo), che, da un
canto, tutelano l’interesse del privato e, d’altro canto,
pongono l’esigenza di responsabilizzare la pubblica
amministrazione, in tal modo tutelando l’interesse pubblico
attraverso la garanzia del buon andamento dell’attività
amministrativa, non tollerandosi la sua inerzia sull’istanza
rivolta dall’interessato.
La pubblica amministrazione, peraltro, come anticipato, una
volta formatosi il provvedimento tacito, ha la possibilità
di intervenire in via di autotutela, laddove non sussistano
le condizioni per l’adozione dell’atto e per il
conseguimento del bene, così come il terzo controinteressato
ben può esperire in sede giurisdizionale l’azione di
annullamento del silenzio-assenso avente carattere provvedimentale.
Se, infatti, il decorso del tempo senza che
l’amministrazione abbia provveduto rende possibile
l’esistenza di un provvedimento implicito di accoglimento
dell’istanza presentata dal privato cittadino, nondimeno,
perché tale provvedimento sia legittimo, occorre che
sussistano tutte le condizioni, normativamente previste, per
la sua emanazione, non potendosi ipotizzare, come già
sottolineato, che, attraverso il silenzio, possa ottenersi
ciò che non sarebbe altrimenti possibile ottenere mediante
l’esercizio espresso del potere da parte
dell’amministrazione.
La necessità del possesso dei requisiti di volta in volta
prescritti –perché possa parlarsi di legittimo
provvedimento implicito di assenso– risulta dalla stessa
legge generale del procedimento amministrativo n. 241/1990
(art. 21, comma 1), laddove essa richiede che, nei casi
previsti dai precedenti artt. 19 e 20, l’interessato debba
“dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti
di legge richiesti”.
6.5. Tra le due opzioni descritte, che considerano, l’una,
il contrasto con il modello legale di riferimento preclusivo
della formazione del silenzio-assenso e, quindi, causa di
inesistenza del provvedimento amministrativo tacito, ovvero,
l’altra, il contrasto non preclusivo alla formazione del
silenzio-assenso e, quindi, causa di illegittimità di un
provvedimento amministrativo tacito esistente ed efficace,
il Collegio ritiene sostenibile un’interpretazione,
esplicitata nel successivo capo della presente sentenza,
che, prendendo spunto dalle ragionevoli giustificazioni di
ambedue le tesi, conduca ad una interpretazione univoca
della fattispecie (cfr. la richiamata sentenza di questa
Sezione n. 7774 del 16.08.2023).
Nel quadro delle riforme amministrative degli anni ’90, il
ruolo della semplificazione amministrativa, quale insieme
degli interventi aventi il fine di diminuire il carico
burocratico che grava su cittadini ed imprese, ha assunto un
consistente rilievo.
In tale contesto, il silenzio-assenso costituisce una figura
centrale e, in ambito eurounitario, la direttiva 2006/123/CE
sui “servizi nel mercato interno” (c.d. direttiva Bolkenstein), al fine di prevenire gli effetti negativi sul
mercato derivanti dall’incertezza giuridica, anche sotto il
profilo dell’incertezza temporale delle procedure
amministrative, ha operato nella duplice direzione di
limitare il regime della previa autorizzazione
(liberalizzazione), in cui il conseguimento del bene della
vita non costituisce più oggetto di potere amministrativo,
come ad esempio nella scia o nel rinvio
all’autoregolamentazione dei privati, e di (mantenere fermo
il potere amministrativo ma di) introdurre il principio
della tacita autorizzazione, ovvero la regola del
silenzio-assenso (semplificazione), vale a dire la possibilità di
esternare la volontà provvedimentale con forme diverse dal
provvedimento espresso.
Nella specifica materia delle comunicazioni elettroniche,
come già evidenziato, l’installazione di impianti di
telecomunicazione è soggetta ad una speciale disciplina
autorizzatoria fissata a suo tempo dall’art. 87 del d.lgs.
n. 259 del 2003, da cui emerge un favor legislativo per la
realizzazione di tali strutture anche attraverso l’istituto
del silenzio-assenso.
6.6. Il Collegio, al fine di delibare sulla controversia,
ritiene opportuno operare ulteriori precisazioni sulla ratio
dell’istituto.
La formazione di un provvedimento implicito di assenso in
ragione del mero decorrere del tempo dalla data di
presentazione dell’istanza non comporta alcuna
deresponsabilizzazione della pubblica amministrazione
competente, che deve ugualmente svolgere, proprio come
nell’ipotesi in cui fosse obbligata all’adozione di un
provvedimento espresso, una puntuale ed esaustiva
istruttoria al fine di verificare se sussistono i
presupposti ed i requisiti previsti dalla legge per
l’attribuzione del bene richiesto.
Peraltro, l’amministrazione pubblica competente, effettuati
i dovuti e necessari accertamenti, può decidere, in luogo
dell’adozione di un provvedimento espresso, di far formare
un provvedimento tacito.
Tale è la fisiologia del procedimento amministrativo ove sia
presentata un’istanza a carattere pretensivo per la quale,
decorso il termine normativamente previsto, si forma il
silenzio-assenso.
Viceversa, l’omesso o l’incompleto svolgimento
dell’istruttoria da parte dell’amministrazione competente -fermo restando che, con la precisazione che si dirà, il
decorso del tempo comporta comunque, a tutela
dell’affidamento del richiedente, la formazione dell’atto
tacito- costituisce una situazione patologica.
Per molti aspetti l’istituto del silenzio-assenso, che come
noto ha accompagnato la nascita della legge n. 241 del 1990,
dimostra e conferma l’intuizione dottrinale secondo la
quale, delle fasi in cui si scompone convenzionalmente il
procedimento amministrativo, quella centrale è data proprio
dall’istruttoria, di cui la fase decisoria –che sia tacita
oppure espressa– rappresenta piuttosto un precipitato e una
conseguenza logica.
Va da sé tuttavia che, per l’espletamento di una efficace
istruttoria, l’istanza debba essere corredata da tutti gli
elementi necessari a consentire l’accertamento della
spettanza del bene della vita, per cui il silenzio-assenso
può formarsi solo in tale ipotesi, nel qual caso l’eventuale
discrasia della fattispecie rispetto al modello legale di
riferimento determina l’illegittimità dell’atto tacito, ma
non ne impedisce il venirne ad esistenza.
L’opzione ermeneutica più idonea alla tutela degli interessi
in conflitto, in altri termini, deve essere individuata nel
fatto che l’assenso tacito si forma allorquando sulla
domanda, se corredata di tutti gli elementi occorrenti alla
valutazione della P.A., sia decorso il termine di legge
senza che questa abbia provveduto, mentre non può essere
escluso per difetto delle condizioni sostanziali per il suo
accoglimento, ossia, per contrasto della richiesta con la
normativa di riferimento.
Diversamente, ove l’istanza non sia stata corredata da tutta
la documentazione necessaria ovvero si presenti imprecisa o
foriera di possibili equivoci, in modo tale che
l’amministrazione destinataria sia stata impossibilitata per
il comportamento dell’istante a svolgere un compiuto
accertamento di spettanza del bene, il silenzio-assenso non
può formarsi, per cui si avrà un’ipotesi di inesistenza
dello stesso e non di sua illegittimità.
In tale direzione, militano sia la ratio del sistema, atteso
che, come sottolineato, il concetto di semplificazione
amministrativa non coincide con quello di
deresponsabilizzazione amministrativa, ma, anzi ne è
l’esatto contrario, tutelando l’esigenza di certezza delle
posizioni giuridiche dei cittadini, ma non facendo affatto
venire meno l’obbligo per l’amministrazione di accertare in
fase istruttoria la presenza dei presupposti e requisiti di
legge necessari all’attribuzione del bene, sia il dato
normativo letterale, in quanto l’art. 21, comma 1, della
legge n. 241 del 1990, dispone che, con la segnalazione o
con la domanda di cui agli articoli 19 e 20, l’interessato
deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei
requisiti di legge richiesti.
Né può ritenersi applicabile alla fattispecie il comma 5
dell’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003, secondo cui “il
responsabile del procedimento può richiedere per una sola
volta, entro quindici giorni dalla data di ricezione
dell’istanza, il rilascio di dichiarazioni e l’integrazione
della documentazione prodotta”, atteso che la norma si
riferisce evidentemente ad una documentazione prodotta che
necessita di essere integrata, non già ad una documentazione
totalmente carente o carente in una sua parte rilevante, di
cui l’Amministrazione può ignorare l’esistenza al momento
della presentazione della domanda.
Sulla base di tali considerazioni, quindi, deve ritenersi
che l’istanza idonea a far decorrere il termine per la
formazione del silenzio-assenso sia solo ed esclusivamente
quella corredata dalla dichiarazione di sussistenza dei
presupposti e requisiti di legge previsti e, quindi, quella
corredata dalla documentazione necessaria al corretto
espletamento dell’attività istruttoria da parte
dell’Amministrazione.
In assenza di tale essenziale documentazione, infatti, la
volontà provvedimentale dell’Amministrazione procedente non
può compiutamente formarsi e, di conseguenza, non può essere
effettivamente manifestata né in forma espressa, né in forma
tacita.
In definitiva, il silenzio-assenso è un istituto giuridico
alternativo al provvedimento conclusivo, ma non certo allo
svolgimento del procedimento e, in particolare, alla sua
fase istruttoria.
Nondimeno, se l’interessato ha posto in essere tutti gli
adempimenti necessari affinché il procedimento possa essere
dall’amministrazione compiutamente e correttamente svolto,
il silenzio significativo si forma ugualmente, non potendo
l’inerzia dell’amministrazione ridondare in danno della
parte istante pienamente diligente, con conseguente
omissione di atti d’ufficio dell’amministrazione che, pur
essendo stata messa nelle condizioni di poter procedere, non
ha svolto la propria attività.
6.7. Sempre in linea generale, il Collegio, per quanto
attiene alle specifiche competenze delle Agenzie Regionali
Protezione Ambiente nel procedimento in questione, ritiene
che l’ARPA non possa limitarsi a prendere atto di quanto
evidenziato dalla parte interessata nella propria richiesta
ed a dettare prescrizioni che restano nella sfera
dell’operatore autorizzato, ma debba svolgere una puntuale
attività di verifica e di controllo sulla effettività di
quanto dichiarato dal richiedente e di quanto contenuto nei
relativi allegati, nonché, successivamente, sul rispetto del
prescrizioni date e dei valori dichiarati.
Un parere tecnico che si limiti a prendere atto dei dati
trasmessi dall’impresa, infatti, si rivela un atto formale,
privo delle caratteristiche sostanziali che dovrebbero
essere imposte, in generale dall’esercizio dell’attività
amministrativa e, in particolare, dalla delicatezza e dalla
sensibilità della materia in trattazione (cfr. Cons. Stato,
VI, 20.09.2023, n. 8436).
6.8. Nella fattispecie in esame, devono ritenersi fondate,
con assorbimento delle altre doglianze con cui sono stati
prospettati vizi di legittimità meno radicali, le censure
con cui i ricorrenti, in vari motivi, hanno sostenuto, da un
lato, che i documenti dimostrerebbero come Iliad abbia
fornito indicazioni errate, dall’altro, che il meccanismo di
silenzio-assenso previsto dall’art. 87, comma 9, del d.lgs.
n. 259 del 2003 non eliderebbe le fasi del procedimento,
mentre il procedimento, nella fattispecie, non sarebbe mai
stato avviato.
In particolare, il silenzio-assenso non può ritenersi
formato perché l’Amministrazione non ha svolto il
procedimento che avrebbe dovuto svolgere ai sensi dell’art.
87 del d.lgs. n. 259 del 2003, anche per omissioni ed
incompletezze documentali di Iliad.
6.8.1. In primo luogo, occorre considerare che, in esito
all’incombente istruttorio disposto dalla Sezione con
l’ordinanza cautelare n. 2767 del 2023, volto a conoscere
gli atti endoprocedimentali posti in essere, il Comune di
Boissano ha depositato unicamente una e-mail, in data 21.10.2021, con cui l’Amministrazione ha informato il
progettista incaricato nonché responsabile dei lavori per
l’intervento in discorso che lo Sportello Unico per le
Attività Produttive è gestito in servizio associato dal
Comune di Pietra Ligure, per cui la pratica avrebbe dovuto
essere presentata al SUAP dello stesso Comune.
Il Comune di Boissano, infatti, ha aderito alla convenzione
per la gestione in forma associata dei servizi di sportello
unico attività produttive con ente capofila il Comune di
Pietra Ligure.
Tale circostanza, peraltro, non può escludere ogni sua
attività, essendo tenuto il Comune convenzionato a
condividere e a collaborare attivamente al perseguimento dei
principi di funzionamento del SUAP.
Nessun altro documento è stato depositato, sicché è da
ritenere che il procedimento non sia stato svolto, ad
eccezione di quanto di competenza dell’ARPAL, tanto che non
è stato comunicato il nome del responsabile del procedimento
ai sensi dell’art. 87, comma 2, d.lgs. n. 259 del 2003.
Iliad Italia, nella propria memoria cautelare, ha
evidenziato di avere presentato la richiesta di
autorizzazione, in data 05.10.2021, all’ARPAL (ed al
SUAP del Comune di Boissano) e, in data 20.10.2021,
presso il SUAP del Comune di Pietra Ligure.
Tuttavia, costituisce un dato oggettivo, in assenza di
qualunque elemento contrario, che il procedimento non è
stato svolto né dal Comune di Boissano né dal SUAP presso il
Comune di Pietra Ligure, pur competente per gli impianti di
telecomunicazione, per cui, nella fattispecie, il silenzio
non ha sostituito solo il provvedimento finale, ma, in
contrasto con il dettato legislativo in materia, l’intero
procedimento.
L’assenza di comunicazione del responsabile del
procedimento, inoltre, induce a ritenere che Iliad fosse
consapevole dell’assenza di ogni atto endoprocedimentale, ma
ciò nonostante, non ha sollecitato l’amministrazione alla
nomina.
Ora, se rispetto ad un privato cittadino, potrebbe reputarsi
che non sussista l’onere di sollecitare l’amministrazione
competente a svolgere il procedimento attraverso la nomina
del suo responsabile, nel caso di un operatore telefonico
che svolge con professionalità ed abitualità l’attività in
discorso, la detta sollecitazione costituisce un adempimento
certamente esigibile.
6.8.2. Iliad, nell’istanza di autorizzazione ai sensi
dell’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003, del 04.10.2021,
presentata al SUAP Comune di Boissano ed all’ARPAL per
l’impianto sito in Boissano, via Gaitte, foglio 7, mappale
n. 93, ha indicato come tipologia di intervento “modifica
stazione radio base esistente per rete di telefonia mobile
di Iliad Italia s.p.a.”, per cui l’Agenzia Regionale per la
Protezione Ambientale del Lazio (ARPAL), con nota del 16.11.2021 indirizzata sia ad Iliad Italia che al Comune
di Boissano, ha fatto riferimento nell’oggetto alla
“realizzazione di nuovo impianto” ex art. 87 d.lgs. 259 del
2003 ed ha specificato nel testo come l’istanza di
autorizzazione sia stata proposta per “l’installazione
dell’impianto in oggetto (nuovo impianto su nuova struttura
di supporto)”.
L’istanza di autorizzazione presentata al SUAP Comune di
Pietra Ligure non indica la tipologia dell’intervento e la
sezione “descrizione dell’impianto e delle aree circostanti”
non è stata compilata in sintesi, ma reca un mero
riferimento agli allegati, laddove la prima istanza del 05.10.2021 indicava in tale sezione “progetto per la
modifica di una stazione radio base per la telefonia mobile
a servizio del gestore ILIAD Italia s.p.a., sita nel Comune
di Boissano in via Gaitte, snc al N.C.T. del Comune di
Boissano al Foglio n. 7, Mappale n. 93”.
Con successiva nota del 21.09.2022, avente ad oggetto
“misure di campo elettromagnetico a Radiofrequenza
effettuate nel giorno 19/09/2022 presso gli impianti per radiotelecomunicazione situati in via Zurmagli, via Gaitte e
zone limitrofe, Comune di Boissano”, l’ARPAL ha indicato,
tra l’altro, che:
“il cartello di cantiere riporta la frase “Modifica di
Stazione Radio Base”, tuttavia trattandosi, a tutti gli
effetti, di una installazione (ovvero nuovo impianto su
nuova struttura di supporto) tale frase deve essere cambiata
in “Realizzazione di nuova Stazione Radio Base”,
conformemente ad istanza di progetto presentata da Iliad con
prot. Arpal 29041 del 05.10.2021”.
In definitiva, non può sussistere dubbio sul fatto che
l’istanza di autorizzazione di Iliad, quantomeno quella
indirizzata al SUAP del Comune di Boissano e ad Arpal, senza
che quella successivamente indirizzata al SUAP del Comune di
Pietra Ligure offrisse sufficienti elementi di
specificazione, riportasse in modo inesatto che l’intervento
in discorso fosse una modifica alla 0stazione radio base e
non una installazione di una nuova stazione radio base.
6.8.3. Per quanto attiene ai possibili rischi di frane, gli
appellanti hanno evidenziato che le norme generali
geotecniche del Comune di Boissano definiscono
normativamente la zona in cui sorge la stazione radio base
come instabile, a rischio franoso, escludendo ogni
intervento urbanistico.
In particolare, hanno documentato che la zona in cui sorge
l’antenna è la CPI, vale a dire secondo la terminologia
utilizzata nel Piano Urbanistico Comunale del Comune di
Boissano, area caratterizzata da copertura detritica di
varia natura medio-potenti attualmente potenzialmente
instabili.
Di talché, la zona, compresa nella tavola 31B del PUC di
Boissano “Suscettività di Piani di Bacino Varatella e
Nimbalto”, non sarebbe stabile e, considerando la
consistenza dell’antenna e del relativo basamento,
sussisterebbe una grave incidenza del manufatto sul terreno
ed un elevato rischio di cedimento e franosità della zona.
Iliad, di contro, ha evidenziato che le norme generali
geotecniche del Comune di Boissano non avrebbero previsto
alcun divieto assoluto di installazione e, comunque, che il
proprio impianto ricadrebbe in area Pg3a e non in area Pg3b
“a suscettività al dissesto elevata”.
Ad ogni buon conto, a prescindere da valutazioni di merito,
l’istanza proposta da Iliad avrebbe dovuto contenere una
maggiore attenzione a tale aspetto geotecnico, di indubbia
delicatezza, onde sollecitare le valutazioni sul punto
dell’Amministrazione competente.
6.8.4. Infine, si rivela fondata la doglianza con cui la
parte appellante ha prospettato l’erroneità (per meglio dire
l’imprecisione) contenuta nell’istanza del 4/05.10.2021
relativa all’assenza di vincoli paesaggistici ed ambientali,
atteso che gli stessi progetti forniti collocano l’antenna
in zona Assetto Insediativo ANI-MA IS-MA, ammettendo
l’esistenza di vincoli prima negati.
Infatti, mentre nell’istanza di autorizzazione è stata
indicata la conformità alla disciplina paesaggistica ed
ambientale, nella relazione tecnica asseverata, è
specificato che la zona di piano territoriale di
coordinamento paesistico si caratterizza per assetto
insediativo: ANI-MA IS.MA.
Le norme di attuazione al PTCP Regione Liguria, all’art. 10,
prevedono che l’indirizzo generale di mantenimento (MA) si
applica:
a) nelle situazioni in cui l’assetto territoriale
ha raggiunto soddisfacenti condizioni di equilibrio tra
fattori antropici ed ambiente naturale, tali da escludere
l’opportunità di significative trasformazioni pur
ammettendosi marginali potenzialità di completamento;
b)
nelle situazioni in cui debbono considerarsi già
sostanzialmente esaurite le potenzialità di espansione pur
non configurandosi soddisfacenti condizioni di equilibrio
tra fattori antropici ed ambiente naturale.
L’obiettivo, pertanto, è quello, nel primo caso, di tutelare
le situazioni di particolare pregio paesistico presenti alla
scala territoriale e, nel secondo, di evitare ulteriori
compromissioni del quadro paesistico-ambientale quali
sarebbero indotte da nuovi consistenti insediamenti.
In entrambi i casi, specifica l’art. 10 delle NTA al PTCP,
la pianificazione dovrà essere informata a criteri di
sostanziale conferma dell’assetto attuale, con una più
marcata attenzione agli aspetti qualitativi e strutturali
nel primo caso e a quelli quantitativi nel secondo caso.
7. Sulla base di tutto quanto esposto, l’appello proposto si
rivela fondato, atteso che, nel caso di specie, nessun
silenzio-assenso si sarebbe potuto formare, in quanto se è
vero che la normativa in materia prevede la formazione del
silenzio-assenso decorsi novanta giorni dalla presentazione
dell’istanza, è altrettanto vero che la stessa presuppone
che l’istanza sia completa e sufficientemente dettagliata
onde consentire all’amministrazione competente di svolgere
il procedimento, che, nella fattispecie, invece, non ha
avuto luogo.
8. La fondatezza delle descritte doglianze, assorbite le
ulteriori censure con cui sono stati prospettati vizi di
legittimità meno radicali, determina la fondatezza
dell’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza
impugnata, l’accoglimento del ricorso proposto in primo
grado con conseguente annullamento (più propriamente,
declaratoria in inesistenza) del provvedimento tacito di
assenso impugnato ed obbligo per il Comune di Boissano e lo
Sportello Unico Attività Produttive di Pietra Ligure di
riesaminare (rectius: di esaminare) l’istanza proposta
nell’ottobre 2021 da Iliad Italia s.p.a., nell’ambito del
quale dovranno essere valutate anche le questioni relative
all’applicazione del c.d. Piano Antenne (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.12.2023 n. 11203 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Sull’attuale validità dei principi enunciati dall’Adunanza
plenaria n. 17 del 2021 sulle concessioni balneari marittime.
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Concessioni amministrative – Concessioni di beni e
servizi – Concessioni demaniali marittime – Principi
enunciati dall’Adunanza plenaria n. 17 del 2021 – Validità -
Conseguenze.
I principi enunciati dall'Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza del
09.11.2021, n. 17 sono tutt’ora validi dato che, a
differenza della sentenza n. 18 del 2021, annullata per
diniego di giurisdizione dalla sentenza delle sezioni unite
n. 32559 del 23.11.2023, quest’ultima non risulta essere
stata impugnata. Ne consegue che, alla luce di tali
principi, le proroghe delle concessioni disposte dai comuni
risultano tamquam non esset (1).
Il Consiglio di Stato ha ricordato che secondo l’Adunanza
plenaria n. 17 del 2021:
i) le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in
futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica
delle concessioni demaniali marittime per finalità
turistico-ricreative - compresa la moratoria introdotta in
correlazione con l'emergenza epidemiologica da Covid-19
dall'art. 182, comma 2, d.l. n. 34 del 2020, convertito in
l. n. 77 del 2020 - sono in contrasto con il diritto
eurounitario, segnatamente con l'art. 49 TFUE e con l'art.
12 della direttiva 2006/123/CE; tali norme, pertanto, non
devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica
amministrazione;
ii) ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla
p.a. deve escludersi la sussistenza di un diritto alla
prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari;
non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela
decisoria della p.a. in quanto l'effetto di cui si discute è
direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza
legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i
termini di durata; la non applicazione della legge implica,
quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni
già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset,
senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo
dell'effetto legale di proroga adottato dalla p.a. o
l'esistenza di un giudicato.
---------------
(1) Precedenti conformi: non risultano precedenti negli esatti
termini. La sezione ha disapplicato anche la più recente
disposizione normativa recante una previsione di proroga ex
lege delle concessioni demaniali marittime ad uso turistico
ricreativo contenuta nell'art. 10-quater, comma 3, del d.l.
29.12.2022, n. 198, convertito, con modificazioni, in l.
24.02.2023, n. 14, Cons. Stato, sez. VI, 01.03.2023, n.
2192; applica i principi enunciati dalle Adunanze plenarie
n. 17 e 18 del 2021 anche Cons. Stato, sez. VI, 19.04.2023,
n. 3964; Cons. Stato, sez. VII, 07.07.2023, n. 6675; Cons.
Stato, sez. VI, 28.08.2023, n. 7992.
Precedenti difformi: di diverso avviso, di
recente, Tar per la Puglia, Lecce, sez. I, decreto
21.12.2023, n. 614, secondo il quale, l’Adunanza plenaria n.
17 del 2021, ancorché formalmente estranea all’ambito di
decisione della sentenza delle sezioni unite n. 32559 del
2023, deve essere riguardata come mero presupposto e, in
quanto tale, deve essere valutata anche sotto il profilo
della sua nullità, in quanto affetta dai medesimi vizi
radicali ed insanabili della sentenza cassata (n. 18 del
2021), della quale non può non condividerne le sorti (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.12.2023 n. 11200 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. Procedendo ad esaminare i motivi di ricorso in appello il
Collegio rileva, in primo luogo, come molte delle questioni
oggetto del presente giudizio siano già state affrontate e
decise dalla Sezione con le sentenze, del 18.04.2023, n.
3901, del 19.04.2023, n. 3964, e del 13.07.2023, n.
6862, relative a controversie analoghe. Non si ravvisano
ragioni per discostarsi dai principi affermati da tali
sentenze, che saranno esposti nel prosieguo della
trattazione.
8. In via preliminare occorre verificare se il rinnovo della
concessione demaniale comporti una parziale improcedibilità
del ricorso in appello (come dedotto dal Comune) o la
cessazione della materia del contendere per soddisfazione
integrale della pretesa (come dedotto da parte appellante).
Sul punto possono richiamarsi i principi già affermati dalle
sentenze n. 3901/2023 e n. 3964/2023 della Sezione.
8.1. La Sezione ha osservato come l’inesauribilità del
potere amministrativo, persistente in capo alla parte
pubblica anche in pendenza del giudizio, pone
l’Amministrazione in condizione di riesaminare i
provvedimenti censurati in sede giurisdizionale, pervenendo
ad una rinnovata regolazione del rapporto sostanziale.
Al
fine di ricostruire il regime giuridico delle determinazioni
sopravvenute e di verificare gli effetti che tali atti sono
suscettibili di produrre sul giudizio pendente, occorre
distinguere a seconda che il riesame in sede amministrativa:
i) si concluda con un atto favorevole al privato, in quanto
idoneo a realizzare l’interesse sostanziale sotteso alla
proposizione del ricorso, ovvero dia luogo ad un atto
sfavorevole, perché ostativo al conseguimento del bene della
vita ambito con l’azione giudiziaria;
ii) sia imposto da un
ordine giudiziale ovvero sia il risultato di una decisione
autonomamente assunta dall’Amministrazione procedente.
8.2. In ordine al primo profilo si osserva come, di regola,
i provvedimenti assunti in corso di giudizio sono idonei a
determinare la cessata materia del contendere soltanto ove,
autonomamente assunti dall’Amministrazione, determinino la
realizzazione piena dell’interesse sostanziale sotteso alla
proposizione dell’azione giudiziaria, permettendo al
ricorrente in primo grado di ottenere in via amministrativa
il bene della vita atteso, sì da rendere inutile la
prosecuzione del processo (Consiglio di Stato, Sez. V, 13.08.2020, n. 5031).
I provvedimenti sopravvenuti
determinano, invece, l’improcedibilità del ricorso per
sopravvenuta carenza di interesse, qualora attuino un
assetto di interesse inoppugnabile, ostativo alla
realizzazione dell’interesse sostanziale sotteso al ricorso,
anche in tale caso rendendo inutile la prosecuzione del
giudizio -anziché per l’ottenimento- per l’impossibilità
sopravvenuta del conseguimento del bene della vita ambito
dal ricorrente.
8.3. Questo Consiglio precisa che l’inutilità di una
pronuncia di merito sulla domanda articolata dalla parte può
affermarsi solo all’esito di una indagine “condotta con il
massimo rigore, onde evitare che la declaratoria in oggetto
si risolva in un’ipotesi di denegata giustizia e quindi
nella violazione di un diritto costituzionalmente garantito”
(Consiglio di Stato, Sez. VII, 10.08.2022, n. 7076; Id.,
Sez. VI, 12.09.2022, n. 7895).
In particolare, “la
dichiarazione di improcedibilità del ricorso per
sopravvenuto difetto di interesse presuppone che, per eventi
successivi alla instaurazione del giudizio, debba essere
esclusa l’utilità dell’atto impugnato, ancorché meramente
strumentale o morale, ovvero che sia chiara e certa
l’inutilità di una pronuncia di annullamento dell’atto
impugnato” (Consiglio di Giustizia amministrativa per la
Regione siciliana, 03.07.2020, n. 536).
8.4. La cessata materia del contendere e l’improcedibilità
per sopravvenuta carenza di interesse trovano, dunque,
giustificazione nella natura soggettiva della giurisdizione
amministrativa, che non risulta preordinata ad assicurare la
generale legittimità dell’operato amministrativo, bensì
tende a tutelare la posizione giuridica del ricorrente,
correlata ad un bene della vita coinvolto nell’esercizio
dell’azione autoritativa oggetto di censura. Adendo la sede
giurisdizionale, la parte ricorrente fa valere una pretesa
sostanziale, avente ad oggetto la conservazione di un bene
della vita già compreso nel proprio patrimonio individuale,
pregiudicato dall’esercizio del potere amministrativo,
ovvero l’acquisizione (o comunque la chance di acquisizione)
di un bene della vita soggetto a pubblica intermediazione.
Come precisato dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio,
“nel nostro sistema di giurisdizione soggettiva, la verifica
della legittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati
non va compiuta nell’astratto interesse generale, ma è
finalizzata all’accertamento della fondatezza della pretesa
sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte attrice.
Poiché il ricorso non è mera “occasione” del sindacato
giurisdizionale sull’azione amministrativa, il controllo
della legittimazione al ricorso assume sempre carattere
pregiudiziale rispetto all’esame del merito della domanda,
in coerenza con i principi della giurisdizione soggettiva e
dell’impulso di parte” (Consiglio di Stato, Adunanza
plenaria, 07.04.2011, n. 4).
La pronuncia giudiziaria
risulta utile qualora, nel riscontrare l’illegittimità
dell’azione amministrativa, consenta la realizzazione
dell’interesse sostanziale di cui è portatrice la parte
ricorrente, impedendo la sottrazione o garantendo
l’acquisizione (o chance di acquisizione) di utilità
giuridicamente rilevanti e salvaguardando, per l’effetto, la
sfera giuridica individuale da azioni autoritative difformi
dal paradigma normativo di riferimento. Qualora, invece,
tale interesse sia stato già realizzato ovvero non possa più
essere soddisfatto, il giudizio non può concludersi con
l’esame, nel merito, delle censure svolte nell’atto di
parte, la cui fondatezza non potrebbe, comunque, arrecare
alcuna utilità concreta in capo al ricorrente.
8.5. Declinando i principi esposti al caso di specie si
osserva che la questione relativa alla durata della
concessione demaniale in esame non è, invero, oggetto di
giudizio atteso che l’ordinanza si limita ad imporre la
demolizione delle opere abusive e che l’apposito
procedimento per la revoca della concessione risulta avviato
dal Comune ma non concluso.
In sostanza, si tratta, in primo
luogo, di due aspetti distinti: da un lato vi è il tema
relativo alla conformità edilizia-urbanistica (oggetto
dell’ordinanza n. 18/2014); dall’altro il tema relativo alla
possibile decadenza della concessione che non risulta,
tuttavia, disposta essendo stato il procedimento soltanto
avviato.
Ne consegue che la proroga della concessione
demaniale non è atto idoneo a far venir meno il
provvedimento che sanziona dal punto di vista edilizio le
opere realizzate; né, del resto, si tratta di provvedimento
che incide su una decadenza soltanto ipotizzata e non
disposta dal Comune.
8.6. Inoltre, va considerato che la proroga della
concessione disposta dal Comune in data 18.09.2020,
risulta tamquam non esset, in applicazione dei principi
enunciati dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con
la sentenza del 9 novembre 2021, n. 17 (che, a differenza
della sentenza n. 18/2021, annullata per diniego di
giurisdizione dalla sentenza delle SS.UU. n. 32559/2023, non
risulta impugnata), secondo la quale:
i) le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in
futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica
delle concessioni demaniali marittime per finalità
turistico-ricreative -compresa la moratoria introdotta in
correlazione con l'emergenza epidemiologica da Covid-19
dall'art. 182, comma 2, D.L. n. 34/2020, convertito in legge
n. 77/2020- sono in contrasto con il diritto eurounitario,
segnatamente con l'art. 49 TFUE e con l'art. 12 della
direttiva 2006/123/CE; tali norme, pertanto, non devono
essere applicate né dai giudici né dalla pubblica
amministrazione;
ii) ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla
P.A. deve escludersi la sussistenza di un diritto alla
prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari;
non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela
decisoria della P.A. in quanto l'effetto di cui si discute è
direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza
legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i
termini di durata; la non applicazione della legge implica,
quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni
già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset,
senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo
dell'effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o
l'esistenza di un giudicato (cfr., inoltre, Consiglio di
Stato, Sez. VI, 01.03.2023 n. 2192, che ha disapplicato
anche la più recente disposizione normativa recante una
previsione di proroga ex lege delle concessioni demaniali
marittime ad uso turistico ricreativo contenuta nell'art.
10-quater, comma 3, del d.l. 29.12.2022, n. 198,
convertito, con modificazioni, in l. 24.02.2023, n.
14; cfr., inoltre, Id., Sez. VI, 19.04.2023, n. 3964; Id.,
Sez. VII, 07.07.2023, n. 6675; Id., Sez. VI, 28.08.2023, n. 7992).
8.7. Pertanto, anche perché si tratta di un atto tamquam non
esset, la proroga disposta non è, in alcun modo, idonea ad
eliminare i precedenti provvedimenti assunti
dall’Amministrazione e a decretare né la sopravvenuta
carenza di interesse, né tanto meno la cessazione della
materia del contendere (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.12.2023 n. 11200 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di pertinenza sul piano
urbanistico–edilizio è limitata ai soli interventi accessori
di modesta entità e privi di autonomia funzionale.
Sul piano urbanistico, la pertinenza è concetto meno ampio
di quello definito dall'art. 817 c.c. e, dunque, non può
consentire la realizzazione di opere di grande consistenza
soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato
principale.
Il carattere pertinenziale in senso urbanistico va, quindi,
riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino
funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un
manufatto principale, siano prive di autonomo valore di
mercato e non siano valutabili in termini di cubatura (o
comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da
non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente
dal manufatto cui accedono.
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Nel caso di specie viene in evidenza non già una pertinenza,
ma un distinto lotto di terreno che, sebbene confinante con
quello sul quale vi è l’officina del ricorrente, è
nettamente distinto per destinazione e classificazione, sul
quale la realizzazione di un muro di cinta di così
ragguardevoli dimensioni
(i.e. muro di recinzione in calcestruzzo armato, di altezza
pari a mt 2.50, per l’intero perimetro del lotto di terreno
agricolo avente una superficie complessiva di mq 540 circa,
con pavimentazione in battuto di cemento armato e lisciato
su fondazione in misto calcareo) –in tal
senso differenziandosi dalla semplice recinzione, la quale
ha caratteristiche tipologiche di minima entità al fine
della mera delimitazione della proprietà– è soggetta al
rilascio del permesso di costruire, inverandosi la nozione
di nuova costruzione quante volte l'intervento edilizio
produca, come in questo caso, un effettivo e rilevante
impatto sul territorio e, dunque, in relazione alle opere di
qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se
idonee a modificare lo stato dei luoghi determinandone una
significativa trasformazione.
Si deve qualificare l'intervento edilizio quale nuova
costruzione, infatti, quante volte abbia l'effettiva
idoneità –come nella specie– di determinare significative
trasformazioni urbanistiche ed edilizie, modificando
l’assetto del territorio, avuto riguardo alla sua struttura
e all'estensione dell'area relativa.
Quest'ultimo concetto è infatti comprensivo di qualunque
manufatto autonomo ovvero modificativo di altro
preesistente, che sia stabilmente infisso al suolo o ai muri
di quello preesistente, ma comunque capace di trasformare in
modo durevole l'area coperta, ovvero ancora le opere di
qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se
idonee a modificare lo stato dei luoghi.
---------------
... per l'annullamento
- del provvedimento a firma del Responsabile dell'Ufficio Tecnico
del Comune di Capodrise prot. 21197 del 19/12/2022, rif.
pratica edilizia n. 84/2022, con cui si comunica il “parere
non favorevole” alla domanda presentata dal ricorrente
avente ad oggetto l’accertamento di conformità ex art. 31
T.U.E. ai sensi del T.U. dell'edilizia n. 380/2001 e succ.
mod. ed integrazioni;
...
6. – Nello specifico, l’abuso contestato al ricorrente
consiste nella “costruzione di un muro di recinzione in
calcestruzzo armato, di altezza pari a mt 2.50, per l’intero
perimetro del lotto di terreno agricolo avente una
superficie complessiva di mq 540 circa, con pavimentazione
in battuto di cemento armato e lisciato su fondazione in
misto calcareo, realizzata senza permesso a costruire”.
6.1. – Le ragioni del diniego richiamano la destinazione
della zona in cui ricade il muro, che è zona agricola di
tipo “E” - attività produttive di tipo agricolo -del vigente
PRGC, nonché zona “E2”- Agricola urbana di previsione
urbanistica – dell’adottato PUC.; ai sensi della normativa
tecnica di attuazione allegata al vigente PRGC nonché dalla
normativa tecnica di attuazione allegata all'adottato PUC,
come riferito dal Comune, la zona “E” risulta destinata ad
attività produttive di tipo agricolo e sono ammesse solo
costruzioni destinate ad attività ad esse collegate, mentre
le aree in zona “E2”, nelle more della definizione del Piano
Operativo e di Pianificazione Attuativa, in accordo con
l'art. 44 delle Norme Tecniche dì Attuazione del Piano
Territoriale di Coordinamento dalla Provincia dì Caserta,
sono destinate ad attività rurali in regime di
inedificabilità, salvo il recupero dell'edilizia esistente
senza incremento del carico insediativo.
Di qui la ritenuta incompatibilità dei manufatti con la
vigente strumentazione urbanistica e la conseguente
reiezione dell’istanza di sanatoria.
7. – A fronte di tale compendio motivazionale le censure di
parte ricorrente, che si appuntano essenzialmente sulla
asserita natura pertinenziale delle opere per le quali è
richiesto l’accertamento di conformità, ad avviso del
Collegio non risultano persuasive. In relazione
–soprattutto– alla consistenza delle opere in contestazione
(che coprono un’area di 540 mq), infatti, va condivisa la
qualificazione fatta propria dal Comune, sulla scorta degli
orientamenti giurisprudenziali già espressi in materia.
7.1. – La nozione di pertinenza sul piano
urbanistico–edilizio è limitata ai soli interventi accessori
di modesta entità e privi di autonomia funzionale (TAR
Napoli, sez. VII, 11/04/2023, n. 2220).
7.2. – Sul piano urbanistico, la pertinenza è concetto meno
ampio di quello definito dall'art. 817 c.c. e, dunque, non
può consentire la realizzazione di opere di grande
consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene
qualificato principale; il carattere pertinenziale in senso
urbanistico va, quindi, riconosciuto alle opere che, per
loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente
inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive
di autonomo valore di mercato e non siano valutabili in
termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e
trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate
autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono (Cons.
Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3127; Tar Napoli, sez. VIII,
02.01.2023, n. 21).
7.3. – Nel caso di specie, diversamente da quanto sostenuto,
viene in evidenza non già una pertinenza, ma un distinto
lotto di terreno che, sebbene confinante con quello sul
quale vi è l’officina del ricorrente, è nettamente distinto
per destinazione e classificazione, sul quale la
realizzazione di un muro di cinta di così ragguardevoli
dimensioni –in tal senso differenziandosi dalla semplice
recinzione, la quale ha caratteristiche tipologiche di
minima entità al fine della mera delimitazione della
proprietà (Cons. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4169)– è
soggetta al rilascio del permesso di costruire, inverandosi
la nozione di nuova costruzione quante volte l'intervento
edilizio produca, come in questo caso, un effettivo e
rilevante impatto sul territorio e, dunque, in relazione
alle opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e
sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi
determinandone una significativa trasformazione (v., ex
plurimis, Cons. Stato sez. VI, 17/05/2023, n. 4889;
Cons. Stato, Sez. II, 24.03.2020, n. 2050; Cons. Stato, Sez.
II, 09.01.2020, n. 212; Cons. Stato, Sez. VI, 09.07.2018, n.
4169).
7.4. – Si deve qualificare l'intervento edilizio quale nuova
costruzione, infatti, quante volte abbia l'effettiva
idoneità –come nella specie– di determinare significative
trasformazioni urbanistiche ed edilizie, modificando
l’assetto del territorio, avuto riguardo alla sua struttura
e all'estensione dell'area relativa.
Quest'ultimo concetto è infatti comprensivo, come è stato
condivisibilmente ritenuto (Cons. Stato sez. VI, 09/07/2018,
n. 4169), di qualunque manufatto autonomo ovvero
modificativo di altro preesistente, che sia stabilmente
infisso al suolo o ai muri di quello preesistente, ma
comunque capace di trasformare in modo durevole l'area
coperta, ovvero ancora le opere di qualsiasi genere con cui
si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo
stato dei luoghi.
8. – I rilievi del ricorrente tesi a valorizzare la dedotta
natura pertinenziale delle opere, in conclusione, non
colgono nel segno e pertanto non si rivelano in grado di
intaccare le ragioni sostanziali del diniego, correlate alla
incompatibilità dell’intervento con la vigente
strumentazione urbanistica comunale.
9. – Nemmeno, d’altro canto, assume rilevanza viziante la
censura di carattere procedimentale incentrata sulla
violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990, atteso
che, come osservato, gli elementi deduttivi e istruttori
forniti dalla parte privata –che nella specie, come detto,
si focalizzano sull’assunto della natura pertinenziale delle
opere– non sono idonei a porre in dubbio, stante anche il
carattere vincolato delle determinazioni in materia di abusi
edilizi (e, quindi, anche delle determinazioni di sanatoria:
cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. VI, 10.02.2020 n. 1029;
TAR Campania, Napoli, sez. III, 04.02.2019 n. 609; Cons.
Stato, Sez. IV, 12.02.2010 n. 772) che, in caso di
osservanza delle disposizioni procedimentali in concreto
violate, il contenuto dispositivo dell'atto sarebbe stato
identico a quello in concreto assunto (Cons. Stato sez. VI,
12/04/2023, n. 3672).
10. – Siccome infondato, il ricorso va dunque respinto (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 27.12.2023 n. 7234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Abusi edilizi, niente accesso agli atti se l’istanza del
consigliere comunale è generica.
Occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata
all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare
Secondo il Tar Basilicata (sentenza
21.11.2023 n. 679)
non è accoglibile -perché non ricollegabile al mandato elettorale– la
generica istanza con cui un consigliere comunale chieda di accedere a tutti
gli atti di accertamento di abusi edilizi compiuti dal Comune in un
determinato periodo: verbali della Polizia municipale, relazioni
dell’ufficio tecnico, ordinanze di demolizione eccetera.
Gli atti comunali di vigilanza edilizia, quand'anche trasmessi alla
Procura della Repubblica per le valutazioni di competenza, non integrano, di
per sé, atti polizia giudiziaria astretti dal regime di segretezza secondo
la
disciplina sull'accesso agli atti.
Tuttavia non è sufficiente rivestire la
carica di
consigliere per essere legittimati, sempre e comunque, all'accesso; ma
occorre dare atto che l'istanza muova da un'effettiva esigenza collegata
all'esame di questioni proprie dell'assemblea consiliare.
Del resto, la
finalizzazione dell'accesso ai documenti in relazione all'espletamento del
mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello
stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del
consigliere.
Quanto a contenuto, non si tratta di un diritto assoluto e
senza
limiti. E ciò lo si si ricava dalla particolare funzione pubblica consiliare
cui è servente questo tipo di accesso; e che lo
contiene nei termini dei definiti poteri del Consiglio comunale, essendo
l'accesso strumentale all'esercizio del
mandato consiliare.
Perciò il particolare diritto di accesso del consigliere
non è illimitato, vista la sua potenziale
pervasività e la capacità di interferenza con altri interessi primariamente
tutelati. Il descritto limite implica che il
bisogno di conoscenza del titolare della carica elettiva debba porsi in
rapporto operativo con la funzione di cui è
collegialmente rivestito il consiglio comunale, e alle prerogative
attribuite singolarmente a ciascun componente
dell'organo elettivo.
Su queste basi un'istanza d'accesso motivata in
ragione della generica necessità di
espletamento del mandato elettorale di consigliere comunale, è come tale
sprovvista di elementi idonei a
comprovare che essa muova da un'effettiva esigenza collegata all'esame di
questioni proprie dell'assemblea
consiliare; secondo quanto inderogabilmente richiesto ai fini del riscontro
del parametro di utilità prescritto dalla
disciplina degli enti locali, laddove è chiarito che i consiglieri hanno
diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e le
informazioni da considerare utili all'espletamento del loro mandato.
Un tale
deficit di concretezza nella formulazione
dell'istanza di accesso si riflette negativamente anche sulla possibilità
stessa di condurre la doverosa verifica,
spettante all'Amministrazione, di preminenza o meno dell'interesse
acquisitivo rispetto ai confliggenti interessi
vantati dai soggetti controinteressati: in specie, quello di rango
costituzionale alla tutela della privacy. Precludendosi
l'individuazione di equilibrio e bilanciamento tra diritti fondamentali (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 18.01.2024).
----------------
SENTENZA
4. Il ricorso è infondato.
Ed invero, pur dovendosi ritenere che gli atti comunali di vigilanza
edilizia (quand’anche trasmessi alla Procura della Repubblica per le
valutazioni di competenza) non integrano, di per sé, atti polizia
giudiziaria astretti dal regime di segretezza di cui all’art. 24, co. 1,
lett. a), e co. 7, della L. n. 241/1990 (cfr. sul punto, Consiglio di Stato,
sez. V, 10/10/2022, n. 8667), è opinione del Collegio che sussistano agli
atti del giudizio convincenti elementi che –ancorché non enunciati
nell’avversato provvedimento di parziale diniego- non consentono
l’accertamento della spettanza, in capo alla ricorrente, del diritto ad
accedere alla documentazione non ancora esibita dal Comune.
Dal punto di vista processuale, valga il richiamo al costante orientamento
giurisprudenziale, secondo cui “il giudizio in materia di accesso, pur
seguendo lo schema impugnatorio, è rivolto all'accertamento della
sussistenza o meno del diritto dell'istante all'accesso medesimo e, in tal
senso, si atteggia quale giudizio sul rapporto, come desumibile dall'art.
116, co. 4, cod. proc. amm., secondo cui il giudice, sussistendone i
presupposti, ordina l'esibizione dei documenti richiesti. In tal caso, il
G.A. è chiamato a svolgere un giudizio di accertamento e non di
impugnazione, con la conseguenza, tra l'altro, che anche argomenti non
espressi nel provvedimento impugnato possono trovare ingresso all'interno
del processo” (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, ad. plen. 02/04/2020, n.
10).
Nel merito, rilevano le documentate argomentazioni esposte dalla difesa
comunale e dianzi richiamate.
Va, infatti, evidenziato come –fermo restando che l'accesso ai sensi
dell’art. 43, co. 2, del T.U.E.L. non è condizionato alla dimostrazione di
un personale interesse (alla conoscenza dell'atto ovvero alla acquisizione
dell'informazione) o alla presentazione di una giustificazione– il più
recente (e condivisibile) orientamento giurisprudenziale ha precisato che:
- “quanto a contenuto, non si tratta di un diritto assoluto e senza
limiti: lo si si ricava dalla particolare funzione pubblica consiliare cui è
servente questo tipo di accesso, che lo contiene nei termini dei definiti
poteri del Consiglio comunale (essendo l'accesso strumentale all'esercizio
del mandato consiliare). Perciò il particolare diritto di accesso del
consigliere non è illimitato, vista la sua potenziale pervasività e la
capacità di interferenza con altri interessi primariamente tutelati” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 03/02/2022, n. 769);
- “non appare sufficiente rivestire la carica di consigliere per
essere legittimati sic et simpliciter all'accesso, ma occorre dare atto che
l'istanza muova da un'effettiva esigenza collegata all'esame di questioni
proprie dell'assemblea consiliare. Del resto, la finalizzazione dell'accesso
ai documenti in relazione all'espletamento del mandato costituisce il
presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi
come funzionale allo svolgimento dei compiti del consigliere" (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 2/1/2019, n. 12);
- “il descritto limite implica che il bisogno di conoscenza del
titolare della carica elettiva debba porsi in rapporto di strumentalità con
la funzione di cui è collegialmente rivestito il consiglio comunale (art.
42, t.u.e.l.), e alle prerogative attribuite singolarmente al componente
dell’organo elettivo (art. 43)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 11/03/2021,
n. 2089).
Di talché, l’istanza di accesso per cui è causa –essendo motivata, come
emerge dalla sua lettura, in ragione della generica necessità di
espletamento del mandato elettorale di consigliere comunale– risulta ictu
oculi sprovvista di elementi idonei a comprovare che essa muova da
un'effettiva esigenza collegata all'esame di questioni proprie
dell'assemblea consiliare, secondo quanto inderogabilmente richiesto ai fini
del riscontro del parametro di utilità prescritto dall’art. 43, co. 3, del
T.U.E.L. (ivi chiarendosi che i consiglieri hanno diritto di ottenere dagli
uffici tutte le notizie e le informazioni "utili all'espletamento del loro
mandato").
Tale deficit di concretezza nella formulazione dell’istanza di accesso si
riflette negativamente anche sulla possibilità stessa di condurre la
doverosa verifica, spettante all’Amministrazione, di preminenza o meno
dell’interesse acquisitivo rispetto ai confliggenti (ed equiordinati)
interessi vantati dai soggetti controinteressati (in specie, quello di rango
costituzionale alla tutela della riservatezza dei destinatari dell’attività
di polizia edilizia); ciò precludendo, altresì, l’individuazione, sempre da
parte dell’Amministrazione, di eventuali modalità realizzative di un
equilibrato e ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali di pari
rango (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 11/03/2021, n. 2089).
Infine, con valenza autonoma, è provato che l’istanza di accesso per cui è
causa, oltre che carente dei richiamati elementi circostanziali, è
inquadrabile nel contesto di numerose analoghe iniziative da parte della
ricorrente (nel numero di 40), concentrate in un ristretto torno temporale
(dal 09/05/2023 al 04/09/2023), rivelatrici –unitariamente intese– di un modus agendi idoneo ad integrare un controllo generalizzato dell’operato
dell’Amministrazione e, dunque, vietato ai sensi dell’art. 24, co. 3, della
L. n. 241/1990.
Regola, quest’ultima, opponibile anche a tale tipologia di accesso, in
quanto espressiva della tutela dei principi costituzionali di razionalità e
buon funzionamento dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), come
riconosciuto da costante giurisprudenza secondo cui l’accesso ai documenti
da parte dei consiglieri comunali incontra un “limite proprio nell'ipotesi
in cui lo stesso si traduca in strategie ostruzionistiche o di paralisi
dell'attività amministrativa con istanze che, a causa della loro continuità
e numerosità, determinino un aggravio notevole del lavoro degli uffici ai
quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull'attività
dell'amministrazione (Cons. Stato, IV, 12.02.2013, n. 846). L'accesso,
in altri termini, deve avvenire in modo da comportare il minore aggravio
possibile per gli uffici comunali, e non deve sostanziarsi in richieste
assolutamente generiche o meramente emulative” (cfr. Consiglio di Stato,
sez. V, 02/03/2018, n. 1298).
5. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso va respinto. |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 31, co. 2, del D.P.R. n. 380/2001, «[i]l dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di
interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo,
ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’art.
32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la
demolizione (…)» sicché tra le variazioni essenziali -in presenza
delle quali scatta il potere-dovere del dirigente di ingiungere la
demolizione del manufatto abusivo- è testualmente contemplata la «violazione
delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a
fatti procedurali» [art. 32, co. 1, lett. e)].
---------------
23.
– Con il quinto dei motivi aggiunti, i ricorrenti hanno eccepito
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione nella parte in cui viene
contestata l’inosservanza della normativa antisismica.
La censura dei ricorrenti è limitata alla asserita incompetenza del Comune a
muovere contestazioni in materia antisismica, essendo la relativa competenza
radicata in capo all’autorità giudiziaria (ai sensi dell’art. 98, co. 3, del
D.P.R. n. 380/2001) o, in caso di accertata prescrizione, alla Regione (art.
100, co. 1). Solo con la memoria di replica depositata il 03.10.2023, i
ricorrenti hanno poi sostenuto che «il Comune non può ordinare la
demolizione laddove l’Autorità competente non abbia accertato la violazione
della normativa antisismica ed abbia verificato che la stessa non dipenda da
fatti procedurali».
Esula, dunque, dalla materia del contendere, come delimitata dalle censure
formulate dai ricorrenti con i motivi aggiunti, la questione della
fondatezza del provvedimento comunale in relazione al carattere sostanziale
o formale della violazione della normativa antisismica contestata (questione
rispetto alla quale assumerebbe rilevanza la nota della Regione Umbria del
-OMISSIS-, depositata in corso di causa da parte ricorrente con il doc. n.
80, con la quale, in relazione alla segnalazione del Comune di Preci «per
illecito edilizio e presunta violazione sismica», il competente ufficio
regionale ha ritenuto di non avviare alcun procedimento a carico degli
odierni ricorrenti, non ravvisandone i presupposti sostanziali).
Restando al profilo relativo alla competenza – e salva ogni eventuale
valutazione dell’Amministrazione in ordine alla portata sostanziale della
nota regionale del -OMISSIS- – è dirimente l’osservazione che, ai sensi
dell’art. 31, co. 2, del D.P.R. n. 380/2001, «[i]l dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di
interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo,
ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo
32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la
demolizione (…)» e che tra le variazioni essenziali in presenza
delle quali scatta il potere-dovere del dirigente di ingiungere la
demolizione del manufatto abusivo è testualmente contemplata la «violazione
delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a
fatti procedurali» [art. 32, co. 1, lett. e)].
Il motivo, nei limiti in cui lo stesso è stato formulato, è pertanto
infondato
(TAR Umbria,
sentenza
02.11.2023 n. 604 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I titoli
edilizi e il certificato di agibilità sono correlati a
presupposti diversi e sono soggetti a discipline, anche
sanzionatorie, non sovrapponibili, dal momento che
- il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che
l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel
rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di
sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli
edifici e degli impianti (come espressamente recita l’art.
24 del D.P.R. n. 380/2001), mentre
- oggetto della specifica funzione del titolo edilizio è il
controllo del rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche.
Dunque, il certificato di agibilità ha una sua propria
funzione, consistente nel garantire che l’edificio sia
idoneo ad essere utilizzato per le destinazioni ammissibili,
e non preclude agli uffici comunali la possibilità di
contestare, anche successivamente alla sua emissione, la
presenza di difformità rispetto al titolo edilizio, non
essendo pertanto d’ostacolo all’esercizio dei poteri di
repressione degli abusi.
---------------
24. – Infine,
nemmeno il sesto dei motivi aggiunti può trovare
accoglimento.
Nessun affidamento legittimo può essersi formato nei
ricorrenti rispetto alla regolarità edilizia ed urbanistica
del manufatto ed alla rinuncia dell’Amministrazione comunale
ad esercitare i suoi doverosi poteri di vigilanza
sull’attività edilizia per effetto del rilascio della
dichiarazione di agibilità del -OMISSIS-.
Come è stato rilevato dalla giurisprudenza, anche di questo
Tribunale, i titoli edilizi e il certificato di agibilità
sono correlati a presupposti diversi e sono soggetti a
discipline, anche sanzionatorie, non sovrapponibili, dal
momento che il certificato di agibilità ha la funzione di
accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato
realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in
materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti (come
espressamente recita l’art. 24 del D.P.R. n. 380/2001),
mentre oggetto della specifica funzione del titolo edilizio
è il controllo del rispetto delle norme edilizie ed
urbanistiche (TAR Umbria, 26.08.2019, n. 483).
Dunque, il certificato di agibilità ha una sua propria
funzione, consistente nel garantire che l’edificio sia
idoneo ad essere utilizzato per le destinazioni ammissibili,
e non preclude agli uffici comunali la possibilità di
contestare, anche successivamente alla sua emissione, la
presenza di difformità rispetto al titolo edilizio, non
essendo pertanto d’ostacolo all’esercizio dei poteri di
repressione degli abusi (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
10.05.2021, n. 3666; TAR Campania, Napoli, sez. II,
08.11.2021, n. 7055; TAR Campania, Salerno, sez. II,
27.05.2019, n. 847; TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
08.06.2017, n. 3097; TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
05.06.2017, n. 731; TAR Veneto, sez. II, 18.01.2017, n. 42;
TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.01.2011, n. 94)
(TAR Umbria,
sentenza
02.11.2023 n. 604 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il muro di contenimento tra due fondi posti a
livelli differenti, qualora il dislivello derivi dall'opera
dell'uomo o il naturale preesistente dislivello sia stato
artificialmente accentuato, deve considerarsi costruzione a
tutti gli effetti e soggetta, pertanto, agli obblighi delle
distanze previste dall'art.
873 cod. civ. e dalle eventuali norme integrative, a
nulla rilevando, sotto questo profilo, che esso assolva
anche alla funzione di contenimento e sostegno del
terrapieno.
---------------
Il secondo motivo del ricorso principale denunzia
violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto,
specificamente dell'art. 873 cod. civ. e dei regolamenti
locali ovvero dell'art. 47 delle Norme di attuazione del
Piano regolatore generale del comune di Imperia, relative
alla disciplina delle distanze tra fabbricati, lamentando
che la Corte territoriale abbia qualificato l'intervento
come nuova costruzione senza considerare che, nel caso di
specie, trattandosi di luoghi in dislivello naturale, il
muro assolveva alla funzione di sostegno e di contenimento.
Il motivo è infondato.
La qualifica del manufatto de quo quale costruzione
accolta dalla Corte genovese e le conseguenze che essa ne ha
tratto appaiono esenti da censure e conformi all'indirizzo
di questa Corte, che ha avuto modo in più occasioni di
precisare che il muro di contenimento tra due fondi posti a
livelli differenti, qualora il dislivello derivi dall'opera
dell'uomo o il naturale preesistente dislivello sia stato
artificialmente accentuato, deve considerarsi costruzione a
tutti gli effetti e soggetta, pertanto, agli obblighi delle
distanze previste dall'art.
873 cod. civ. e dalle eventuali norme integrative, a
nulla rilevando, sotto questo profilo, che esso assolva
anche alla funzione di contenimento e sostegno del
terrapieno (Cass. n. 1217 del 2010; Cass. n. 8144 del 2001) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 20.10.2021 n. 29166). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza della Suprema
Corte che la rilevanza giuridica della licenza o concessione
edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico
tra pubblica amministrazione e privato richiedente o
costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati,
regolati dalle disposizioni dettate dal codice civile e
dalle leggi speciali in materia edilizia, nonché dalle norme
dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori generali
locali.
Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie
tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie,
sono irrilevanti tanto la esistenza della concessione (salva
la ipotesi della cosiddetta licenza in deroga), quanto il
fatto di avere costruito in conformità alla concessione, non
escludendo tali circostanze, in sé, la violazione dei
diritti dei terzi di cui al codice civile e agli strumenti
urbanistici locali, così come è del pari irrilevante la
mancanza della licenza o della concessione, quando la
costruzione risponda oggettivamente a tutte le disposizioni
normative sopraindicate.
---------------
Il terzo motivo
di ricorso denunzia omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio, lamentando che la decisione impugnata abbia
trascurato che la parte convenuta Co. aveva ottenuto dal
comune in data 09.12.2002 la concessione in sanatoria del
terrapieno.
Il mezzo è infondato in quanto il fatto la cui valutazione
sarebbe stata omessa è irrilevante ai fini della
controversia.
Costituisce invero ius receptum nella giurisprudenza
di questa Corte che la rilevanza giuridica della licenza o
concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto
pubblicistico tra pubblica amministrazione e privato
richiedente o costruttore, senza estendersi ai rapporti tra
privati, regolati dalle disposizioni dettate dal codice
civile e dalle leggi speciali in materia edilizia, nonché
dalle norme dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori
generali locali.
Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie
tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie,
sono irrilevanti tanto la esistenza della concessione (salva
la ipotesi della cosiddetta licenza in deroga), quanto il
fatto di avere costruito in conformità alla concessione, non
escludendo tali circostanze, in sé, la violazione dei
diritti dei terzi di cui al codice civile e agli strumenti
urbanistici locali, così come è del pari irrilevante la
mancanza della licenza o della concessione, quando la
costruzione risponda oggettivamente a tutte le disposizioni
normative sopraindicate (Cass. 12405 del 2007) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 20.10.2021 n. 29166). |
AGGIORNAMENTO AL 09.01.2024 |
Nei comuni con popolazione
inferiore a 5.000 abitanti,
se il Sindaco
"vuole" firmare
(legittimamente) "atti gestionali"
indefettibilmente: |
1-
si devono preventivamente
adottare “disposizioni regolamentari organizzative” che
autorizzino la deroga al principio di distinzione delle funzioni
tra organi tecnici e organi politici;
2-
deve sussistere il mancato
affidamento del relativo incarico al segretario comunale;
3-
si deve, ogni anno
in sede di deliberazione (approvazione) del bilancio,
documentare con apposito atto l'effettivo contenimento della
spesa;
4- lo stesso Sindaco
non può auto-attribuirsi
il potere di natura gestionale (ai sensi dell’art. 107 del TUEL)
laddove, al contrario, è quanto mai opportuna (se non
necessaria) l'adozione di
apposita deliberazione di Giunta Comunale in tal senso. |
COMPETENZE GESTIONALI:
Come noto, ai sensi dell’art. 5, comma 3, del d.lgs.
285/1992 (codice della strada) «i provvedimenti per la
regolamentazione della circolazione sono emessi dagli enti
proprietari, attraverso gli organi competenti a norma degli
artt. 6 e 7, con ordinanze motivate e rese note al
pubblico mediante i prescritti segnali», con la
precisazione, di cui al successivo art. 4, comma 5, lett. d),
che le ordinanze de quibus sono emanate dal Sindaco qualora
abbiano ad oggetto strade comunali o vicinali.
Ebbene, in linea generale l’orientamento giurisprudenziale
prevalente considera che a seguito dell’emanazione del TUEL
tutte le disposizioni normative previgenti che stabiliscono
una competenza in capo al Sindaco nell’emanazione di
ordinanze “ordinarie”, sono da intendersi implicitamente
attributive del medesimo potere ai dirigenti o ai
responsabili di servizio, se rientranti nell'ambito delle
competenze gestionali di cui al riparto dei poteri;
principio generale che è stato affermato anche in subiecta
materia, ove è stato chiarito che «secondo l'orientamento
ormai consolidatosi in giurisprudenza in materia, i
provvedimenti con i quali si disciplina la circolazione
sulla viabilità comunale, la modalità di accesso alla stessa
ed i relativi orari, l'eventuale divieto per talune
categorie di veicoli, i controlli e le sanzioni, ai sensi
degli artt. 6 e 7 del d.lgs. 285 del 1992, assumono natura
tipicamente gestoria ed esecutiva e, quindi, appartengono
alla competenza dei dirigenti e non del Sindaco».
Con specifico riferimento alla circolazione stradale la
giurisprudenza ha però precisato che, nonostante le misure
previste dall'art. 7 del Codice della Strada devono
intendersi oggi, di norma, rimesse alla competenza della
dirigenza comunale, tale regola generale subisce una deroga
«per le misure di maggiore impatto sull'intera collettività
locale, per le quali lo stesso articolo del Codice prevede
l'intervento di un organo politico».
Tant’è che in un caso
analogo a quello in esame è stato sancito che «non vi è
dubbio che la chiusura definitiva di un passaggio a livello
senza barriere e l'interdizione, altrettanto definitiva,
della circolazione nel tratto di strada vicinale che lo
interseca, rappresentano limitazioni a carattere permanente
che l'ente proprietario della strada (nel caso di specie il
sindaco) può legittimamente disporre ai sensi dell'art. 6,
comma 4, lett. b), del d.lgs. n. 285/1992, laddove, nella
comparazione tra opposti interessi, debba prevalere quello
pubblico alla sicurezza stradale e del traffico veicolare».
A ciò si aggiunga che il caso sottoposto all’esame del
Collegio è ulteriormente peculiare perché il provvedimento è
stato emanato dal Sindaco di un Comune di circa 800 abitanti
ed è, pertanto, sussumibile nel disposto dell’art. 53, comma
23, della l. 388/2000, secondo cui «gli enti locali con
popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva
l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con dlgs 18.08.2000, n. 267, anche al fine di
operare un contenimento della spesa, possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative, se necessario
anche in deroga a quanto disposto all'art.
3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all'art. 107 del
predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale».
---------------
... per l'annullamento
- dell'ordinanza del Sindaco del Comune di Tavagnasco n. 10
del 20.09.2021, pubblicata il 19.11.2021,
nonché di tutti gli atti a essa connessi, ancorché non
conosciuti, ivi compresi, per quanto di interesse:
...
1. L’impianto idroeletrico della ricorrente è dotato di due
accessi: uno principale (posto sul lato sud dello
stabilimento, con accesso da via Ganassini) e l’altro
“secondario” (posto a nord dell’impianto con ingresso da via Quincinetto, la quale è attraversata, da un passaggio a
livello posto al km 43+782 della linea ferroviaria).
2. Con una serie di provvedimenti, la Rete Ferroviaria
Italiana - RFI S.p.A., la Regione Piemonte, la Città
Metropolitana di Torino, il Consorzio per il Bacino
Imbrifero - BIM della Dora Baltea e i Comuni
territorialmente interessati hanno avviato un intervento di
messa in sicurezza della tratta ferroviaria Torino-Aosta,
che comportava anche la chiusura di una serie di passaggi a
livello.
3. Nello specifico e per quanto qui di interesse, con la
Deliberazione della Giunta Comunale n. 32 del 28.05.2018, il Comune di Tavagnasco ha avviato le procedure per la
chiusura del passaggio a livello posto al km 43+782 della
linea ferroviaria, che avrebbe comportato l’impossibilità
per la ricorrente di usufruire efficientemente del proprio
accesso secondario.
4. Il 03.09.2018 la ricorrente ha rappresentato al
Comune che l’impossibilità di utilizzare tale via d’accesso
potrebbe divenire una fonte di criticità in caso di forti esondazioni, che potrebbero rendere non percorribile
l’accesso principale.
5. Il 20.09.2021 il Comune ha disposto la chiusura
del passaggio a livello (ordinanza numero 10 del 20.09.2021) e con ricorso, notificato il 18.11.2021 e depositato il successivo 24 novembre, la ricorrente
ha impugnato i provvedimenti di cui in epigrafe, chiedendone
l’annullamento, previa sospensione cautelare, perché asseritamente illegittimi.
6. Con motivi aggiunti, notificati e depositati il 14.12.2021, la ricorrente ha esteso l’impugnazione agli
atti depositati in giudizio dal Comune (Deliberazione di
Consiglio Comunale di Tavagnasco n. 12 del 03.05.2021,
Deliberazione di Giunta Comunale di Tavagnasco n. 32 del 28.05.2018, Responsabile del Servizio di Polizia Municipale
del Comune di Tavagnasco del 11.03.2021) e ha indicato
nuovi profili di illegittimità degli atti già gravati.
...
3. Nel merito, con il primo motivo di ricorso la ricorrente
censura l’incompetenza del Sindaco a emanare l’ordinanza n.
10 del 20.09.2021, posto che, nonostante gli artt. 5,
6 e 7 del Codice della Strada attribuiscano tale potere al
sindaco, a seguito dell’entrata in vigore del TUEL esso
sarebbe stato attribuito ai dirigenti in omaggio al disposto
del suo art. 107.
A ciò si aggiungerebbe, per la tesi in esame, che il
provvedimento de quo non potrebbe essere inquadrato nel
novero delle ordinanze contingibili e urgenti in quanto il
relativo procedimento sarebbe stato avviato nel 2017.
La censura è stata approfondita con il primo motivo dei
motivi aggiunti, in cui la ricorrente ha anche esteso il
contraddittorio all’Avvocatura Distrettuale dello Stato.
Il motivo è infondato.
Come noto, ai sensi dell’articolo 5, comma 3, del d.lgs.
285/1992 (codice della strada) «i provvedimenti per la
regolamentazione della circolazione sono emessi dagli enti
proprietari, attraverso gli organi competenti a norma degli
articoli 6 e 7, con ordinanze motivate e rese note al
pubblico mediante i prescritti segnali», con la
precisazione, di cui al successivo art. 4, comma 5, lett. d),
che le ordinanze de quibus sono emanate dal Sindaco qualora
abbiano ad oggetto strade comunali o vicinali.
Ebbene, in linea generale l’orientamento giurisprudenziale
prevalente considera che a seguito dell’emanazione del TUEL
tutte le disposizioni normative previgenti che stabiliscono
una competenza in capo al Sindaco nell’emanazione di
ordinanze “ordinarie”, sono da intendersi implicitamente
attributive del medesimo potere ai dirigenti o ai
responsabili di servizio, se rientranti nell'ambito delle
competenze gestionali di cui al riparto dei poteri;
principio generale che è stato affermato anche in subiecta
materia, ove è stato chiarito che «secondo l'orientamento
ormai consolidatosi in giurisprudenza in materia, i
provvedimenti con i quali si disciplina la circolazione
sulla viabilità comunale, la modalità di accesso alla stessa
ed i relativi orari, l'eventuale divieto per talune
categorie di veicoli, i controlli e le sanzioni, ai sensi
degli artt. 6 e 7 del d.lgs. 285 del 1992, assumono natura
tipicamente gestoria ed esecutiva e, quindi, appartengono
alla competenza dei dirigenti e non del Sindaco» (cfr.
Consiglio di Stato sez. V, 13.07.2017, n. 3460).
Con specifico riferimento alla circolazione stradale la
giurisprudenza ha però precisato che, nonostante le misure
previste dall'art. 7 del Codice della Strada devono
intendersi oggi, di norma, rimesse alla competenza della
dirigenza comunale, tale regola generale subisce una deroga
«per le misure di maggiore impatto sull'intera collettività
locale, per le quali lo stesso articolo del Codice prevede
l'intervento di un organo politico» (cfr. Consiglio di Stato
sez. V, 07.09.2022, n. 7790).
Tant’è che in un caso
analogo a quello in esame è stato sancito che «non vi è
dubbio che la chiusura definitiva di un passaggio a livello
senza barriere e l'interdizione, altrettanto definitiva,
della circolazione nel tratto di strada vicinale che lo
interseca, rappresentano limitazioni a carattere permanente
che l'ente proprietario della strada (nel caso di specie il
sindaco) può legittimamente disporre ai sensi dell'art. 6,
comma 4, lett. b), del d.lgs. n. 285/1992, laddove, nella
comparazione tra opposti interessi, debba prevalere quello
pubblico alla sicurezza stradale e del traffico veicolare» (cfr.
TAR Marche, sez. I, 05.06.2015, n. 455).
A ciò si aggiunga che il caso sottoposto all’esame del
Collegio è ulteriormente peculiare perché il provvedimento è
stato emanato dal Sindaco di un Comune di circa 800 abitanti
ed è, pertanto, sussumibile nel disposto dell’articolo 53,
comma 23, della legge 388/2000, secondo cui «gli enti locali
con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva
l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative,
se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo
3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993,
n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del
predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale».
Poiché, quindi, il Comune di Tavagnasco ha una popolazione
di circa 800 abitanti ed è, tra l’altro, privo di figure
dirigenziali in organico, appare corretto affermare che le
funzioni de quibus possano essere assunte dai componenti
dell’organo esecutivo, ivi compreso il sindaco (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 03.11.2023 n. 859 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Competenza del Sindaco e dei consiglieri all'irrogazione diretta di sanzioni.
Quesiti
Si chiede se sia configurabile la competenza del Sindaco e dei
consiglieri all'irrogazione diretta di sanzioni per violazione Codice della
Strada e in materia di infrazioni relative all'errato conferimento/abbandono
di rifiuti sul territorio.
Risposta
L’articolo 57, comma 1, lett. c), codice procedura penale stabilisce che “....sono
ufficiali di polizia giudiziaria:
c) il sindaco dei comuni ove non abbia sede un ufficio della
polizia di Stato ovvero un comando dell'arma dei carabinieri o della guardia
di finanza”.
L’art.
13, comma 4, legge n. 689/1981, prevede che “All'accertamento delle
violazioni punite con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma
di denaro possono procedere anche gli ufficiali e gli agenti di polizia
giudiziaria, i quali, oltre che esercitare i poteri indicati nei precedenti
commi, possono procedere, quando non sia possibile acquisire altrimenti gli
elementi di prova, a perquisizioni in luoghi diversi dalla privata dimora,
previa autorizzazione motivata del pretore del luogo ove le perquisizioni
stesse dovranno essere effettuate. Si applicano le disposizioni del primo
comma dell'art. 333 e del primo e secondo comma dell'art. 334 c.p.p.”
Infine l’articolo
194, codice della strada, prescrive che “In tutte le ipotesi in cui
il presente codice prevede che da una determinata violazione consegua una
sanzione amministrativa pecuniaria, si applicano le disposizioni generali
contenute nelle Sezioni I e II del capo I della
legge 24.11.1981, n. 689, salve le modifiche e le deroghe previste dalle
norme del presente capo”.
Da tale normativa si evincono i seguenti principi, in relazione al quesito
proposto:
1. sicuramente consiglieri e assessori comunali non hanno nessuna
competenza all’accertamento e contestazione di violazioni amministrative;
2. il sindaco, invece,
ha competenza all’accertamento,
contestazione, verbalizzazione di sanzioni amministrative, sia generali, e
sia del codice della strada, ma esclusivamente se si trovi nella situazione
di cui all’articolo 57, comma 1, lett. c), codice procedura penale, in
quanto ufficiale di P.G., in relazione al potere attribuito agli organi di
P.G. dall’articolo
13, legge n. 689/1981;
3. nel caso in cui, nel Comune abbia sede un ufficio della Polizia
di Stato, un Comando Carabinieri o G.d.f., il Sindaco non avrà alcun potere
di accertare, contestazione, verbalizzare alcuna violazione amministrativa (30.08.2023
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: L.
Oliveri,
Comuni con meno di 5.000 abitanti: chi incarica sindaco e assessori delle
funzioni gestionali? La pretesa paradossale di applicare norme ordinare a
deroghe mostruose all’ordinamento (12.07.2023 - tratto da e link a https://leautonomie.asmel.eu).
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Questioni di lana caprina, conseguenze inevitabili di un obbrobrio
giuridico come l’articolo
53, comma 23, della legge 388/2000.
Una norma mostruosa, che ferisce profondamente l’ordinamento consentendo
negli enti con meno di 5.000 abitanti l’attribuzione di funzioni gestionali
agli organi di governo, non può che scaturire ulteriori aberrazioni, come il
problema connesso alla concreta specificazione delle persone fisiche,
sindaco e assessori, chiamati a svolgere le funzioni gestionali.
Specificazione, si ricordi, che fa totalmente a meno di qualsiasi di quelle
valutazioni su titolo di studio, attitudine, esperienze, competenze,
necessari per il reclutamento, perfino (in parte) di figure fiduciarie come
gli articoli 110, altra aberrazione giuridica che si trascina da decenni.
Dunque, posto che un comune di piccole dimensioni intenda avvalersi
dell’aberrazione dell’articolo
53, comma 23, chi incarica sindaco e assessori delle funzioni di
responsabile di servizio?
Come dimostra l’articolo di Amedeo Scarsella “A chi compete la nomina del
sindaco come Responsabile di servizio negli Enti con popolazione inferiore a
5mila abitanti?”, pubblicato su La Gazzetta degli enti locali l’11.07.2023,
si è aperta la fiera delle suggestioni. Alla domanda rispondono “giunta” il
Servizio consulenza della Regione Friuli Venezia Giulia (parere
06.06.2023) ed Anac (nella propria recente
delibera 20.06.2023 n. 291,
della quale continua a sfuggire, tuttavia, il fondamento).
Ribatte lo Scarsella, con argomentazioni interessanti, concernenti
l’impossibilità della traslazione delle competenze da un organo all’altro
sulla base di un conflitto di interessi, che invece la competenza debba
essere individuata nel vice-sindaco.
Tale soggetto sostituisce il sindaco in caso di assenza o impedimento
temporaneo (nonché nella sciagurata ipotesi di sospensione dall’esercizio
delle funzioni).
Ma, allora, tale soluzione non appare appagante. L’impedimento temporaneo è
cosa molto diversa dal conflitto di interessi: la funzione vicaria rimedia
ad una situazione limitata nel tempo di natura fattuale, che non consenta al
sindaco di esercitare proprie funzioni.
Nel caso dell’articolo
53, comma 23, se si ritenga sussistere conflitto di interessi da
ruolo di sindaco ed esercizio della competenza a nominare il soggetto
politico che svolga funzioni gestionali, allora non si tratta di un
impedimento temporaneo, bensì di una vera e propria totale incompatibilità
tra ruolo e funzioni. La soluzione del vice sindaco, dunque, non è
pertinente.
Per altro, quanto è credibile che il vice sindaco, eventualmente,
attribuisca gli incarichi di responsabile di servizio in modo autonomo e non
obbedendo alle indicazioni del sindaco? Quanto è credibile, ciò, in misura
superiore al meno zero? Le soluzioni ai problemi debbono superare un vaglio
non solo di legittimità, ma anche fattuale.
Il problema che dell’incompatibilità è così sintetizzato dall’Anac: “occorre
evitare che sia lo stesso interessato ad effettuare autonomamente la
valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione alla propria
situazione. Pertanto, ogni Comune che conferisce al Sindaco o ad un
Assessore funzioni gestionali deve definire in un apposito atto (ad esempio
mediante Statuto, regolamento o comunque in atti del Consiglio comunale o
della Giunta), tenendo conto delle proprie specificità organizzative, le
modalità con cui gli stessi possono rendere le dichiarazioni ai sensi degli
articoli 6, comma 1, del d.PR. n. 62/2013 e 6-bis della legge n. 241/1990,
nonché quelle relative alle procedure di aggiudicazione rispetto alle quali
adottino atti”.
Tuttavia, la vera domanda da porsi è se realmente si pongano questioni
connesse al conflitto di interessi.
Leggiamo, allora, gli articoli citati dall’Anac, quale fonte delle
dichiarazioni sul conflitto di interessi:
-
articolo 6, comma 1, dPR 62/2013: “Fermi restando gli obblighi di
trasparenza previsti da leggi o regolamenti, il dipendente, all’atto
dell’assegnazione all’ufficio, informa per iscritto il dirigente
dell’ufficio di tutti i rapporti, diretti o indiretti, di collaborazione con
soggetti privati in qualunque modo retribuiti che lo stesso abbia o abbia
avuto negli ultimi tre anni, precisando:
a) se in prima persona, o suoi
parenti o affini entro il secondo grado, il coniuge o il convivente abbiano
ancora rapporti finanziari con il soggetto con cui ha avuto i predetti
rapporti di collaborazione;
b) se tali rapporti siano intercorsi
o intercorrano con soggetti che abbiano interessi in attività o decisioni
inerenti all’ufficio, limitatamente alle pratiche a lui affidate”;
-
articolo 6-bis, della legge 241/1990:
“Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad
adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi,
segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”.
La prima norma è chiarissimamente rivolta in via esclusiva ai dipendenti
pubblici: del resto, è parte del codice di comportamento appunto dei
dipendenti, come tale inapplicabile agli organi di governo. La seconda, solo
apparentemente è più neutra: in realtà si salda con l’articolo
5 della legge 241/1990, ai sensi del quale “Il dirigente di ciascuna
unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto
all’unità la responsabilità della istruttoria e di ogni altro adempimento
inerente il singolo procedimento nonché, eventualmente, dell’adozione del
provvedimento finale”. Ancora una volta, si comprende che le norme
riguardano i dipendenti, non gli organi elettivi.
L’articolo
ircocervo 53, comma 23, della legge 388/2000 non trasforma gli
amministratori locali in dipendenti cui siano da applicare norme riservate a
chi conduca con la PA un rapporto di lavoro pubblico. Essi sono e restano
sindaco e componenti della giunta.
Allora, forse, appare più producente rassegnarsi: se deroga al sistema
generale di separazione delle competenze deve essere, deroga sia. Una deroga
totale e non a scartamento ridotto.
La legge rimette ai regolamenti locali la scelta di attivare la mostruosità
ivi prevista? Siano i regolamenti a stabilire anche quale organo incarica i
componenti della giunta delle funzioni gestionali. Oggettivamente, la
questione andrebbe risolta così, dando rilevanza in via esclusiva agli atti
che dalla legge ricevono la legittimazione a vulnerare l’ordinamento con la
orripilante deroga prevista.
Dovessimo prendere posizione su come scrivere i regolamenti, suggeriremmo,
proprio perché è una deroga illimitata, di lasciare al sindaco la competenza
ad incaricare se stesso o gli assessori delle funzioni gestionali, come in
un nostalgico ritorno all’ordinamento locale ante 1990.
Hanno da rilasciare dichiarazioni di assenza di conflitto di interesse? Le
rilascino al segretario comunale, che svolge le funzioni latamente intese
come “notarili”.
Considerazione finale: non si combattono i conflitti di interesse con la
forma e gli espedienti, tipo la giunta che decide di incaricare sindaco e
assessori al posto dei dipendenti, il quale sindaco dice al vice sindaco di
incaricare gli assessori per evitare il conflitto di interesse che poi non
si sa chi deve dichiarare di non possedere a chi.
I conflitti di interesse andrebbero evitati, intanto, con norme sagge e tali
da scongiurare simili confusioni.
E’ l’articolo
53, comma 23, la deformità: tutto quel che lo attua non può che
essere conseguentemente un ulteriore raccapriccio giuridico. |
COMPETENZE GESTIONALI: A.
Scasella,
FAQ sull’attribuzione ai componenti della giunta di competenze gestionali
nei Piccoli Comuni (12.07.2023 - tratto da e link a
www.lagazzettadeglientilocali.it).
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Si pubblicano di seguito le risposte alle domande più frequenti (FAQ) in
relazione al tema della attribuzione ai componenti della giunta di
competenze gestionali nei Piccoli Comuni.
È possibile affidare la responsabilità degli uffici
e dei servizi nei Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti ai
componenti dell’organo esecutivo?
L’art.
53, comma 23, della l. n. 388/2000 stabilisce che “gli Enti locali con
popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui
all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli Enti locali, approvato con decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario
anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del
decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e
all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio”.
È sufficiente la previsione contenuta nell’art.
53, comma 23, della l. n. 388/2000 per attribuire l’incarico di
responsabile degli uffici e dei servizi ai componenti dell’organo esecutivo
negli Enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti?
NO. La norma in commento
attribuisce solo la facoltà, per gli Enti locali con popolazione inferiore a
5mila abitanti, di mutare l’organizzazione dell’Ente in termini derogatori
rispetto al principio di distinzione delle funzioni tra organi politici e
gestionali, a condizione che:
- siano previamente adottate apposite disposizioni
regolamentari;
- sia documentato ogni anno, con apposita
deliberazione, in sede di approvazione del bilancio, un contenimento di
spesa.
La previsione regolamentare, però, non è di per sé sufficiente ad
autorizzare i componenti dell’organo esecutivo ad adottare atti gestionali,
in quanto è sempre richiesto un atto successivo di conferimento delle
funzioni, adeguatamente motivato da un punto di vista organizzativo e/o
economico.
È proprio tale successivo atto di assegnazione della
responsabilità degli uffici e dei servizi che legittima l’adozione da parte
del politico degli atti gestionali.
Primo presupposto perché possano legittimamente attribuirsi
funzioni gestionali ai componenti dell’organo esecutivo è l’adozione di
“disposizioni regolamentari organizzative”.
È quindi necessaria l’approvazione di una modifica regolamentare?
SI, tale soluzione appare
ampiamente preferibile.
Tuttavia, si segnala che accanto a questa interpretazione, che
ritiene necessaria una previsione regolamentare, secondo un altro
orientamento giurisprudenziale consolidato, “la disposizione legislativa non
necessariamente indica l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente
che il relativo provvedimento sia deliberato dalla giunta comunale, quale
organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento
degli uffici e dei servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV,
23.02.2009 n. 1070; V,
06.03.2007 n. 1052; TAR Lombardia, Milano, II,
18.05.2011 n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter,
22.03.2011 n. 2534)”.
Secondo tale interpretazione “le disposizioni regolamentari
organizzative cui fa riferimento la norma non necessariamente indicano
l’approvazione di un regolamento, e, in ogni caso, ai sensi dell’art. 48 del TUEL è altresì di competenza della giunta l’adozione dei regolamenti
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi” (così espressamente TAR
Lombardia,
18.07.2017 n. 1644).
Secondo presupposto perché possano legittimamente
attribuirsi funzioni gestionali ai componenti dell’organo esecutivo è il
contenimento della spesa che “deve essere documentato ogni anno, con
apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
La norma fa quindi riferimento al bilancio di previsione?
SI. La norma sembrerebbe
fare riferimento al bilancio di previsione, che per il carattere
programmatico e autorizzatorio, dovrebbe abilitare l’esercizio della
facoltà, prevista dalle disposizioni regolamentari dell’Ente.
La giurisprudenza, però, ha chiarito che “l’effettività del
contenimento della spesa deve poi essere autonomamente confermata con
apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”, facendo
intendere che, se il contenimento della spesa è un motivo necessario per il
conferimento delle funzioni gestionali ai politici, lo stesso può essere
dimostrato anche in un momento successivo rispetto a quello in cui viene
adottato l’atto di attribuzione delle funzioni gestionali.
L’attribuzione della responsabilità degli uffici e dei
servizi consente al componente dell’organo esecutivo di effettuare tutti gli
atti connessi con la funzione?
SI. Pertanto, lo
stesso non solo adotta determinazioni, ordinanze gestionali, atti di
gestione dei rapporti di lavoro, ma partecipa anche come presidente nelle
commissioni.
L’art. 35, comma 3, lett. e), del d.lgs. n. 165/2001 impone
che i componenti delle commissioni di concorso siano esperti e “non siano
componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, che non
ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o
designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle
associazioni professionali”.
È possibile presiedere le Commissioni di concorso per il componente
dell’organo esecutivo nominato responsabile del personale?
In realtà sul punto
sussistevano molti dubbi che sono stati risolti dal Consiglio di Stato, Sez.
V, con
sentenza
29.04.2021 n. 3436 dove
si legge che
“L’art. 53, comma 23, cit., infatti, introduce una deroga
espressa alla norma che riserva ai dirigenti comunali la responsabilità
degli uffici e dei servizi (l’art. 107 del TUEL.
All’interno di questa
disposizione è contenuta anche la norma che attribuisce ai dirigenti «la
presidenza delle commissioni di gara e di concorso» [comma 3, lett. a)];
funzione il cui svolgimento, nel disegno dell’art. 107 cit., discende
direttamente dal conferimento dell’incarico di dirigente dell’ufficio o del
servizio.
Pertanto, la possibilità di conferire l’incarico dirigenziale (o
di responsabile del servizio) anche ai componenti dell’organo esecutivo
implica necessariamente l’attribuzione delle funzioni e dei compiti che a quell’incarico sono, per legge, ricollegati”.
L’incarico di RUP può essere conferito ad un titolare di
incarico politico avvalendosi della deroga di cui all’art.
53, co. 23 della l. 388/2000?
SI, ma ciò soltanto in
caso di carenza in organico di figure idonee a ricoprire la funzione di RUP
e qualora detta carenza non possa essere altrimenti superata senza incorrere
in maggiori oneri per l’amministrazione.
Si tratta di una posizione espressa dall’ANAC prima nella FAQ n. 1,
relativa alla delibera 1007/2017 con cui sono state aggiornate le Linee
guida n. 3/2016, poi confermata nella recentissima
delibera 20.06.2023 n. 291.
Il titolare dell’incarico politico cui è affidata la
responsabilità degli uffici e dei servizi è tenuto a rendere, all’atto
dell’assegnazione all’Ufficio, la dichiarazione sostitutiva ai sensi degli
artt. 6, co. 1, del d.P.R. n. 62/2013 e
6-bis della l. n. 241/1990?
SI, in quanto lo stesso è
da ritenersi parte dell’organizzazione dell’ente e conseguentemente tenuto a
tale dichiarazione.
Inoltre, dovrà rendere anche una dichiarazione riferita alla
singola procedura di gara nell’ipotesi in cui ritenga di trovarsi in una
situazione di conflitto di interessi rispetto alla specifica procedura di
gara e alle circostanze conosciute che potrebbero far insorgere detta
situazione.
Quando le funzioni gestionali relative all’Ufficio tecnico sono
assegnate al sindaco o a un assessore, anche a questi ultimi devono
estendersi gli obblighi dichiarativi derivanti dall’applicazione dell’art.
42 del d.lgs. n. 50/2016 per le procedure e i contratti per i quali i bandi
o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano stati
pubblicati prima del 01.07.2023 (o, nel caso di contratti senza
pubblicazione del bando o avviso, siano stati inviati gli avvisi a
presentare offerte entro il suddetto termine).
Per le procedure indette a partire dal 01.07.2023, le
dichiarazioni si configurano quale misura adeguata alla gestione del
conflitto di interessi che la stazione appaltante è tenuta ad adottare ai
sensi dell’art. 16 del d.lgs. 36/2023, al fine di garantire il rispetto
degli adempimenti relativi all’obbligo di comunicare situazioni di conflitto
di interessi e all’obbligo di astensione da parte dei soggetti coinvolti
nella procedura di aggiudicazione e nella fase di esecuzione del contratto (delibera 20.06.2023 n. 291
dell'ANAC).
La dichiarazione relativa ad eventuali situazioni di
conflitto di interessi effettuata dal sindaco può essere indirizzata a se
stesso?
NO, è necessario che
il Comune, tenendo conto della propria organizzazione, individui i soggetti
cui le dichiarazioni sul conflitto di interesse debbano essere rese. A tal
fine occorre sempre evitare che sia lo stesso interessato ad effettuare
autonomamente la valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione
alla propria situazione.
Ad esempio, il destinatario delle dichiarazioni del sindaco o di un
assessore potrebbe essere lo stesso che riceve quelle degli altri dirigenti
(segretario generale, Ufficio del personale, RPTC); oppure la dichiarazione
potrebbe essere resa alla giunta comunale in quanto organo deputato alla
nomina del sindaco/assessore quale responsabile dell’Ufficio (delibera 20.06.2023 n. 291
dell'ANAC).
Sulle perplessità relative alla nomina da parte della giunta
comunale del sindaco/assessore quale responsabile dell’Ufficio si veda
l’approfondimento della presente Newsletter:
A chi compete la nomina del sindaco come Responsabile di servizio negli enti
con popolazione inferiore a 5mila abitanti? |
COMPETENZE GESTIONALI: A.
Scasella,
A chi compete la nomina del sindaco come Responsabile di servizio negli Enti
con popolazione inferiore a 5mila abitanti? (11.07.2023 - tratto
da e link a
www.lagazzettadeglientilocali.it).
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L’art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000
stabilisce che “gli Enti locali con popolazione inferiore a 5mila
abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d),
del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali, approvato
con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un
contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari
organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo
3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli Enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo
esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della
spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede
di approvazione del bilancio”.
La norma in commento attribuisce solo la facoltà, per gli Enti locali con
popolazione inferiore a 5mila abitanti, di mutare l’organizzazione dell’ente
in termini derogatori rispetto al principio di distinzione delle funzioni
tra organi politici e gestionali, a condizione che:
- siano previamente adottate apposite disposizioni regolamentari;
- sia documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di
approvazione del bilancio, un contenimento di spesa.
La previsione regolamentare, però, non è di per sé sufficiente ad
autorizzare i componenti dell’organo esecutivo ad adottare atti gestionali,
in quanto è sempre richiesto un atto successivo di conferimento delle
funzioni, adeguatamente motivato da un punto di vista organizzativo e/o
economico. È proprio tale successivo atto di assegnazione della
responsabilità degli uffici e dei servizi che legittima l’adozione da parte
del politico degli atti gestionali.
Secondo l’art. 50, comma 10, del TUEL il
sindaco nomina i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuisce e
definisce gli incarichi dirigenziali secondo le modalità ed i criteri
stabiliti dagli artt. 109 e 110, nonché dallo statuto e dai regolamenti
comunali.
Se la nomina deve essere fatta al sindaco, chi provvede in tal senso,
versando lo stesso in una situazione di conflitto di interessi?
A questa domanda di recente è stata fornita la seguente risposta: provvede
la giunta comunale. Tale conclusione si legge sia nel
parere 06.06.2023 del
Servizio consulenza della Regione Friuli Venezia Giulia, sia nella
delibera 20.06.2023 n. 291
dell'ANAC.
Personalmente la soluzione non mi convince affatto, in quanto sposta la
competenza da un organo di governo ad un altro sulla base del conflitto di
interessi di un soggetto.
In realtà, se all’interno del consiglio comunale vi è la maggioranza dei
consiglieri che ha un obbligo di astensione con una determinata proposta, la
competenza non si sposta alla giunta comunale (si pensi all’approvazione
degli strumenti urbanistici, che ha comportato la necessità di individuare
soluzioni differenti allo spostamento di competenza, anche con modifiche
normative). Lo stesso avviene nel caso di un atto di competenza della giunta
comunale, in caso di obbligo di astensione della maggioranza dei componenti,
non è che si è mai ipotizzato il sorgere di una competenza consiliare.
In realtà, principio fondamentale dell’ordinamento degli Enti locali è che
le competenze attribuite dal legislatore ad un organo di governo non possono
essere esercitate da altri organi, pena l’illegittimità dei provvedimenti
per incompetenza. Sotto tale aspetto, va rilevato che –per il principio di
legalità– un organo amministrativo può delegare ad un altro organo i poteri
di cui sia titolare solo qualora una legge lo consenta. Infatti, solo una
disposizione di rango primario può consentire ad un organo amministrativo di
devolvere ulteriori poteri ad un altro organo, con i relativi obblighi e le
relative responsabilità. Il legislatore prevede una deroga al principio
dell’immodificabilità delle competenze esclusivamente per le deliberazioni
attinenti alle variazioni di bilancio, di competenza del consiglio comunale,
che possono essere adottate in via d’urgenza dalla giunta comunale, che
necessitano però della ratifica del consiglio nei sessanta giorni
successivi, a pena di decadenza (art. 42, comma 4,
TUEL).
In realtà, la nostra problematica appare più semplice da risolvere, anche
grazie alla presenza nel nostro ordinamento di una figura chiamata a
sostituire il sindaco in caso di assenza o impedimento, ossia il
vice-sindaco (art. 53, comma 2, del TUEL).
A mio modo di vedere, nel rispetto del principio di immodificabilità delle
competenze degli organi amministrativi, è solo il vice-sindaco che può
intervenire in sostituzione del sindaco a conferire l’incarico di
responsabile di servizio allo stesso sindaco ai sensi dell’art.
53, comma 23, della l. n. 388/2000. |
COMPETENZE GESTIONALI:
Conflitto di interessi, bussola Anac per i piccoli Comuni che
affidano compiti operativi a sindaco e assessori. Una delibera dell'Anac
affronta e risolve le possibili criticità.
Anac
fornisce agli enti di piccola dimensione chiarimenti e misure da adottare
nel caso in cui vengano attribuiti poteri di natura tecnica gestionale ai
componenti degli organi esecutivi. A seguito di alcuni esposti ricevuti e
stante la valenza generale della questione, l'Autorità con la
delibera 20.06.2023 n. 291 ha individuato una serie di misure
per affrontare le specifiche criticità che ne possono derivare.
La norma di riferimento è l'articolo
53, comma 23, della legge 388/2000 con cui il legislatore ha inteso
valorizzare il principio di separazione tra attività di indirizzo e di
controllo, di competenza degli organi politici, e attività di gestione, di
competenza dei dirigenti degli uffici, ridimensionando la portata
dell'articolo 107 del Tuel, stabilendo che gli enti locali di piccole
dimensioni possono adottare disposizioni regolamentari organizzative che
attribuiscono ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli
uffici e dei servizi e il potere di adottare atti anche di natura tecnica
gestionale; questo è possibile in presenza di alcuni presupposti quali:
popolazione inferiore a 5.000 abitanti; qualora non siano state affidate le
relative funzioni al segretario comunale e in ragione del conseguimento di
risparmi di spesa.
La giurisprudenza, tra cui il Consiglio di Stato, qualifica la predetta
norma (art. 53, comma 23, legge 388/2000) quale disposizione da considerarsi
speciale e derogatoria rispetto al principio di separazione tra
politica-amministrazione sancito dall'articolo 107 del Tuel, richiedendo in
proposito l'adozione da parte dell'ente locale di specifiche norme
regolamentari organizzative.
Per Anac, anche per gli organi di governo delle stazioni appaltanti che
adottano atti di gestione trovano applicazione le norme sul conflitto di
interessi contenute nel codice dei contratti pubblici, pertanto ogni comune
che conferisce al Sindaco o ad un Assessore funzioni gestionali deve
definire in un apposito atto le modalità con cui gli stessi rendono le
dichiarazioni ai sensi degli articoli 6, comma 1, del Dpr 62/2013 e 6-bis
della legge 241/1990, nonché quelle relative alle procedure di
aggiudicazione rispetto alle quali adottino atti.
Nei casi in cui sono attribuiti poteri di natura tecnica gestionale ai
componenti degli organi esecutivi negli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, per prevenire il verificarsi di ipotesi di
conflitto di interessi, Anac ricorda che: solo in caso di carenza in
organico di figure idonee a ricoprire la funzione di Rup e qualora detta
carenza non possa essere altrimenti superata, l'incarico di Rup può essere
conferito ad un titolare di incarico politico avvalendosi della deroga di
cui all'articolo 53, co. 23, della legge 388/2000; il titolare dell'incarico
politico cui è affidata la responsabilità degli uffici e dei servizi è da
ritenersi parte dell'organizzazione dell'ente e conseguentemente è tenuto a
rendere, all'atto dell'assegnazione all'Ufficio, le dichiarazioni
sostitutive ai sensi degli articoli 6, co. 1, del Dpr n. 62/2013 e 6-bis
della legge 241/1990.
Inoltre, dovrà rendere anche una dichiarazione riferita alla singola
procedura di gara nell'ipotesi in cui ritenga di trovarsi in una situazione
di conflitto di interessi rispetto alla specifica procedura di gara; quando
le funzioni gestionali relative all'Ufficio tecnico sono assegnate al
Sindaco o ad un Assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli
obblighi dichiarativi derivanti dall'applicazione delle disposizioni sul
conflitto di interessi contenute nel codice dei contratti pubblici.
In proposito Anac precisa che occorre sempre evitare che sia lo stesso
interessato ad effettuare autonomamente la valutazione di questioni che
dovessero porsi in relazione alla propria situazione, ad esempio, il
destinatario delle dichiarazioni del Sindaco o di un assessore potrebbe
essere lo stesso che riceve quelle degli altri Dirigenti (Segretario
Generale, Ufficio del personale, Rptc); oppure la dichiarazione potrebbe
essere resa alla Giunta comunale in quanto organo deputato alla nomina del
Sindaco/Assessore quale Responsabile dell'Ufficio.
Anac invita i piccoli comuni a valutare di adottare nell'ambito della
sezione anticorruzione e trasparenza del Piao le seguenti misure di
prevenzione:
- prevedere che un incarico di responsabile di un ufficio o di un
servizio conferito ad un Sindaco o ad un componente della Giunta possa
essere oggetto di rotazione nel corso della consiliatura tra i componenti
della medesima Giunta;
- indicare le modalità operative che favoriscano una maggiore
compartecipazione del personale alle attività degli uffici la cui
responsabilità è affidata al Sindaco o ad un componente della Giunta;
- assicurare la doppia firma sull'atto di aggiudicazione di un
contratto pubblico nelle ipotesi in cui sia demandata al Sindaco o ad un
componente della Giunta la responsabilità dell'ufficio Tecnico o lo stesso
abbia svolto la funzione di Rup;
- favorire la partecipazione a specifici percorsi formativi in tema
di conflitto di interesse finalizzati a supportare, anche attraverso casi
pratici, i titolari di incarico politico cui è affidata la responsabilità
degli uffici e dei servizi (articolo
NT+Enti Locali & Edilizia del 03.07.2023). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Oggetto: Attribuzione ai titolari di incarichi politici
del potere di adottare atti di natura tecnica gestionale.
Indicazioni di ANAC ai fini dell’adozione di misure di
prevenzione della corruzione e del conflitto di interessi in
materia di contratti pubblici ex art. 42 del d.lgs. n.
50/2016 (oggi art. 16 D.lgs. 36/2023 recante nuovo codice
dei contratti pubblici)
(ANAC,
delibera 20.06.2023 n. 291 - link a
www.anticorruzione.it).
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Secondo gli orientamenti
giurisprudenziali, affinché la
deroga prevista dalla legge n. 388/2000 possa esplicare la
sua portata applicativa, sussiste la necessità per i comuni
di prevedere una espressa e inequivoca modifica
organizzativa interna agli enti da realizzarsi mediante
Statuto, regolamento o comunque in atti del Consiglio
comunale o della Giunta.
Invero,
- la concreta applicazione dell’art. 53, co. 23, della l. n.
388/2000 richiede l’adozione da parte dell’ente locale di
specifiche norme regolamentari organizzative (cfr.
parere 01.12.2016 n. 167 della Sez. regionale di
controllo per il Molise);
- quella di cui all’art. 53, co. 23, della
l. 388/2000 è “una disposizione che fa eccezione ad un
principio generale, sicché, in conformità al canone
interpretativo restrittivo di cui all’art. 14 disp. prel.
cod. civ., è necessario che le relative disposizioni
organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”,
ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento
comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale
(art. 42 TUEL) o della giunta (art. 48, comma 3, TUEL,
relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e
dei servizi)” (cfr. TAR Liguria,
Sez. I,
sentenza 31.03.2021 n. 284);
- la norma introdotta dalla legge finanziaria del 2001 è da
qualificarsi quale norma "speciale e derogatoria" rispetto
sia al principio di separazione tra politica-amministrazione
sancito dall’art. 107 del TUEL che dell’art. 84 del Codice
dei contratti pubblici all’epoca vigente, in merito alle
cause di inconferibilità per la nomina dei commissari di
gara (di cui all’art. 77, d.lgs. 50/2016 e ora previste
all’art. 93, co. 5, del nuovo codice dei contratti pubblici
di cui al d.lgs. 36/2023) (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.11.2015 n. 5296);
- da ultimo, di questi principi ha fatto applicazione il medesimo
TAR Liguria, Sez. II, nella recente
sentenza 03.02.2022 n. 83, accogliendo il
ricorso di un cittadino avverso una ordinanza sindacale di
ingiunzione -ex art. 31 d.PR. n. 380/2001- adottata ai sensi
dell’art. 27 del d.PR. n. 380/2001, ove si attribuisce
invece ai dirigenti la vigilanza in materia edilizia e
urbanistica.
Il TAR Liguria, infatti, non avendo rilevato il
rigoroso rispetto della preventiva regolazione derogatoria
dell’assetto organizzativo interno da parte della giunta
comunale, ha ritenuto, in via derivata, l’illegittimità, in
quanto viziata da incompetenza, dell’ordinanza del Sindaco.
Ciò in quanto quest’ultimo si era autonomamente attribuito
il potere di natura gestionale ai sensi dell’art. 107 del
TUEL, senza una preventiva, necessaria, disposizione
regolamentare o, quantomeno, di una apposita deliberazione
di giunta in tal senso.
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●
Nei casi in cui, ai sensi di quanto disposto dalla
legge n.
388/2000, art. 53, co. 23, sono attribuiti poteri di natura
tecnica gestionale ai componenti degli organi esecutivi
negli enti locali con popolazione inferiore a 5mila
abitanti, per prevenire il verificarsi di ipotesi di
conflitto di interessi, si ricorda a tali amministrazioni
che:
1- soltanto in caso di carenza in organico di
figure idonee a ricoprire la funzione di RUP e qualora detta
carenza non possa essere altrimenti superata senza incorrere
in maggiori oneri per l’amministrazione, l’incarico di RUP
può essere conferito ad un titolare di incarico politico
avvalendosi della deroga di cui all’art. 53, co. 23, della
l. 388/2000;
2- il titolare dell’incarico politico cui è
affidata la responsabilità degli uffici e dei servizi è da
ritenersi parte dell’organizzazione dell’ente e
conseguentemente è tenuto a rendere, all’atto
dell’assegnazione all’Ufficio, la dichiarazione sostitutiva
ai sensi degli artt. 6, co. 1, del d.PR n. 62/2013 e 6-bis
della l. n. 241/1990.
Inoltre, dovrà rendere anche una
dichiarazione riferita alla singola procedura di gara
nell’ipotesi in cui ritenga di trovarsi in una situazione di
conflitto di interessi rispetto alla specifica procedura di
gara e alle circostanze conosciute che potrebbero far
insorgere detta situazione;
3- quando le funzioni gestionali relative
all’Ufficio tecnico sono assegnate al Sindaco o ad un
Assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli
obblighi dichiarativi derivanti dall’applicazione dell’art.
42 del d.lgs. n. 50/2016 per le procedure e i contratti per
i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di
scelta del contraente siano stati pubblicati prima del
01.07.2023 (o, nel caso di contratti senza pubblicazione del
bando o avviso, siano stati inviati gli avvisi a presentare
offerte entro il suddetto termine).
Per le procedure indette a partire dal 01.07.2023, le
dichiarazioni si configurano quale misura adeguata alla
gestione del conflitto di interessi che la stazione
appaltante è tenuta ad adottare ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. 36/2023, al fine di garantire il rispetto degli
adempimenti relativi all’obbligo di comunicare situazioni di
conflitto di interessi e all’obbligo di astensione da parte
dei soggetti coinvolti nella procedura di aggiudicazione e
nella fase di esecuzione del contratto;
4- è necessario che il comune, tenendo conto della
propria organizzazione, individui i soggetti cui le
dichiarazioni sul conflitto di interesse debbano essere
rese. A tal fine occorre sempre evitare che sia lo stesso
interessato ad effettuare autonomamente la valutazione di
questioni che dovessero porsi in relazione alla propria
situazione.
Ad esempio, il destinatario delle dichiarazioni
del Sindaco o di un assessore potrebbe essere lo stesso che
riceve quelle degli altri Dirigenti
(Segretario Generale,
Ufficio del personale, RPTC);
oppure la dichiarazione
potrebbe essere resa alla Giunta comunale in quanto organo
deputato alla nomina del Sindaco/Assessore quale
Responsabile dell’Ufficio.
●
Ferma restando la facoltà per la singola amministrazione di
prevedere diverse e/o ulteriori misure a seconda delle
proprie peculiarità e organizzazione, ai fini della
elaborazione delle misure di prevenzione della corruzione, i
Comuni possono valutare di adottare nell’ambito della
sezione anticorruzione e trasparenza del PIAO le seguenti
misure di prevenzione, ove compatibili con la struttura
organizzativa:
a- prevedere che un incarico di responsabile di un
ufficio o di un servizio conferito ad un Sindaco o ad un
componente della Giunta possa essere oggetto di rotazione
nel corso della consiliatura tra i componenti della medesima
Giunta;
b- indicare le modalità operative che favoriscano
una maggiore compartecipazione del personale alle attività
degli uffici la cui responsabilità è affidata al Sindaco o
ad un componente della Giunta;
c- assicurare la doppia firma sull’atto di
aggiudicazione di un contratto pubblico nelle ipotesi in cui
sia demandata al Sindaco o ad un componente della Giunta la
responsabilità dell’ufficio Tecnico o lo stesso abbia svolto
la funzione di RUP;
d- favorire la partecipazione a specifici percorsi
formativi in tema di conflitto di interesse finalizzati a
supportare, anche attraverso casi pratici, i titolari di
incarico politico cui è affidata la responsabilità degli
uffici e dei servizi.
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Considerato in fatto
Nell’ambito di alcuni esposti pervenuti a questa Autorità, è
stata segnalata la sussistenza di situazioni di conflitto di
interessi in casi in cui ai sensi di quanto disposto dalla
legge n. 388/2000, art. 53, co. 23, come modificato
dall'art. 29, co. 4, della legge 448/2001 sono attribuiti
poteri di natura tecnica gestionale ai componenti degli
organi esecutivi negli enti locali con popolazione inferiore
a 5mila abitanti.
Considerata la valenza generale della questione, il
Consiglio dell’Autorità ha demandato agli uffici di
formulare chiarimenti in merito, da un lato, alle
disposizioni applicabili ai titolari di incarichi politici
che assumono, specie negli enti locali di piccole
dimensioni, anche funzioni gestionali e, dall’altro,
all’individuazione di misure per affrontare le specifiche
criticità che ne possono derivare.
Detti chiarimenti si rendono necessari anche alla luce
dell’indagine condotta da ANAC sulle modalità di gestione
nei comuni delle situazioni di conflitto di interesse negli
affidamenti diretti dei contratti pubblici che ha
evidenziato una scarsa applicazione della normativa e una
sostanziale inadeguatezza nella gestione del conflitto di
interesse (cfr. Comunicato del Presidente del 11.01.2023).
Considerato in diritto
Il quadro normativo per gli enti locali
Il d.lgs. n.
267/2000 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali” (TUEL), stabilisce all’art. 107, comma 2,
che sono attribuiti ai dirigenti “tutti i compiti,
compresa l’adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi che impegnano l’amministrazione verso
l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo
statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell’Ente o
non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore generale“.
Il legislatore ha inteso quindi valorizzare il principio di
separazione tra attività d’indirizzo e di controllo, di
competenza degli organi politici, ed attività di gestione,
di competenza dei dirigenti degli uffici.
L’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 (legge
finanziaria 2001), come modificato dall’art. 29, co. 4, della
l. n. 448/2001, ha tuttavia ridimensionato la portata
applicativa del citato art. 107 del TUEL. Tale norma ha
infatti stabilito che enti locali di piccole dimensioni
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative
che attribuiscono ai componenti dell’organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi e il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Ciò in
presenza di alcuni presupposti quali:
a) popolazione inferiore a 5.000 abitanti;
b) laddove non abbiano affidato le relative funzioni al segretario
comunale in base all'art. 97, co. 4, lett. d), del d.lgs. n.
267/2000;
c) in ragione del conseguimento di risparmi di spesa.
Gli orientamenti giurisprudenziali
La deroga prevista dalla legge n. 388/2000 è stata più volte
oggetto di pronunce giurisprudenziali che hanno ribadito,
affinché questa possa esplicare la sua portata applicativa,
la necessità per i comuni di prevedere una espressa e
inequivoca modifica organizzativa interna agli enti da
realizzarsi mediante Statuto, regolamento o comunque in atti
del Consiglio comunale o della Giunta.
Si cita in primo luogo il
parere 01.12.2016 n. 167 della Sez. regionale di
controllo per il Molise nella quale la giurisprudenza
contabile, nel riportare alcune posizioni della
giurisprudenza amministrativa (in particolare, TAR Campania,
Napoli sez. VIII,
sentenza 29.07.2008 n. 9545), ha precisato che la
concreta applicazione dell’art. 53, co. 23, della l. n.
388/2000 richiede l’adozione da parte dell’ente locale di
specifiche norme regolamentari organizzative.
La medesima posizione è stata assunta dal giudice
amministrativo. Si consideri, in tal senso, il TAR Liguria,
Sez. I,
sentenza 31.03.2021 n. 284,
secondo cui quella di cui all’art. 53, co. 23, della l.
388/2000 è “una disposizione che fa eccezione ad un
principio generale, sicché, in conformità al canone
interpretativo restrittivo di cui all’art. 14 disp. prel.
cod. civ., è necessario che le relative disposizioni
organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”,
ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento
comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale
(art. 42 TUEL) o della giunta (articolo 48, comma 3, TUEL,
relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e
dei servizi)”.
Lo stesso Consiglio di Stato (Sez. V,
sentenza 20.11.2015 n. 5296)
qualifica la norma introdotta dalla legge finanziaria del
2001 quale norma da considerarsi speciale e derogatoria
rispetto sia al principio di separazione tra
politica-amministrazione sancito dall’art. 107 del TUEL che
dell’art. 84 del Codice dei contratti pubblici all’epoca
vigente, in merito alle cause di inconferibilità per la
nomina dei commissari di gara (di cui all’art. 77 d.lgs.
50/2016 e ora previste all’art. 93, co. 5, del nuovo codice
dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 36/2023).
Da ultimo, di questi principi ha fatto applicazione il
medesimo TAR Liguria, Sez. II, nella recente
sentenza 03.02.2022 n. 83,
accogliendo il ricorso di un cittadino avverso una ordinanza
sindacale di ingiunzione -ex art. 31 d.PR. n. 380/2000-
adottata ai sensi dell’art. 27 del d.PR. n. 380/2001, ove si
attribuisce invece ai dirigenti la vigilanza in materia
edilizia e urbanistica. Il TAR Liguria, infatti, non avendo
rilevato il rigoroso rispetto della preventiva regolazione
derogatoria dell’assetto organizzativo interno da parte
della giunta comunale, ha ritenuto, in via derivata,
l’illegittimità, in quanto viziata da incompetenza,
dell’ordinanza del Sindaco. Ciò in quanto quest’ultimo si
era autonomamente attribuito il potere di natura gestionale
ai sensi dell’art. 107 del TUEL, senza una preventiva,
necessaria, disposizione regolamentare o, quantomeno, di una
apposita deliberazione di giunta in tal senso.
Gli orientamenti di ANAC
L’Autorità ha già affrontato il tema dell’interpretazione
della deroga di cui all’art. 53, co. 23 della l. 388/2000
con riguardo a diversi profili attinenti alla disciplina dei
contratti pubblici.
Nella FAQ n. 1, relativa
alla
delibera
11.10.2017 n. 1007 con cui sono state aggiornate le
Linee guida n. 3/2016, di attuazione del d.lgs. 18.04.2016,
n. 50, recanti “Nomina, ruolo e compiti del responsabile
unico del procedimento per l’affidamento di appalti e
concessioni”, ANAC ha fornito indicazioni
sull’applicazione della disposizione derogatoria in esame
nel caso di conferimento dell’incarico di RUP ai componenti
della giunta comunale.
Al riguardo è stato chiarito che il presupposto della “necessità”
statuito all’art. 53, co. 23, della legge 388/2000 impone
che la deroga sia applicata soltanto in caso di carenza in
organico di figure idonee a ricoprire l’incarico di RUP e
qualora detta carenza non possa essere altrimenti superata
senza incorrere in maggiori oneri per l’amministrazione.
In
questo caso la stazione appaltante deve verificare, in via
prioritaria, la possibilità di attribuire l’incarico ad un
qualsiasi dirigente o dipendente amministrativo in possesso
dei requisiti o, in mancanza, ad una struttura di supporto
interna formata da dipendenti che, anche per sommatoria,
raggiungano i requisiti minimi richiesti dalle Linee guida
n. 3/2016 o, ancora, di svolgere la funzione in forma
associata con altri Comuni, senza incorrere in maggiori
oneri.
L’Autorità si è poi espressa anche in merito alla
sussistenza dell’obbligo dichiarativo, ai sensi dell’art. 42
del d.lgs. n. 50/2016, per i soggetti che compongono gli
organi politici nelle ipotesi in cui siano coinvolti nella
gestione di un contratto pubblico.
In particolare, nelle
Linee Guida n. 15
(adottate con delibera 05.06.2019 n. 494)
recanti "Individuazione
e gestione dei conflitti di interesse nelle procedure di
affidamento di contratti pubblici", l’Autorità ha
in primis precisato
come le disposizioni contenute nell’art. 42 del codice dei
contratti pubblici trovino applicazione in tutte le
procedure di aggiudicazione, ivi incluse quelle sotto
soglia.
Quanto al “personale” di una stazione appaltante,
rispetto al quale deve essere valutata la eventuale
sussistenza di conflitti di interesse con conseguente
obbligo di astensione, come richiesto dalla norma, è stato
indicato che “Si tratta dei dipendenti in senso stretto,
ossia dei lavoratori subordinati dei soggetti giuridici ivi
richiamati e di tutti coloro che, […] rivestano, di fatto o
di diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente
influenzare l’attività esterna. Si fa riferimento, ad
esempio, ai membri degli organi di amministrazione e
controllo della stazione appaltante che non sia
un’amministrazione aggiudicatrice, agli organi di governo
delle amministrazioni aggiudicatrici laddove adottino atti
di gestione e agli organi di vigilanza esterni”.
Ai soggetti così individuati –quindi anche agli organi di
governo delle stazioni appaltanti che adottano atti di
gestione- trova applicazione l’articolo 42 qualora siano
coinvolti in una qualsiasi fase della procedura di gestione
del contratto pubblico (programmazione, progettazione,
preparazione documenti di gara, selezione dei concorrenti,
aggiudicazione, sottoscrizione del contratto, esecuzione,
collaudo, pagamenti) o possano influenzarne in qualsiasi
modo l’esito in ragione del ruolo ricoperto all’interno
dell’ente.
Inoltre, nell’ipotesi in cui tali soggetti ritengano di
trovarsi in una situazione di conflitto di interessi
rispetto alla specifica procedura di gara e alle circostanze
conosciute che potrebbero far insorgere detta situazione è
necessaria anche la dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà ai sensi del decreto del Presidente della
Repubblica n. 445/2000 riferita alla singola procedura di
gara.
Da ultimo si consideri che nel PNA 2022, nella sezione
dedicata al confitto di interessi in materia di contratti
pubblici, l’Autorità ha rilevato che i soggetti che
compongono gli organi politici, in coerenza con il principio
di separazione tra politica e amministrazione (art. 14 del d.lgs. n. 165/2001 e art. 80 del d.lgs. n. 267/2000), in via
generale, non assumono incarichi di natura amministrativa,
compresi quelli connessi alla gestione degli affidamenti.
Tuttavia, tenuto conto che in alcune situazioni residuali,
quali ad esempio quelle relative ad affidamenti gestiti da
enti locali di ridotte dimensioni, in base all’art. 53, co.
23, della legge n. 388/2000 il soggetto che assolve un
incarico di natura politica potrebbe svolgere un ruolo
gestionale, in tali casi sussiste per il titolare
dell’incarico politico l’obbligo dichiarativo, ai sensi
dell’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016. Tale obbligo va comunque
modulato a seconda che i contratti utilizzino o meno i fondi
PNRR e i fondi strutturali (cfr. PNA 2022, Parte speciale,
Conflitti di interessi in materia di contratti pubblici).
Vale precisare che dal 01.04.2023 è entrato in vigore il
d.lgs. n. 36/2023 recante nuovo “Codice dei contratti
pubblici in attuazione dell'articolo 1 della legge
21.06.2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di
contratti pubblici” che sostituisce il d.lgs. 50/2016.
L’art. 16 del nuovo Codice è dedicato al conflitto di
interessi e presenta profili in parte innovativi rispetto
alla vecchia disciplina. Resta comunque fermo che la
disciplina prevista dall’art. 42 d.lgs. 50/2016 e le
indicazioni date da ANAC sopra richiamate sono ancora valide
per le procedure e i contratti per i quali i bandi o avvisi
con cui si indice la procedura di scelta del contraente
siano stati pubblicati prima del 01.07.2023 (o, nel caso di
contratti senza pubblicazione del bando o avviso, siano
stati inviati gli avvisi a presentare offerte entro il
suddetto termine) data al decorrere della quale acquistano
efficacia le disposizioni del nuovo codice (cfr. art. 226,
co. 2, d.lgs. 36/2023).
Da ultimo, l’Autorità ha fornito indicazioni anche in merito
ai soggetti ai quali le dichiarazioni di assenza di
conflitto di interessi vanno rese.
Nella
delibera
07.12.2022 n.
585 ANAC ha esaminato il caso di un comune in cui il
Sindaco era titolare dell’Ufficio tecnico. Valorizzando la
considerazione per cui nell’espletamento delle funzioni
gestorie anche l’organo politico può ritenersi parte
dell’organizzazione dell’ente, l’Autorità ha valutato che il
destinatario delle dichiarazioni del Sindaco potesse essere
lo stesso soggetto che riceveva quelle degli altri Dirigenti
(Segretario Generale, Ufficio del personale, RPTC etc.).
Questa opzione, tuttavia, potrebbe comportare delle
criticità quando il RPTC, che riveste anche il ruolo di
Segretario comunale e Responsabile di un servizio, sia
tenuto, a sua volta, a rendere le proprie dichiarazioni al
Sindaco.
Si è inoltre prospettato, tenendo conto che la nomina del
Sindaco quale Responsabile dell’Ufficio/Servizio era stata
disposta dalla Giunta Comunale, che potesse essere la stessa
Giunta a ricevere le dichiarazioni di (in)sussistenza di
situazioni di conflitto di interessi ed a valutare eventuali
questioni che dovessero porsi al riguardo.
In ogni caso, è stato ribadito che occorre evitare che sia
lo stesso interessato ad effettuare autonomamente la
valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione
alla propria situazione. Pertanto, ogni Comune che
conferisce al Sindaco o ad un Assessore funzioni gestionali
deve definire in un apposito atto (ad esempio mediante
Statuto, regolamento o comunque in atti del Consiglio
comunale o della Giunta), tenendo conto delle proprie
specificità organizzative, le modalità con cui gli stessi
possono rendere le dichiarazioni ai sensi degli articoli 6,
comma 1, del d.PR. n. 62/2013 e 6-bis della legge n.
241/1990, nonché quelle relative alle procedure di
aggiudicazione rispetto alle quali adottino atti.
Per tutto quanto esposto,
DELIBERA
●
Nei casi in cui, ai sensi di quanto disposto dalla
legge n.
388/2000, art. 53, co. 23, come modificato dall'art. 29, co.
4, della legge 448/2001, sono attribuiti poteri di natura
tecnica gestionale ai componenti degli organi esecutivi
negli enti locali con popolazione inferiore a 5mila
abitanti, per prevenire il verificarsi di ipotesi di
conflitto di interessi, si ricorda a
tali amministrazioni
che:
1- soltanto in caso di carenza in organico di
figure idonee a ricoprire la funzione di RUP e qualora detta
carenza non possa essere altrimenti superata senza incorrere
in maggiori oneri per l’amministrazione, l’incarico di RUP
può essere conferito ad un titolare di incarico politico
avvalendosi della deroga di cui all’art. 53, co. 23, della
l. 388/2000;
2- il titolare dell’incarico politico cui è
affidata la responsabilità degli uffici e dei servizi è da
ritenersi parte dell’organizzazione dell’ente e
conseguentemente è tenuto a rendere, all’atto
dell’assegnazione all’Ufficio, la dichiarazione sostitutiva
ai sensi degli artt. 6, co. 1, del d.PR n. 62/2013 e 6-bis
della l. n. 241/1990.
Inoltre, dovrà rendere anche una
dichiarazione riferita alla singola procedura di gara
nell’ipotesi in cui ritenga di trovarsi in una situazione di
conflitto di interessi rispetto alla specifica procedura di
gara e alle circostanze conosciute che potrebbero far
insorgere detta situazione;
3- quando le funzioni gestionali relative
all’Ufficio tecnico sono assegnate al Sindaco o ad un
Assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli
obblighi dichiarativi derivanti dall’applicazione dell’art.
42 del d.lgs. n. 50/2016 per le procedure e i contratti per
i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di
scelta del contraente siano stati pubblicati prima del
01.07.2023 (o, nel caso di contratti senza pubblicazione del
bando o avviso, siano stati inviati gli avvisi a presentare
offerte entro il suddetto termine).
Per le procedure indette a partire dal 01.07.2023, le
dichiarazioni si configurano quale misura adeguata alla
gestione del conflitto di interessi che la stazione
appaltante è tenuta ad adottare ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. 36/2023, al fine di garantire il rispetto degli
adempimenti relativi all’obbligo di comunicare situazioni di
conflitto di interessi e all’obbligo di astensione da parte
dei soggetti coinvolti nella procedura di aggiudicazione e
nella fase di esecuzione del contratto;
4- è necessario che il comune, tenendo conto della
propria organizzazione, individui i soggetti cui le
dichiarazioni sul conflitto di interesse debbano essere
rese. A tal fine occorre sempre evitare che sia lo stesso
interessato ad effettuare autonomamente la valutazione di
questioni che dovessero porsi in relazione alla propria
situazione.
Ad esempio, il destinatario delle dichiarazioni
del Sindaco o di un assessore potrebbe essere lo stesso che
riceve quelle degli altri Dirigenti
(Segretario Generale,
Ufficio del personale, RPTC);
oppure la dichiarazione
potrebbe essere resa alla Giunta comunale in quanto organo
deputato alla nomina del Sindaco/Assessore quale
Responsabile dell’Ufficio.
●
Ferma restando la facoltà per la singola amministrazione di
prevedere diverse e/o ulteriori misure a seconda delle
proprie peculiarità e organizzazione, ai fini della
elaborazione delle misure di prevenzione della corruzione, i
Comuni possono valutare di adottare nell’ambito della
sezione anticorruzione e trasparenza del PIAO le seguenti
misure di prevenzione, ove compatibili con la struttura
organizzativa:
a- prevedere che un incarico di responsabile di un
ufficio o di un servizio conferito ad un Sindaco o ad un
componente della Giunta possa essere oggetto di rotazione
nel corso della consiliatura tra i componenti della medesima
Giunta;
b- indicare le modalità operative che favoriscano
una maggiore compartecipazione del personale alle attività
degli uffici la cui responsabilità è affidata al Sindaco o
ad un componente della Giunta;
c- assicurare la doppia firma sull’atto di
aggiudicazione di un contratto pubblico nelle ipotesi in cui
sia demandata al Sindaco o ad un componente della Giunta la
responsabilità dell’ufficio Tecnico o lo stesso abbia svolto
la funzione di RUP;
d- favorire la partecipazione a specifici percorsi
formativi in tema di conflitto di interesse finalizzati a
supportare, anche attraverso casi pratici, i titolari di
incarico politico cui è affidata la responsabilità degli
uffici e dei servizi.
Tenuto conto delle ridotte dimensioni
degli enti, ANAC auspica sia la stipula di accordi tra gli
stessi sia che i
comuni di grandi dimensioni o le Province e le Città
Metropolitane possano intraprendere, utilizzando le proprie
strutture, attività di formazione a favore degli enti di
ridotte dimensioni. |
COMPETENZE GESTIONALI: Area
Tecnica. Conferimento responsabilità a Sindaco.
L’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della
sua concreta applicazione, richiede che l’attribuzione di responsabilità
degli uffici e dei servizi comunali ai componenti degli organi esecutivi, ed
il conseguente potere degli stessi di adottare atti di natura tecnica
gestionale, debbano essere previsti da specifiche norme regolamentari
organizzative.
Per quanto concerne la competenza ad adottare l’atto che conferisce tale
responsabilità, si ritiene che, qualora il destinatario sia il Sindaco,
sarebbe preferibile l’adozione di una deliberazione dell’organo giuntale.
Il Comune rappresenta di avere circa 3.500 abitanti e di essere sprovvisto
di un titolare di posizione organizzativa del Servizio Tecnico.
È stata verificata la possibilità –senza esito positivo- di conferire detto
incarico ad altri dipendenti o di convenzionarsi con altre amministrazioni
locali. Ciò posto, l’Ente chiede se sia possibile attribuire la
responsabilità in argomento al Sindaco e, in caso di risposta affermativa,
con quale atto si debba procedere per la nomina (decreto/delibera).
Com’è noto l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, come novellato
dall’art. 29, comma 4, lett. a) e b), della l. 448/2001, prevede che gli
enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva
l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 [1],
anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a
quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo
03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni [2],
e all’articolo 107 [3]
del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali,
attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli
uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica
gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Si sottolinea preliminarmente che la disposizione in esame si riferisce
all’attribuzione di funzioni gestionali a componenti dell’organo esecutivo
delle amministrazioni locali: ne consegue l’applicabilità della stessa nei
confronti del sindaco e degli assessori.
La predetta norma ha espressamente introdotto la possibilità di deroga al
generale principio di separazione dei poteri, nei piccoli enti, al fine di
favorire anche il contenimento della spesa e consentire comunque soluzioni
di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi emergenti nelle realtà
di modeste dimensioni demografiche.
Come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa [4],
si tratta di una previsione che ha l'evidente scopo di assicurare la
necessaria funzionalità ai comuni "polvere", i cui organici sono
privi di posizioni dirigenziali, permettendo loro di coprire le posizioni
apicali all'interno della propria "micro-struttura" mediante ricorso
ai componenti dell'organo di direzione politica.
Si osserva che l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della sua
concreta applicazione, richiede comunque che l’attribuzione di
responsabilità degli uffici e dei servizi comunali ai componenti degli
organi esecutivi, ed il conseguente potere degli stessi di adottare atti di
natura tecnica gestionale, debbano essere previsti da specifiche norme
regolamentari organizzative [5].
L’adozione della richiesta norma organizzativa si pone, pertanto, quale
condizione necessaria per l’applicazione dell’articolo in esame, con la
conseguenza che, in mancanza di detto preliminare adempimento, si
renderebbe, di fatto, inapplicabile la norma stessa [6].
E’ da notare inoltre che la modifica apportata alla norma in esame dall’art.
29, comma 4, della l. 448/2001, non solo ha esteso tale facoltà anche ai
comuni con popolazione fino a 5mila abitanti [7]
(comma 4, lett. a) ma ha anche abrogato la condizione precedentemente
prevista, che imponeva la verifica preliminare dell’assenza non rimediabile,
nella struttura comunale, di figure professionali idonee nell’ambito dei
dipendenti (comma 4, lett. b).
Per quanto concerne infine la competenza ad adottare l’atto che conferisce
tale responsabilità, si ritiene che, trattandosi nel caso di specie del
Sindaco, sarebbe preferibile l’adozione di una deliberazione dell’organo
giuntale.
---------------
[1] In virtù di tale norma il segretario comunale esercita ogni altra
funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal
sindaco.
[2] Ora
art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] La norma, in attuazione del principio di separazione delle funzioni tra
organi politici e burocratici, prevede l’attribuzione ai dirigenti di tutti
i compiti non compresi tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo.
[4] Cfr. Cons. di Stato, sez. V,
sentenza n. 5296 del 20.11.2015.
[5] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
sentenza
29.07.2008 n. 9545.
[6] Il giudice amministrativo ha individuato proprio nella determinazione di
carattere organizzativo la fonte legittimante del potere esercitato (nella
fattispecie esaminata) dal Sindaco cui erano state attribuite le funzioni di
responsabile del Servizio tecnico (Cfr. TAR Emilia Romagna, sez. staccata di
Parma
sentenza n. 160 del 2009).
La Corte dei conti (cfr. sez. reg. di controllo per l’Emilia Romagna,
deliberazione
24.12.2021 n. 272, punto 3.1.3) ha rimarcato che non appare
conforme all’ordinamento vigente che il sindaco assuma su di sé, in aggiunta
alle responsabilità connaturate alla carica elettiva ricoperta, anche quelle
di responsabile del servizio (nella fattispecie esaminata, servizio
finanziario) di un ente locale, senza che tale attribuzione sia stata
espressamente prevista da disposizioni regolamentari organizzative e che ne
sia stato documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di
approvazione del bilancio, il conseguente, effettivo contenimento della
spesa, così come previsto dalla normativa di riferimento.
[7] Nella precedente formulazione la norma era riferita esclusivamente ai
Comuni con popolazione fino a 3mila abitanti
(06.06.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
La giurisprudenza
ormai consolidata, incentrata sulla disposizione dell’art.
107, comma 5, t.u.e.l., ritiene che i provvedimenti
con i quali si disciplina la circolazione sulla viabilità
comunale, le modalità di accesso alla stessa e i relativi
orari, i controlli, le sanzioni, ai sensi degli artt. 6 e 7
cod. strada, assumono natura tipicamente gestoria ed
esecutiva e, quindi, appartengono alla competenze dei
dirigenti comunali e non del Sindaco, ovviamente
nell’ipotesi in cui non ricorra il presupposto dell’urgenza
che potrebbe giustificare l’adozione di un’ordinanza contingibile
e urgente.
---------------
Nella fattispecie de qua agitur, l’avocazione sindacale
della titolarità del settore vigilanza è stata
legittimamente disposta.
Invero, l’art. 20 del regolamento comunale sull’ordinamento
degli uffici (rubricato “Funzioni di supplenza
e di sostituzione temporanea del responsabile - Responsabile
di struttura apicale”) dispone:
“1. Il Sindaco, in
caso di ferie o impedimento o assenza temporanea del
responsabile titolare, può, con proprio atto, assegnare ad
interim, per un periodo di tempo determinato, eventualmente
rinnovabile, uno o più settori apicali, ad altro dipendente
appartenente alla medesima categoria, già responsabile di
altra struttura organizzativa ed in possesso dei requisiti
per tale funzione, riconoscendo in caso di incarico di
durata superiore a trenta giorni consecutivi, un incremento
dell’indennità di posizione, nella misura del 20% di quella
prevista per il responsabile del settore che viene retto ad
interim.
2. Qualora non sia possibile procedere alla
sostituzione secondo le modalità previste dal precedente
comma, il sindaco può, nel rispetto di quanto statuito
dall’art. 53, comma 23, della Legge n. 388/2000, così come
modificato dall’art. 29, comma 4, della Legge 28/12/2001 n.
448, avocare a sé o ad altro membro della Giunta comunale,
con proprio decreto, la responsabilità/titolarità di uno o
più Settori, con attribuzione del relativo potere di
adottare atti anche di natura tecnica-gestionale”.
Con il secondo comma, il Comune ha, evidentemente, inteso
fruire della facoltà prevista dal
citato art. 53, co. 23, di
attribuire ai “componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale” in una
ipotesi (“scopertura” del posto) non espressamente prevista
dal regolamento, ma che -per identità di ratio- può essere
fronteggiata con la medesima misura organizzativa, giusta
applicazione analogica della norma regolamentare.
D’altro
canto, a voler diversamente ritenere e dal momento che il
regolamento non ha previsto una specifica disciplina al
riguardo, l’impossibilità della sostituzione (rectius:
avocazione) paralizzerebbe l’operatività del settore
interessato.
----------------
Come affermato in giurisprudenza, “i provvedimenti
limitativi della circolazione stradale sono espressione di
scelte ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede
giurisdizionale se non per manifesta illogicità o
irragionevolezza. La regolamentazione del traffico è una
disciplina funzionale alla pluralità degli interessi
pubblici meritevoli di tutela ed alle diverse esigenze, e
sempre che queste rispondano a criteri di ragionevolezza il
cui sindacato va compiuto dal giudice amministrativo, in
ossequio al principio di separazione dei poteri ed alla tassatività dei casi di giurisdizione di merito, ab externo
nei limiti della abnormità”.
---------------
... per l'annullamento,
previa sospensione dell’efficacia
(con il ricorso introduttivo)
-
dell'ordinanza settoriale - Settore Vigilanza del Comune di
-OMISSIS-, n. -OMISSIS-, pubblicata all'Albo Pretorio
comunale dal 18.01.2021 al 02.02.2021, al n. 43
del registro Albo Pretorio, con la quale è stato disposto il
divieto di sosta con rimozione permanente in via -OMISSIS-,
nonché di ogni altro atto prodromico, connesso e
consequenziale.
(con il ricorso per motivi aggiunti)
-
Per quanto d’interesse, del regolamento del Comune di
-OMISSIS- sull’ordinamento generale dei servizi e degli
uffici, art. 20, come modificato con deliberazione della
Giunta Municipale n. 49 del 20.05.2015 e pubblicato sul
sito istituzionale del Comune in data 14.04.2021; della
deliberazione della Giunta Municipale del Comune di
-OMISSIS- n. 49 del 20.05.2015 di modifica dell’art. 20
del predetto regolamento generale sull’ordinamento degli
uffici e dei servizi; del decreto sindacale del Comune di
-OMISSIS- n. 18 del 06.10.2017, prot. n. 6064, nonché di
ogni altro atto prodromico, connesso e consequenziale.
...
1 - Con il presente ricorso ritualmente
notificato e depositato, i ricorrenti in epigrafe indicati
hanno chiesto annullarsi l’ordinanza n. -OMISSIS- con la
quale il Comune di -OMISSIS- ha disposto il divieto di sosta
con rimozione permanente in via -OMISSIS-, tratto di strada
antistante la loro abitazione.
1.1 - A sostegno del gravame i ricorrenti hanno dedotto:
I) l’ordinanza è stata emessa dall’attuale Sindaco di
-OMISSIS- (ex dipendente comunale) che non avrebbe potuto
assumere la responsabilità del settore vigilanza del Comune,
secondo quanto stabilito dagli artt. 14 e 20 del regolamento
comunale sull’ordinamento generale dei servizi e degli
uffici;
II) il Comune ha omesso di tenere in debito conto che la
-OMISSIS- (già titolare dell’autorizzazione al parcheggio
per disabili n. 33/2016, emessa dal Comune di -OMISSIS-)
aveva presentato fin dal novembre 2020 istanza per
l’istituzione di uno stallo di sosta riservato davanti alla
sua abitazione, in ragione delle sue condizioni di salute;
il Comune, lungi dal perseguire un interesse pubblico, ha
inteso favorire altro cittadino residente in zona che, per
contro, aveva chiesto di istituire un divieto di sosta al
fine di agevolare la “transitabilità veicolare” nel suo
accesso privato.
1.2 - Con successivo ricorso per motivi aggiunti, i
ricorrenti hanno poi impugnato in parte qua, il regolamento
del Comune di -OMISSIS- sull’ordinamento generale dei
servizi e degli uffici -come risultante dalla modifica ex d.G.M n. 49/2015- che al comma 2 dell’art. 20 dispone:
“Qualora non sia possibile procedere alla sostituzione
secondo le modalità previste dal precedente comma, il
sindaco può, nel rispetto di quanto statuito dall’art. 53,
comma 23, della Legge n. 388/2000, così come modificato
dall’art. 29, comma 4, della Legge 28/12/2001 n. 448,
avocare a sé o ad altro membro della Giunta comunale, con
proprio decreto, la responsabilità/titolarità di uno o più
Settori, con attribuzione del relativo potere di adottare
atti anche di natura tecnica-gestionale”.
Opinano i
ricorrenti che nessun effetto -in termini di competenza-
può spiegare sulla gravata ordinanza settoriale la modifica
dell’art. 20 (disposta con d.G.M n. 49/2015), essendo stato
il regolamento modificato pubblicato soltanto il 14/4/2021,
in corso di causa.
La modifica de qua violerebbe, inoltre, l’art. 53, comma 23,
della L. 23.12.2000 n. 388 (come modificato dall’art.
29, comma 4, della L. 28.12.2001 n. 448) poiché non
indica alcun beneficio economico derivante per l’Ente, né fa
alcun riferimento al contenimento della spesa. Le medesime
carenze si registrano in relazione al decreto sindacale del
Comune di -OMISSIS- n. 18 del 06.10.2017, prot. n. 6064
(oggetto di impugnativa) con il quale, giusta l’art. 20 del
nuovo regolamento, il Sindaco –nelle more di una
riorganizzazione dell’ente- ha avocato a sé l’incarico di
responsabile del settore vigilanza.
...
4 – La domanda non è meritevole di accoglimento.
4.1 - L’ordinanza n. -OMISSIS- è stata emessa dal Sindaco
nella qualità di Responsabile del Settore Vigilanza, giusta
avocazione della titolarità del settore disposta con proprio
decreto n. 18/2016 (impugnato con il ricorso per motivi
aggiunti).
Con tale decreto, il Sindaco, “dato atto della carenza di
organico ed in particolare dell’assenza di un responsabile
del settore vigilanza”, ha avocato a sé la titolarità di
tale ultimo settore, avvalendosi della facoltà di cui
all’art. 20 del regolamento sull’ordinamento degli uffici
“nelle more di una riorganizzazione dell’Ente”.
Nel decreto
è inserito un richiamo all’art. 53, co. 23, della l. 388/2000, a
mente del quale: “Gli enti locali con popolazione inferiore
a cinquemila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui
all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di
operare un contenimento della spesa, possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative, se necessario
anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3
e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio”.
4.1.1 - Giova premettere in argomento che “La giurisprudenza
ormai consolidata, incentrata sulla disposizione dell’art.
107, comma 5, t.u.e.l., dalla quale il Collegio non ha seria
ragione di discostarsi, ritiene infatti che i provvedimenti
con i quali si disciplina la circolazione sulla viabilità
comunale, le modalità di accesso alla stessa e i relativi
orari, i controlli, le sanzioni, ai sensi degli artt. 6 e 7
cod. strada, assumono natura tipicamente gestoria ed
esecutiva e quindi appartengono alla competenze dei
dirigenti comunali e non del Sindaco, ovviamente
nell’ipotesi in cui non ricorra il presupposto dell’urgenza
che potrebbe giustificare l’adozione di un’ordinanza
contingibile e urgente (in termini, tra le tante, Cons.
Stato, V, 13.07.2017, n. 3460; V, 13.11.2015, n.
5191)” - orientamento, da ultimo confermato da Consiglio di
Stato sez. V, sent. 3932/2023.
4.1.2 – Ciò posto, opina il Tribunale che, nella
fattispecie, l’avocazione della titolarità del settore
vigilanza sia stata legittimamente disposta.
L’art. 20 del regolamento (rubricato “Funzioni di supplenza
e di sostituzione temporanea del responsabile - Responsabile
di struttura apicale”) dispone, infatti:
“1. Il Sindaco, in
caso di ferie o impedimento o assenza temporanea del
responsabile titolare, può, con proprio atto, assegnare ad
interim, per un periodo di tempo determinato, eventualmente
rinnovabile, uno o più settori apicali, ad altro dipendente
appartenente alla medesima categoria, già responsabile di
altra struttura organizzativa ed in possesso dei requisiti
per tale funzione, riconoscendo in caso di incarico di
durata superiore a trenta giorni consecutivi, un incremento
dell’indennità di posizione, nella misura del 20% di quella
prevista per il responsabile del settore che viene retto ad
interim.
2. Qualora non sia possibile procedere alla
sostituzione secondo le modalità previste dal precedente
comma, il sindaco può, nel rispetto di quanto statuito
dall’art. 53, comma 23, della Legge n. 388/2000, così come
modificato dall’art. 29, comma 4, della Legge 28/12/2001 n.
448, avocare a sé o ad altro membro della Giunta comunale,
con proprio decreto, la responsabilità/titolarità di uno o
più Settori, con attribuzione del relativo potere di
adottare atti anche di natura tecnica-gestionale”.
Con il secondo comma, il Comune ha, evidentemente, inteso
fruire della facoltà prevista dal
citato art. 53, co. 23, di
attribuire ai “componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale” in una
ipotesi (“scopertura” del posto) non espressamente prevista
dal regolamento, ma che -per identità di ratio- può essere
fronteggiata con la medesima misura organizzativa, giusta
applicazione analogica della norma regolamentare. D’altro
canto, a voler diversamente ritenere e dal momento che il
regolamento non ha previsto una specifica disciplina al
riguardo, l’impossibilità della sostituzione (rectius:
avocazione) paralizzerebbe l’operatività del settore
interessato.
...
5 - Va, poi, riscontrata l’infondatezza del gravame (rectius:
del ricorso introduttivo) anche con riferimento alle censure
incentrate sulla carenza istruttoria e sullo sviamento di
potere da cui sarebbe affetta l’ordinanza n. -OMISSIS-.
5.1 - Come affermato in giurisprudenza, “i provvedimenti
limitativi della circolazione stradale sono espressione di
scelte ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede
giurisdizionale se non per manifesta illogicità o
irragionevolezza. La regolamentazione del traffico è una
disciplina funzionale alla pluralità degli interessi
pubblici meritevoli di tutela ed alle diverse esigenze, e
sempre che queste rispondano a criteri di ragionevolezza il
cui sindacato va compiuto dal giudice amministrativo, in
ossequio al principio di separazione dei poteri ed alla tassatività dei casi di giurisdizione di merito, ab externo
nei limiti della abnormità (Cons. Stato, sez. VI, 08.04.2022, n. 2599; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, n. 2031/2017;
id., n. 2255/2015)” - Consiglio di Stato, sez. V, sent.
07/03/2023 n. 2366.
Nel caso in esame, si osserva che parte ricorrente non
contesta che la misura adottata sia abnorme o irragionevole
rispetto alla finalità di assicurare un più agevole accesso
alle proprietà private pregiudicate da “soste non
autorizzate” (secondo quanto emerso anche all’atto del
sopralluogo del 19/11/2020 - all. 003: 04 prod. Comune del
18/05/2021). Inoltre, la documentazione fotografica versata
in atti rivela che –effettivamente– il divieto di sosta è
funzionale ad un agevole accesso a (nonché ad un’agevole
uscita da) la stradina adiacente la proprietà dei
ricorrenti, cui sarebbe di oggettivo ostacolo la presenza di
auto, anche tenuto conto della ridotta larghezza della sede
stradale (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 05.06.2023 n. 3439 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
E' illegittimo per incompetenza il provvedimento
del Sindaco (nella duplice qualità sia di ufficiale
di governo, sia di capo della locale Polizia) che ha
disposto la chiusura dell’attività di somministrazione con
intrattenimento e svago di cui alla presentata dichiarazione
di inizio attività.
Invero, l’ordinanza sindacale non fa riferimento alcuno agli
artt. 50, comma 3, e 54, comma 4, del testo unico di cui al
dlgs 267/2000, né tanto meno a situazioni di turbativa
dell’ordine e sicurezza pubblica. Sicché, essa non può
pertanto essere ricondotta alle attribuzioni del sindaco
quale ufficiale di governo ai sensi delle medesime
disposizioni.
Attraverso il richiamo agli artt. 10, comma 3, della legge
25.08.1991, n. 287 (Aggiornamento della normativa
sull’insediamento e sull’attività dei pubblici esercizi), e
17-ter, comma 3, del testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza, risulta invece che il provvedimento impugnato è
stato adottato in ragione dell’esercizio di un’«attività di
somministrazione al pubblico di alimenti e bevande senza
l’autorizzazione». Sotto il profilo ora evidenziato ne va
dunque confermata la natura gestionale quale atto di
esercizio del potere di controllo sul regolare esercizio
delle attività commerciali di somministrazione, e di
repressione di quelle abusivamente svolte.
Non sono inoltre configurabili gli ulteriori presupposti
prospettati dall’appello per derogare alla generale
competenza dirigenziale discendente della natura giuridica
ora esposta, ai sensi dell’art. 107 del testo unico delle
leggi di ordinamento degli enti locali.
Infatti, secondo il principio di legalità cui sono informati
i poteri amministrativi, l’art. 2 della legge quadro
sull’ordinamento della polizia locale, a mente del quale il
sindaco «adotta i provvedimenti previsti dalle leggi e dai
regolamenti», richiede una specifica base normativa,
ulteriore a quella espressa dalla disposizione ora in esame
in modo generalizzato, la cui funzione consiste unicamente
nel definire sul piano ordinamentale il ruolo e le funzioni
di polizia locale del vertice dell’amministrazione comunale.
Di talché, la possibilità consentita dalla legge finanziaria
per il 2001 (art. 53,
comma 23, legge 23.12.2000 388, ndr) di devolvere ai
componenti dell’organo esecutivo il potere di adottare atti
di gestione amministrativa presuppone modifiche
«regolamentari organizzative» che nel caso di specie nemmeno
si deduce essere state adottate.
---------------
FATTO
1. Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la
Campania - sezione staccata di Salerno, integrato da motivi
aggiunti, il signor Er.Cr., che in data 04.06.2009 aveva
presentato al Comune di Atrani una dichiarazione di inizio
attività di somministrazione con intrattenimento e svago
presso l’immobile nella sua disponibilità, sito in piazzale
... 1, sotto l’insegna “M.”, e che in precedenza era
stato richiesto dall’amministrazione comunale di integrare
la pratica, senza esito, impugnava dapprima il provvedimento
sindacale con cui era diffidato dall’intraprendere
l’attività (prot. n. 1472 del 06.07.2009), e quindi l’ordine
di cessazione della stessa (n. 21 del 28.12.2009).
2. Con la sentenza indicata in epigrafe, dichiarato il
ricorso improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse,
erano accolti i motivi aggiunti contro l’ordine di chiusura
dell’esercizio.
3. Premesso che quest’ultimo atto era stato adottato «ai
sensi degli artt. 17-ter, comma 3, del Regio Decreto
18.06.1931, n. 773 (cd. T.U.L.P.S.) e 10, comma 3, della
legge del 25/08/1991, n. 287, sul presupposto
dell’inesistenza di una valida autorizzazione all’esercizio
dell’attività in questione», la sentenza ne ha ravvisato
la «natura tipicamente gestionale – e non anche di
indirizzo politico», rientrante pertanto nella
competenza dirigenziale, ai sensi dell’art. 107 del testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui
al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
4. Contro la sentenza di primo grado il Comune di Atrani ha
proposto il presente appello, al quale resiste l’originario
ricorrente, e in cui si sostiene che nel caso di specie il
principio di separazione tra funzioni di indirizzo
politico-amministrativo da un lato e gestionali
dall’altro, sancito in quest’ultima disposizione,
sarebbe derogato da altre disposizioni di carattere speciali
applicabili in ragione delle funzioni amministrative
esercitate e della consistenza demografica
dell’amministrazione comunale.
DIRITTO
1. L’appello censura la sentenza per non avere considerato
che l’ordinanza comunale ex adverso impugnata con i
motivi aggiunti è stata adottata dal sindaco, sulla base del
verbale della polizia municipale in data 30.11.2009, nella
seguente duplice qualità: «sia quale ufficiale di
governo, sia quale capo della locale Polizia», ai sensi
delle disposizioni normative richiamate dalla medesima
sentenza.
In ragione dei descritti presupposti si sostiene che nella
presente fattispecie la generale competenza dirigenziale
sarebbe derogata da quella riservata al sindaco:
- sia quale ufficiale di governo, ai sensi degli artt. 50, comma 3,
e 54, comma 4, del medesimo testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267;
- che in qualità di vertice dell’amministrazione comunale cui fa
capo la polizia municipale, ai sensi dell’art. 2 della legge
quadro sull’ordinamento di quest’ultima, 07.03.1986, n. 65.
L’appello sottolinea al riguardo che, per un verso,
le ora richiamate disposizioni di ordinamento degli enti
locali sulle funzioni del sindaco quale ufficiale di governo
sono espressamente fatte salve dal sopra citato art. 107,
comma 5, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267; e
per altro verso che la legge quadro sull’ordinamento
della polizia municipale è tuttora in vigore nella sua
versione originaria, anche dopo l’introduzione del principio
di separazione delle funzioni di indirizzo
politico-amministrativo da quelle gestionali.
2. Sotto un distinto profilo, la competenza sindacale
sarebbe nel caso di specie ricavabile dall’art. 53, comma
23, della legge finanziaria per il 2001 (legge 23.12.2000,
n. 388), che per ragioni di contenimento della spesa
facoltizza gli «enti locali con popolazione inferiore a
5mila abitanti» -quale il Comune di Atrani- a
devolvere «ai componenti dell’organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale», sulla
base di apposite «disposizioni regolamentari
organizzative».
3. Con specifico riguardo alle funzioni del sindaco quale
ufficiale di governo, si aggiunge che per effetto di
successivi interventi normativi queste sono state ampliate
(in particolare, in relazione all’epoca di adozione del
provvedimento impugnato, con il decreto-legge 23.05.2008, n.
92, recante Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica;
convertito dalla legge 24.07.2008, n. 125), nel senso di
consentire al sindaco di emettere ordinanze in materia di
ordine e sicurezza pubblica. Nella descritta prospettiva si
sottolinea che nel caso di specie il potere sindacale è
stato esercitato a fronte dell’accertamento svolto dalla
polizia municipale relativamente all’esistenza di
un’attività commerciale svolta in assenza delle necessarie
licenze.
4. Le censure così sintetizzate sono infondate.
5. In primo luogo, l’ordinanza sindacale non fa riferimento
alcuno ai più volte citati artt. 50, comma 3, e 54, comma 4,
del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, né tanto meno a situazioni di turbativa dell’ordine e
sicurezza pubblica. Come controdedotto dall’originario
ricorrente, per le ragioni ora esposte essa non può pertanto
essere ricondotta alle attribuzioni del sindaco quale
ufficiale di governo ai sensi delle medesime disposizioni.
6. Attraverso il richiamo agli artt. 10, comma 3, della
legge 25.08.1991, n. 287 (Aggiornamento della normativa
sull’insediamento e sull’attività dei pubblici esercizi), e
17-ter, comma 3, del testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza, risulta invece che il provvedimento impugnato è
stato adottato in ragione dell’esercizio di un’«attività
di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande senza
l’autorizzazione». Sotto il profilo ora evidenziato ne
va dunque confermata la natura gestionale, già ritenuta
dalla sentenza di primo grado, quale atto di esercizio del
potere di controllo sul regolare esercizio delle attività
commerciali di somministrazione, e di repressione di quelle
abusivamente svolte.
7. Non sono inoltre configurabili gli ulteriori presupposti
prospettati dall’appello per derogare alla generale
competenza dirigenziale discendente della natura giuridica
ora esposta, ai sensi dell’art. 107 del testo unico delle
leggi di ordinamento degli enti locali.
Infatti, secondo il principio di legalità cui sono informati
i poteri amministrativi, l’art. 2 della legge quadro
sull’ordinamento della polizia locale, a mente del quale il
sindaco «adotta i provvedimenti previsti dalle leggi e
dai regolamenti», richiede una specifica base normativa,
ulteriore a quella espressa dalla disposizione ora in esame
in modo generalizzato, la cui funzione consiste unicamente
nel definire sul piano ordinamentale il ruolo e le funzioni
di polizia locale del vertice dell’amministrazione comunale.
La possibilità consentita dalla legge finanziaria per il
2001 di devolvere ai componenti dell’organo esecutivo il
potere di adottare atti di gestione amministrativa
presuppone invece modifiche «regolamentari organizzative»
che nel caso di specie nemmeno si deduce essere state
adottate.
8. L’appello deve pertanto essere respinto, per cui va
confermata la sentenza di primo grado (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 09.03.2023 n. 2518 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: L.
Oliveri,
Il sindaco non può legittimamente svolgere le funzioni di responsabile del
tributo (28.12.2022 - link a https://leautonomie.asmel.eu).
---------------
L’ordinanza 16.12.2022 n. 37022 della Corte di Cassazione, Sez. V
civile, nel
considerare legittima la sottoscrizione di un avviso di accertamento di un
tributo incorre in un errore molto grave.
Spiace dover constatare quante volte la Cassazione inciampi in pronunce
totalmente in violazione delle leggi, che pure dovrebbe applicare, come
avvenuto nel caso della fissazione triennale della durata minima degli
incarichi ai sensi dell’articolo 110 del d.lgs. 267/2000 indicazione
totalmente erronea e in contrasto formidabile proprio con le previsioni
dell’articolo 110 citato.
Nel caso di specie, il ricorso si fonda, col secondo motivo, sulla
violazione e falsa applicazione di norme di diritto, dovuta alla circostanza
che l’avviso di accertamento per la Tarsu oggetto del contenzioso è stato
sottoscritto dal Sindaco e non dal funzionario comunale responsabile del
tributo secondo quanto dispone l’art. 74 del D.lgs. 507 del 1993. In
particolare, il ricorrente chiede la dichiarazione della nullità della
motivazione della sentenza di merito, poiché il giudice di secondo grado si
è limitato ad affermare che l’avviso è regolarmente sottoscritto in quanto
firmato dal sindaco.
Il ricorrente ha evidenziato, ancora, che vi è stata una violazione di legge
visto che il comune non ha incaricato il responsabile del tributo né ad un
funzionario, né quanto meno al sindaco, aggiungendo che tale organo, ai
sensi dell’articolo 107 del d.lgs. 267/2000 non può invadere le funzioni
della dirigenza.
Sorprendentemente e con grave errore, la Cassazione ritiene il motivo è
infondato, sulla base di motivazioni davvero prive di basi.
In primo luogo, l’ordinanza rileva che “Il Sindaco è il legale
rappresentante dell’ente, cui spetta di manifestare all’esterno la volontà
dell’ente e anche di esprimere il potere impositivo, pertanto può firmare
gli avvisi in difetto di nomina del funzionario responsabile”.
Si tratta di affermazioni totalmente fuorvianti e in chiarissimo contrasto
con l’impianto complessivo delle competenze degli organi.
La circostanza che la legge inquadri il sindaco come legale rappresentante
dell’ente e, quindi, in grado di manifestare la volontà dell’ente è
totalmente priva di pregio.
La rappresentanza legale del sindaco è solo istituzionale e non certo
gestionale, posto che lo svolgimento delle funzioni che determinano una
diretta incisione della sfera giuridica dei terzi è assegnato dalla legge ai
vertici o ai responsabili dell’apparato amministrativo.
Quindi, la rappresentanza del sindaco si ferma di fronte all’esercizio delle
funzioni gestionali e negoziali, che per legge spettano in via esclusiva ai
dirigenti o ai responsabili di servizio, se nell’ente non sia presente la
dirigenza.
Questa conclusione è necessitata dalla chiarissima previsione dell’articolo
107, comma 2, del d.lgs. 267/2000: “Spettano ai dirigenti tutti i
compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che
impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente
dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti
tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui
rispettivamente agli articoli 97 e 108”.
Non c’è nessuno dubbio che un avviso di accertamento tributario non abbia
nulla a che vedere con l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo,
ma attenga alla gestione.
Il
comma 4 dell’articolo 107 ricordato sopra aggiunge: “Le attribuzioni dei
dirigenti, in applicazione del principio di cui all’articolo 1, comma 4,
possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche
disposizioni legislative”.
Il d.lgs. 267/2000, dunque, oltre a disciplinare specificamente che le
funzioni gestionali, tutte, spettano ai vertici organizzativi, corrobora
tale disposizione con la previsione dell’inderogabilità: solo una legge può
intervenire sull’assetto delle competenze e modificarlo.
La Cassazione nell’affermare che l’attribuzione al sindaco della
rappresentanza legale consente di considerare tale organo come abilitato a
manifestare la volontà dell’ente incorre, allora, in duplice errore:
1. da un lato, attribuisce alla rappresentanza legale la
possibilità di andare in contrasto con le previsioni dell’articolo 107; cosa
ovviamente paradossale, in quanto se così fosse si ammetterebbe che il
d.lgs. 267/2000 a un tempo dispone il bianco e il nero, un precetto ed il
suo contrario. Ovviamente, le cose non stanno così: la rappresentanza legale
del sindaco è istituzionale e connessa all’esercizio delle funzioni
politiche di indirizzo e controllo e si ferma a tali funzioni. Quelle
gestionali spettano in via esclusiva ai vertici dell’apparato, dotati a loro
volta di una rappresentanza, meglio dire di un rapporto organico che ex lege
li abilita ad incidere la sfera dei terzi;
2. dall’altro, connette l’esercizio della competenza alla
“manifestazione” della volontà. Ma, prima ancora di essere manifestata, la
volontà va formata. Ammesso che la rappresentanza legale permetta al sindaco
di manifestare la volontà dell’ente –conclusione da rigettare, visto che la
manifestazione della volontà espressa nell’ambito della gestione
amministrativa è anch’essa spettanza esclusiva della dirigenza, poiché la
manifestazione della volontà è parte integrante del procedimento– in ogni
caso il sindaco, per le ragioni viste sopra, non può formare la volontà. Né
avrebbe senso relegare il sindaco alla funzione di un mero nuncius della
volontà altrui.
L’ordinanza, proseguendo nell’erronea trattazione, afferma che,
conseguentemente alla rappresentanza legale spettante al sindaco, questo
“può firmare gli avvisi in difetto di nomina del funzionario responsabile”.
Ad appesantire ulteriormente il fardello degli errori interpretativi,
l’ordinanza aggiunge che “eventuali conflitti di attribuzioni con i
dirigenti, ma nel caso di specie non risulta che vi sia un dirigente del
servizio che il Sindaco abbia esautorato dalla sue funzioni, possono avere
eventuale rilevanza interna, ma non incidono sulla validità dell’avviso di
accertamento”. Per questa ragione “Il giudice di primo grado ha pertanto
correttamente ritenuto infondato il motivo d’appello osservando che l’avviso
non presenta difetto di sottoscrizione essendo firmato dal Sindaco”.
Tutte affermazioni non condivisibili in alcun modo. Partiamo dalla
suggestione secondo la quale il sindaco potrebbe firmare gli avvisi in
difetto della nomina del funzionario responsabile.
L’articolo
74, comma 1, del d.lgs. 507/1993 sancisce: “Il comune designa un
funzionario cui sono attribuiti la funzione e i poteri per l’esercizio di
ogni attività organizzativa e gestionale relativa alla tassa per lo
smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni; il predetto funzionario
sottoscrive le richieste, gli avvisi, i provvedimenti relativi e dispone i
rimborsi”.
Si nota facilmente quanto segue:
1. il comune non ha la semplice facoltà di designare il
responsabile del tributo, ma deve designarlo. Infatti, la norma coniuga il
verbo designare all’indicativo presente, che nel lessico del legislatore
equivale ad imperativo. I comuni hanno l’obbligo imperativo di designare il
funzionario;
2. a tale funzionario sono attribuite funzioni che riguardano
l’organizzazione e la gestione. Quindi, si conferma che si tratta non di
competenze inerenti indirizzo politico amministrativo e controllo, ma
appunto la gestione.
Pertanto, per un verso il comune non può sottrarsi all’obbligo di designare
il funzionario responsabile, anche perché ha l’obbligo di comprovare,
davanti al contribuente ed al giudice, la fonte di legittimazione del potere
gestionale esercitato dal responsabile medesimo. Le modalità per procedere
sono: la previsione nel regolamento sui tributi dell’attribuzione in
generale della funzione al dirigente o responsabile di servizio, con la
regolazione del potere di questo di attribuire, a sua volta, l’incarico ad
altro funzionario designato, in applicazione combinata della legge 241/1990
con l’articolo 74 del d.lgs. 507/1993.
Per altro verso, poiché le funzioni del responsabile dei tributi sono
gestionali, è da considerare priva di ogni fondamento la tesi secondo la
quale, nel caso di sua mancata designazione, allora dette funzioni possono
essere svolte dal sindaco.
Ciò presupporrebbe che il sindaco disponga della competenza del responsabile
del tributo a titolo originario, della quale si potrebbe disfare a titolo
precario mediante propri atti di incarico o delega, riappropriandosi della
competenza in assenza di designazione o delega.
Ma, così non è. Poiché le funzioni del responsabile del tributo sono solo
gestionali, esse spettano a titolo originario al vertice gestionale,
dirigente o responsabile di servizio e mai al sindaco. Solo negli enti con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti, per effetto dell’art. 53, comma 23,
della legge 388/2000
il sindaco potrebbe assumere le funzioni gestionali; ma anche in tal caso il
comune allora dovrebbe disciplinare in modo espresso l’attribuzione al
sindaco-gestione anche delle funzioni di responsabile del tributo.
Sbagliatissimo, poi, è affermare, come fa la Cassazione, che eventuali
“conflitti di attribuzione” tra sindaco e dirigenza abbiano solo “rilevanza
interna”.
Incredibilmente, gli ermellini prendono per conflitto di attribuzione una
chiarissima e manifesta questione di illegittimità del provvedimento per
violazione della competenza. Non si tratta per nulla di un conflitto di
attribuzione interno, ma del corretto esercizio del potere attribuito dalla
legge, che nel caso di specie risulta vulnerata in modo plateale, poiché il
sindaco ha adottato un provvedimento gestionale in totale carenza di potere.
E il vizio di competenza non ha certo rilevanza esclusivamente interna,
perché inficia la legittimità del provvedimento e, quindi, la sua capacità
di incidere sulla sfera giuridica dei cittadini (efficacia).
Sia il giudice di merito, sia la Cassazione pare abbiano, inoltre, confuso
la questione di legittimità con quella dell’esistenza del provvedimento,
cadendo nell’errore di guardare alla questione sul piano, quindi,
dell’eventuale sua nullità.
E’ chiaro che l’avviso di accertamento esiste sul piano giuridico e non è
nullo, poiché è sottoscritto. Ma, è stato adottato da organo incompetente.
Questo era l’oggetto della doglianza, rimasta senza giustizia a causa del
clamoroso errore della Cassazione. |
COMPETENZE GESTIONALI:
È incontestato tra le parti che il Comune, avendo
una popolazione inferiore a 5.000 abitanti, al fine di
assicurare un contenimento delle spese, avrebbe potuto
modificare i regolamenti in modo da attribuire le funzioni
gestionali a membri della giunta.
Ai sensi dell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del
2000, infatti, è consentito nei Comuni con meno di 5.000
abitanti l’attribuzione ai componenti dell’organo esecutivo
della responsabilità degli uffici e dei servizi nonché del
potere di adottare atti anche di natura tecnico-gestionale.
Il Comune con deliberazione di Giunta -OMISSIS- del 2019 si
è avvalso della facoltà di attribuire ai componenti
dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei
servizi dell’area amministrativa e del potere di adottare
atti di natura tecnico-amministrativo, il che consente di
ritenere rientrante nella competenza del predetto assessore
(nominato responsabile del terzo settore) anche l’adozione
dell’atto impugnato.
In senso contrario non valgono i profili di censura con i
quali la ricorrente deduce che l’attribuzione all’assessore
delle funzioni amministrative in argomento sarebbe contraria
ai principi generali sulla separazione fra funzione
d'indirizzo politico e funzione amministrativa, dettati dal
d.lgs. 267 del 2000 (TUEL) e ripresi nell’art. 33 dello
statuto comunale e nell’art. 2, comma 7, del regolamento per
l’organizzazione degli uffici del comune, posto che la
suddetta deroga al principio di separazione è stata
introdotta dal legislatore con norma di rango primario,
quale è il richiamato dell’art. 53, comma 23, della legge n.
388 del 2000.
---------------
... per l'annullamento
- della deliberazione di giunta comunale -OMISSIS- del 09.02.2019,
con la quale è stata conferita all'assessore -OMISSIS- la
responsabilità gestionale del terzo settore comunale;
- dell'ordinanza -OMISSIS- del 29.05.2019 con la quale è stato
disposto l'annullamento in autotutela del permesso di
costruire -OMISSIS- del 16.01.2019;
- dell'ordinanza -OMISSIS- del 24.06.2019 con la quale è stata
ordinata la demolizione e la remissione in pristino dei
luoghi già interessati dai lavori regolarmente autorizzati
con precedenti atti;
- nonché di ogni ulteriore atto precedente o successivo a quelli
impugnati, ancorché allo stato non conosciuti.
...
1. Con il primo motivo la ricorrente contesta la
delibera -OMISSIS- del 09.02.2019 di conferimento
dell’incarico di responsabile del terzo settore comunale
all’assessore, che quindi non avrebbe avuto alcuna
competenza nell’adottare l’avversata determinazione di
revoca del permesso di costruire -OMISSIS-/2019.
La tesi non convince.
È incontestato tra le parti che il Comune, avendo una
popolazione inferiore a 5.000 abitanti, al fine di
assicurare un contenimento delle spese, avrebbe potuto
modificare i regolamenti in modo da attribuire le funzioni
gestionali a membri della giunta.
Ai sensi dell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del
2000, infatti, è consentito nei Comuni con meno di 5.000
abitanti l’attribuzione ai componenti dell’organo esecutivo
della responsabilità degli uffici e dei servizi nonché del
potere di adottare atti anche di natura tecnico-gestionale.
Il Comune di Carpino con deliberazione di Giunta -OMISSIS-
del 2019 si è avvalso della facoltà di attribuire ai
componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli
uffici e dei servizi dell’area amministrativa e del potere
di adottare atti di natura tecnico-amministrativo, il che
consente di ritenere rientrante nella competenza del
predetto assessore (nominato responsabile del terzo settore)
anche l’adozione dell’atto impugnato.
2. In senso contrario non valgono i profili di censura con i
quali la ricorrente deduce che l’attribuzione all’assessore
delle funzioni amministrative in argomento sarebbe contraria
ai principi generali sulla separazione fra funzione
d'indirizzo politico e funzione amministrativa, dettati dal
d.lgs. 267 del 2000 (TUEL) e ripresi nell’art. 33 dello
statuto comunale e nell’art. 2, comma 7, del regolamento per
l’organizzazione degli uffici del comune di Carpino, posto
che la suddetta deroga al principio di separazione è stata
introdotta dal legislatore con norma di rango primario,
quale è il richiamato dell’art. 53, comma 23, della legge n.
388 del 2000.
3. Allo stesso modo con convince l’ulteriore deduzione
secondo cui la delibera -OMISSIS- del 09.02.2019, con la
quale è stata conferita all’assessore -OMISSIS- la
responsabilità gestionale del terzo settore comunale avrebbe
ecceduto le attribuzioni riservate alla giunta in ambiti,
come quello della modifica dei principi generali in tema di
organizzazione degli uffici, di esclusiva competenza del
consiglio comunale ai sensi degli artt. 42 e 48 del TUEL.
In primo luogo, l’art. 48, comma 3, del medesimo TUEL
dispone che “3. È, altresì, di competenza della giunta
l'adozione dei regolamenti sull'ordinamento degli uffici e
dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal
consiglio”.
Ciò premesso non risulta che la giunta con la contestata
delibera -OMISSIS- del 2019 abbia inteso modificare i
principi generali in tema di organizzazione degli uffici
stabiliti dal Consiglio, in via stabile, ma piuttosto fare
applicazione della deroga prevista dal citato art. 53, comma
23, proprio al fine di “operare un contenimento della
spesa”.
In secondo luogo, l’art. 48, comma 3, sopra richiamato
attribuisce espressamente alla giunta l’adozione di atti
organizzativi come quello in esame, il quale peraltro
risulta giustificato dalla drammatica carenza di organico
che affligge il Comune resistente, descritta e comprovata
dalle allegazioni del medesimo ente locale (TAR Puglia-Bari,
Sez. I,
sentenza 19.12.2022 n. 1753 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI -
COMPETENZE GESTIONALI: In
tema di conflitto di interessi in materia di contratti pubblici.
In generale, quando le funzioni gestionali relative all’Ufficio tecnico sono
assegnate -ai sensi dell’art. 53, co. 23, della l. n. 388/2000- al Sindaco o
ad un Assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli obblighi
dichiarativi derivanti dall’applicazione dell’art.
42 del d.lgs. n. 50/2016; per assicurare l’effettività della
prevenzione dei conflitti di interessi nei contratti pubblici, i comuni che
si avvalgono della predetta facoltà dovrebbero definire, al contempo, le
modalità ed il destinatario delle dichiarazioni, tenendo conto della propria
organizzazione.
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La vicenda esaminata nel presente procedimento richiede la trattazione di
una questione di carattere generale, in tema di conflitto di interessi in
materia di contratti pubblici, che è già stata oggetto di attenzione nello
schema di PNA 2022-2024 posto in consultazione dall’Autorità.
Infatti, piuttosto spesso i piccoli Comuni si avvalgono della facoltà agli
stessi riconosciuta di attribuire “…..ai componenti dell’organo esecutivo
la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale, se necessario anche in deroga a quanto
disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993,
n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” (art. 53, co. 23,
della l. n. 388/2000).
Così, è avvenuto nel caso di specie, in cui il Sindaco –in quanto competente
in materie tecniche– si è visto assegnare anche la titolarità dell’ufficio
tecnico del Comune, con la conseguenza di trovarsi ad adottare gli atti di
pertinenza di detto settore. Peraltro, sebbene la disposizione richiamata
abbia carattere generale e possa trovare applicazione per tutti gli Uffici
dirigenziali di un piccolo Comune, l’Ufficio tecnico è proprio quello di
cui, nella maggior parte dei casi esaminati dall’Autorità, il Sindaco o un
Assessore assumono la responsabilità.
Proprio per questo motivo, la sezione del già richiamato schema di PNA,
relativa alla gestione dei conflitti di interessi nei contratti pubblici,
rileva che i soggetti che compongono gli organi politici, in coerenza con il
principio di separazione tra politica e amministrazione (art. 14 del d.lgs.
n. 165/2001 e art. 80 del d.lgs. n. 267/2000), non assumono incarichi di
natura amministrativa e, pertanto, non sono sottoposti alle regole di cui
all’art.
42 del d.lgs. n. 50/2016. Al contempo, però, chiarisce anche che quando
ciò avviene lo svolgimento di un ruolo gestionale e l’espletamento di
funzioni che riguardano l’aggiudicazione di contratti pubblici comporta
necessariamente l’operatività degli obblighi dichiarativi previsti dalla
normativa.
Al riguardo, occorre rammentare che le
Linee Guida ANAC n. 15 (delibera 05.06.2019 n. 494) hanno
chiarito come le disposizioni contenute nell’art. 42 del codice dei
contratti pubblici trovino applicazione in tutte le procedure di
aggiudicazione, ivi incluse quelle sotto soglia. Quanto agli obblighi
dichiarativi correlati all’applicazione della richiamata disciplina,
l’Autorità ha anche chiarito che, oltre alla dichiarazione sostitutiva ai
sensi degli
articoli 6, comma 1, del dPR
n. 62/2013 e
6-bis della legge n. 241/1990 da rendere all’atto
dell’assegnazione all’Ufficio, è necessaria anche la dichiarazione
sostitutiva riferita alla singola procedura di gara.
Quest’ultima dichiarazione deve essere sempre resa rispetto alla specifica
procedura di gara ed ha ad oggetto ogni situazione potenzialmente idonea a
porre in dubbio la sua imparzialità e indipendenza.
Come evidenziato nelle Linee Guida,
si tratta di adempimenti che non possono
considerarsi alla stregua di un mero obbligo formale, giacché costituiscono
il principale strumento attraverso il quale le stazioni appaltanti possono
prevenire possibili situazioni di rischio, facendole emergere
anticipatamente.
Così, anche il Sindaco incaricato di funzioni gestionali non può ritenersi
esentato dal rendere le prescritte dichiarazioni sia al momento
dell’assunzione della responsabilità dell’Ufficio ma soprattutto -per quanto
è qui di interesse- in relazione a ciascun affidamento, per il quale svolga
il ruolo di RUP, oppure altra funzione rilevante.
Per queste ragioni, le considerazioni svolte nella memoria pervenuta dal
Comune, secondo cui le disposizioni dell’art.
42 del d.lgs. n. 50/2016 si applicherebbero solo ai dipendenti degli
enti, non possono ritenersi condivisibili, come pure non può ritenersi
dirimente la mancata attribuzione di una retribuzione per lo svolgimento
delle funzioni dirigenziali; ciò, in quanto dovendo, comunque, operare in
nome o per conto della stazione appaltante nell’ambito di procedure di
aggiudicazione, al pari degli altri Dirigenti, vi è anche la necessità di
evitare che la sussistenza di un interesse personale possa in qualsiasi modo
influenzarne l’esito.
Infatti, riguardo ai soggetti che devono ritenersi sottoposti agli obblighi
derivanti dall’art. 42, nelle Linee Guida, l’Autorità ha precisato che “Il
conflitto di interesse individuato all’articolo 42 del codice dei contratti
pubblici è la situazione in cui la sussistenza di un interesse personale in
capo ad un soggetto operante in nome o per conto della stazione appaltante
che interviene a qualsiasi titolo nella procedura di gara o potrebbe in
qualsiasi modo influenzarne l’esito è potenzialmente idonea a minare
l’imparzialità e l’indipendenza della stazione appaltante nella procedura di
gara. In altre parole, l’interferenza tra la sfera istituzionale e quella
personale del funzionario pubblico, si ha quando le decisioni che richiedono
imparzialità di giudizio siano adottate da un soggetto che abbia, anche solo
potenzialmente, interessi privati in contrasto con l’interesse pubblico”.
Le Linee Guida chiariscono, infine, che “L’articolo 42 si applica ai
soggetti individuati ai punti precedenti che siano coinvolti in una
qualsiasi fase della procedura di gestione del contratto pubblico
(programmazione, progettazione, preparazione documenti di gara, selezione
dei concorrenti, aggiudicazione, sottoscrizione del contratto, esecuzione,
collaudo, pagamenti) o che possano influenzarne in qualsiasi modo l’esito in
ragione del ruolo ricoperto all’interno dell’ente”.
Nei casi come quello qui in esame, dunque, valorizzando la considerazione
per cui nell’espletamento delle funzioni gestorie anche l’organo politico
può ritenersi parte dell’organizzazione dell’ente, il destinatario delle
dichiarazioni del Sindaco potrebbe essere lo stesso che riceve quelle degli
altri Dirigenti (Segretario Generale, Ufficio del personale, RPTC etc.); in
tal caso, occorrerà anche tener presente che questa opzione potrebbe
comportare delle criticità, quando l’RPTC, che sia anche Segretario comunale
e Responsabile di un servizio sia tenuto, a sua volta, a rendere le proprie
dichiarazioni al Sindaco, come già suggerito da questa Autorità in un altro
caso già esaminato (Atto del Presidente 13.07.2022 – prot. 61305.2022).
Altra opzione che potrebbe essere valutata dal Comune è quella che tiene
conto che la nomina del Sindaco quale Responsabile dell’Ufficio/Servizio è
stata disposta dalla Giunta Comunale; pertanto, potrebbe essere anche quest’ultimo
organo a ricevere le dichiarazioni di (in) sussistenza di situazioni di
conflitto di interessi ed a valutare eventuali questioni che dovessero porsi
al riguardo.
In ogni caso, occorre evitare che sia lo stesso interessato ad effettuare
autonomamente la valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione
alla propria situazione; pertanto, è opportuno che il Comune interessato, in
caso di assegnazione al Sindaco o ad un Assessore di funzioni gestionali
definisca in concreto, tenendo conto delle proprie specificità
organizzative, le modalità con cui gli stessi possano rendere le
dichiarazioni ai sensi degli articoli 6, comma 1, del decreto del Presidente
della Repubblica n. 62/2013 e 6-bis della legge n. 241/1990, nonché quelle
relative alle procedure di aggiudicazione rispetto alle quali adottino atti.
Passando ad esaminare al legame che riguarda il Sindaco -omissis- del comune
di -omissis- e l’aggiudicatario dei contratti oggetto del presente
procedimento, Il sig. -omissis-, nella relazione è stato asserito che non
sussiste alcun conflitto di interesse, in quanto sebbene quest’ultimo sia
stato consigliere, assessore e vicesindaco nel doppio mandato che lo stesso
-omissis- ha ricoperto a -omissis- nel periodo 2009-2019, non vi è stata, né
vi è alcuna frequentazione abituale che potrebbe o può influenzare
l’espletamento delle funzioni gestionali assegnate dalla Giunta comunale.
Fermo restando che il compito di verificare, caso per caso, la sussistenza
di situazioni di conflitto di interessi spetta alle stazioni appaltanti, al
riguardo si può evidenziare quanto segue.
È noto l’orientamento, che anche l’ANAC ha richiamato nella
Delibera
15.01.2020 n.
25 (Indicazioni per la gestione di situazioni di conflitto di
interessi a carico dei componenti delle commissioni giudicatrici di concorsi
pubblici e dei componenti delle commissioni di gara per l'affidamento di
contratti pubblici), espresso dalla giurisprudenza con riferimento ai
commissari di concorso, nella
sentenza
27.11.2020
n.
7462 del Consiglio di Stato, Sez. V, secondo cui allo scopo di valutare una situazione di
conflitto di interessi… “non è sufficiente evocare il mero rapporto di
“colleganza” ovvero di “conoscenza”, in quanto espressione di un approccio
congetturale".
Più in generale, si può osservare che l’aver prestato servizio nella
medesima amministrazione/ufficio, soprattutto se in ambito pubblico, non
pare possa costituire un indice rilevante una comunanza di interessi
(economici), come nel caso dei soci in affari.
Tuttavia, non può escludersi che il rapporto tra un Sindaco e la figura
vicaria dallo stesso scelta sulla base dell’appartenenza politica possa,
invece, avere un rilievo, potendo essere percepito come una minaccia alla
imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di
concessione, tanto più nel caso in esame in cui si è protratto per due
mandati consecutivi. Occorre sempre considerare, infatti, che l’obiettivo
della normativa in esame è anche quello di preservare l’immagine di
imparzialità della stazione appaltante.
Al riguardo, si osserva anche che in base all’art.
7 del d.P.R. 62/2013, a cui fa rinvio l’art.
42 del d.lgs. n. 50/2016, l’obbligo di astensione può sorgere non solo
nelle ipotesi puntualmente individuati, ivi inclusa quella della abituale
frequentazione, ma anche “….in ogni altro caso in cui esistano gravi
ragioni di convenienza.”.
Pertanto, si ritiene che il Sindaco del Comune di -omissis- avrebbe dovuto
dichiarare il proprio precedente rapporto con il professionista
aggiudicatario degli affidamenti oggetto del presente procedimento,
rimettendo ad un soggetto terzo la valutazione in ordine alla sussistenza di
un obbligo di astensione.
Per tutto quanto esposto,
DELIBERA
- di ritenere che:
1-
in generale, quando le funzioni gestionali relative all’Ufficio tecnico sono
assegnate -ai sensi dell’art. 53, co. 23, della l. n. 388/2000- al Sindaco o
ad un Assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli obblighi
dichiarativi derivanti dall’applicazione dell’art.
42 del d.lgs. n. 50/2016; per assicurare l’effettività della
prevenzione dei conflitti di interessi nei contratti pubblici, i comuni che
si avvalgono della predetta facoltà dovrebbero definire, al contempo, le
modalità ed il destinatario delle dichiarazioni, tenendo conto della propria
organizzazione;
2-
nel caso esaminato, il Sindaco del Comune di -omissis- avrebbe dovuto
rendere le prescritte dichiarazioni in materia di conflitto di interessi,
rimettendo al destinatario della stessa le valutazioni del caso in ordine
alla necessità di astenersi, piuttosto che effettuarla autonomamente;
- di raccomandare al Comune di -omissis- di rivedere il proprio
operato, dando piena attuazione all’art.
42 del d.lgs. n. 50/2016, mediante
l’individuazione e l’adozione di tutte le misure necessarie, ivi inclusa
l’acquisizione delle dichiarazioni sensi degli articoli 6, comma 1, del
decreto del Presidente della Repubblica n. 62/2013 e 6-bis della legge n.
241/1990, nonché quelle relative alle singole procedure di aggiudicazione;
- di dare mandato all’Ufficio Istruttore di comunicare la presente
delibera al Comune di -omissis- ed al RPTC dello stesso ente.
Il Comune interessato è invitato a comunicare all’ANAC le eventuali
determinazioni al riguardo assunte, entro il termine di 30 giorni dalla
comunicazione della presente delibera, che sarà pubblicata sul sito
istituzionale dell’Autorità, ai sensi dell’art. 22, comma 1, del Regolamento
di Vigilanza sui contratti pubblici del 04.07.2018
(ANAC,
delibera
07.12.2022 n.
585 - link a
www.anticorruzione.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: L’affidamento
di incarichi amministrativi agli organi politici può avvenire solo in casi
eccezionali, nei soli comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti,
secondo quanto previsto dall’art. 53
della legge 23.12.2000, 388, che a tal fine
richiede
- la concreta necessità di conseguire risparmi di spesa e
- il mancato affidamento del relativo incarico al segretario
comunale, presupposti di base cui si aggiunge, secondo un condivisibile
orientamento giurisprudenziale, la necessità che
- il meccanismo sostitutivo trovi fondamento in apposita
deliberazione della Giunta o del Consiglio comunale.
---------------
... per l'annullamento:
a) della determinazione 08.06.2017, n. 10 (notificata al ricorrente
in data 13.06.2017), con la quale il Comune di Castiadas ha dichiarato che
il ricorrente è decaduto dalla concessione demaniale marittima 29.08.2002,
n. 102, ai sensi dell'art. 47, lettere a), b), d) ed f), del Codice della
Navigazione;
b) ove occorrer possa, della determinazione 04.06.2014, n. 7, con
cui il Comune resistente ha rilasciato alla controinteressata la concessione
demaniale marittima in relazione ad uno spazio in parte sovrapposto a quello
già concesso al ricorrente con la predetta concessione n. 102/2002;
c) di ogni altro atto ad essi presupposto, preordinato,
consequenziale e/o comunque connesso, ivi inclusa, ove occorra, la
comunicazione del Comune di Castiadas prot. n. 2686/VI/8 dell'08.04.2016
(mai notificata al ricorrente e, ancora oggi, non conosciuta dal medesimo).
...
5. Ciò premesso si può ora passare all’esame nel merito della domanda di
annullamento della determinazione comunale n. 10/2017, con cui il Comune di
Castiadas ha dichiarato l’intervenuta decadenza della concessione demaniale
a suo tempo rilasciata in favore del ricorrente.
5.1. Assume carattere prioritario la quarta censura dedotta in ricorso, con
cui si deduce l’incompetenza inficiante l’impugnato provvedimento di
decadenza perché adottato e sottoscritto dall’allora Sindaco del Comune di
Castiadas, dott. Qu.So., invece che dal Responsabile dell’Area Tecnica, in
violazione del noto canone di separazione tra attività politica e
gestionale.
Tale censura è fondata.
5.2. Si deve ricordare, infatti, che il Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali (TUEL), approvato con decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, ha sancito il principio di separazione tra l’attività
d’indirizzo e controllo, spettante agli organi politici, e l’attività
gestionale spettante agli uffici ed ai servizi (ed ai relativi
responsabili), stabilendo che, all’art. 107, comma 2, che competono ai
dirigenti “tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso
l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le
funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di
governo dell’Ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore generale“.
5.3. La portata applicativa del principio è stata peraltro ridimensionata,
per ragioni di economia di spesa pubblica, con specifico riguardo agli enti
locali fino a 5.000 abitanti.
Infatti, l’art. 53, comma 23, della legge 388/2000 (legge finanziaria 2001)
ha stabilito che “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila
abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d),
del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato
con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un
contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari
organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo
3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo
esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della
spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede
di approvazione del bilancio".
Tale disposizione detta tuttavia una deroga ad un principio generale ed è
stata interpretata in modo rigoroso. Il Ministero dell’Interno (con
parere 18.12.2014) ha quindi ritenuto che il carattere speciale della norma
richieda necessariamente il rispetto delle condizioni poste dalla norma
medesima per la sua legittima applicazione, essendo necessaria sia la
sussistenza di un apposito atto di giunta o regolamentare che disciplini la
fattispecie, sia la documentazione annuale del risparmio di spesa in sede di
approvazione del bilancio.
5.4. Ciò posto, si osserva, in primo luogo, che la motivazione dell’atto
impugnato non reca alcuna concreta giustificazione di tale ingerenza
dell’organo sindacale nello svolgimento di attività tipicamente
amministrativa, a eccezione di un sintetico riferimento al pregresso “decreto
comunale 31.03.2016, n. 3” con cui sarebbe stata, in via generale,
prevista la possibilità per il Sindaco di sostituire il Responsabile
dell'Area tecnica “nei casi di assenza e/o impedimento della titolare”.
Neppure nel presente giudizio la difesa comunale ha eccepito alcunché di
specifico riguardo alla censura ora in esame, limitandosi a contestarne
genericamente la fondatezza e omettendo di depositare agli atti il sopra
citato “decreto comunale”.
5.5. In tale contesto, dunque, il Collegio ritiene che non possano
considerarsi sussistenti, o quanto meno adeguatamente dimostrati, i
presupposti di operatività del citato meccanismo sostitutivo, non avendo
peraltro il Comune neppure allegato, in sede amministrativa prima e
giurisdizionale poi, l’effettiva assenza/impedimento del Responsabile
dell’Area Tecnica, alla data di assunzione dell’impugnato provvedimento di
decadenza, ovvero qualunque altro elemento concretamente in grado di
giustificare la sopra descritta ingerenza dell’organo politico in una
attività tipicamente amministrativa.
5.6. Aspetti, questi, che appaiono tanto più dirimenti in considerazione del
fatto che, come si è detto, l’affidamento di incarichi amministrativi agli
organi politici può avvenire solo in casi eccezionali, nei soli comuni con
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, secondo quanto previsto dall’art. 53
della legge 23.12.2000, 388, che a tal fine richiede la concreta
necessità di conseguire risparmi di spesa e il mancato affidamento del
relativo incarico al segretario comunale, presupposti di base cui si
aggiunge, secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, la
necessità che il meccanismo sostitutivo trovi fondamento in apposita
deliberazione della Giunta o del Consiglio comunale (cfr., da ultimo, TAR
Liguria, Sez. II,
sentenza 03.02.2022 n. 83), tutti profili, questi, di cui non si
fa alcuna menzione nell’atto impugnato (vedi supra).
6. L’accertata fondatezza della censura in esame comporta, oltre
all’accoglimento della domanda proposta, l’assorbimento degli altri motivi
dedotti, non essendovi motivi per discostarsi dal consolidato orientamento
giurisprudenziale, inaugurato con la nota pronuncia dell’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato 27.04.2015, n. 5, secondo cui “in tutte le
situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, si
versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora
esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato,
il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le
regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha
ancora esercitato il suo munus” (conformi, ex multis, Consiglio
di Stato, Sez. V, 12.02.2020, n. 1104; TAR Sardegna, Sez. II, 23.03.2004, n.
393).
7. La domanda in esame merita, dunque, accoglimento sotto il profilo del
vizio di incompetenza dell’organo procedente, con il conseguente
annullamento dell’impugnata determinazione 08.06.2017, n. 10, recante la
decadenza del sig. Ma.Fe. dalla concessione demaniale sopra
richiamata (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 24.06.2022 n. 435 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: E.
De Carlo,
L’attribuzione dei poteri gestionali nei piccoli comuni al Sindaco.
Necessaria la preventiva deliberazione giuntale (24.03.2022
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it).
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Il principio di separazione tra attività d’indirizzo e
controllo ed attività gestionale
Il TUEL, in coerenza con il principio di separazione tra attività
d’indirizzo e di controllo spettante agli organi politici ed attività di
gestione spettante agli uffici ed ai servizi (ed ai relativi responsabili),
sancisce all’art. 107, comma 2, che competono ai dirigenti “tutti i compiti,
compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge
o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell’Ente o non rientranti
tra le funzioni del segretario o del direttore generale“.
La deroga per i piccoli comuni
Tuttavia, la portata applicativa del suddetto principio da tempo è stata
ridimensionata, sia pure per ragioni di economia di spesa pubblica, con
specifico riguardo agli enti locali fino a 5.000 abitanti.
Infatti, l’art. 53, comma 23, L. 388/2000 (legge finanziaria 2001) ha
stabilito che “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila
abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d),
del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato
con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un
contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari
organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo
3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo
esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della
spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede
di approvazione del bilancio“.
I presupposti per la deroga
Invero, la disciplina anzidetta, come modificata dall'art.
29, comma 4, della legge 488/2001, in presenza dei seguenti presupposti:
a. popolazione inferiore a 5.000 abitanti;
b. non aver affidato le relative funzioni al segretario comunale in
base all'art. 97, c. 4, lett. d), del D.Lgs. n. 267/2000;
c. poter conseguire risparmi di spesa,
consente agli enti locali la possibilità di adottare disposizioni
regolamentari organizzative, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo
la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale, senza la necessità di dimostrare la
mancanza non rimediabile di figure professionali idonee.
La giurisprudenza e la prassi ministeriale
La giurisprudenza contabile (cfr.
parere 01.12.2016 n. 167 della sez.
regionale di controllo per il Molise) e amministrativa, qualificano la norma
introdotta dalla legge finanziaria del 2001 quale norma speciale e
derogatoria, rispetto sia al principio di separazione
politica-amministrazione sancito dall’art. 107 del TUEL che del Codice dei
contratti pubblici.
Secondo la giurisprudenza, “Si tratta di una disposizione che fa eccezione
ad un principio generale, sicché, in conformità al canone interpretativo
restrittivo di cui all’art. 14 disp. prel. cod. civ., è necessario che le
relative disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma
“regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento
comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale (art. 42 TUEL) o
della giunta (articolo 48, comma 3, TUEL, relativamente al regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi)” (cfr. TAR Liguria sez. I,
sentenza 31.03.2021 n. 284).
Anche il Ministero dell’Interno (parere 18.12.2014) ha ritenuto che il
carattere speciale della norma richieda necessariamente il rispetto delle
condizioni poste dalla norma medesima per la sua legittima applicazione,
essendo necessaria sia la sussistenza di un apposito atto di giunta o
regolamentare che disciplini la fattispecie, sia la documentazione annuale
del risparmio di spesa in sede di approvazione del bilancio.
In merito all’applicazione dell’istituto derogatorio oggetto della presente
trattazione, invero, lo stesso Ministero dell’Interno (si veda, ad esempio
parere sopra citato) ha evidenziato che, in base all’art. 15 del CCNL
22.01.2004, negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i
responsabili delle strutture apicali secondo l’ordinamento organizzativo
dell’ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli
articoli 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999. Pertanto, alla luce delle citate
disposizioni, è apparso evidente al Ministero che negli enti privi di
qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di
posizione organizzativa. Pur dovendosi ritenere tuttora applicabile
l’articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 il ricorso a tale disposizione
resta, comunque, limitato e subordinato alla non concessione della posizione
organizzativa al personale in possesso della qualifica apicale dell’ente, al
fine del conseguimento di un effettivo risparmio di spesa.
La necessaria preliminare approvazione da parte della
Giunta
Come già anticipato nelle note che precedono, l’esercizio di eventuali
poteri gestionali da parte del Sindaco (o degli assessori) non può basarsi
né sulla prerogativa sindacale di potere sindacale di affidare con proprio
decreto le funzioni e la responsabilità dei servizi prevista dall’articolo
50, comma 10, TUEL, ma richiede necessariamente che sia preceduto da una
apposita deliberazione di Giunta avente valenza ed efficacia regolamentare.
Infatti, la previsione della precitata disposizione dell’articolo 50, comma
10, TUEL, per il suo stesso tenore e per il contesto in cui è contenuta, non
regola il potere di cui all’articolo 53 della legge n. 388/2000, ma riguarda
semplicemente il potere di nomina dei responsabili degli uffici e dei
servizi.
Stante la deroga ad un principio generale, allora, occorre che la modifica
organizzativa interna all’ente –assegnando agli organi politici anche
l’esercizio di poteri gestionali– sia espressa e inequivoca.
La sentenza del TAR Liguria, n. 83/2022
Di questi principi ha fatto applicazione, infatti, il TAR Liguria, sez. II,
nella recente
sentenza 03.02.2022 n. 83, che ha accolto il ricorso di un
cittadino avverso una ordinanza sindacale adottata ai sensi dell’articolo 27
del D.P.R. n. 380/2001, che attribuisce ai dirigenti la vigilanza in materia
edilizia e urbanistica, che aveva ingiunto ex articolo 31 D.P.R. n. 380/2001
“di provvedere entro il termine di 90 giorni dalla data di notifica della
presente ordinanza a ripristinare lo stato dei luoghi originario mediante
rimozione di tutti i materiali abbancati in assenza di alcun titolo edilizio
…”.
Il TAR Liguria, infatti, non avendo rilevato il rigoroso rispetto della
preventiva regolazione derogatoria dell’assetto organizzativo interno da
parte della giunta comunale ha ritenuto, in via derivata, l’illegittimità
dell’ordinanza emessa dal Sindaco.
In particolare, nella citata sentenza i giudici hanno ritenuto illegittima,
in quanto viziata da incompetenza, l’ordinanza sindacale impugnata che aveva
disposto l’immediata rimozione di alcuni materiali abbancati, idonei a
configurare la realizzazione di deposito di materiale, rientrante, ex art.
3, comma 1, lett. e.7), D.P.R. n. 380/2001 nella definizione di “interventi
di nuova costruzione”, che necessitano del preventivo rilascio del permesso
di costruire ex articolo 10, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001.
Ciò in quanto, come detto, il Sindaco si era autonomamente attribuito il
potere di natura gestionale ai sensi dell’articolo 107 del TUEL, senza una
preventiva, necessaria, disposizione regolamentare o, quantomeno, di una
apposita deliberazione di Giunta in tal senso.
Ulteriori orientamenti
Infine, meritano di essere segnalati alcuni orientamenti che limitano,
comunque, l’applicazione della disposizione derogatoria in determinati casi
come quelli dell’attività di responsabile finanziario e di RUP per gli
appalti pubblici.
Infatti, da un lato, la Corte dei conti sez. controllo Lombardia (si
veda la
deliberazione n. 219/2015) ha ritenuto che non appare conforme
all'ordinamento vigente che il Sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle
responsabilità connaturate alla carica elettiva, anche quelle di
responsabile del servizio finanziario dell'ente; dall’altro, l’ANAC
nelle proprie FAQ ha ritenuto che, in caso di carenza in organico di figure
idonee a ricoprire l’incarico di RUP, la stazione appaltante deve
verificare, in via prioritaria, la possibilità di attribuire l’incarico ad
un qualsiasi dirigente o dipendente amministrativo in possesso dei requisiti
o, in mancanza, ad una struttura di supporto interna formata da dipendenti
che, anche per sommatoria, raggiungano i requisiti minimi richiesti dalle
Linee guida n. 3/2016 o, ancora, di svolgere la funzione in forma associata
con altri Comuni, senza incorrere in maggiori oneri. |
COMPETENZE GESTIONALI: L’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, e s.m.i.,
secondo cui
- “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti
fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con dlgs 18.08.2000,n. 267, anche al fine di
operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento
della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione,
in sede di approvazione del bilancio”
non è
immediatamente precettivo, richiedendo che gli enti locali ne recepiscano il
contenuto nell’ambito di “disposizioni regolamentari organizzative”.
---------------
In caso di contrasto tra lo "Statuto comunale" ed il
"Regolamento degli Uffici e dei Servizi" va rammentato
che
(i) nella gerarchia delle norme emanate a livello comunale, sono
collocate al livello più elevato, e come tali sono vincolanti, quelle
contenute nello statuto del comune, e che
(ii) l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 non impedisce ai
comuni di recepirne il contenuto introducendo più stringenti limitazioni
alla possibilità di conferire funzioni tecnico-gestorie all’organo politico,
ragione per cui non si può dubitare della legittimità dell’art. 43 dello
Statuto del Comune laddove esso, discostandosi dall’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, stabilisce che solo nel caso di assoluta mancanza,
preventivamente accertata, all’interno della compagine organizzativa
comunale, di figure professionali idonee ad assolvere una specifica funzione
gestionale, è possibile il conferimento di funzioni dirigenziali e/o di
gestione all’organo esecutivo.
---------------
17. Con il secondo motivo d’appello il Comune di Senerchia ha
contestato il capo della sentenza che ha ritenuto gli atti impugnati
inficiati da vizio di incompetenza, stante l’avvenuta, e non adeguatamente
giustificata, avocazione, da parte dell’organo politico dell’Ente,
dell’esercizio di poteri gestionali, tipicamente assegnati alla competenza
amministrativa dirigenziale.
17.1. Ha osservato il TAR, riassuntivamente, che il principio di separazione
tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione
amministrativa ha carattere generale, trova il suo fondamento nell'art. 97
Cost., e, costituendo declinazione del più generale principio di
imparzialità, tollera solo deroghe legalmente tipizzate.
Una di queste è
contemplata nell’art. 43 dello statuto del Comune di Senerchia (secondo cui
“in caso di mancanza non rimediabile di figure professionali idonee
nell’ambito dei dipendenti Responsabili di Uffici e Servizi, nelle ipotesi e
con i limiti previsti dall’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000
(Finanziaria 2001), con provvedimento motivato del Sindaco possono essere
attribuiti ai componenti della Giunta la responsabilità degli uffici e dei
servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnico-gestionale”),
che però, secondo il primo giudice, consentirebbe di conferire i poteri
tecnico-gestionali all’organo politico “solo nel caso di assoluta mancanza,
preventivamente accertata, all’interno della compagine organizzativa
comunale, di figure professionali idonee ad assolvere una specifica funzione
gestionale giustifica, in via eccezionale, la deroga alla regola ordinaria
della separazione dei poteri.”.
Nel caso di specie il conferimento di
funzioni al Sindaco, disposto con la delibera di Giunta comunale datata
11.01.2017, è avvenuto sul presupposto che il Responsabile dell’Area Tecnica
aveva chiesto e ottenuto la trasformazione del suo rapporto di lavoro in
part-time, circostanza questa che non giustificava l’avocazione delle
funzioni in favore del Sindaco.
17.2. L’appellante ha contestato tali statuizioni allegando che
(i) l’avocazione, al Sindaco, delle funzioni gestorie era stata
decisa solo dopo la trasformazione del rapporto di lavoro del funzionario
responsabile, la quale aveva determinato una situazione di carenza
irrimediabile nell’ufficio; e che
(ii) l’operazione nel complesso aveva portato all’Ente un risparmio
di spesa di circa 15.000,00 euro annue, circostanza questa che di per sé
giustificava l’avocazione delle funzioni in capo all’organo politico, tenuto
conto del fatto che l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, come
modificato dalla L. 448/2001 (“Gli enti locali con popolazione inferiore a
5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4,
lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con decreto legislativo 18.08.2000,n. 267, anche al fine di
operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993,n.
29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento
della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione,
in sede di approvazione del bilancio”) dal 28.12.2001 non richiede più -ai
fini dell’intestazione in capo all’organo politico di funzioni gestorie- il
riscontro della mancanza non rimediabile di figure professionali idonee
nell'ambito dei dipendenti; sicché le esigenze di contenimento della spesa
sarebbero ormai diventate, secondo il Comune appellante, l’unico elemento
necessario a giustificare l’attribuzione in capo ai componenti dell’organo
esecutivo della responsabilità di uffici e servizi e del potere di adottare
atti anche di natura tecnica e gestionale.
17.3. Il Collegio non ritiene tali considerazioni sufficienti a superare gli
argomenti del primo giudice.
17.4. L’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, e s.m.i., non è
immediatamente precettivo, richiedendo che gli enti locali ne recepiscano il
contenuto nell’ambito di “disposizioni regolamentari organizzative” interne,
cosa che il Comune di Senerchia ha fatto con l’art. 43 dello Statuto (sopra
riportato) e con l’art. 19, comma 5-bis, del vigente Regolamento degli
Uffici e dei Servizi del Comune (introdotto con delibera di G.C. n. 83 del
28.12.2016), il quale prevede che “l’incarico di Responsabile di Area e/o
Settore può essere, altresì, conferito dall’art. 53, comma 23, della legge
388/2000 (finanziaria 2001), come successivamente modificata dalla legge n.
448/2000 (finanziaria 2002). L’attribuzione ai Sindaco della responsabilità
di Area e/o Settore avviene previa apposita deliberazione di Giunta
Comunale”.
17.5. E’ vero che l’art. 19 del Regolamento, da ultimo citato, contrasta con
l’art. 43 dello Statuto, nella misura in cui solo quest’ultimo condiziona
alla “mancanza non rimediabile” di figure professionali idonee,
nell’organico dell’ente, l’attribuzione all’organo politico della
responsabilità di uffici e di funzioni di gestione. Tuttavia va rammentato
che
(i) nella gerarchia delle norme emanate a livello comunale, sono
collocate al livello più elevato, e come tali sono vincolanti, quelle
contenute nello statuto del comune, e che
(ii) l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 non impedisce ai
comuni di recepirne il contenuto introducendo più stringenti limitazioni
alla possibilità di conferire funzioni tecnico-gestorie all’organo politico,
ragione per cui non si può dubitare della legittimità dell’art. 43 dello
Statuto del Comune laddove esso, discostandosi dall’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, stabilisce che solo nel caso di assoluta mancanza,
preventivamente accertata, all’interno della compagine organizzativa
comunale, di figure professionali idonee ad assolvere una specifica funzione
gestionale, è possibile il conferimento di funzioni dirigenziali e/o di
gestione all’organo esecutivo.
17.6. Nell’ambito del Comune di Senerchia, dunque, l’avocazione al Sindaco
di funzioni gestorie deve avvenire nel rispetto dell’art. 43 dello Statuto.
17.7. Tale condizione, però, non è stata rispettata.
Infatti, all’epoca in
cui, con delibera di Giunta Comunale dell’11.01.2017, sono state
conferite al Sindaco le funzioni di responsabile del settore tecnico-manutentivo, il precedente Responsabile era ancora dipendente del
Comune, e il fatto che vi lavorasse a tempo parziale nulla cambiava, ai fini
di che trattasi, poiché ne era comunque garantita la presenza in ufficio per
un tempo e con una continuità sufficiente ad attendere alle pratiche: il
tempo parziale, al limite, poteva ingenerare un rallentamento nella
trattazione delle pratiche –e naturalmente di tale aspetto il Comune
avrebbe potuto e dovuto tenere conto prima di decidere se accordare al
dipendente il part-time- ma non si può certo affermare che il Comune fosse
totalmente impossibilitato a garantire l’esercizio delle funzioni attinenti
all’Ufficio Tecnico con personale dell’Ente.
18. Le considerazioni che precedono sono da sole sufficienti a confermare
l’illegittimità degli atti impugnati in quanto adottati dal Sindaco, che non
avrebbe potuto assumere la responsabilità del settore tecnico-manutentivo, e
di quelli viziati per illegittimità derivata dall’illegittimità degli atti
adottati dal Sindaco.
19. L’impugnata sentenza va, pertanto confermata, con assorbimento delle
ulteriori censure (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.03.2022 n. 1860 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Illegittimi
gli atti gestionali adottati dal sindaco senza disposizioni regolamentari
organizzative.
Negli enti con popolazione inferiore a 5mila abitanti, l'attribuzione di
poteri gestionali ai componenti dell'organo esecutivo richiede la preventiva
adozione di «disposizioni regolamentari organizzative". Occorrono dunque
deroghe esplicite al principio organizzativo della separazione tra la
funzione di indirizzo politico e quella di gestione, senza le quali gli atti
di natura gestionale adottati sono illegittimi.
La
sentenza 03.02.2022 n. 83 del
TAR Liguria, Sez. II, può essere di aiuto al fine della corretta
impostazione degli atti nei piccoli enti che spesso suppliscono l'assenza di
un responsabile del servizio affidando il ruolo mancante al sindaco o agli
assessori.
Nel caso specifico la controparte, di fronte ad un atto in materia edilizia,
ha eccepito l'incompetenza del provvedimento adottato dal sindaco.
L'articolo 107, comma 2, del Dlgs 267/2000 attribuisce alla competenza dei
dirigenti «tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso
l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le
funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di
governo dell'Ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore generale». In materia edilizia, poi, l'articolo 27 del Dpr
380/2001 assegna ai dirigenti la vigilanza in materia edilizia e
urbanistica.
Non risolve il richiamo della norma contenuta nell'articolo 53, comma 23,
della legge 388/2000 secondo cui «Gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo
97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al
fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento
della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione,
in sede di approvazione del bilancio».
Con la
sentenza 31.03.2021 n. 284, il Tar Liguria aveva già osservato che quest'ultima
disposizione fa eccezione a un principio generale e, pertanto, in conformità
al canone interpretativo restrittivo di cui all'articolo 14 delle
disposizioni preliminari del codice civile, è necessario che le relative
norme organizzative rivestano la forma "regolamentare", ovvero siano
contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di
competenza del consiglio comunale (articolo 42 del Tuel) o della giunta
(articolo 48, comma 3, del Tuel, relativamente al regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi).
Nel caso giudicato, il decreto con cui il Sindaco si è attribuito il potere
non è stato preceduto da un'apposita deliberazione di giunta, né trova il
suo presupposto legittimante in una disposizione regolamentare. Nella
fattispecie, di cui all'articolo 53 della legge 388/2000, tale riferimento
avrebbe dovuto essere espresso e inequivoco, operando una deroga al
fondamentale principio organizzativo della separazione tra la funzione di
indirizzo politico e quella di gestione. La mancanza del suddetto richiamo
comporta, dunque, l'illegittimità del decreto adottato dal sindaco.
Infine, ricordiamo l'obbligo di deliberare ogni anno il risparmio di spesa,
in sede di approvazione del bilancio di previsione, come di recente dalla
Corte dei conti per l'Emilia Romagna (NT+ Enti locali & edilizia del 1°
febbraio)
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 14.02.2022). |
COMPETENZE GESTIONALI: I
presupposti per il corretto conferimento ai componenti dell'organo politico
di funzioni gestionali nei piccoli comuni.
Negli enti con popolazione inferiore a 5.000 abitanti l’attribuzione di
poteri gestionali ai componenti dell’organo esecutivo richiede la preventiva
adozione di “disposizioni regolamentari organizzative” che
autorizzano la deroga al principio di distinzione delle funzioni tra organi
tecnici e organi politici.
In assenza di previsioni regolamentari che, in
modo espresso e inequivoco, operano una deroga al fondamentale principio
organizzativo della separazione tra la funzione di indirizzo politico e
quella di gestione, sono illegittimi gli atti di natura gestionale adottati
dal sindaco.
---------------
Il sig. Ro.Al. ha impugnato gli atti in epigrafe ed in particolare
l’ordinanza 16.07.2020 n. 15 con cui il Sindaco ha ingiunto ex art. 31
D.P.R. 380/2001 "di provvedere entro il termine di 90 giorni dalla data
di notifica della presente ordinanza a ripristinare lo stato dei luoghi
originario mediante rimozione di tutti i materiali abbancati in assenza di
alcun titolo edilizio" perché "i suddetti abbancamenti si configurano
come una realizzazione di deposito di materiale e rientrano, ai sensi
dell'art. 3, comma 1, lett. e.7), D.P.R. 380/2001 nella definizione di
"interventi di nuova costruzione", che necessitano del preventivo rilascio
dell'idoneo titolo edilizio, permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10,
comma 1, lett. a), D.P.R. 380/2001".
Il ricorrente ha esposto nella narrativa in fatto di essere titolare di una
discarica in località Calcinara di Uscio e di avere collocato del materiale
inerte nel piazzale della stessa al fine di provvedere alla successiva
chiusura della stessa discarica.
L’amministrazione comunale ha, invece, ravvisato nel comportamento del
ricorrente una ipotesi di abuso edilizio con conseguente adozione
dell’ordinanza impugnata.
L’amministrazione ha, altresì, respinto l’istanza di autotutela medio
tempore presentata dal ricorrente.
Anche tale ultimo provvedimento è stato impugnato.
Il ricorso è stato affidato ai seguenti motivi:
1) Violazione dell'art. 27 D.P.R. 380/2001. Violazione degli artt.
48 e 107 D.Lgs. 267/2000. Violazione dell'art. 53, comma 23, L. 388/2000.
Violazione dell'art. 42 dello Statuto del Comune di Uscio. Incompetenza;
2) Violazione degli artt. 3, 6 e 31 D.P.R. 380/2001. Eccesso di
potere per difetto di presupposto, travisamento, difetto di istruttoria e di
motivazione.
Si è costituita in giudizio l’amministrazione intimata.
Con successivo atto il ricorrente ha dedotto i seguenti motivi aggiunti:
1) Violazione dell'art. 27 D.P.R. 380/2001. Violazione degli artt.
48 e 107 D.Lgs. 267/2000. Violazione dell'art. 53, comma 23, L. 388/2000.
Violazione dell'art. 42 dello Statuto del Comune di Uscio. Incompetenza.
2) Violazione dell’art. 6-bis L. 241/1990. Violazione dell’art. 7
D.P.R. 62/2013. Violazione dell'art. 27 D.P.R. 380/2001. Violazione degli
artt. 48 e 107 D.Lgs. 267/2000. Violazione dell'art. 53, comma 23, L.
388/2000. Violazione dell'art. 42 dello Statuto del Comune di Uscio.
Incompetenza;
3) Violazione dell’art. 6-bis L. 241/1990. Violazione dell’art. 7
D.P.R. 62/2013. Violazione dell'art. 27 D.P.R. 380/2001. Violazione degli
artt. 48 e 107 D.Lgs. 267/2000. Violazione dell'art. 53, comma 23, L.
388/2000. Violazione dell'art. 42 dello Statuto del Comune di Uscio.
Incompetenza.
...
Il ricorso è fondato avuto riguardo al vizio di incompetenza dedotto con il
primo motivo è successivamente sviluppato nei motivi aggiunti.
Risulta, infatti, che il provvedimento impugnato sia stato adottato dal
Sindaco.
Orbene sono concordi sia l’art. 107, comma 2, D.Lgs. 267/2000 che
attribuisce alla competenza dei dirigenti "tutti i compiti, compresa
l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge
o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'Ente o non rientranti
tra le funzioni del segretario o del direttore generale", sia l’art. 27
D.P.R. 380/2001 che attribuisce ai dirigenti la vigilanza in materia
edilizia e urbanistica.
Né può soccorrere, per sostenere la competenza sindacale, la previsione di
cui all’art. 53, comma 23, L. 388/2000 secondo cui "Gli enti locali
con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui
all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario
anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del
decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e
all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio".
A tal riguardo è stato precisato che “Si tratta di una disposizione che
fa eccezione ad un principio generale, sicché, in conformità al canone
interpretativo restrittivo di cui all’art. 14 disp. prel. cod. civ., è
necessario che le relative disposizioni organizzative rivestano la
prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in
un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale
(art. 42 T.U.E.L.) o della giunta (articolo 48, comma 3, T.U.E.L.,
relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi)”
(TAR Liguria I,
sentenza 31.03.2021 n. 284).
Nella specie il decreto con cui il Sindaco si è attribuito il potere non è
stato preceduto da una apposita deliberazione di Giunta né trova il suo
presupposto legittimante in una disposizione regolamentare.
A tal riguardo non deve trarre in inganno la previsione di cui all’art. 14
del regolamento degli uffici del Comune di Uscio, approvato con
deliberazione della Giunta 12.01.2005 n. 1 secondo cui “spetta comunque
al sindaco affidare con proprio decreto le funzioni e la responsabilità dei
servizi”.
Tale norma, infatti, per il suo stesso tenore e per il contesto in cui è
contenuta non regola il potere di cui all’art. 53 l. 388/2000, ma riguarda
semplicemente il potere di nomina dei responsabili degli Uffici e dei
servizi ai sensi dell’art. 50, comma 10, tuel.
Deve, infatti, rilevarsi come, ove la disposizione avesse inteso riferirsi
anche alla fattispecie di cui all’art. 53 l. 388/2000, tale riferimento
avrebbe dovuto essere espresso e inequivoco, operando una deroga al
fondamentale principio organizzativo della separazione tra la funzione di
indirizzo politico e quella di gestione. Nella specie, invece, tale
inequivoco riferimento è del tutto assente.
Consegue a quanto evidenziato l’illegittimità del decreto 21.03.2019 n. 4 e
della ordinanza impugnata in principalità (TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 03.02.2022 n. 83 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Sindaco
responsabile finanziario, la Corte dei conti «ricorda» l'obbligo di
deliberare nel preventivo il risparmio di spesa.
L'ente, in cui il sindaco assume la funzione di responsabile del servizio
finanziario, deve disporre di un regolamento che preveda l'attribuzione e,
ogni anno in sede di deliberazione del bilancio, documentare con apposito
atto l'effettivo contenimento della spesa.
A richiamare sulle regole in cui la mancanza di figure professionali nei
Comuni porta il sindaco ad assumere il doppio ruolo è la Corte dei conti per
l'Emilia Romagna (deliberazione
24.12.2021 n. 272).
I giudici contabili osservano che, alla luce del principio di separazione
dell'azione amministrativa dalla gestione dell'indirizzo politico dell'ente
locale, la coesistenza di tale duplice ruolo in capo alla medesima persona
(il sindaco) non è conforme all'ordinamento vigente. Ciò in quanto il
principio di organizzazione della pubblica amministrazione, introdotto dal
Dlgs 29/1993, poi trasfuso nel Dlgs 165/2001 e richiamato dalla legge
15/2009, individua come responsabile dell'azione amministrativa l'organo al
vertice della struttura burocratica. Anche dagli articoli 50 e 107 del Dlgs
267/2000 si evince in modo inequivoco che, anche a livello locale, vige la
netta distinzione fra atti di indirizzo politico-amministrativo (spettanti
agli organi politici) ed atti di gestione (spettanti agli organi
burocratici).
Nel nostro ordinamento, una deroga a tale principio è consentita, in ragione
delle ridotte dimensioni demografiche del Comune, dall'articolo 53, comma
23, della legge 388/2000.
Secondo tale disposizione, gli enti locali con
popolazione inferiore a 5mila abitanti, ove le relative funzioni non
siano state affidate al segretario comunale in base all'articolo 97, comma
4, lett. d), del Tuel, anche al fine di operare un contenimento della
spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative attribuendo
ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici, dei
servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
Ogni anno, con apposta deliberazione in sede di approvazione del bilancio di
previsione, deve poi essere documentato il contenimento della spesa.
A ciò si aggiunge tuttavia, concludono i giudici contabili, che la carenza
di una figura professionale con le necessarie competenze tecniche può creare
grave pregiudizio alla corretta ed efficiente gestione contabile dell'ente
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.02.2022). |
COMPETENZE GESTIONALI: Funzioni
gestionali assunte dagli organi politici nei piccoli Comuni.
La
deliberazione
24.12.2021 n. 272 della Corte dei conti, sezione regionale Emilia
Romagna, contiene
una precisa analisi delle criticità dell'attribuzione al sindaco delle
funzioni gestionali, nei piccoli Comuni, ai sensi dell'articolo 53, comma
23, della legge 388/2000.
Oltre all'eccezionalità derogatoria di questa
scelta gestionale, rispetto al principio fondamentale di separazione del
ruolo di indirizzo e controllo da quello amministrativo e gestionale, è
evidenziata la non conformità all'ordinamento di questa scelta quando essa
non sia espressamente prevista da disposizioni regolamentari organizzative e
non sia stato documentato, ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di
approvazione del bilancio, il conseguente effettivo contenimento della
spesa.
I magistrati contabili rammentano che le amministrazioni sono tenute
a ricercare altre soluzioni organizzative, interne, esterne, associative o collaborative
con altri enti, a non reiterare nel tempo la suddetta opzione (legittimabile
solo se temporanea e contingente) oltre a rimarcare che la carenza di una
figura professionale con le necessarie competenze tecniche (nella
fattispecie esaminata, il sindaco era incaricato delle funzioni di
responsabile del servizio finanziario) può creare grave pregiudizio alla
corretta ed efficiente gestione (contabile, nel caso) dell'ente
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.01.2022).
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DELIBERAZIONE
3.1. Commistione tra i ruoli istituzionali di sindaco e di
responsabile del servizio finanziario (cfr. Corte conti, Sez. reg.
contr. Emilia Romagna,
deliberazione 18.09.2020 n. 80).
3.1.1. Dall’istruttoria è emerso che la funzione di responsabile del
servizio finanziario, dall’ottobre 2019, è in capo al Sindaco.
Tale situazione si è protratta nel tempo, stante la carenza nell’organico di
un responsabile del servizio di ragioneria e l’asserita difficoltà nel
reperire personale qualificato per tale ruolo.
Peraltro, la scelta del Comune di far assumere dal Sindaco le funzioni del
responsabile del servizio finanziario non è conforme al regolamento
sull’ordinamento generale degli uffici e dei servizi adottato con delibera
della Giunta comunale n. 20 del 21.05.2018, fornito dal Comune in sede
istruttoria in quanto non disponibile sul sito istituzionale dell’Ente, che,
all’art. 35, prescrive che il responsabile di Area, in qualsiasi caso di
assenza e/o impedimento, può essere sostituito da altro responsabile di Area
purché in possesso dei requisiti professionali necessari, nominato ad
interim dal Sindaco il quale, in caso di necessità, potrà avvalersi anche
del segretario ovvero di un responsabile di altro ente (in quest’ultimo caso
attivando appositi istituti quali “comando”, “servizio/utilizzo in
convenzione”, ecc.).
3.1.2. Al riguardo, pur prendendo atto della peculiarità del caso in esame,
così come rappresentata dal Comune, in ragione della ridotta struttura
amministrativa dell’Ente, il Collegio deve rilevare che, alla luce del
principio di separazione dell’azione amministrativa dalla gestione
dell’indirizzo politico dell’ente locale, la coesistenza di tale duplice
ruolo in capo alla medesima persona (il Sindaco, nel caso di specie) non è
conforme all’ordinamento vigente in quanto il principio di organizzazione
della pubblica amministrazione, introdotto dal d.lgs. n. 29/1993, poi
trasfuso nel d.lgs. n. 165/2001 e richiamato dalla legge n. 15/2009,
individua quale responsabile dell’azione amministrativa l’organo al vertice
della struttura burocratica.
Anche dagli artt. 50 e 107 del d.lgs. n. 267/2000 si evince in modo
inequivoco che, anche a livello locale, vige la netta distinzione fra atti
di indirizzo politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed
atti di gestione (spettanti agli organi burocratici).
3.1.3. Una deroga a tale principio, consentita in ragione delle ridotte
dimensioni demografiche del Comune, dall’art. 53, comma 23, della legge
23.12.2000, n. 388, è applicabile solo ai casi e nei modi espressamente
regolati (cfr. Sezione regionale di controllo Lombardia,
parere 10.12.2012 n. 513; Sezione regionale di controllo Molise,
parere 01.12.2016 n. 167 e Sezione regionale di controllo Lazio,
parere 16.03.2018 n. 5), trattandosi di fattispecie derogatoria
e, come tale, da interpretare restrittivamente.
Ne consegue che non appare conforme all’ordinamento vigente che il sindaco
assuma su di sé, in aggiunta alle responsabilità connaturate alla carica
elettiva ricoperta, anche quelle di responsabile del servizio finanziario
dell’ente, senza che tale attribuzione sia stata espressamente prevista da
disposizioni regolamentari organizzative e che ne sia stato documentato ogni
anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio, il
conseguente, effettivo contenimento della spesa, così come prevede la citata
disposizione di cui all’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000.
3.1.4. A tale rilievo si aggiunge l’ulteriore considerazione, non meno
pertinente, che la carenza di una figura professionale con
le necessarie competenze tecniche può creare grave pregiudizio alla corretta
ed efficiente gestione contabile dell’ente. |
COMPETENZE GESTIONALI:
Alla luce del principio di separazione
dell’azione amministrativa dalla gestione dell’indirizzo
politico dell’ente locale, la coesistenza del duplice ruolo
di sindaco e di responsabile del servizio finanziario in
capo alla medesima persona (il Sindaco, nel caso di specie)
non è conforme all’ordinamento vigente in quanto il
principio di organizzazione della pubblica amministrazione,
introdotto dal d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nel d.lgs. n.
165/2001 e richiamato dalla legge n. 15/2009, individua
quale responsabile dell’azione amministrativa l’organo al
vertice della struttura burocratica.
Anche dagli artt. 50 e 107 del d.lgs. n. 267/2000 si evince
in modo inequivoco che, anche a livello locale, vige la
netta distinzione fra atti di indirizzo
politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed
atti di gestione (spettanti agli organi burocratici).
Una deroga a tale principio, consentita in ragione delle
ridotte dimensioni demografiche del Comune, dall’art.
53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388, è
applicabile solo ai casi e nei modi espressamente regolati (cfr.
Sezione regionale di controllo Lombardia,
parere 10.12.2012 n. 513; Sezione regionale di controllo Molise,
parere 01.12.2016 n. 167 e Sezione regionale di controllo Lazio,
parere 16.03.2018 n. 5), trattandosi di
fattispecie derogatoria e, come tale, da interpretare
restrittivamente.
Ne consegue che non appare conforme all’ordinamento vigente
che il sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle
responsabilità connaturate alla carica elettiva ricoperta,
anche quelle di responsabile del servizio finanziario
dell’ente, senza che tale attribuzione sia stata
espressamente prevista da disposizioni regolamentari
organizzative e che ne sia stato documentato ogni anno, con
apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio, il conseguente, effettivo contenimento della
spesa, così come prevede la citata disposizione di cui all’art.
53, comma 23, della legge n. 388/2000.
---------------
3.1. Commistione tra i ruoli istituzionali di sindaco
e di responsabile del servizio finanziario (cfr. Corte
conti, Sez. reg. contr. Emilia Romagna,
deliberazione 18.09.2020 n. 80).
3.1.1. Dall’istruttoria è emerso che la funzione di
responsabile del servizio finanziario, dall’ottobre 2019, è
in capo al Sindaco. Tale situazione si è protratta nel
tempo, stante la carenza nell’organico di un responsabile
del servizio di ragioneria e l’asserita difficoltà nel
reperire personale qualificato per tale ruolo.
Peraltro, la scelta del Comune di far assumere dal Sindaco
le funzioni del responsabile del servizio finanziario non è
conforme al regolamento sull’ordinamento generale degli
uffici e dei servizi adottato con delibera della Giunta
comunale n. 20 del 21.05.2018, fornito dal Comune in sede
istruttoria in quanto non disponibile sul sito istituzionale
dell’Ente, che, all’art. 35, prescrive che il responsabile
di Area, in qualsiasi caso di assenza e/o impedimento, può
essere sostituito da altro responsabile di Area purché in
possesso dei requisiti professionali necessari, nominato ad
interim dal Sindaco il quale, in caso di necessità, potrà
avvalersi anche del segretario ovvero di un responsabile di
altro ente (in quest’ultimo caso attivando appositi istituti
quali “comando”, “servizio/utilizzo in convenzione”,
ecc.).
3.1.2. Al riguardo, pur prendendo atto della peculiarità del
caso in esame, così come rappresentata dal Comune, in
ragione della ridotta struttura amministrativa dell’Ente, il
Collegio deve rilevare che, alla luce del principio di
separazione dell’azione amministrativa dalla gestione
dell’indirizzo politico dell’ente locale, la coesistenza di
tale duplice ruolo in capo alla medesima persona (il
Sindaco, nel caso di specie) non è conforme all’ordinamento
vigente in quanto il principio di organizzazione della
pubblica amministrazione, introdotto dal d.lgs. n. 29/1993,
poi trasfuso nel d.lgs. n. 165/2001 e richiamato dalla legge
n. 15/2009, individua quale responsabile dell’azione
amministrativa l’organo al vertice della struttura
burocratica.
Anche dagli artt. 50 e 107 del d.lgs. n. 267/2000 si evince
in modo inequivoco che, anche a livello locale, vige la
netta distinzione fra atti di indirizzo
politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed
atti di gestione (spettanti agli organi burocratici).
3.1.3. Una deroga a tale principio, consentita in ragione
delle ridotte dimensioni demografiche del Comune, dall’art.
53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388, è
applicabile solo ai casi e nei modi espressamente regolati (cfr.
Sezione regionale di controllo Lombardia,
parere 10.12.2012 n. 513;
Sezione regionale di controllo Molise,
parere 01.12.2016 n. 167
e Sezione regionale di controllo Lazio,
parere 16.03.2018 n. 5),
trattandosi di fattispecie derogatoria e, come tale, da
interpretare restrittivamente.
Ne consegue che non appare conforme all’ordinamento vigente
che il sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle
responsabilità connaturate alla carica elettiva ricoperta,
anche quelle di responsabile del servizio finanziario
dell’ente, senza che tale attribuzione sia stata
espressamente prevista da disposizioni regolamentari
organizzative e che ne sia stato documentato ogni anno, con
apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio, il conseguente, effettivo contenimento della
spesa, così come prevede la citata disposizione di cui all’art.
53, comma 23, della legge n. 388/2000.
3.1.4. A tale rilievo si aggiunge l’ulteriore
considerazione, non meno pertinente, che la carenza di una
figura professionale con le necessarie competenze tecniche
può creare grave pregiudizio alla corretta ed efficiente
gestione contabile dell’ente (Corte
dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
deliberazione 24.12.2021 n. 272). |
COMPETENZE GESTIONALI:
E’ centrale, per la risoluzione della
controversia, la questione del rapporto tra, da un lato,
l’art.
53, comma 23, della legge n. 388 del 2000; e,
dall’altro lato, l’art.
107, comma 3, lett. a), del TUEL (che espressamente
attribuisce ai dirigenti dell’ente locale «la presidenza
delle commissioni di gara e di concorso») e l’art.
35, comma 3, lett. e), del d.lgs. n. 165 del 2001
(secondo cui i componenti delle commissione esaminatrici non
devono far parte dell’organo di direzione politica
dell’amministrazione e non devono ricoprire cariche
politiche; norma originariamente introdotta dall’art. 8,
comma 1, lett. d), del d.lgs. 03.02.1993, n. 29).
Sul punto, questo Consiglio di Stato ha da tempo affermato
l’applicabilità della norma al fine di consentire ai comuni
«nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro
attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai
principi generali della separazione tra politica e
amministrazione, di cui al T.U.E.L. (D.Lgs. n. 267/2000)» (Cons.
Stato, sez. III,
26.06.2013 n. 3490, riferito alla nomina
del Sindaco a presidente di commissione edilizia comunale
integrata; in precedenza anche Cons. St., IV,
23.02.2009 n.
1070, per il possibile conferimento al Sindaco dell’incarico
di responsabile dell’ufficio tecnico; più di recente, per
l’attribuzione al Sindaco della competenza ad emanare le
concessioni edilizie, cfr. Cons. St, IV,
20.04.2018 n.
2397).
E’ pur vero che la natura derogatoria o eccezionale della
norma in questione impone un’interpretazione restrittiva, ma
il fatto che l’enunciato normativo non contempli
espressamente la possibilità di derogare anche ai principi
in tema di composizione della commissione esaminatrice nei
concorsi non impedisce di ricomprendere, nella deroga, anche
quest’ultimo caso.
L’art.
53, comma 23, cit., infatti, introduce una deroga
espressa alla norma che riserva ai dirigenti comunali la
responsabilità degli uffici e dei servizi (l’art. 107 del
TUEL). All’interno di questa disposizione è contenuta anche
la norma che attribuisce ai dirigenti «la presidenza delle
commissioni di gara e di concorso» [comma 3, lett. a)];
funzione il cui svolgimento, nel disegno dell’art. 107 cit.,
discende direttamente dal conferimento dell’incarico di
dirigente dell’ufficio o del servizio.
Pertanto la possibilità di conferire l’incarico dirigenziale
(o di responsabile del servizio) anche ai componenti
dell'organo esecutivo implica necessariamente l’attribuzione
delle funzioni e dei compiti che a quell’incarico sono, per
legge, ricollegati.
---------------
1. – Con bando pubblicato il 22.02.2019 il Comune di Siligo
indiceva un concorso per l’assunzione a tempo indeterminato
e parziale di n. 1 «collaboratore tecnico da assegnare al
settore tecnico – servizi manutentivi e gestione piscina».
All’esito delle prove d’esame, veniva approvata la
graduatoria finale di merito nella quale il sig. Ca.Sa., con
un totale di 27,25 punti, era collocato al primo posto e
dichiarato vincitore del concorso.
2. - Alla procedura concorsuale partecipava anche il sig.
Ma.Gi., che si collocava al sesto posto della graduatoria, e
il sig. Sa.Sa., escluso dalla graduatoria finale, non avendo
superato la prova scritta.
3. - I due concorrenti impugnavano il bando di concorso, la
graduatoria finale e gli altri atti della procedura
concorsuale, con ricorso innanzi al Tribunale amministrativo
regionale per la Sardegna, che –con sentenza 09.03.2020, n.
140– lo ha accolto, annullando gli atti della procedura
concorsuale «fin dalla nomina della Commissione di
concorso».
In particolare, il primo giudice ha accolto la censura di
illegittima composizione della commissione esaminatrice (il
cui presidente, durante lo svolgimento del concorso,
ricopriva anche la carica di Sindaco del Comune di Siligo),
per la violazione dell’art. 35, comma 3, del d.lgs.
30.03.2001, n. 165, ritenendo che anche nei comuni con
popolazione inferiore a 5mila abitanti (per i quali
l’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388, ha
introdotto la possibilità di attribuire «ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei
servizi ed il potere di adottare atti anche di natura
tecnica gestionale») la presidenza della commissione di
concorso non possa essere ricoperta da soggetti titolari di
organi di direzione politica, dovendo sempre prevalere il
principio di distinzione tra organi di indirizzo politico e
organi di gestione amministrativa (che, per quanto concerne
le procedure di concorso pubblico per l’assunzione nelle
pubbliche amministrazioni, è contemplato nell’art. 35 del
d.lgs. n. 165 del 2001 cit.).
4. - Il Comune di Siligo ha proposto appello, ritenendo
ingiusta la sentenza per la violazione dell’art. 53, comma
23, della legge n. 388 del 2000 cit., sul presupposto che la
norma introduca una deroga generale al principio di
separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni di
gestione, superando anche l’art. 35 del d.lgs. 30.03.2001,
n. 165.
Ripropone, inoltre, l’eccezione di inammissibilità del
ricorso in primo grado, per difetto di procura speciale alle
liti e conseguente violazione dell’art. 40 del Codice del
processo amministrativo, in quanto la procura sarebbe stata
conferita su foglio separato privo di qualsivoglia elemento
di collegamento al ricorso.
...
7. - L’appello è fondato nel merito. Pertanto, si può
prescindere dall’esame dell’eccezione di inammissibilità del
ricorso in primo grado, reiterata in appello dal Comune di
Siligo.
8. - E’ centrale, per la risoluzione della controversia, la
questione del rapporto tra, da un lato, l’art.
53, comma 23, della legge n. 388 del 2000; e,
dall’altro lato, l’art.
107, comma 3, lett. a), del TUEL (che espressamente
attribuisce ai dirigenti dell’ente locale «la presidenza
delle commissioni di gara e di concorso») e l’art.
35, comma 3, lett. e), del d.lgs. n. 165 del 2001
(secondo cui i componenti delle commissione esaminatrici non
devono far parte dell’organo di direzione politica
dell’amministrazione e non devono ricoprire cariche
politiche; norma originariamente introdotta dall’art. 8,
comma 1, lett. d), del d.lgs. 03.02.1993, n. 29).
8.1. - Sul punto, questo Consiglio di Stato ha da tempo
affermato l’applicabilità della norma al fine di consentire
ai comuni «nell'ambito dell'autonomia statutaria e
regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni
che deroghino ai principi generali della separazione tra
politica e amministrazione, di cui al T.U.E.L. (D.Lgs. n.
267/2000)» (Cons. Stato, sez. III, 26.06.2013, n. 3490,
riferito alla nomina del Sindaco a presidente di commissione
edilizia comunale integrata; in precedenza anche Cons. St.,
IV, 23.02.2009, n. 1070, per il possibile conferimento al
Sindaco dell’incarico di responsabile dell’ufficio tecnico;
più di recente, per l’attribuzione al Sindaco della
competenza ad emanare le concessioni edilizie, cfr. Cons. St,
IV, 20.04.2018, n. 2397).
8.2. - E’ pur vero che la natura derogatoria o eccezionale
della norma in questione impone un’interpretazione
restrittiva, ma il fatto che l’enunciato normativo non
contempli espressamente la possibilità di derogare anche ai
principi in tema di composizione della commissione
esaminatrice nei concorsi non impedisce di ricomprendere,
nella deroga, anche quest’ultimo caso.
L’art.
53, comma 23, cit., infatti, introduce una deroga
espressa alla norma che riserva ai dirigenti comunali la
responsabilità degli uffici e dei servizi (l’art. 107 del
TUEL). All’interno di questa disposizione è contenuta anche
la norma che attribuisce ai dirigenti «la presidenza
delle commissioni di gara e di concorso» [comma 3, lett.
a)]; funzione il cui svolgimento, nel disegno dell’art. 107
cit., discende direttamente dal conferimento dell’incarico
di dirigente dell’ufficio o del servizio.
Pertanto la possibilità di conferire l’incarico dirigenziale
(o di responsabile del servizio) anche ai componenti
dell'organo esecutivo implica necessariamente l’attribuzione
delle funzioni e dei compiti che a quell’incarico sono, per
legge, ricollegati (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.04.2021 n. 3436 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
E' illegittimo il diniego di permesso di costruire sottoscritto dal Sindaco.
Premesso che il diniego di permesso di costruire è atto gestionale che
ricade pacificamente nella competenza dirigenziale ex art. 107, comma 3,
lett. f), del T.U.E.L., e che le attribuzioni dei dirigenti possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative (art. 107, comma 4, T.U.E.L.), assume rilievo l’art. 53, comma
23, L. 23.12.2000, n. 388, a mente del quale “gli enti locali con
popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui
all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali, approvato con dlgs 18.08.2000, n. 267, anche al fine di
operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale”.
Si tratta di una disposizione che fa eccezione ad un principio generale,
sicché, in conformità al canone interpretativo restrittivo di cui all’art.
14 disp. prel. cod. civ., è necessario che le relative disposizioni
organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano
contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di
competenza del consiglio comunale (art. 42 T.U.E.L.) o della giunta (art. 48, comma 3, T.U.E.L., relativamente al regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi).
Nel caso si specie, il sindaco si è invece auto-attribuito la responsabilità
del servizio tecnico con un proprio atto, senza la necessaria copertura
regolamentare prescritta dalla legge: donde la violazione dell’art. 107 del T.U.E.L.
Violazione cha appare viepiù palese alla luce della circostanza che, proprio
in virtù dell’accertata mancanza di personale di qualifica dirigenziale
nella dotazione organica del Comune di Riomaggiore, lo statuto comunale
prevede la facoltà per il sindaco di attribuire al segretario comunale
l’esercizio diretto delle funzioni di direzione degli uffici e servizi
comunali (art. 65, comma 1), cioè proprio la facoltà fatta salva dal sopra
citato
art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388.
---------------
Con il ricorso in epigrafe, notificato il 14.03.2012 e depositato l’08.05.2012,
i signori Th.Ma. e Mo.Re.Na., entrambi residenti in
Germania, espongono:
- di essere comproprietari di un terreno con soprastante fabbricato
catastalmente classificato come “fabbricato rurale”, siti nel Comune di Riomaggiore, località Manarola, distinti al N.C.T. al foglio 15
rispettivamente al mappale 1418 e al mappale 1419, in forza di atto di
compravendita del 09.12.2005;
- che, in data 19.05.2004, la loro dante causa signora Va.Ro. aveva presentato al Comune di Riomaggiore istanza prot. 3580 al
fine di ottenere il titolo edilizio per l'ampliamento e il cambio d'uso del
suddetto fabbricato;
- che la Commissione edilizia comunale integrata, esaminato il
progetto, esprimeva parere favorevole;
- che, con il parere favorevole della Soprintendenza per i beni
culturali ed ambientali della Regione Liguria, in data 30.11.2010 il Comune
di Riomaggiore rilasciava l'autorizzazione paesistica;
- che, in considerazione del lungo tempo trascorso dall'avvio della
procedura, in data 15.09.2011 notificavano al comune atto di diffida al
rilascio del titolo edilizio;
- che, con nota prot. 10956 del 03.10.2011, l'amministrazione
comunale comunicava loro l’apertura di un procedimento amministrativo volto
ad accertare la legittimità dell'istanza, preannunciando che, ad un primo
esame istruttorio, l'area interessata dal progetto, diversamente da quanto
attestato dai certificati di destinazione urbanistica, non sarebbe risultata
in zona “AN”, bensì compresa in zona “E” agricola, ove, in base agli artt.
85, 86 e 87 delle norme di attuazione del P.R.G., non sarebbe assentibile
l'intervento proposto.
Impugnano il provvedimento 06.12.2011, prot. n. 14392, con cui il Sindaco di
Riomaggiore ha respinto l’istanza di permesso di costruire per l’ampliamento
ed il cambio d’uso del fabbricato rurale ed ha annullato i certificati di
destinazione urbanistica prot. n. 5704 del 28.09.1999 e n. 10303 del
16.11.2005, che certificavano la destinazione urbanistica “AN”
dell’immobile.
A sostegno del gravame hanno dedotto quattro motivi di ricorso, come segue.
1. Violazione e falsa applicazione degli art. 50 e ss. e dell'art.
107 L. 267/2000 (T.U.E.L.), dell'art. 20, comma 6, del D.P.R 380/2001 e
dell'art. 6 della L. 241/1990. Incompetenza.
Il rilascio o il diniego dei permessi di costruire rientrerebbe nella
competenza funzionale dei dirigenti comunali, e non del sindaco.
...
Ciò posto, il primo motivo è fondato.
Premesso che il diniego di permesso di costruire è atto gestionale che
ricade pacificamente nella competenza dirigenziale ex art. 107, comma 3,
lett. f), del T.U.E.L., e che le attribuzioni dei dirigenti possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative (art. 107, comma 4, T.U.E.L.), assume rilievo l’art. 53, comma
23, L. 23.12.2000, n. 388, a mente del quale “gli enti locali con
popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui
all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario
anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del
decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e
all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale”.
Si tratta di una disposizione che fa eccezione ad un principio generale,
sicché, in conformità al canone interpretativo restrittivo di cui all’art.
14 disp. prel. cod. civ., è necessario che le relative disposizioni
organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano
contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di
competenza del consiglio comunale (art. 42 T.U.E.L.) o della giunta
(articolo 48, comma 3, T.U.E.L., relativamente al regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi).
Nel caso si specie, il sindaco si è invece auto-attribuito la responsabilità
del servizio tecnico con un proprio atto (cfr. il decreto 23.06.2011, n. 1 –
doc. 2 delle produzioni di parte comunale), senza la necessaria copertura
regolamentare prescritta dalla legge: donde la violazione dell’art. 107 del T.U.E.L.
Violazione cha appare viepiù palese alla luce della circostanza che, proprio
in virtù dell’accertata mancanza di personale di qualifica dirigenziale
nella dotazione organica del Comune di Riomaggiore, lo statuto comunale
prevede la facoltà per il sindaco di attribuire al segretario comunale
l’esercizio diretto delle funzioni di direzione degli uffici e servizi
comunali (art. 65, comma 1), cioè proprio la facoltà fatta salva dal sopra
citato art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388.
Il rilievo dell’incompetenza riveste carattere assorbente degli altri motivi
(cfr. Cons. di St., Ad. Plen., 27.4.2015, n. 5), attinenti propriamente al
merito della vicenda, sulla quale dovrà esprimersi l’organo competente per
legge ad esercitare i relativi poteri (TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 31.03.2021 n. 284 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
E' illegittimo il diniego di sanatoria gravato, stante l’avvenuta, e non
adeguatamente giustificata, avocazione, da parte dell’organo
politico dell’Ente (Sindaco), dell’esercizio di poteri gestionali,
tipicamente assegnati alla competenza amministrativa
dirigenziale.
Nel caso in esame, un atto di esercizio della funzione
amministrativa, di espressione, cioè, della scelta
discrezionale, comparativa e ponderativa dei contrapposti
interessi in gioco, è stato posto in essere da un organo
politico, tradizionalmente deputato all’attività di
indirizzo degli obiettivi pubblici da perseguire.
E’ anzitutto evidente la vulnerazione della separazione tra
funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di
gestione amministrativa, che, come tale, costituisce un
principio di carattere generale, rinveniente il suo
fondamento nell'art. 97 Cost. Una netta e chiara separazione
tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie costituisce una condizione necessaria per garantire
il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità
dell'azione amministrativa.
Al principio di imparzialità
sancito dall'art. 97 Cost. si accompagna, come naturale
corollario, la separazione tra politica e amministrazione,
tra l'azione del governo —che, nelle democrazie
parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una
parte politica, espressione delle forze di maggioranza— e
l'azione dell'Amministrazione, che, nell'attuazione
dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata
invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al
fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate
dall'ordinamento.
Senza dubbio, il principio de quo ammette delle deroghe
legalmente tipizzate.
Una di queste è contemplata proprio nell’art. 43 dello
statuto del Comune che così recita “in caso
di mancanza non rimediabile di figure professionali idonee
nell’ambito dei dipendenti Responsabili di Uffici e Servizi,
nelle ipotesi e con i limiti previsti dall’art. 53, comma
23, della Legge n. 388/2000 (Finanziaria 2001), con
provvedimento motivato del Sindaco possono essere attribuiti
ai componenti della Giunta la responsabilità degli uffici e
dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura
tecnico-gestionale”.
L’interpretazione letterale del dettato de quo consente di
ritenere che soltanto l’assoluta mancanza, preventivamente
accertata, all’interno della compagine organizzativa
comunale, di figure professionali idonee ad assolvere una
specifica funzione gestionale giustifica, in via
eccezionale, la deroga alla regola ordinaria della
separazione dei poteri.
Orbene, nel caso in esame, non si ravvisano i presupposti
giustificativi di tale evenienza.
Dalla documentazione versata in atti e, segnatamente, dal
contenuto della delibera di Giunta comunale datata
11.01.2017, si desume, a contrario, la presenza del
Responsabile dell’Area Tecnica, Ing. Sa., il quale, tra
l’altro, in data 14.11.2016 aveva chiesto la trasformazione
del suo rapporto di lavoro in part-time.
Del tutto inconferente è l’assunto di parte resistente, la
quale asserisce che, soltanto a seguito della predetta
richiesta, il Sindaco avrebbe avocato a sé tutte le funzioni
del Settore Economico-Finanziario-Tributi e del Settore
Tecnico-Manutentivo, unitamente alla circostanza, parimenti
addotta dal Comune, dell’impossibilità dell’Ing. Sa. di
assolvere i suoi compiti istituzionali a tempo pieno.
Ed invero, le controdeduzioni di parte resistente sono prive
di pregio.
La trasformazione di un rapporto di lavoro in part-time
non elide la connotazione sostanziale e funzionale della
relazione lavorativa instauratasi, bensì incide unicamente
sulle modalità di esecuzione della prestazione dedotta nel
contenuto negoziale, diversamente articolata nel tempo.
Tanto basta per ascrivere al contratto di lavoro de quo una
spiccata configurazione di specialità.
Da tutto quanto premesso, deriva l’illegittimità degli atti
gravati per vizio assorbente di incompetenza relativa, in
ragione del fatto che l’atto doveva essere posto in essere
da altro organo (dirigente) appartenente al medesimo plesso
amministrativo.
Ma vi è di più.
Il richiamato
art. 53, comma 23, (dall’art. 43 dello statuto
comunale) così recita: “Gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui
all’art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs
18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento
della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari
organizzative, se necessario anche in deroga a quanto
disposto all’art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n.
29, e successive modificazioni (ora articolo 4, commi 2, 3 e
4, dlgs n. 165 del 2001), e all’art. 107 del
predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio”.
Nella fattispecie, tale contenimento della spesa non è stato
accertato con deliberazione del consiglio comunale, ma con
una nota postuma del 05.07.2019, a firma dello stesso
Sindaco.
Va pertanto applicato il principio secondo cui la deroga legislativa di cui
all’art. 53, comma 23, “subordina l’attribuzione di
poteri all’adozione preventiva di apposite disposizioni
regolamentari organizzative, con successiva documentazione
annuale del reale contenimento di spesa. Nella specie, non
risulta che il competente organo consiliare abbia adottato
le prescritte modifiche regolamentari (né, logicamente, in
assenza di determinazioni siffatte, può essere stato
valutato l’eventuale contenimento di spesa)”.
---------------
... per l'annullamento,
quanto al ricorso n. 900 del 2019:
- della determinazione del Responsabile del Settore
Tecnico-Manutentivo, che dispone di acquisire gratuitamente,
ai sensi dell'art. 7, commi 3 e 4, della L. 28/02/1985 n.
47, così come modificata dall'art. 31 del D.P.R. 380/2001,
al patrimonio dell’Ente l'immobile (piscina) abusivamente
realizzato, insistente sulla particella di terreno censita
catastalmente al fl. 5 p.lla 258 (ex p.lla 44), unitamente
all'area su cui insite lo stesso manufatto, per una
superficie catastale pari a dieci volte la complessiva
superficie utile abusivamente costruita pari a 13,60m x 7,60
x 10 = 1.033,60 mq; di provvedere alla trascrizione presso i
Registri immobiliari dell'acquisizione al patrimonio
dell’Ente del predetto bene;
- dell'ordinanza-ingiunzione n. 8 del 27.05.2019 (prot. n. 1233 del
27.05.2019), di irrogazione della “somma di 20.000 euro
(ventimila/00) quale sanzione pecuniaria ai sensi dell'art.
31 del DPR 380/2001 comma 4-bis, per non avere ottemperato
alla Disposizione n. 1 del 24/11/2017, in atti al prot. 2991
del 27/11/2017”;
- di ogni altro atto e/o provvedimento, connesso e consequenziale;
nonché per il risarcimento dei danni patrimoniali e non
patrimoniali;
...
In data 05.06.2002 il Sig Ma. presentava DIA prot. n. 1689
per la realizzazione di una piscina in acciaio; trattasi di
una piccola vasca prefabbricata, completamente interrata,
senza opere fuori terra, priva di locali tecnici e/o
accessori e di opere impiantistiche, occupante un’area di
circa 72 mq. rispetto ai complessivi 2.790 mq. del fondo,
ubicata in zona E2-agricola del Piano di Fabbricazione
approvato nel 1975 (art. 22 R.E.C.), in zona sottoposta a
vincolo idrogeologico non elevato.
In data 30.12.2010, a seguito di atto di donazione del
30.12.2010, il fondo de quo entrava in comproprietà
della parte ricorrente.
In data 17.11.2017, il Comune procedeva ad un accertamento
di illegittimità della piscina come da verbale prot. n. 2911
e, con disposizione n. 1 del 27.11.2017, prot. n. 2991,
ordinava la sua demolizione, contestando la difformità del
manufatto rispetto al titolo abilitativo ed in particolare
rilevando che “la piscina è stata costruita su di un’area
di sedime differente rispetto a quanto indicato
nell’elaborato planimetrico allegato alla Denuncia di Inizio
attività prot. n. 1689 del 05.06.2002 in totale difformità
al titolo edilizio e che l’intervento come realizzato ha
determinato una trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio con durevole modifica dello stato dei luoghi e
che lo stesso, per le sue dimensioni, rientra tra gli
interventi di nuova costruzione di cui all’art. 3, c. 1,
lett. e)”.
In data 18.06.2018, il ricorrente epigrafato otteneva
l’autorizzazione prot. n. 3620 dalla Comunità Montana
Terminio Cervialto a sanatoria del mutamento di destinazione
d’uso dei terreni sottoposti a vincolo idrogeologico e, con
nota del 09.03.2018, prot. n. 690, presentava istanza per il
rilascio del permesso in sanatoria, in ragione della diversa
localizzazione dell’opera rispetto alla DIA.
Il Comune di Senerchia esitava la richiesta, formalizzando
il diniego della stessa, con nota prot. n. 2896 del
14.12.2018, avverso la quale il Sig. Ma. proponeva,
dapprima, ricorso straordinario al Capo dello Stato e,
successivamente, per effetto della trasposizione in giudizio
dello stesso (su esplicito atto di opposizione del Comune di
Senerchia, notificato in data 09.09.2020), gravame RG
2019/1661, notificato in data 07.11.2019 e depositato in
data 08.11.2019.
Le censure di illegittimità articolate nei motivi di ricorso
possono così sintetizzarsi.
1) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE
(ARTT. 2, 3, 41, 42 e 97 COST.; ARTT. 3, 6, 6-BIS, 22, 23,
31, 34, 37 D.P.R. 380/2001; ARTT. 3, 7, 10-bis, 21-nonies L.
241/1990). VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 43
DELLO STATUTO COMUNALE APPROVATO CON DELIBERA DI C.C. n. 25
DELL’11.08.2001 E MODIFICATO CON DELIBERA DI C.C. n. 27
DELL’08.07.2016. VIOLAZIONE DELL’ART. 53, COMMA 23, L.
388/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 48 e
107 D.L.VO 267/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEL
PRINCIPIO DI LEGALITA’. INCOMPETENZA DEL SINDACO. ECCESSO DI
POTERE PER TRAVISAMENTO DEI PRESUPPOSTI DI FATTO E DI
DIRITTO. MANIFESTA INGIUSTIZIA. SVIAMENTO DI POTERE. CARENZA
DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE.
La parte ricorrente lamenta, principalmente, l’illegittimità
degli atti impugnati, per violazione sia dell’art. 53, comma
23, L. n. 388/2000, sia dell’art. 43 dello Statuto Comunale,
attesa l’incompetenza del Sindaco del Comune di Senerchia ad
esercitare i poteri amministrativi, di tipo sanzionatorio,
di cui al Titolo IV del Testo Unico dell’Edilizia.
Si duole, altresì, del vizio motivazionale nonché del vizio
di eccesso di potere per difetto di istruttoria, stante
l’erronea ed imprecisa, a suo dire, valutazione degli
elementi fattuali che vengono in rilievo e, segnatamente,
delle caratteristiche strutturali e funzionali dell’opera
oggetto di diniego gravato, che, secondo la sua
prospettazione, non sarebbe sussumibile tra gli interventi
di nuova costruzione, assentibile, perciò solo, con permesso
di costruire.
Insiste, poi, sull’illegittimità dell’atto impugnato, anche
sotto il profilo del vizio procedimentale ex art. 10-bis,
non avendo, a suo dire, il Comune di Senerchia considerato,
con adeguata ed esaustiva argomentazione, le controdeduzioni
prospettate dal ricorrente nella nota del 17.09.2018.
In data 09.12.2019, si costituiva in giudizio il Comune di
Senerchia, depositando documenti e memoria, in cui,
articolando eccezioni di inammissibilità ed infondatezza del
ricorso, concludeva per il suo rigetto.
Con ricorso per motivi aggiunti, notificato e depositato il
30.06.2020, il ricorrente epigrafato impugnava, unitamente a
tutti gli atti connessi e presupposti, la successiva
relazione tecnica n. 937 del 20.05.2020, a firma del
Responsabile dell’Attività di Tutela Paesaggistica e del
Responsabile dell’Area Tecnica Manutentiva del Comune di
Senerchia.
I motivi di doglianza sono così articolati:
1) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE
(ART. 97 COST. E ART. 3 L. N. 241/1990), SOTTO IL PROFILO
DEL C.D. “DIVIETO DI MOTIVAZIONE POSTUMA” DEL PROVVEDIMENTO
AMMINISTRATIVO. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI OGNI
NORMA E PRINCIPIO IN MATERIA DI DIRITTO DI DIFESA. ECCESSO
DI POTERE PER SVIAMENTO. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI
OGNI NORMA E PRINCIPIO IN MATERIA DI IMPARZIALITÀ E BUON
ANDAMENTO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
La ricorrente sottolinea l’illegittimità dell’atto
gravato, per l’introduzione di nuove e postume
argomentazioni contenute nella relazione tecnica n. 937 del
20.05.2020, in contrasto, a suo dire, con il divieto di
motivazione postuma.
2) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE
(ART. 96 COSTITUZIONE, ARTT. 3, 23, 32, 36 e 138 D.P.R.
380/2001, ART. 44 L.R. CAMPANIA N. 16/2004, ART. 146 D.LVO
490/1999, ART. 142 D.L.VO 42/2004, ART. 4 D.L. 398/1993,
COME SOSTITUITO DALL’ART. 2 L. 662/1996. ECCESSO DI POTERE
PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE. SVIAMENTO DAL
FINE. ILLOGICITÀ, IRRAGIONEVOLEZZA.
La parte ricorrente insiste sul vizio di eccesso di
potere per difetto di istruttoria, stante, a suo dire, la
mancanza del vincolo paesaggistico e la piena legittimità
della DIA presentata nel 2002.
3) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE
(ARTT. 2, 3, 41, 42 e 97 COST.; ARTT. 3, 6, 6-BIS, 22, 23,
31, 34, 37 D.P.R. 380/2001; ARTT. 3, 7, 10-bis, 21-nonies L.
241/1990). VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 43
DELLO STATUTO COMUNALE APPROVATO CON DELIBERA DI C.C. n. 25
DELL’11.08.2001 E MODIFICATO CON DELIBERA DI C.C. n. 27
DELL’08.07.2016. VIOLAZIONE DELL’ART. 53, COMMA 23, L.
388/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 48 e
107 D.L.VO 267/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEL
PRINCIPIO DI LEGALITA’. INCOMPETENZA DEL SINDACO. ECCESSO DI
POTERE PER TRAVISAMENTO DEI PRESUPPOSTI DI FATTO E DI
DIRITTO. MANIFESTA INGIUSTIZIA. SVIAMENTO DI POTERE. CARENZA
DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE.
La ricorrente insiste sull’incompetenza del Sindaco ad
emanare gli atti presupposti (Decreto Sindacale n. 15 del
04.01.2017 e della Deliberazione di G.C. n. 4
dell’11.01.2017), che costituiscono l’antecedente logico
della relazione gravata, in quanto adottati in manifesta
violazione sia dell’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, sia
dell’art. 43 del vigente Statuto Comunale.
In data 03.08.2020, si costituiva in giudizio il Comune di
Senerchia, depositando memoria e documenti.
Con determina n. 71 del 27.05.2019, il Comune, in
conseguenza dell’inottemperanza dell’ordinanza demolitoria
n. 1 del 24.11.2017, disponeva l’acquisizione gratuita
dell’immobile (la piscina unitamente all’area di sedime su
cui insiste) e con ordinanza ingiunzione n. 8 del
27.05.2019, irrogava il pagamento della sanzione pecuniaria
di 20.000 euro.
Avverso i suddetti atti, il ricorrente proponeva gravame,
notificato in data 13.06.2019 e depositato in data
14.06.2019, formulando i seguenti motivi di legittimità.
1) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART.
107 D.L.VO 267/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART.
43 DELLO STATUTO COMUNALE APPROVATO CON DELIBERA DI C.C. n.
25 DELL’11.08.2001 E MODIFICATO CON DELIBERA DI C.C. n. 27
DELL’08.07.2016. VIOLAZIONE DELL’ART. 53, COMMA 23, L.
388/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 48 e
107 D.L.VO 267/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEI
PRINCIPI DI LEGALITA’ E TIPICITA’ DELL’AZIONE
AMMINISTRATIVA. INCOMPETENZA DEL SINDACO. ECCESSO DI POTERE
PER MANIFESTA INGIUSTIZIA. LESIONE DEL DIRITTO DI
PROPRIETA’. SVIAMENTO DAL FINE. ERRONEA VALUTAZIONE DEI
PRESUPPOSTI DI FATTO E DI DIRITTO. ASSENZA DI ISTRUTTORIA.
CARENZA DI MOTIVAZIONE. ILLOGICITA’. IRRAGIONEVOLEZZA.
GENERICITA’ ED INDETERMINATEZZA DELL’OGGETTO DELL’ATTO
ACQUISITIVO.
La parte ricorrente lamenta l’illegittimità degli atti
impugnati, per violazione sia dell’art. 53, comma 23, L. n.
388/2000, sia dell’art. 43 dello Statuto Comunale, attesa
l’incompetenza del Sindaco del Comune di Senerchia ad
esercitare i poteri amministrativi, di tipo sanzionatorio,
di cui al Titolo IV del Testo Unico dell’Edilizia.
In riferimento all’illegittimità della determinazione
acquisitiva n. 71 del 27.05.2019, si evidenziano i seguenti
rilievi:
1. la precedente ordinanza di demolizione n. 1 del 2017 non sarebbe
stata notificata ai destinatari, con conseguenziale
preclusione dell’effetto acquisitivo del bene, dell’area di
sedime e delle aree ulteriori, presupponendo il medesimo la
consapevolezza dell’inadempimento;
2. la sanzione acquisitiva è stata adottata in carenza di un valido
ed efficace ordine demolitorio, atteso che la presentazione
dell’istanza di sanatoria avrebbe, a suo dire, l’effetto di
rendere l’atto ripristinatorio inefficace, con necessario
riesercizio del potere;
3. l’atto gravato sarebbe affetto dal vizio di carenza
motivazionale nonché di difetto di istruttoria, in ordine
alla maggiore estensione della piscina indicata in mq 103 in
luogo dei 72 mq.
Analoghi profili di illegittimità, richiamati per
relationem, vengono mossi in riferimento all’ordinanza
ingiunzione 8/2019.
In data 01.07.2019, si costituiva il Comune di Senerchia, in
persona del legale rappresentante pro tempore,
depositando memoria volta a sconfessare, con una serie di
argomentazioni, le prospettazioni di parte ricorrente.
...
Va disposta la riunione dei due gravami, RG 2019/1661
ed RG 2019/900, stante la sussistenza di evidenti
ragioni di connessione soggettiva ed oggettiva nonché l’afferenza
al medesimo thema decidendum.
Sono delibate le questioni preliminari di rito.
Viene scrutinato il gravame RG 2019/1661.
...
E’ scrutinato il merito.
Il ricorso principale è fondato e merita accoglimento, sulla
base del vizio assorbente del difetto di competenza
dell’autorità emanante, che dispiega, già di per sé, valenza
dirimente della res controversa.
Il ricorrente si duole sostanzialmente dell’illegittimità
del diniego di sanatoria gravato, stante l’avvenuta, e non
adeguatamente giustificata, avocazione, da parte dell’organo
politico dell’Ente, dell’esercizio di poteri gestionali,
tipicamente assegnati alla competenza amministrativa
dirigenziale.
Nel caso in esame, un atto di esercizio della funzione
amministrativa, di espressione, cioè, della scelta
discrezionale, comparativa e ponderativa dei contrapposti
interessi in gioco, è stato posto in essere da un organo
politico, tradizionalmente deputato all’attività di
indirizzo degli obiettivi pubblici da perseguire.
E’ anzitutto evidente la vulnerazione della separazione tra
funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di
gestione amministrativa, che, come tale, costituisce un
principio di carattere generale, rinveniente il suo
fondamento nell'art. 97 Cost. Una netta e chiara separazione
tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie costituisce una condizione necessaria per garantire
il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità
dell'azione amministrativa.
Al principio di imparzialità
sancito dall'art. 97 Cost. si accompagna, come naturale
corollario, la separazione tra politica e amministrazione,
tra l'azione del governo —che, nelle democrazie
parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una
parte politica, espressione delle forze di maggioranza— e
l'azione dell'Amministrazione, che, nell'attuazione
dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata
invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al
fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate
dall'ordinamento (TAR Napoli, Sez. I,
09.01.2020 n. 112).
Senza dubbio, il principio de quo ammette delle deroghe
legalmente tipizzate.
Una di queste è contemplata proprio nell’art. 43 dello
statuto del Comune di Senerchia, che così recita “in caso
di mancanza non rimediabile di figure professionali idonee
nell’ambito dei dipendenti Responsabili di Uffici e Servizi,
nelle ipotesi e con i limiti previsti dall’art. 53, comma
23, della Legge n. 388/2000 (Finanziaria 2001), con
provvedimento motivato del Sindaco possono essere attribuiti
ai componenti della Giunta la responsabilità degli uffici e
dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura
tecnico-gestionale”.
L’interpretazione letterale del dettato de quo consente di
ritenere che soltanto l’assoluta mancanza, preventivamente
accertata, all’interno della compagine organizzativa
comunale, di figure professionali idonee ad assolvere una
specifica funzione gestionale giustifica, in via
eccezionale, la deroga alla regola ordinaria della
separazione dei poteri.
Orbene, nel caso in esame, non si ravvisano i presupposti
giustificativi di tale evenienza.
Dalla documentazione versata in atti e, segnatamente, dal
contenuto della delibera di Giunta comunale datata
11.01.2017, si desume, a contrario, la presenza del
Responsabile dell’Area Tecnica, Ing. Sa., il quale, tra
l’altro, in data 14.11.2016 con nota prot. n. 2483, aveva
chiesto la trasformazione del suo rapporto di lavoro in
part-time.
Del tutto inconferente è l’assunto di parte resistente, la
quale asserisce che, soltanto a seguito della predetta
richiesta, il Sindaco avrebbe avocato a sé tutte le funzioni
del Settore Economico-Finanziario-Tributi e del Settore
Tecnico-Manutentivo, unitamente alla circostanza, parimenti
addotta dal Comune, dell’impossibilità dell’Ing. Sa. di
assolvere i suoi compiti istituzionali a tempo pieno.
Ed invero, le controdeduzioni di parte resistente sono prive
di pregio.
La trasformazione di un rapporto di lavoro in part-time
non elide la connotazione sostanziale e funzionale della
relazione lavorativa instauratasi, bensì incide unicamente
sulle modalità di esecuzione della prestazione dedotta nel
contenuto negoziale, diversamente articolata nel tempo.
Tanto basta per ascrivere al contratto di lavoro de quo una
spiccata configurazione di specialità.
Da tutto quanto premesso, deriva l’illegittimità degli atti
gravati per vizio assorbente di incompetenza relativa, in
ragione del fatto che l’atto doveva essere posto in essere
da altro organo (dirigente) appartenente al medesimo plesso
amministrativo.
Ma vi è di più.
Il richiamato
art. 53, comma 23, (dall’art. 43 dello statuto
comunale) così recita: “Gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui
all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di
operare un contenimento della spesa, possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative, se necessario
anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3
e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni (ora articolo 4, commi 2, 3 e 4, decreto
legislativo n. 165 del 2001), e all’articolo 107 del
predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio”.
Nella fattispecie, tale contenimento della spesa non è stato
accertato con deliberazione del consiglio comunale, ma con
una nota postuma del 05.07.2019, a firma dello stesso
Sindaco.
Va pertanto applicato il principio affermato dalla sentenza
di annullamento della Sez. I di questo Tribunale
01.03.2019 n. 349, secondo cui la deroga legislativa di cui
all’art. 53, comma 23, “subordina l’attribuzione di
poteri all’adozione preventiva di apposite disposizioni
regolamentari organizzative, con successiva documentazione
annuale del reale contenimento di spesa. Nella specie, non
risulta che il competente organo consiliare abbia adottato
le prescritte modifiche regolamentari (né, logicamente, in
assenza di determinazioni siffatte, può essere stato
valutato l’eventuale contenimento di spesa)”.
Il ricorso per motivi aggiunti va dichiarato inammissibile,
stante la natura di atto endoprocedimentale, di natura
istruttoria, tipico della relazione tecnica gravata, come
tale insuscettibile di determinare la lesione di una
situazione giuridicamente rilevante (TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza 29.10.2020 n. 1576 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Non
sussiste l'incompetenza del sindaco a sottoscrivere
il permesso di costruire in sanatoria e la certificazione di compatibilità
paesaggistico.
Invero, nel caso di specie, il Comune -di circa 1.200 abitanti- si è dotato
in data 17.05.2010 di una disposizione di carattere regolamentare in forza
della quale è stato previsto, tra l’altro, che “le mansioni inerenti
urbanistica, edilizia privata, igiene pubblica, ambiente ed ecologia sono
svolte direttamente dal Sindaco che assumerà anche le competenze di
Responsabile del Servizio”.
E ciò in conformità all’art. 53, comma 23, della L.
n. 388/2000 il quale ha previsto che “Gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti (…) possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative (…) attribuendo ai componenti dell'organo
esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale (…)”.
---------------
2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente ha lamentato l’incompetenza
del sindaco a sottoscrivere il permesso di costruire in sanatoria e la
certificazione di compatibilità paesaggistica, trattandosi di atti di
competenza del dirigente ovvero, nei comuni sprovvisti di personale di
qualifica dirigenziale, del responsabile dell’ufficio o del servizio.
Anche tale censura è infondata.
L’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 ha previsto che “Gli enti
locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti (…) possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative (…) attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale (…)”.
Il Comune di Limone sul Garda, comune di circa 1.200 abitanti, si è dotato
in data 17.05.2010 di una disposizione di carattere regolamentare in forza
della quale è stato previsto, tra l’altro, che “le mansioni inerenti
urbanistica, edilizia privata, igiene pubblica, ambiente ed ecologia sono
svolte direttamente dal Sindaco che assumerà anche le competenze di
Responsabile del Servizio”.
Alla luce di tali disposizioni, del tutto legittimamente, nel caso di
specie, gli atti in questione sono stati sottoscritti dal sig. -OMISSIS- in
qualità di Sindaco e di Responsabile del Servizio Urbanistica – Edilizia
Privata del Comune di Limone sul Garda, in pieno ossequio ai disposti della
norma regolamentare sopra citata, adottata dall’amministrazione comunale nel
rispetto dei principi di cui all’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 02.04.2020 n. 262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sussiste l'incompatibilità del
Sindaco a ricoprire il ruolo di Presidente della commissione
di concorso, anche nei comuni sino a 5.000 abitanti.
Segnatamente, per quanto attiene lo specifico ambito
concorsuale l’art. 35, comma 3, dlgs 165/2001, risulta
speciale (e quindi “prevalente”) rispetto all’art.
53, comma 23, della L. 388/2000.
La soluzione della controversia attiene alla ricostruzione
dei rapporti fra principio generale di “separazione delle
funzioni politiche da quelle gestionali” e (eventuali)
possibili deroghe, con definizione del quadro normativo di
riferimento.
Con definizione dei rapporti di generalità-specialità ed
eventuali deroghe sia nei confronti della prima che a carico
della seconda.
Da un lato gli artt.
35, comma 3, lett. e), d.lgs. n.
165/2001 e
9 del D.P.R. n. 487/1994 e,
dall’altro, l’art.
53, comma 23, della legge n. 388/2000, che, al ricorrere di
determinati presupposti, consente di derogare il principio
per l’assunzione di “determinati incarichi interni
amministrativi”.
L’art. 35, comma 3, lett. “e”, d.lgs. n. 165/2001 (nel quale
è stato trasfuso senza rilevanti modifiche il contenuto
dell’abrogato art. 8 del d.lgs. n. 29/1993) definisce (con
sostanziale identità nella formulazione dell’art. 9 D.P.R.
n. 487/1994) il principio della rigorosa “separazione” fra
funzioni-cariche politiche e attività amministrative,
imponendo, in materia di composizione delle Commissioni di
concorso che:
“Le procedure di reclutamento nelle pubbliche
amministrazioni si conformano ai seguenti principi:
composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di
provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra
funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle
medesime, CHE NON SIANO COMPONENTI DELL'ORGANO DI DIREZIONE
POLITICA DELL'AMMINISTRAZIONE, CHE NON RICOPRANO CARICHE
POLITICHE e che non siano rappresentanti sindacali o
designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o
dalle associazioni professionali;”
L’art. 53, comma 23, legge n. 388/2000 consente però che:
“Gli enti locali con POPOLAZIONE INFERIORE A CINQUEMILA
ABITANTI fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma
4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un
contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a
quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, ATTRIBUENDO
AI COMPONENTI DELL'ORGANO ESECUTIVO LA RESPONSABILITÀ DEGLI
UFFICI E DEI SERVIZI ED IL POTERE DI ADOTTARE ATTI ANCHE DI
NATURA TECNICA GESTIONALE. Il contenimento della spesa deve
essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in
sede di approvazione del bilancio”.
L’argomento dell’Amministrazione resistente, secondo cui la
norma “speciale”, l’art. 53, comma 23, sarebbe disposizione
“in assoluto” derogante il principio di separazione fra
funzione di indirizzo politico e di gestione, non è
condivisibile.
La ratio dell’art. 35, comma 3, lett. “e”, del d.lgs. n. 165/2001
è evidente, e risiede nell’esigenza di evitare che la
delicata funzione di commissario di concorso possa essere
esercitata nel perseguimento (anche) di finalità, collegate
all’attività politica del commissario, estranee a quelle che
presiedono le procedure pubbliche di selezione del personale
(individuazione del miglior concorrente o dei migliori fra i
concorrenti).
In sostanza, l’ordinamento vuole neutralizzare il rischio di
una (possibile) strumentalizzazione della carica di
commissario in connessione con gli interessi del titolare
della carica politica.
La relazione fra le due disposizioni (ritenute
dall’Amministrazione in rapporto di prevalenza, per
specialità), il Collegio ritiene di dover definire “a tre
livelli” l’intreccio fra le varie disposizioni invocate
dalle parti.
L’art. 53, comma 23, della L. 388/2000 si pone in un
rapporto di specialità (e prevalenza), per i piccoli Comuni,
rispetto alla portata generale del principio contenuto
all’art. 35, comma 3, lett. e), 165/2001.
Tra le norme in questione sussiste una relazione astratta di genus ad speciem.
Con compatibilità di incarichi gestionali ad appartenenti
all’organo politico, nei Comuni inferiori di 5.000
abitanti.
Ma la portata di tale relazione non può essere considerata
con un ambito oggettivo “assoluto” e generalizzato nelle
competenze di riferimento (oggetto di incarico).
Le funzioni espletabili debbono essere circoscritte, in
questi casi (nomina del politico) in senso stretto e non
anche estensibili a funzioni “ulteriori”.
Il rapporto fra disposizioni (norma generale e norma
speciale) deve consentire la “riattivazione” degli effetti
del divieto in relazione ad eventuali assegnazioni di
compiti “ulteriori”, che non fanno parte, in senso stretto,
alle competenze direttive del settore-area.
Dal combinato delle disposizioni risulta, dunque, che:
§ i Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti
possono, tramite Regolamento, attribuire funzioni di
gestione (“la responsabilità degli uffici e dei servizi ed
il potere di adottare atti anche di natura tecnica
gestionale”, tipicamente rientranti nella sfera di
competenza dei dirigenti) anche a chi ricopra cariche
politiche (e, in particolare, ai “componenti dell’organo
esecutivo”),
§ ferma restando l’impossibilità per questi ultimi di
esercitare l’“ulteriore” specifica funzione gestionale
“specifica” di “commissario di concorso”.
Funzione scorporabile dall’ambito delle competenze connesse
all’incarico amministrativo. Di responsabilità di un
ufficio.
Con conseguente “riespansione”, anche rispetto ai Comuni con
meno di 5.000 abitanti, in riferimento allo “specifico
settore” delle selezioni concorsuali del personale,
dell’irrinunciabile principio generale di “separazione”
delle funzioni, del quale l’art. 35, comma 3, lett. e) cit..
è espressione (nel particolare campo dei concorsi pubblici).
Dunque con “scissione” fra le funzioni generali attribuibili
al responsabile dell’Area di riferimento (ammesse) e
“specifiche” funzioni di appartenenza a commissioni di
concorso (inammissibili).
Per quanto attiene lo specifico ambito concorsuale l’art.
35, comma 3, dlgs 165/2001, risulta speciale (e quindi
“prevalente”) rispetto all’art. 53, comma 23, della L.
388/2000.
Il carattere derogatorio al principio di separazione delle
funzioni, di cui all’art. 53, comma 23, cit. non implica,
di per sé, che detta norma non possa subire, a sua volta,
delle eccezioni, con limitazione del suo ambito di
applicazione in presenza di altra norma (l’art. 35, comma 3,
lett. e), d.lgs. n. 165/2001).
In questo senso depone una lettura delle disposizioni alla
luce della ratio della previsione di cui all’art. 35, comma
3, lett. e) cit., ove si consideri che il rischio di
strumentalizzazione della funzione di commissario è tanto
più alto quanto più sono piccole le dimensioni dell’ente che
indice il concorso (dagli atti risulta che il Comune di
Siligo nel 2019 contava appena 847 abitanti).
Un rischio che non è meramente potenziale, ma concreto, in
quanto il commissario Sa.Ma. ricopre la carica di
Sindaco presso lo stesso Comune che ha indetto la procedura
contestata.
In considerazione di tali elementi (il basso numero di
abitanti del Comune procedente e la titolarità della massima
funzione politica all’interno dello stesso ente) non è
possibile escludere in astratto un’interferenza fra la
carica politica del commissario e la procedura concorsuale.
Unica (e limitata) circostanza di inapplicabilità della
causa di incompatibilità fissata all’art. 35, comma 3,
lett. e), d.lgs. n. 165/2001 è stata ammessa nel caso di
conferimento delle funzioni di commissario ad un soggetto
titolare di cariche politiche in Comuni “diversi”.
Aderire ad una diversa soluzione interpretativa
significherebbe, in sostanza, ammettere, specificamente per
i concorsi, l’esistenza di due diversi regimi normativi in
dipendenza del numero di abitanti dell’ente locale,
introducendo una diversità di trattamento basata su un
elemento privo di reale “efficacia differenziante” idonea a
giustificarla.
Il “settore concorsuale” non può essere “attratto” alle
<competenze operative del settore conferito>. Per le
composizioni degli organi di concorso permane il divieto di
commistione, applicabile in tutti i casi, a prescindere dal
numero degli abitanti.
Un settore delicato, con coinvolgimento di interessi e beni
della vita per il quale l’ordinamento non può tollerare
deroghe (diversamente dal conferimento di un settore
“operativo-gestionale” all’interno del Comune).
In questo caso il Responsabile dell’Area finanziaria, autore
del provvedimento, preso atto della <concentrazione>, in
capo al sig. Sa.Ma., delle funzioni di “Responsabile
dell'Area” cui era destinato il vincitore del concorso
(“Servizio tecnico manutentivo”) e di “Sindaco” del Comune
di Siligo, avrebbe dovuto astenersi dal nominarlo quale
Presidente della Commissione, individuando per tale carica
altra idonea figura (Segretario comunale o soggetto esterno
all’ente) in applicazione dell’art. 55 del Regolamento
comunale di Organizzazione degli Uffici e dei Servizi.
In definitiva, il provvedimento di nomina della Commissione
è illegittimo in quanto adottato in violazione dell’art. 35,
comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001 (e dell’art. 9 D.P.R.
n. 487/1994). Permanendo, anche nei Comuni inferiori ai
5.000 abitanti, l’operatività del principio che scolpisce
l’incompatibilità di funzioni politico-amministrative di
gestione.
---------------
Con bando pubblicato nella Gazzetta ufficiale -4a serie
speciale- n. 15 del 22.02.2019 il Comune di Siligo ha
indetto un concorso, per soli esami, per l’assunzione a
tempo indeterminato e parziale di n. 1 “collaboratore
tecnico da assegnare al settore tecnico - servizi manutentivi e gestione piscina”.
I ricorrenti hanno partecipato alla selezione e sono stati
ammessi con Determinazione del Responsabile del Servizio
Finanziario n. 134 dell’08.04.2019.
In data 16.04.2019, con Determinazione del Responsabile
del Servizio Finanziario n. 150, è stata nominata la
Commissione esaminatrice, formata da n. 3 componenti nelle
persone dei sig.ri:
* SA.Ma., “RESPONSABILE DEL SERVIZIO TECNICO MANUTENTIVO”,
in qualità di PRESIDENTE;
* Ing. De.Ma., Funzionario di categoria D in servizio
presso il Comune di Sorso, in qualità di membro esperto;
* Ing. Ma.Sa., libero professionista, in qualità di
membro esperto.
Il componente-Presidente Sa., al momento della nomina e
durante lo svolgimento del concorso, ricopriva anche la
carica di “Sindaco” del Comune di Siligo, congiuntamente
alla titolarità dell’incarico di “Responsabile del Servizio
tecnico manutentivo”.
Quest’ultimo ruolo amministrativo era stato assunto con
avocazione a sé della responsabilità degli uffici e dei
servizi dell’“Area Tecnico-Manutentiva-Vigilanza” tramite
decreto sindacale (dallo stesso Sa. redatto) n. 6 del 09.05.2018, con scadenza al 30.04.2019.
Il suddetto incarico veniva poi rinnovato con successivo
decreto sindacale n. 8 del 29.05.2019, sino alla
scadenza del mandato politico di Sindaco.
Espletate le prove scritta e orale (rispettivamente il 14 e
il 28.05.2019), la Commissione provvedeva
all’elaborazione della graduatoria finale.
Successivamente, con Determinazione del Responsabile del
Servizio Finanziario n. 239 del 18.06.2019, la
graduatoria è stata approvata, unitamente ai verbali delle
operazioni selettive.
Al primo posto si collocava il sig. Ca.Sa., con un
totale di 27,25 punti, vincitore del concorso.
Il ricorrente Ma.Gi. si collocava al sesto posto
della graduatoria, con un punteggio totale di 24,50.
Il ricorrente Sa.Sa. non è stato ammesso alla prova
orale (non avendo egli conseguito, in sede di prova scritta,
la votazione minima di 21/30 prevista dall’art. 10 del
bando).
A seguito della pubblicazione della graduatoria, alcuni
candidati, fra cui gli odierni ricorrenti, presentavano al
Comune un’istanza di autotutela (per 3 motivi),
principalmente finalizzata ad ottenere l’annullamento da
parte dell’Ente della Determinazione n. 150 del 16.04.2019 di “nomina della Commissione di concorso” per
illegittima commistione dei ruoli politico-amministrativo.
La predetta istanza veniva riscontrata negativamente dallo
stesso Sindaco-Responsabile di Area tecnica, con la nota del
21.06.2019, ove si prospettava la commissione di reato
(art. 368 c.p.) da parte degli richiedenti .
Con Determinazione del Responsabile del Servizio Finanziario
n. 341 del 03.09.2019 il vincitore del concorso, Ca.Sa., è stato assunto.
Il relativo contratto individuale di lavoro veniva
sottoscritto il successivo 9 settembre.
Con ricorso depositato il 30.09.2019, i ricorrenti hanno
chiesto l’annullamento degli atti indicati in epigrafe,
deducendo le seguenti censure:
1) Violazione dell’art. 8 del d.lgs. n. 29/1993, dell’art.
9 del d.p.r. n. 487/1994, dell’art. 35, comma 3, lett. e),
del d.lgs. n. 165/2001, dell’art. 13 del Regolamento
concorsi del Comune di Siligo e dell’art. 14 delle
Disposizioni preliminari al codice civile
- il sig. Sa.Ma., Presidente della Commissione esaminatrice, non
avrebbe potuto essere nominato quale componente dell’organo
giudicatore, in quanto Sindaco del Comune di Siligo;
2) Violazione dell’art. 13 Regolamento concorsi del Comune
di Siligo e dell’art. 97 Costituzione
-
gli atti della procedura successivi al 30.04.2019
sarebbero illegittimi in quanto in tale data il sig. Sa.Ma. era cessato dall’incarico di “Responsabile del
Servizio tecnico manutentivo” (qualifica che aveva
determinato la nomina a Presidente della Commissione secondo
il disposto dell’art. 13 del Regolamento concorsi del Comune
di Siligo);
3) Violazione dell’art. 14 d.p.r. n. 487/1994
- la
Commissione non avrebbe dato avviso ai concorrenti della
possibilità di assistere alle operazioni immediatamente
successive alla conclusione della prova scritta previste
dalla disposizione (riunione delle buste aventi lo stesso
numero in un’unica busta, dopo il distacco della linguetta
numerata);
4) Illegittimità derivata e incompetenza
- la nota del
Sindaco, datata 21.06.2019, confermativa dei precedenti
atti illegittimi, proviene da un organo (il Sindaco) privo
del potere di provvedere in ordine ad un’istanza di autotutela.
...
Nel merito il ricorso è fondato.
I) Primo motivo - INCOMPATIBILITÀ DEL SINDACO a ricoprire il
ruolo di PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE DI CONCORSO.
Con la prima censura i ricorrenti contestano la legittimità
del provvedimento di nomina della Commissione esaminatrice
(Determinazione n. 150/2019 del Responsabile del Servizio
Finanziario del 16.04.2019), censurandolo per violazione
di legge, in relazione a diversi parametri normativi.
La contestazione principale (e prodromica) si incentra, in
particolare, sulla “composizione” della Commissione di
concorso.
L’organo è formato da tre componenti:
- il “Responsabile del Servizio tecnico manutentivo” (cioè
l’Area cui sarebbe stato assegnato il vincitore del
concorso), con funzioni di Presidente,
- e due soggetti competenti nelle materie oggetto della
selezione, in qualità di “Membri esperti”.
Ma il “Responsabile del Servizio tecnico manutentivo”,
Sa.Ma., rivestiva, al momento della nomina, anche la carica
di Sindaco dello stesso Comune di Siligo.
I ricorrenti sostengono che tale circostanza integrerebbe
una palese violazione dell’art. 35, comma 3, lett. e), d.lgs.
n. 165/2001, che espressamente esclude la possibilità per i
“titolari di funzioni politiche” di svolgere anche la
funzione di commissario di concorso (analogo contenuto i
precedenti art. 8 d.lgs. n. 29/1993 - oggi abrogato, cfr.
art. 43 d.lgs. n. 80/1998; e art. 9 D.P.R. n. 487/1994).
I ricorrenti hanno impugnato anche l’art. 13 del
“Regolamento dei concorsi del Comune di Siligo” (doc. 4
parte ricorrente), qualora interpretato nel senso
dell’ammissibilità del cumulo di funzioni. Sul punto,
peraltro, si rileva che il testo normativo comunale citato
non risulta quello attualmente vigente, essendo stato
superato da nuovo Regolamento del 2014, depositato dal
Comune (doc. 1); che disciplina la fattispecie della
composizione della Commissione e dell’’incompatibilità dei
membri agli artt. 55 e 56.
Al comma 1° dell’art. 55 il vigente Regolamento stabilisce
che:
“1. La commissione esaminatrice è composta, con funzioni di
presidente, dal responsabile del area in cui è previsto il
posto interessato alla procedura di mobilità, o da un
esperto esterno all’ente, o previo decreto del sindaco, dal
segretario comunale, e da due esperti (interni o esterni al
Comune) nelle materie oggetto della selezione di categoria
almeno pari a quella del posto da coprire.”
Ma al comma 4° precisa anche che:
“Ai sensi dell’art. 36 del D.lgs 165/2001 non possono far
parte delle commissioni esaminatrici i componenti
dell’organo di direzione politica dell’amministrazione,
coloro che ricoprono cariche politiche o che siano
rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed
organizzazioni sindacali o dalle associazioni
professionali.”
Il precedente regolamentare comunale testo definiva,
all’art. 13, in termini affini, lo stesso principio:
- “La Commissione giudicatrice, nominata con atto
dell’Amministrazione comunale, è, di regola, presieduta dal
Responsabile del Settore a cui appartiene il posto messo a
concorso; la Giunta comunale può, tuttavia, attribuire , con
provvedimento motivato, la funzione di Presidente della
Commissione al segretario comunale o a un Dirigente di altro
ente territoriale”;
- Non possono far parte della commissione ai sensi dell’art.
6 del D.lgs. 546/1993 i componenti dell’organo di direzione
politica dell’amministrazione, coloro che ricoprono cariche
politiche o che siano rappresentanti sindacali o designati
dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali.”
L’impugnazione del Regolamento viene circoscritta
all’ipotesi in cui la disposizione fosse interpretata nel
senso di consentire la partecipazione alle Commissioni di
concorso dei Responsabili di Area “anche” nel caso in cui
titolare di detto Ufficio sia il Sindaco dell’ente.
La difesa dell’Amministrazione sostiene, per contro, la
piena legittimità dell’azione del Comune, in quanto
sostanzialmente ammessa da altra e “prevalente”
disposizione, ostativa all’applicazione nella fattispecie
concreta della causa di incompatibilità invocata dai
ricorrenti.
Il riferimento è all’art. 53, comma 23,
della legge n. 388/2000, il quale, in relazione ai Comuni con popolazione
“inferiore a 5mila abitanti”, consente l’<attribuzione
di funzioni gestionali apicali> anche ai titolari di
funzioni politiche, segnatamente ai “componenti dell’organo
esecutivo” dell’ente locale.
Nella prospettazione di parte resistente tale norma sarebbe
in grado di paralizzare l’operatività dell’art. 35, comma
3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 9 D.P.R. n.
487/1994 che contemplerebbe una “deroga espressa” al
principio di separazione delle funzioni politiche da quelle
gestionali; con caratterizzazione di norma speciale e, per
l’effetto, prevalente sul divieto normato, in via generale,
dai articoli 35 e 9 citati.
Il ricorso è fondato.
La soluzione della controversia attiene alla ricostruzione
dei rapporti fra principio generale di “separazione delle
funzioni politiche da quelle gestionali” e (eventuali)
possibili deroghe, con definizione del quadro normativo di
riferimento.
Con definizione dei rapporti di generalità-specialità ed
eventuali deroghe sia nei confronti della prima che a carico
della seconda.
Da un lato gli artt.
35, comma 3, lett. e), d.lgs. n.
165/2001 e
9 del D.P.R. n. 487/1994 e,
dall’altro, l’art.
53, comma 23, della legge n. 388/2000, che, al ricorrere di
determinati presupposti, consente di derogare il principio
per l’assunzione di “determinati incarichi interni
amministrativi”.
L’art. 35, comma 3, lett. “e”, d.lgs. n. 165/2001 (nel quale
è stato trasfuso senza rilevanti modifiche il contenuto
dell’abrogato art. 8 del d.lgs. n. 29/1993) definisce (con
sostanziale identità nella formulazione dell’art. 9 D.P.R.
n. 487/1994) il principio della rigorosa “separazione” fra
funzioni-cariche politiche e attività amministrative,
imponendo, in materia di composizione delle Commissioni di
concorso che:
“Le procedure di reclutamento nelle pubbliche
amministrazioni si conformano ai seguenti principi:
composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di
provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra
funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle
medesime, CHE NON SIANO COMPONENTI DELL'ORGANO DI DIREZIONE
POLITICA DELL'AMMINISTRAZIONE, CHE NON RICOPRANO CARICHE
POLITICHE e che non siano rappresentanti sindacali o
designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o
dalle associazioni professionali;”
L’art. 53, comma 23, legge n. 388/2000 consente però che:
“Gli enti locali con POPOLAZIONE INFERIORE A CINQUEMILA
ABITANTI fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma
4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un
contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a
quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, ATTRIBUENDO
AI COMPONENTI DELL'ORGANO ESECUTIVO LA RESPONSABILITÀ DEGLI
UFFICI E DEI SERVIZI ED IL POTERE DI ADOTTARE ATTI ANCHE DI
NATURA TECNICA GESTIONALE. Il contenimento della spesa deve
essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in
sede di approvazione del bilancio”.
L’argomento dell’Amministrazione resistente, secondo cui la
norma “speciale”, l’art. 53, comma 23, sarebbe disposizione
“in assoluto” derogante il principio di separazione fra
funzione di indirizzo politico e di gestione, non è
condivisibile.
La ratio dell’art. 35, comma 3, lett. “e”, del d.lgs. n. 165/2001
è evidente, e risiede nell’esigenza di evitare che la
delicata funzione di commissario di concorso possa essere
esercitata nel perseguimento (anche) di finalità, collegate
all’attività politica del commissario, estranee a quelle che
presiedono le procedure pubbliche di selezione del personale
(individuazione del miglior concorrente o dei migliori fra i
concorrenti).
In sostanza, l’ordinamento vuole neutralizzare il rischio di
una (possibile) strumentalizzazione della carica di
commissario in connessione con gli interessi del titolare
della carica politica.
La relazione fra le due disposizioni (ritenute
dall’Amministrazione in rapporto di prevalenza, per
specialità), il Collegio ritiene di dover definire “a tre
livelli” l’intreccio fra le varie disposizioni invocate
dalle parti.
L’art. 53, comma 23, della L. 388/2000 si pone in un
rapporto di specialità (e prevalenza), per i piccoli Comuni,
rispetto alla portata generale del principio contenuto
all’art. 35, comma 3, lett. e), 165/2001.
Tra le norme in questione sussiste una relazione astratta di
genus ad speciem.
Con compatibilità di incarichi gestionali ad appartenenti
all’organo politico, nei Comuni inferiori di 5.000
abitanti.
Ma la portata di tale relazione non può essere considerata
con un ambito oggettivo “assoluto” e generalizzato nelle
competenze di riferimento (oggetto di incarico).
Le funzioni espletabili debbono essere circoscritte, in
questi casi (nomina del politico) in senso stretto e non
anche estensibili a funzioni “ulteriori”.
Il rapporto fra disposizioni (norma generale e norma
speciale) deve consentire la “riattivazione” degli effetti
del divieto in relazione ad eventuali assegnazioni di
compiti “ulteriori”, che non fanno parte, in senso stretto,
alle competenze direttive del settore-area.
Dal combinato delle disposizioni risulta, dunque, che:
§ i Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti
possono, tramite Regolamento, attribuire funzioni di
gestione (“la responsabilità degli uffici e dei servizi ed
il potere di adottare atti anche di natura tecnica
gestionale”, tipicamente rientranti nella sfera di
competenza dei dirigenti) anche a chi ricopra cariche
politiche (e, in particolare, ai “componenti dell’organo
esecutivo”),
§ ferma restando l’impossibilità per questi ultimi di
esercitare l’“ulteriore” specifica funzione gestionale
“specifica” di “commissario di concorso”.
Funzione scorporabile dall’ambito delle competenze connesse
all’incarico amministrativo. Di responsabilità di un
ufficio.
Con conseguente “riespansione”, anche rispetto ai Comuni con
meno di 5.000 abitanti, in riferimento allo “specifico
settore” delle selezioni concorsuali del personale,
dell’irrinunciabile principio generale di “separazione”
delle funzioni, del quale l’art. 35, comma 3, lett. e) cit..
è espressione (nel particolare campo dei concorsi pubblici).
Dunque con “scissione” fra le funzioni generali attribuibili
al responsabile dell’Area di riferimento (ammesse) e
“specifiche” funzioni di appartenenza a commissioni di
concorso (inammissibili).
Per quanto attiene lo specifico ambito concorsuale l’art.
35, comma 3, dlgs 165/2001, risulta speciale (e quindi
“prevalente”) rispetto all’art. 53, comma 23, della L.
388/2000.
Il carattere derogatorio al principio di separazione delle
funzioni, di cui all’art. 53, comma 23, cit. non implica,
di per sé, che detta norma non possa subire, a sua volta,
delle eccezioni, con limitazione del suo ambito di
applicazione in presenza di altra norma (l’art. 35, comma 3,
lett. e), d.lgs. n. 165/2001).
In questo senso depone una lettura delle disposizioni alla
luce della ratio della previsione di cui all’art. 35, comma
3, lett. e) cit., ove si consideri che il rischio di
strumentalizzazione della funzione di commissario è tanto
più alto quanto più sono piccole le dimensioni dell’ente che
indice il concorso (dagli atti risulta che il Comune di
Siligo nel 2019 contava appena 847 abitanti).
Un rischio che non è meramente potenziale, ma concreto, in
quanto il commissario Sa.Ma. ricopre la carica di
Sindaco presso lo stesso Comune che ha indetto la procedura
contestata.
In considerazione di tali elementi (il basso numero di
abitanti del Comune procedente e la titolarità della massima
funzione politica all’interno dello stesso ente) non è
possibile escludere in astratto un’interferenza fra la
carica politica del commissario e la procedura concorsuale.
Unica (e limitata) circostanza di inapplicabilità della
causa di incompatibilità fissata all’art. 35, comma 3,
lett. e), d.lgs. n. 165/2001 è stata ammessa nel caso di
conferimento delle funzioni di commissario ad un soggetto
titolare di cariche politiche in Comuni “diversi” (cfr. TAR
Piemonte, Sezione II, 25.10.2017, n. 1153; Cons. St. sez. V,
n. 2104/2012; ma con articolazione di specifiche motivazioni
di irrilevanza del ruolo -in quel caso consigliere comunale
di altro Comune-).
Aderire ad una diversa soluzione interpretativa
significherebbe, in sostanza, ammettere, specificamente per
i concorsi, l’esistenza di due diversi regimi normativi in
dipendenza del numero di abitanti dell’ente locale,
introducendo una diversità di trattamento basata su un
elemento privo di reale “efficacia differenziante” idonea a
giustificarla.
Il “settore concorsuale” non può essere “attratto” alle
<competenze operative del settore conferito>. Per le
composizioni degli organi di concorso permane il divieto di
commistione, applicabile in tutti i casi, a prescindere dal
numero degli abitanti.
Un settore delicato, con coinvolgimento di interessi e beni
della vita per il quale l’ordinamento non può tollerare
deroghe (diversamente dal conferimento di un settore
“operativo-gestionale” all’interno del Comune).
In questo caso il Responsabile dell’Area finanziaria, autore
del provvedimento, preso atto della <concentrazione>, in
capo al sig. Sa.Ma., delle funzioni di “Responsabile
dell'Area” cui era destinato il vincitore del concorso
(“Servizio tecnico manutentivo”) e di “Sindaco” del Comune
di Siligo, avrebbe dovuto astenersi dal nominarlo quale
Presidente della Commissione, individuando per tale carica
altra idonea figura (Segretario comunale o soggetto esterno
all’ente) in applicazione dell’art. 55 del Regolamento
comunale di Organizzazione degli Uffici e dei Servizi
approvato con Deliberazione della Giunta comunale n. 34 del
17.06.2014 e successivamente modificato con Deliberazioni
G.C. n. 42 del 25.07.2016 e 44 del 29.09.2017 (doc. 1
Comune).
In considerazione della decisione in accoglimento,
l’impugnazione (in via prudenziale) dell’art. 13 del
(precedente) “Regolamento dei concorsi del Comune di Siligo”
(norma peraltro superata da nuovo regolamento comunale del
2014, art. 55, di contenuto affine) risulta non più
rilevante.
La disposizione regolamentare va letta in coerenza con le
disposizioni normative, e non rappresenta un elemento di
contrasto.
Analogamente si può prescindere dall’esame del secondo,
terzo e quarto motivo di ricorso (modalità di espletamento
dell’attività della Commissione; ed efficacia del
rinnovo-proroga dell’incarico di responsabile), in
considerazione della fondatezza della prima censura e del
suo valore assorbente.
In definitiva, il provvedimento di nomina della Commissione
è illegittimo in quanto adottato in violazione dell’art. 35,
comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001 (e dell’art. 9 D.P.R.
n. 487/1994).
Permanendo, anche nei Comuni inferiori ai 5.000 abitanti,
l’operatività del principio che scolpisce l’incompatibilità
di funzioni politico-amministrative di gestione (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 09.03.2020 n. 140 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: E'
legittimo il regolamento comunale che prevede la facoltà di assegnare al
sindaco e agli assessori la titolarità di uffici e servizi anche senza
riferimento ai relativi risparmi di spesa.
Invero, l'art.
53, comma 23, della legge n. 388/2000 stabilisce che "Gli Enti locali
con popolazione inferiore a 5mila abitanti (…) possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a
quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni, e all'art. 107 del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo
esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della
spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede
di approvazione del bilancio”.
La norma si rivolge ai piccoli Comuni, conferendo ai componenti dell'organo
esecutivo compiti solitamente spettanti alla dirigenza, anche senza
l'indicazione delle motivazioni di natura economica alla base di tale
scelta, in quanto l'effettivo contenimento della spesa andrà poi confermato,
in sede di approvazione del bilancio, con apposita deliberazione.
---------------
1. Occorre premettere che la ricorrente ha proposto due
questioni attinenti alla legittimazione dell’organo che ha inibito
l’esecuzione dei lavori oggetto della s.c.i.a., oltre ad aver contestato nel
merito l’esercizio del potere.
Ha poi graduato le questioni affermando che riveste carattere preliminare
l’esame della censura di incompetenza assoluta per mancanza della qualifica
di Sindaco in capo al sottoscrittore dell’atto, non essendosi ancora
completato il procedimento elettorale al momento di emanazione dell’atto
impugnato.
In merito occorre precisare che, in assenza di elementi documentali che
diano certezza circa il momento dell’acquisizione della carica da parte del
Sindaco, al Collegio appare appropriato esaminare per prima la questione di
incompetenza relativa, anche per ragioni di economia processuale e quindi
per evitare approfondimenti istruttori che allungherebbero i tempi del
giudizio.
Rispetto poi al rapporto tra la questione di competenza e gli altri vizi
dell’azione amministrativa vale quanto stabilito dalla giurisprudenza (Cons.
Stato, Ad. Plen. 27.04.2015, n. 5) secondo la quale nel disegno del
codice la questione di competenza è talmente radicale e assorbente che non
ammette di essere graduata dalla parte.
2. Venendo quindi all’esame della censura di incompetenza relativa, essa è
fondata.
L’art. 53, c. 23, l. n. 388/2000 stabilisce che Gli enti locali con
popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui
all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario
anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del
decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e
all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio.
Come chiarito dalla giurisprudenza si tratta di una norma che conferma il
carattere eccezionale delle deroghe al regime ordinario e l'esigenza della
loro assunzione con specifico strumento legislativo, rivolgendosi solo ai
piccoli Comuni affinché, «anche al fine di operare un contenimento della
spesa», i componenti dell’organo esecutivo espletino compiti normalmente
spettanti alla dirigenza (Cons. Stato, sez. V, 08.08.2003 n. 4596).
Nel caso di specie il regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici e
dei servizi, approvato dal Commissario prefettizio con deliberazione n. 2
del 19.01.2017, all’art. 18 prevede che il Comune si doti di responsabili di
struttura apicale con atto di nomina del Sindaco tra i dipendenti dell’ente,
o tra soggetti esterni; al comma 8, stabilisce inoltre che "ai sensi di
quanto previsto dall'articolo 53, comma 23, della Legge n. 388/2000, è
prevista la facoltà di conferire al Sindaco o agli Assessori la titolarità
di uffici o servizi".
A differenza di quanto affermato dalla ricorrente la norma regolamentare non
è illegittima per non avere indicato le motivazioni di natura economica per
eliminare ruoli tecnico-amministrativi e ricondurli alle figure
politico-istituzionali, in quanto la suddetta norma attribuisce solo la
facoltà di mutare in questi termini l’organizzazione dell’ente,
evidentemente con atto successivo motivato.
Ed è proprio l’atto di assegnazione della competenza ad adottare atti in
materia edilizia, con il corredato supporto motivazionale di tipo
organizzativo e/o economico che giustifichi la deroga alla distinzione tra
organi politici ed organi burocratici, che manca nel caso di specie (per la
necessità di quest’atto da ultimo TAR Lazio-Roma, sez. II-quater,
13/07/2018 n. 7856), mentre l’effettività del contenimento della spesa deve
poi essere autonomamente confermata con apposita deliberazione, in sede di
approvazione del bilancio.
Né a tal fine può valere l’atto successivo del Sindaco n. 23 del 21.07.2017 con il quale egli ha avocato a sé la responsabilità di 6 aree e servizi
comunali.
Infatti tale atto non può avere l’effetto di ratifica di atti
precedentemente adottati, per almeno tre ragioni: in primo luogo non lo
prevede espressamente e quindi non può produrre effetti retroattivi; in
secondo luogo l’atto del 21.07.2017 è stato adottato dal Sindaco
nell’esercizio di un potere organizzatorio, come si desume dal fatto che ha
per oggetto aree e servizi comunali, mentre l’atto di sospensione
dell’esecuzione della SCIA presentata dalla ricorrente è un atto di
gestione; in terzo luogo perché non ha per oggetto l’atto da ratificare.
Né può essere invocato il diverso potere di avocazione per giustificare le
determinazioni assunte. Quale che sia il fondamento normativo dell’atto del
21.07.2017 –indagine da cui il Collegio ritiene di poter prescindere–,
lo stesso vale solo per il futuro, e non rileva ai nostri fini, risalendo
l’atto inibitorio al 13.06.2017.
In definitiva quindi il ricorso contro l’atto che ha dichiarato inefficace
la SCIA ed ha imposto il divieto di esecuzione dei lavori va accolto con
conseguente assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso.
La domanda di annullamento del regolamento comunale va invece respinta,
mentre il ricorso contro il diniego di accesso deve ritenersi improcedibile
per sopravvenuta carenza di interesse in quanto proposto a corredo
dell’azione di annullamento che è stata decisa senza la necessità di
acquisizione di altri documenti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.05.2019 n. 1122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: E'
illegittimo per incompetenza il provvedimento sindacale col quale è stata
disposta, nei confronti della ricorrente, "la decadenza dall'assegnazione dell'alloggio di E.R.P.”.
Invero, ai sensi dell'art. 107, comma 1, del T.U. di cui al d.lgs. n. 267/2000, spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei
servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai
regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo
e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo,
mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai
dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse
umane, strumentali e di controllo.
In base al comma 2, spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa
l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge
o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti
tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui
rispettivamente agli artt. 97 e 108.
Il comma 3 esemplifica, poi, una serie di compiti di attuazione degli
obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo, in cui
rientrano, tra gli altri (lett. f) i provvedimenti di autorizzazione,
concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e
valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri
predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo,
ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie.
Il comma 4 prevede, quindi, che le attribuzioni dei dirigenti, in
applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative.
In base al combinato disposto di cui alle norme ora dette è da escludere,
quindi, che il Sindaco, quale organo di governo al quale spettano, perciò,
poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, possa porre in
essere atti, quale quello di revoca di un alloggio popolare, del quale qui
si discute, che rientrano nell'ambito della gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica.
In particolare, il provvedimento di cui si tratta appare riconducibile alla
lata formulazione di cui all'art. 107, comma 3, lett. f), sopra riportato,
rientrando l'assegnazione di alloggi e, logicamente, i correlati atti di
revoca, tra i provvedimenti di concessione o analoghi il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel
rispetto di criteri predeterminati dalla legge.
...
Né le modeste dimensioni del territorio comunale e il ridotto numero di
abitanti possono condurre a derogare ai principi ora detti, dal momento che,
in base al citato art. 107, c. 4, del T.U. n. 267/2000, solo in base alla
legge può derogarsi, e in forma espressa, ad essi.
È pur vero che, a norma dell'art. 53, comma 23, della legge finanziaria 23.12.2000, n. 388,
gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva
l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs n. 267/2000, anche al
fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo
esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della
spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede
di approvazione del bilancio.
Sennonché, tale espressa deroga legislativa subordina l'attribuzione di
poteri anzidetta all'adozione preventiva di apposite disposizioni
regolamentari organizzative, con successiva documentazione annuale del reale
contenimento di spesa.
Nella specie, non risulta che il competente organo
consiliare abbia adottato le prescritte modifiche regolamentari (né,
logicamente, in assenza di determinazioni siffatte, può essere stato
valutato l'eventuale contenimento di spesa).
...
Una recente conferma dei principi di cui sopra si rinviene nel parere reso
su ricorso straordinario al Presidente Repubblica dal Consiglio di Stato in
cui si afferma: "Con specifico riferimento alla materia della decadenza e
dello sgombero di alloggi di edilizia l'adozione dei relativi provvedimenti
rientra nella competenza del dirigente".
Il Collegio, in definitiva, concorda con la conclusione giurisprudenziale
secondo cui, dopo l'entrata in vigore dell'art. 107 d.lgs. n. 267/2000,
rientra nella competenza del dirigente comunale e non del sindaco l'adozione
d'un provvedimento di decadenza dall'assegnazione di un alloggio di edilizia
residenziale pubblica.
Infatti la sopravvenuta legge statale generale, contenente principi
fondamentali e prevalente come tale sulla preesistente legge regionale, ha
previsto che tutte le disposizioni che conferiscono agli organi politici
l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi
devono intendersi nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti
con l'espressa eccezione che le sole funzioni di rappresentanza statale
rimangono attribuite al sindaco.
Tale disposizione di legge opera direttamente e non risulta necessaria
alcuna delega espressa da parte del sindaco ai singoli dirigenti.
---------------
1. Con il presente ricorso, Fa.Te. ha impugnato il
provvedimento in epigrafe indicato con cui il Sindaco di Colliano ha
disposto nei suoi confronti "la decadenza dall'assegnazione dell'alloggio di E.R.P.”, con la conseguente risoluzione del contratto di locazione ed ordine
di riconsegna delle chiavi dell'alloggio. Tale provvedimento è stato
adottato dalla predetta Amministrazione comunale "visto l'art. 20, lett. A,
della L.R. 02.07.1997 n. 18", essendo stato accertato l'abbandono dell'alloggio
assegnato alla Fasano, tenuto conto della relazione istruttoria redatta
dalla IACP di Salerno.
...
2.- Il ricorso è fondato e merita accoglimento assumendo portata assorbente
il primo motivo di ricorso, con cui la ricorrente ha dedotto l'incompetenza
del Sindaco ad adottare il provvedimento in questione, in relazione a quanto
disposto dall'art. 107 del TUEL in ordine alle competenze dei dirigenti
degli enti locali.
Invero, ai sensi dell'art. 107, comma 1, del T.U. di cui al d.lgs. n. 267
dell'08.08.2000, spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei
servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai
regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo
e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo,
mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai
dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse
umane, strumentali e di controllo.
In base al comma 2, spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa
l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge
o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti
tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui
rispettivamente agli articoli 97 e 108.
Il comma 3 esemplifica, poi, una serie di compiti di attuazione degli
obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo, in cui
rientrano, tra gli altri (lett. f) i provvedimenti di autorizzazione,
concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e
valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri
predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo,
ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie.
Il comma 4 prevede, quindi, che le attribuzioni dei dirigenti, in
applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative.
In base al combinato disposto di cui alle norme ora dette è da escludere,
quindi, che il Sindaco, quale organo di governo al quale spettano, perciò,
poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, possa porre in
essere atti, quale quello di revoca di un alloggio popolare, del quale qui
si discute, che rientrano nell'ambito della gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica.
In particolare, il provvedimento di cui si tratta appare riconducibile alla
lata formulazione di cui all'art. 107, comma 3, lett. f), sopra riportato,
rientrando l'assegnazione di alloggi e, logicamente, i correlati atti di
revoca, tra i provvedimenti di concessione o analoghi il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel
rispetto di criteri predeterminati dalla legge.
Né le modeste dimensioni del territorio comunale e il ridotto numero di
abitanti possono condurre a derogare ai principi ora detti, dal momento che,
in base al citato art. 107, c. 4, del T.U. n. 267/2000, solo in base alla
legge può derogarsi, e in forma espressa, ad essi.
È pur vero che, a norma dell'art. 53, comma 23, della legge finanziaria 23.12.2000, n. 388, gli enti locali con popolazione inferiore a
5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4,
lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di
operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n.
29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento
della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione,
in sede di approvazione del bilancio (comma così modificato dal comma 4
dell'art. 29 della legge 28.12.2001, n. 448).
Sennonché, tale espressa deroga legislativa subordina l'attribuzione di
poteri anzidetta all'adozione preventiva di apposite disposizioni
regolamentari organizzative, con successiva documentazione annuale del reale
contenimento di spesa. Nella specie, non risulta che il competente organo
consiliare abbia adottato le prescritte modifiche regolamentari (né,
logicamente, in assenza di determinazioni siffatte, può essere stato
valutato l'eventuale contenimento di spesa).
Sulla questione nessun contributo o osservazione è stato offerto dal
resistente Comune.
Una recente conferma dei principi di cui sopra si rinviene nel parere reso
su ricorso straordinario al Presidente Repubblica dal Consiglio di Stato,
sez. I, n. 2535/2017 in data 05/12/2017, in cui si afferma: "Con specifico
riferimento alla materia della decadenza e dello sgombero di alloggi di
edilizia l'adozione dei relativi provvedimenti rientra nella competenza del
dirigente".
Il Collegio, in definitiva, concorda con la conclusione giurisprudenziale
secondo cui, dopo l'entrata in vigore dell'art. 107 d.lgs. n. 267/2000,
rientra nella competenza del dirigente comunale e non del sindaco l'adozione
d'un provvedimento di decadenza dall'assegnazione di un alloggio di edilizia
residenziale pubblica (Cons. Stato, Sez. VI, 15.06.2006, n. 3529; TAR Milano
Lombardia sez. I, 02.12.2011 n. 3058; TAR Basilicata, 03.03.2007, n. 138;
TAR Campania, Napoli, Sez. V, 03.04.2006, n. 3319; TAR Veneto, Sez. II, 07.07.2003,
n. 3596).
Infatti la sopravvenuta legge statale generale, contenente
principi fondamentali e prevalente come tale sulla preesistente legge
regionale, ha previsto che tutte le disposizioni che conferiscono agli
organi politici l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti
amministrativi devono intendersi nel senso che la relativa competenza spetta
ai dirigenti con l'espressa eccezione che le sole funzioni di rappresentanza
statale rimangono attribuite al sindaco. Tale disposizione di legge opera
direttamente e non risulta necessaria alcuna delega espressa da parte del
sindaco ai singoli dirigenti.
Si deve dunque concludere che il provvedimento di decadenza impugnato, in
quanto adottato da un organo incompetente, è illegittimo e va annullato,
fatti salvi i nuovi provvedimenti che l'Amministrazione riterrà
eventualmente di adottare.
Il ricorso va accolto e, conseguentemente, il provvedimento di decadenza
impugnato deve essere annullato (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 01.03.2019 n. 349 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Osservatorio
viminale.
Quesito
Un ente locale con popolazione inferiore ai 5mila
abitanti può derogare al principio della separazione dei poteri affidando al
sindaco la presidenza della commissione edilizia comunale e nominando il
responsabile dell'ufficio tecnico quale componente della stessa?
Risposta
La costituzione della commissione edilizia costituiva parte del contenuto
obbligatorio del regolamento edilizio comunale ai sensi dell'art. 33 della
legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, poi abrogato dall'art. 136 del dpr
06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni; l'art. 4, comma 2, del citato
dpr che ha, peraltro, dettato una nuova disciplina dei regolamenti, ha reso
facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo
di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con
l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449 che, imponendo all'organo di
direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni
amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini
istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di
quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/1999 in
data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha
precisato che «la presenza di organi politici nella commissione edilizia,
deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è
più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale
presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli Enti locali
dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla
previsione del
comma 4, dell'art. 4, del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga, in materia, un principio generale, va
parimenti evidenziato che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come
modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una
deroga all'applicazione del principio di separazione delle funzioni di
indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, richiamato dal
Consiglio di stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97,
comma 4, lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in
deroga a quanto disposto dall'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e dall'art. 107
del citato testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare anche
atti di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio».
In tal senso, il richiamato art. 107 prevede, al comma 4, che «le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui
all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad
opera di specifiche disposizioni legislative».
Il Consiglio di stato in sede giurisdizionale, con
sentenza
26.06.2013 n. 3490, ha ritenuto che «il sindaco potesse legittimamente presiedere
la commissione edilizia integrata, in virtù della specifica previsione in
tal senso posta nel Regolamento edilizio comunale e che trova il supporto
normativo anche nel citato
articolo 53, comma 23, della legge 388/2000,
concernente proprio i comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, e
nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V
della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la
disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie».
Lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza, richiamando la
decisione della IV sezione n. 1070/2009 che si è pronunciata su analoga
questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della normativa, in
materia urbanistica ed edilizia, a consentire a quei Comuni, nell'ambito
dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di
disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione di cui al
Tuel (dlgs n. 267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina
derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato
disposizioni regolamentari che affidano espressamente a un componente della
giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico
preposto alla gestione del settore edilizio (articolo ItaliaOggi del
07.09.2018). |
COMPETENZE GESTIONALI: E'
illegittimo il provvedimento sindacale che ha disposto la decadenza del
ricorrente dall'assegnazione dell'alloggio di E.R.P.
È pur vero che, a norma dell’art. 53, comma 23, della legge finanziaria 23.12.2000 n. 388, gli enti locali con popolazione inferiore a
5mila abitanti (fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4,
lett. d), del dlgs 267/2000, anche al fine di
operare un contenimento della spesa) possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29 e all'art. 107 del predetto
TUOEL, attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento
della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione,
in sede di approvazione del bilancio.
Sennonché, tale espressa deroga legislativa subordina l’attribuzione di
poteri anzidetta all’adozione preventiva di apposite disposizioni
regolamentari organizzative, con successiva documentazione annuale del reale
contenimento di spesa; ma, nella specie, non risulta che il competente
organo consiliare abbia adottato le prescritte modifiche regolamentari (né,
logicamente, in assenza di determinazioni siffatte, può essere stato
valutato l’eventuale contenimento di spesa).
---------------
5) Il ricorso è invece fondato e merita accoglimento per
quanto riguarda l’impugnazione del provvedimento n. 1101/18 del 06/03/2018 con
cui il Sindaco di San Germano Vercellese ha disposto la decadenza del
ricorrente dall'assegnazione dell'alloggio di E.R.P.
È fondato, in particolare, il primo e assorbente motivo di ricorso, con cui
il ricorrente ha dedotto l’incompetenza del Sindaco ad adottare il
provvedimento in questione, in relazione a quanto disposto dall’art. 107 del TUEL in ordine alle competenze dei dirigenti degli enti locali.
Anche a questo riguardo è pertinente il richiamo ad un precedente specifico
di questo Tribunale costituito dalla sentenza della sez. II n. 202 del 25.02.2011, che così si è espressa:
“ …ai sensi dell’art. 107, comma 1, del T.U. di cui al d.lgs. n. 267 dell’08.08.2000, spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi
secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi
si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante
autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali
e di controllo.
In base al comma 2, spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa
l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge
o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti
tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui
rispettivamente agli articoli 97 e 108.
Il comma 3 esemplifica, poi, una serie di compiti di attuazione degli
obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo, in cui
rientrano, tra gli altri (lett. f) i provvedimenti di autorizzazione,
concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e
valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri
predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo,
ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie.
Il comma 4 prevede, quindi, che le attribuzioni dei dirigenti, in
applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative.
In base al combinato disposto di cui alle norme ora dette è da escludere,
quindi, che il Sindaco, quale organo di governo al quale spettano, perciò,
poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, possa porre in
essere atti, quale quello di revoca di un alloggio popolare, del quale qui
si discute, che rientrano nell’ambito della gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica.
In particolare, il provvedimento di cui si tratta appare riconducibile alla
lata formulazione di cui all’art. 107, comma 3, lett. f), sopra riportato,
rientrando l’assegnazione di alloggi e, logicamente, i correlati atti di
revoca, tra i provvedimenti di concessione o analoghi il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel
rispetto di criteri predeterminati dalla legge.
Né le modeste dimensioni del territorio comunale e il ridotto numero di
abitanti possono condurre a derogare ai principi ora detti, dal momento che,
in base al citato art. 107, c. 4, del T.U. n. 267/2000, solo in base alla
legge può derogarsi, e in forma espressa, ad essi.
È pur vero che, a norma dell’art. 53, comma 23, della legge finanziaria 23.12.2000, n. 388, gli enti locali con popolazione inferiore a
5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4,
lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di
operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n.
29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento
della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione,
in sede di approvazione del bilancio (comma così modificato dal comma 4
dell'art. 29 della legge 28.12.2001, n. 448).
Sennonché, tale espressa deroga legislativa subordina l’attribuzione di
poteri anzidetta all’adozione preventiva di apposite disposizioni
regolamentari organizzative, con successiva documentazione annuale del reale
contenimento di spesa; ma, nella specie, non risulta che il competente
organo consiliare abbia adottato le prescritte modifiche regolamentari (né,
logicamente, in assenza di determinazioni siffatte, può essere stato
valutato l’eventuale contenimento di spesa)”.
Sulla questione nessun contributo o osservazione è contenuto nella relazione
inviata dal Comune di San Germano Vercellese a riscontro dell’ordinanza
istruttoria n. 748/2018. E, d’altra parte, una recente conferma dei principi
di cui sopra si rinviene nel parere reso su ricorso straordinario al
Presidente Repubblica dal Consiglio di Stato, sez. I, n. 2535/2017 in data
05/12/2017, in cui si afferma: “Con specifico riferimento alla materia della
decadenza e dello sgombero di alloggi di edilizia l’adozione dei relativi
provvedimenti rientra nella competenza del dirigente”.
Si deve dunque concludere che il provvedimento di decadenza impugnato, in
quanto adottato da un organo incompetente, è illegittimo e va annullato,
fatti salvi i nuovi provvedimenti che l’Amministrazione riterrà
eventualmente di adottare (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 12.07.2018 n. 854 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Rilascio
della regolarità tecnica, contabile e dell'attestazione della copertura
finanziaria sulle determinazioni.
Quesiti
Questo Comune, ai sensi dell'art.
53, comma 23, della legge 23/12/2000 n. 388 come modificato dall'art.
29, comma 4, della legge 448/2001, ha attribuito le competenze
gestionali ai componenti dell'Organo Esecutivo (Sindaco, Vice Sindaco e
Assessore) in assenza dei responsabili dei servizi .
Si chiede di sapere se la regolarità tecnica, contabile e l'attestazione
della copertura finanziaria sulle determinazioni da loro adottati, viene
rilasciata dagli stessi componenti dell'esecutivo o dal Segretario Comunale
in relazione alle sue competenze, onde non ricondurre nella stessa persona
funzioni diverse.
Risposta
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come l'art.
53, comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della sua concreta
applicazione, richieda che l'attribuzione di responsabilità degli uffici e
dei servizi comunali ai componenti degli organi esecutivi, ed il conseguente
potere degli stessi di adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano
essere previsti da specifiche norme regolamentari organizzative.
L'adozione della richiesta norma organizzativa si pone, pertanto, quale
condizione necessaria per l'applicazione dell'articolo in esame, con la
conseguenza che, in mancanza di detto preliminare adempimento, si
renderebbe, di fatto, inapplicabile la norma stessa (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. VIII,
sentenza 29.07.2008 n. 9545).
Ad es., il sindaco può legittimamente presiedere la Commissione edilizia
integrata, ove ricorra specifica previsione in tal senso posta nel
Regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel
nominato
articolo 53, comma 23, della legge n. 388/2000, indirizzato proprio ai
comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, e nella stessa legge
costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della
Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la
disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie. L’esercizio di
tale facoltà è stata riconosciuta legittima anche dalla giurisprudenza del
Consiglio di Stato, e in tal senso si richiama la sentenza della IV sezione
n. 1070/2009 (Consiglio di Stato, sez. III,
sentenza
26.06.2013 n. 3490).
Anche il Min. Interno ritiene che l’art.
53, comma 23, legge 388/2000, come modificato dall’art. 29, comma 4,
della legge 488/2001, consente agli enti locali in presenza di determinati
presupposti, la possibilità di adottare disposizioni regolamentari
organizzative, attribuendo ai titolari dell’organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale. Appare evidente che negli enti privi di
qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di
posizione organizzativa (rif. Min. Interno 29.03.2012).
Pertanto, seguendo detti indirizzi, agli amministratori che svolgono compiti
gestionali competono tutte le prerogative dei responsabili dei servizi ove
ricorrano le condizioni anzidette.
Solo nel caso della responsabilità finanziaria, si deve rammentare che con
la
deliberazione n. 219/2015 della Corte dei Conti, sezione Lombardia,
risulterebbe in contrasto con l’ordinamento vigente, anche per i Comuni con
meno di 5.000 abitanti, la prassi di attribuire al Sindaco anche la
responsabilità del Servizio finanziario dell’Ente, stante la natura
specialistica del profilo (23.05.2018
- tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Non
sussiste l'incompetenza del sindaco a rilasciare la concessione edilizia
(qui impugnata) laddove:
●
ai sensi dell’art. 53, co. 23, l.
388/2000, "gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti
fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con d.lgs.
267/2000, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in
deroga a quanto disposto all'art. 3, co. 2, 3 e 4, d.lgs. 29/1993, e successive
modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo
esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della
spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede
di approvazione del bilancio";
●
nel caso di specie, in attuazione di tale facoltà, l'art. 25 dello statuto
comunale, dedicato alle competenze amministrative del Sindaco, individua in
tale organo la competenza ad emanare le concessioni edilizie; in
particolare, laddove, al comma 1, lett. o), prevede che il Sindaco “rilascia
autorizzazioni commerciali, di polizia amministrativa, nonché le
autorizzazioni e le concessioni edilizie”;
●
del resto, tale facoltà ha trovato riconoscimento anche nella recente
giurisprudenza amministrativa che afferma che è “proprio la complessità della normativa, in
materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici,
a consentire a quei Comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e
regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai
principi generali della separazione tra politica e amministrazione, di cui
al T.U.E.L. (D.Lgs. n. 267/2000)”.
---------------
9. Con il primo motivo, i ricorrenti contestano
l'incompetenza del Sindaco di La Thuile ad emettere la concessione edilizia
impugnata, in violazione dell’art. 107 d.lgs. n. 267/2000, dell’art. 13
d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 25 dello statuto comunale di La Thuile, che
attribuiscono al dirigente responsabile la competenza ad emanare i
provvedimenti amministrativi.
9.1. Il Collegio rileva al riguardo che, ai sensi dell’art. 53, co. 23, l.
388/2000, "gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti
fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con d.lgs.
267/2000, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in
deroga a quanto disposto all'art. 3, co. 2, 3 e 4, d.lgs. 29/1993, e successive
modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo
esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della
spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede
di approvazione del bilancio".
Con riferimento al Comune di La Thuile, come correttamente rilevato dal
primo giudice, in attuazione di tale facoltà, l'art. 25 dello statuto
comunale, dedicato alle competenze amministrative del Sindaco, individua in
tale organo la competenza ad emanare le concessioni edilizie; in
particolare, laddove, al comma 1, lett. o), prevede che il Sindaco “rilascia
autorizzazioni commerciali, di polizia amministrativa, nonché le
autorizzazioni e le concessioni edilizie”.
Del resto, tale facoltà ha trovato riconoscimento anche nella recente
giurisprudenza amministrativa, dalla quale questa Sezione non intende
discostarsi, che afferma che è “proprio la complessità della normativa, in
materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici,
a consentire a quei Comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e
regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai
principi generali della separazione tra politica e amministrazione, di cui
al T.U.E.L. (D.Lgs. n. 267/2000)” (Cons. Stato, sez. III,
sentenza
26.06.2013 n. 3490).
9.2. Deve pertanto essere respinto il motivo di appello, avendo il Sindaco
legittimamente adottato la concessione edilizia impugnata in quanto
rientrante tra le sue competenze (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.04.2018 n. 2397 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: OSSERVATORIO
VIMINALE / Sindaci negli uffici tecnici. Possono
presiedere la commissione edilizia. Nei piccoli
comuni è ammessa la deroga alla separazione dei poteri.
Quesito
Un ente locale con popolazione
inferiore ai 5mila abitanti può affidare al sindaco la presidenza della
commissione edilizia comunale, e nominare il responsabile dell'ufficio
tecnico quale componente della stessa, avvalendosi della facoltà di derogare
al principio della separazione di poteri e previa modifica del regolamento
edilizio?
Risposta
L'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, secondo cui la
costituzione della Commissione edilizia costituiva parte del contenuto
obbligatorio del regolamento edilizio comunale, è stato abrogato dall'art.
136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, che ha, peraltro,
dettato una nuova disciplina dei regolamenti; l'art. 4, comma 2, del citato
dpr ha, inoltre, reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia,
confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con
l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449 che, imponendo all'organo di
direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni
amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini
istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di
quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/1999 in
data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha
precisato che «la presenza di organi politici nella Commissione edilizia,
deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è
più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale
presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli enti locali
dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla
previsione del
comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga un principio generale applicabile in
materia, va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n.
388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha
previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione
delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione,
sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di Stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97,
comma 4, lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in
deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del
citato testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio».
In tal senso, il richiamato art. 107 prevede, al comma 4, che «le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui
all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad
opera di specifiche disposizioni legislative» ed è indubbio che la
citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso
introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il Consiglio di stato in sede giurisdizionale (sezione Terza)
con
sentenza
26.06.2013 n. 3490 ha ritenuto che «il sindaco potesse
legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della
specifica previsione in tal senso posta nel regolamento edilizio comunale e
che trova il supporto normativo anche nel citato
articolo 53, comma 23,
della legge 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001,
recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà
regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle
funzioni proprie».
Del resto, lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza,
richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009, che si è pronunciata
su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della
normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti
radioelettrici, a consentire a quei comuni, nell'ambito dell'autonomia
statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che
deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs n.
267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina
derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato
disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della
giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico
preposto alla gestione del settore edilizio (articolo ItaliaOggi del
02.03.2018). |
COMPETENZE
GESTIONALI: Attribuzione
al Commissario straordinario della responsabilità degli Uffici e servizi.
Sintesi/Massima
L’affidamento dei poteri gestionali ai componenti
dell'organo esecutivo trova fondamento nel
comma 23 dell'art. 53 della legge
23.12.2000, n. 388 poi modificato dall’ art. 29, comma 4, della legge
28.12.2001, n. 448 (legge finanziaria 2002) che introduce una deroga al
principio generale della separazione dei poteri (in particolare, rispetto
alle competenze dirigenziali di cui all’art. 107 del T.U.O.E.L. e all’art. 4
del decreto legislativo n. 165/2001) nell'ambito delle amministrazioni
pubbliche, rimanendo esclusi i compiti meramente esecutivi o operativi.
Le disposizioni legislative predette non necessariamente indicano
l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo
provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente
in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV,
23.02.2009 n. 1070; V,
06.03.2007 n. 1052; TAR Lombardia, Milano, II,
18.05.2011 n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter,
22.03.2011 n. 2534).
Nella fattispecie di comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti,
fatte salve eventuali espresse limitazioni scaturenti dallo Statuto
comunale, il Commissario straordinario può legittimamente attribuire a sé,
con i poteri della Giunta comunale, la facoltà di gestione di un settore
dell’Amministrazione.
Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine alla possibilità dell’assunzione
diretta della responsabilità degli uffici e dei servizi, con il potere di
adottare atti anche di natura tecnico- gestionale, in sostituzione di un
responsabile di servizio, che ha chiesto un lungo periodo di aspettativa.
Ciò alla luce dell’articolo 53, comma 23, della legge n. 388/2000 come
modificato dall’art. 29, comma 4, della legge n. 448/2001.
Al riguardo, si osserva che il citato comma 23 dell'art. 53 della legge
23.12.2000, n. 388 (legge finanziaria 2001) consentiva agli “enti locali”
con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti, in mancanza di figure
professionali idonee nell'ambito dei dipendenti, di adottare disposizioni
regolamentari organizzative, anche in deroga all'art. 107 del decreto
legislativo n. 267/2000, mirate ad attribuire ai componenti dell'organo
esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
Detta disposizione, com'è noto, è stata poi modificata sempre dal citato
art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001, n. 448 (legge finanziaria 2002),
che ha ribadito la predetta facoltà, estendendola agli enti fino a 5.000
abitanti, senza necessità di dimostrare la mancanza non rimediabile di
figure professionali idonee, con la conseguenza che risulta irrilevante
anche la presenza all’interno dell’Amministrazione di tali figure
professionali (conforme, TAR Lombardia n. 1644/2017 del 18/07/2017).
L'applicazione della norma deve essere finalizzata, tuttavia, al
contenimento della spesa, la quale deve essere documentata ogni anno, con
apposita deliberazione, in sede di approvazione di bilancio (art. 53, comma
23, l. 388/2000).
Quindi l'affidamento dei poteri gestionali ai componenti dell'organo
esecutivo trova fondamento nella succitata disposizione che introduce una
deroga al principio generale della separazione dei poteri (in particolare,
rispetto alle competenze dirigenziali di cui all’art. 107 del T.U.O.E.L. e
all’art. 4 del decreto legislativo n. 165/2001) nell'ambito delle
amministrazioni pubbliche, rimanendo esclusi i compiti meramente esecutivi o
operativi.
Nella fattispecie, si segnala la decisione n. 4688 del 2.10.2006 con la
quale il TAR Puglia–Lecce, ha precisato che tale facoltà può essere
esercitata previe “disposizioni regolamentari organizzative”.
Tuttavia, più recentemente il TAR Lombardia con la già citata
sentenza 18.07.2017 n. 1644, ha stabilito, altresì, che alla luce del
consolidato orientamento giurisprudenziale, la disposizione legislativa non
necessariamente indica l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente
che il relativo provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale
organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento
degli uffici e dei servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV,
23.02.2009 n. 1070;
V,
06.03.2007 n. 1052;
TAR
Lombardia,
Milano, II,
18.05.2011 n. 1278;
TAR Lazio,
Roma, II-ter,
22.03.2011 n. 2534).
Trattandosi di comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e
sembrando sussistere anche le altre condizioni per l’applicazione della
norma (fatte salve eventuali espresse limitazioni scaturenti dallo Statuto
comunale), si ritiene, pertanto, che il Commissario straordinario possa
legittimamente attribuire a sé, con i poteri della Giunta comunale, la
facoltà di gestione di un settore dell’Amministrazione (parere
10.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: OSSERVATORIO
VIMINALE / Sindaco in ufficio tecnico. Mini-enti, deroga alla separazione
dei poteri. Il primo cittadino può presiedere la commissione edilizia
comunale.
Quesito
Un ente locale con popolazione inferiore ai 5mila abitanti, avvalendosi
della facoltà di derogare al principio della separazione di poteri e previa
modifica del regolamento edilizio, può affidare al sindaco la presidenza
della commissione edilizia comunale e nominare il responsabile dell'ufficio
tecnico quale componente della stessa?
Risposta
L'art. 136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, ha
abrogato l'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, secondo cui
la costituzione della commissione edilizia costituiva parte del contenuto
obbligatorio del regolamento edilizio comunale, fornendo una nuova
disciplina dei regolamenti; all'art. 4, comma 2, ha, inoltre, reso
facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo
di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con
l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449, il quale, imponendo all'organo di
direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni
amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini
istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di
quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/1999 in
data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha
precisato che «la presenza di organi politici nella Commissione edilizia,
deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è
più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale
presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli enti locali
dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla
previsione del comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga un principio generale applicabile in
materia, va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n.
388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha
previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione
delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione,
sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97,
comma 4, lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in
deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del
predetto Testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio».
In tal senso, il citato art. 107 prevede, al comma 4, che «le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui
all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad
opera di specifiche disposizioni legislative» ed è indubbio che la
citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso
introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il Consiglio di stato in sede giurisdizionale (sezione Terza)
con
sentenza
26.06.2013 n. 3490 ha ritenuto che «il sindaco potesse
legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della
specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento edilizio comunale e
che trova il supporto normativo anche nel citato
articolo 53, comma 23,
della legge 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001,
recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà
regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle
funzioni proprie».
Del resto, lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza,
richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009, che si è pronunciata
su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della
normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti
radioelettrici, a consentire a quei comuni, nell'ambito dell'autonomia
statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina
derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato
disposizioni regolamentari che affidino espressamente ad un componente della
giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico
preposto alla gestione del settore edilizio (articolo ItaliaOggi del
18.08.2017). |
COMPETENZE GESTIONALI: L’art.
53, comma 23, della L. n. 388/2000 prevede
innanzitutto che, al fine di attribuire la responsabilità di un Ufficio o un
Servizio comunale ad un componente della Giunta, debba essere adottato un
regolamento di organizzazione, quale presupposto indispensabile per derogare
alla normativa primaria.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la suddetta disposizione
legislativa non necessariamente indica l’approvazione di un regolamento,
essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato dalla
Giunta comunale, quale organo competente in materia di adozione dei
regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.
---------------
Non può essere accolta la
parte della doglianza che deduce l’illegittimità della nomina sindacale
dell'Assessore, quale responsabile del Servizio Tecnico Comunale, per
mancata successiva documentazione del contenimento della spesa, in sede di
approvazione del bilancio.
Invero, un eventuale inadempimento di tale obbligo, avente natura
prettamente contabile, potrà avere conseguenze su altri versanti
dell’attività amministrativa (responsabilità amministrativo-contabile), ma
certo non potrebbe ridondare sulla legittimità delle disposizioni già
assunte.
---------------
... per l’annullamento
- dell’ordinanza del Comune di San Siro, prot. n. 1191 del
03.04.2012, recante l’ordine di demolizione di un berceau in metallo (ossia
un pergolato) realizzato in assenza di permesso di costruire da parte dei
ricorrenti;
- della deliberazione della Giunta comunale di San Siro n.
177/2010, con cui l’Assessore comunale Ma.Ni. è stato nominato Responsabile
del Servizio Edilizia del Comune di San Siro;
- del Regolamento comunale attraverso il quale è stata attribuita
agli Assessori comunali, Responsabili dei Servizi, la potestà di adottare
provvedimenti di gestione anche aventi efficacia esterna;
- di tutti gli atti preordinati, conseguenziali e connessi.
...
1. Il ricorso non è fondato.
2. Con le prime due censure di ricorso si assume l’illegittimità
dell’ordinanza impugnata giacché adottata da un soggetto, ovvero l’Assessore
comunale, che non avrebbe potuto essere investito dell’incarico di
Responsabile del Servizio Tecnico comunale, in quanto non sarebbe stato
adottato il regolamento comunale previsto dall’art. 53, comma 23, della
legge n. 388 del 2000, oltre che in ragione dell’assenza in capo al nominato
dei requisiti professionali necessari per accedere a quel posto.
2.1. Le doglianze sono infondate, secondo quanto di seguito specificato.
In via preliminare va segnalato che si può prescindere dall’esame
dell’eccezione formulata dalla difesa comunale in ordine all’applicabilità
dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 ai casi di
incompetenza relativa, vista l’infondatezza nel merito delle censure.
2.2. L’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, come modificato
dall’art. 29, comma 4, lett. a) e b), della legge n. 448 del 2001,
stabilisce che “gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila
abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d),
del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato
con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un
contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari
organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo
3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo
esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della
spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede
di approvazione del bilancio”.
La citata disposizione prevede innanzitutto che, al fine di attribuire la
responsabilità di un Ufficio o un Servizio comunale ad un componente della
Giunta, debba essere adottato un regolamento di organizzazione, quale
presupposto indispensabile per derogare alla normativa primaria.
Le parti ricorrenti eccepiscono, nel caso de quo, la mancanza di tale
regolamento, che non potrebbe essere sostituito da una semplice
deliberazione di Giunta attraverso la quale si conferisca direttamente
l’incarico (deliberazione n. 177/2010 del 23.12.2010: all. 6 del Comune).
La tesi della ricorrente non appare condivisibile alla luce del consolidato
orientamento giurisprudenziale, cui il Collegio intende aderire, secondo il
quale la disposizione legislativa non necessariamente indica l’approvazione
di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia
deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in materia di
adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 23.02.2009, n. 1070; V, 06.03.2007, n. 1052; TAR
Lombardia, Milano, II, 18.05.2011, n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter,
22.03.2011, n. 2534).
2.3. Non può essere accolta nemmeno la parte della doglianza che deduce
l’illegittimità della nomina per mancata successiva documentazione del
contenimento della spesa, in sede di approvazione del bilancio, considerato
che un eventuale inadempimento di tale obbligo, avente natura prettamente
contabile, potrà avere conseguenze su altri versanti dell’attività
amministrativa (responsabilità amministrativo-contabile), ma certo non
potrebbe ridondare sulla legittimità delle disposizioni già assunte (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 14.10.2011, n. 5536).
2.4. Infine non appaiono fondati nemmeno i rilievi attraverso i quali è
stato eccepito che tra i dipendenti comunali vi sarebbe un soggetto idoneo
ad assumere le funzioni di Responsabile del Servizio (arch. Pa.) e che
l’Assessore Ma. non sarebbe in possesso del titolo di studio previsto dalla
normativa regolante l’attribuzione di incarichi dirigenziali (artt. 109 del
T.U.E.L. e 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001).
Quanto alla presenza di un dipendente idoneo a ricoprire la posizione va
richiamato l’art. 29, comma 4, lett. b), della legge n. 448 del 2001 che ha
soppresso l’inciso “che riscontrino e dimostrino la mancanza non
rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti”
originariamente contenuto nell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del
2000, con la conseguenza che risulta irrilevante la presenza all’interno
dell’Amministrazione di figure professionali idonee, non essendo più
richiesta la sussistenza di tale presupposto.
Con riguardo al mancato possesso in capo all’Assessore comunale del titolo
di studio, va infine evidenziato che la posizione di Responsabile del
Servizio nel Comune di San Siro non è attribuita ad una figura avente
qualifica dirigenziale, ma ad un dipendente con qualifica di istruttore
direttivo (D2 nella declaratoria delle categorie dei dipendenti degli Enti
locali), con conseguente inapplicabilità delle disposizioni riguardanti la
qualifica dirigenziale.
Peraltro la natura derogatoria del citato art. 53, legata anche alla
peculiare posizione degli Enti locali di piccole dimensioni, consente di
attribuire gli incarichi anche a prescindere dal titolo di studio dei
soggetti nominati, come dimostrato anche dalla irrilevanza dell’assenza di
figure idonee all’interno dell’Amministrazione, prevista invece nella
versione originaria della norma e poi soppressa dall’art. 29, comma 4, lett.
b), della legge n. 448 del 2001.
2.5. Pertanto, alla stregua delle suesposte considerazioni, le prime due
censure di ricorso devono essere respinte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.07.2017 n. 1644 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: L’art.
53, comma 23, della legge 23.12.2000 n. 388, come modificato dall’art. 29,
comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448 così dispone: “Gli enti locali con
popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui
all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs
18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario
anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs
03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale”.
Il Consiglio di Stato ha stabilito che la previsione normativa introdotta
dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 ha “l’evidente scopo di
assicurare la necessaria funzionalità ai Comuni “polvere”, i cui organici
sono privi di posizioni dirigenziali, permettendo loro di coprire le
posizioni apicali all’interno della propria “micro-struttura” mediante
ricorso ai componenti dell’organo di direzione politica”. Ne consegue che il
carattere derogatorio della norma in esame, rispetto al principio generale
di separazione dei poteri, è previsto nei piccoli enti al fine di favorire
il contenimento della spesa e consentire soluzioni di ordine pratico ad
eventuali problemi organizzativi nelle realtà di modeste dimensioni
demografiche.
La norma in esame, dunque, assume carattere di specialità e si pone quale
limite all’applicazione del generale principio della successione delle leggi
nel tempo.
Da ciò deriva che il principio contenuto nella norma speciale risulta
insuscettibile di abrogazione tacita o implicita da parte di una norma
generale sopravvenuta. Si deve dunque ritenere che l’art. 53, comma 23,
della legge 388/2000, configurandosi quale norma speciale, prevalga sulla
disciplina di portata generale in materia di inconferibilità e
incompatibilità, introdotta successivamente ad opera del D.lgs. n. 39/2013
recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di
incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in
controllo pubblico, a norma dell'art. 1, commi 49 e 50, della legge
06.11.2012, n. 190”.
A tale conclusione perviene anche l’ANCI che rileva che la deroga introdotta
dall’art. 53, comma 23, della legge 388/2000 è tanto più significativa a
seguito dell’entrata in vigore del D.lgs. 39/2013, evidenziando che: “la
portata disapplicativa della norma lascia presumere, in assenza di
indicazioni contrarie, che in quanto lex specialis debba prevalere sulle
disposizioni generali in tema di incompatibilità, escludendo quindi
un’ipotesi di abrogazione tacita”.
Quanto alla giurisprudenza contabile, la Sezione di Controllo per la
Lombardia della Corte dei Conti, in riferimento al principio della
separazione tra politica e amministrazione, ha inoltre stabilito che “è
indubitabile che la separazione tra gestione e indirizzo politico sia un
principio fondamentale dell’organizzazione pubblica delineatosi nel corso
degli anni ’90; tuttavia, come ricavabile dalla giurisprudenza della
Consulta in materia di spoils system si tratta di un principio che -pur
avendo un fondamento costituzionale– rimane di matrice legislativa
ordinaria”.
Pertanto, il principio di separazione tra politica e amministrazione
“esprime uno dei possibili moduli organizzativi attraverso cui realizzare i
principi di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost. ed il
Legislatore è libero di individuare modelli alternativi e diversi, che
prevedono vari livelli di compenetrazione o separazione tra politica e
gestione, salvo il limite costituzionale di ragionevolezza di tale scelte,
imposto dal citato art. 97 Cost. Tale disposizione costituzionale, infatti,
impone al Legislatore di bilanciare il buon andamento dell’azione
amministrativa (principio che può giustificare -ad esempio, con riferimento
ai ruoli di dirigenza apicali- l’assottigliamento dei diaframmi tra organi
politici e amministrazione, in modo da consentire un’immediata traduzione in
atti amministrativi delle direttive politiche) con il principio di
imparzialità, che nella separazione e nel giusto procedimento vede dei
precipitati certamente essenziali”.
In riferimento alla norma introdotta dall’art. 53, comma 23, della legge n.
388/2000 la Sezione di controllo in parola stabilisce infine che “nei Comuni
con popolazione inferiore a 5mila abitanti, le funzioni dirigenziali
possono essere attribuite ai componenti della giunta, previa introduzione di
apposite disposizioni regolamentari. Si tratta di un caso paradigmatico in
cui il Legislatore, in presenza di un’esigenza ragionevole,
costituzionalmente rilevante in quanto collegata al buon andamento
(segnatamente l’esigenza di contenere i bilanci nei Comuni di più modeste
dimensioni) ha optato per un parziale ritorno alla commistione fra politica
e amministrazione, il cui superamento ha invece rappresentato un principio
cardine delle riforme nell’ultimo decennio del secolo scorso”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Acquaviva di Isernia (IS), con nota prot. n.
1898 del 21.10.2016, acquisita al protocollo di questa Sezione n. 2058 del
28.10.2016, ha formulato una richiesta di parere in ordine all’esatta “portata”
e alla legittima “applicabilità/operatività” dell’art. 53, comma 23,
della legge 23.12.2000 n. 388, come modificato dall’art. 29, comma 4, della
legge 28.12.2001 n. 448.
In particolare, il Sindaco premette che due dei tre servizi previsti
dall’assetto organizzativo del Comune (Finanziario ed Amministrativo)
risultano scoperti dal 01.09.2016 e che è risultato impossibile sia nominare
un segretario comunale che indire procedure concorsuali pubbliche, nonché si
è rivelata infruttuosa la richiesta ai Comuni della provincia di Isernia
della disponibilità di personale da utilizzare mediante convenzione dei
servizi ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. 267/2000 ovvero mediante
l’istituzione del comando per distacco part–time.
Tanto esposto il Sindaco ritiene che, per fronteggiare la grave e
complessa situazione organizzativa, l’unica soluzione possibile sembra
essere quella prevista dell’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000 n.
388, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448.
...
Concentrando pertanto l’approfondimento nel merito alla valutazione
dell’esatta “portata” della norma, si ricorda che, come noto, l’art. 53,
comma 23, della legge 23.12.2000 n. 388, come modificato dall’art. 29, comma
4, della legge 28.12.2001 n. 448 così dispone: “Gli enti locali con
popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui
all'articolo 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario
anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del
decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e
all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale”.
All’evidenza, la norma reca una battuta d’arresto nel processo di
distinzione dei compiti tra gli organi di governo e l’apparato burocratico.
In particolare, nella sua formulazione originaria consentiva ai Comuni con
meno di 3mila abitanti di attribuire ai componenti dell’organo esecutivo
–assessori e sindaco– la responsabilità degli uffici e dei servizi, nonché
il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale, in presenza
dei seguenti requisiti:
- popolazione inferiore a 3mila abitanti;
- riscontro o dimostrazione della mancanza non rimediabile di
figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti;
- emanazione di disposizioni regolamentari organizzative, se
necessario, anche in deroga a quanto disposto dall’art. 3, commi 2, 3 e 4
del D.Lgs. n. 29/1993 e dell’art. 107 del TUEL.
La norma fa comunque salva la facoltà di affidare le competenze in esame ai
segretari comunali.
Attraverso l’emanazione dell’art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448
(legge finanziaria per l’anno 2002) il legislatore ha modificato il citato
art. 53, da una parte, ampliandone l’ambito di operatività tramite
l’estensione dell’applicazione ai Comuni con popolazione inferiore a
5mila abitanti e, dall’altra, eliminando il riferimento alla mancanza
non rimediabile di figure professionali idonee.
Pertanto la scelta, da parte del Comune, di avvalersi della potestà
derogatoria al principio di separazione dei poteri può avvenire attualmente
anche in presenza di dipendenti appartenenti alla categoria D (TAR Emilia
Romagna, sez. staccata di Parma,
sentenza n. 160 del 2009).
È rimasto, invece, l’obiettivo del contenimento della spesa derivante dalla
decisione, documentato annualmente con apposita delibera in sede di
approvazione del bilancio.
In seguito a tali modifiche, quindi, si dilata il margine di iniziativa del
sindaco, che nel superiore interesse dell’efficienza dell’ente e
dell’attuazione del programma può anche pretermettere i dipendenti per
affidare la responsabilità dei servizi agli assessori.
In sostanza, le esigenze di contenimento dei bilanci, almeno nei Comuni di
più modeste dimensioni, possono nuovamente comportare quella commistione fra
politica e amministrazione, il cui superamento, ha invece rappresentato un
principio cardine delle riforme degli anni ’90 (TAR Campania–Napoli, Sez. V,
sentenza 22.10.2003 n. 13054).
In particolare la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come l’art.
53, comma 23, della l. n. 388/2000, ai fini della sua concreta applicazione,
richieda che l’attribuzione di responsabilità degli uffici e dei servizi
comunali ai componenti degli organi esecutivi ed il conseguente potere degli
stessi di adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano essere
previsti da specifiche norme regolamentari organizzative (TAR Campania,
Napoli sez. VIII
sentenza
29.07.2008 n. 9545).
D’altro canto, il Consiglio di Stato (sez. V,
sentenza n. 5296 del 20.11.2015) qualifica la norma introdotta dalla
legge finanziaria del 2001 quale norma speciale e derogatoria, rispetto sia
al principio di separazione politica-amministrazione sancito dall’art. 107
del TUEL, che all’art. 84 del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 (ex codice dei
contratti pubblici).
Trattasi di norma avente natura speciale che, dunque, integra una deroga sia
al principio di separazione dei ruoli tra politica e amministrazione
stabilito dall’art. 107 del TUEL, sia al divieto, contemplato nell’art. 84,
comma 5, del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006, di nominare nelle commissioni di
gara coloro che nel biennio precedente hanno rivestito cariche di pubblico
amministratore relativamente a contratti affidati dalle amministrazioni
presso le quali hanno prestato servizio. La deroga in parola implica che “il
componente della giunta cui è attribuita la responsabilità dei servizi
comunali è pienamente investito delle funzioni connesse a tale attribuzione,
ivi compresa, nel caso contemplato dalla pronuncia in esame, quella di
presidenza delle commissioni di gare per l’affidamento di contratti
d’appalto da parte dell’ente”.
Nella medesima pronuncia il Consiglio di Stato ritiene inoltre che le
ragioni di imparzialità amministrativa perseguite dall’art. 84, comma 5, del
D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere “sacrificate” e “giustificate”
pienamente da ragioni di buon andamento dell’attività amministrativa e,
dunque, da “esigenze aventi pari rango costituzionale”. Del resto, è
proprio in ragione di tali considerazioni che la questione di legittimità
costituzionale della norma di cui alla legge finanziaria 2001 è stata
dichiarata manifestamente inammissibile.
Il Consiglio di Stato stabilisce,
pertanto, che la previsione normativa introdotta dall’art. 53, comma 23,
della legge n. 388/2000 ha “l’evidente scopo di assicurare la necessaria
funzionalità ai Comuni “polvere”, i cui organici sono privi di posizioni
dirigenziali, permettendo loro di coprire le posizioni apicali all’interno
della propria “micro-struttura” mediante ricorso ai componenti dell’organo
di direzione politica”.
Ne consegue che il carattere derogatorio della norma in esame, rispetto al
principio generale di separazione dei poteri, è previsto nei piccoli enti al
fine di favorire il contenimento della spesa e consentire soluzioni di
ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà di modeste
dimensioni demografiche.
La norma in esame, dunque, assume carattere di specialità e si pone quale
limite all’applicazione del generale principio della successione delle leggi
nel tempo.
Da ciò deriva che il principio contenuto nella norma speciale risulta
insuscettibile di abrogazione tacita o implicita da parte di una norma
generale sopravvenuta. Si deve dunque ritenere che l’art. 53, comma 23,
della legge 388/2000, configurandosi quale norma speciale, prevalga sulla
disciplina di portata generale in materia di inconferibilità e
incompatibilità, introdotta successivamente ad opera del D.lgs. n. 39/2013
recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di
incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in
controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge
06.11.2012, n. 190”.
A tale conclusione perviene anche l’ANCI che, pronunciandosi sulla questione
nel parere del 18.09.2014, rileva che la deroga introdotta dall’art. 53,
comma 23, della legge 388/2000 è tanto più significativa a seguito
dell’entrata in vigore del D.lgs. 39/2013, evidenziando che: “la portata
disapplicativa della norma lascia presumere, in assenza di indicazioni
contrarie, che in quanto lex specialis debba prevalere sulle disposizioni
generali in tema di incompatibilità, escludendo quindi un’ipotesi di
abrogazione tacita”.
Quanto alla giurisprudenza contabile, la Sezione di Controllo per la
Lombardia della Corte dei Conti, con
parere 08.03.2012 n. 59, in riferimento al principio della separazione tra politica e
amministrazione, ha inoltre stabilito che “è indubitabile che la
separazione tra gestione e indirizzo politico sia un principio fondamentale
dell’organizzazione pubblica delineatosi nel corso degli anni ’90; tuttavia,
come ricavabile dalla giurisprudenza della Consulta in materia di spoils
system (sentenze nn. 233 del 2006; 103 e 104 del 2007; 161 del 2008; 81 del
2010; 124 del 2011) si tratta di un principio che -pur avendo un
fondamento costituzionale– rimane di matrice legislativa ordinaria”.
Pertanto, il principio di separazione tra politica e amministrazione
“esprime uno dei possibili moduli organizzativi attraverso cui realizzare i
principi di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost. ed il
Legislatore è libero di individuare modelli alternativi e diversi, che
prevedono vari livelli di compenetrazione o separazione tra politica e
gestione, salvo il limite costituzionale di ragionevolezza di tale scelte,
imposto dal citato art. 97 Cost. Tale disposizione costituzionale, infatti,
impone al Legislatore di bilanciare il buon andamento dell’azione
amministrativa (principio che può giustificare -ad esempio, con riferimento
ai ruoli di dirigenza apicali- l’assottigliamento dei diaframmi tra organi
politici e amministrazione, in modo da consentire un’immediata traduzione in
atti amministrativi delle direttive politiche, cfr. sent. 233, punto 4.1. in
diritto) con il principio di imparzialità, che nella separazione e nel
giusto procedimento vede dei precipitati certamente essenziali (cfr. sent.
103/2007, punto 9.2. e sent. 104/2007, punto 2.8.-2.10 in diritto)”.
In riferimento alla norma introdotta dall’art. 53, comma 23, della legge n.
388/2000 la Sezione di controllo in parola stabilisce infine che “nei
Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, le funzioni dirigenziali
possono essere attribuite ai componenti della giunta, previa introduzione di
apposite disposizioni regolamentari. Si tratta di un caso paradigmatico in
cui il Legislatore, in presenza di un’esigenza ragionevole,
costituzionalmente rilevante in quanto collegata al buon andamento
(segnatamente l’esigenza di contenere i bilanci nei Comuni di più modeste
dimensioni) ha optato per un parziale ritorno alla commistione fra politica
e amministrazione, il cui superamento ha invece rappresentato un principio
cardine delle riforme nell’ultimo decennio del secolo scorso (cfr. in tal
senso TAR Campania, Napoli, sez. V,
sentenza 22.10.2003, n. 13054)”.
Conclusivamente, occorre ravvisare che le sopra esposte considerazioni
possono fornire delle indicazioni al fine di delineare il tenore e la
portata della norma in questione, fermo restando che spetta agli enti
interessati disegnare, in concreto, la propria organizzazione delle funzioni
avvalendosi dei vari strumenti normativi messi a disposizione
dall’ordinamento giuridico (Corte dei Conti, Sez. controllo Molise,
parere 01.12.2016 n. 167). |
COMPETENZE GESTIONALI: OSSERVATORIO
VIMINALE / Mini-enti, sindaci super. Possono
presiedere le commissioni edilizie. Il principio
della separazione dei poteri è derogabile nei piccoli comuni.
Quesito
Un comune con popolazione inferiore ai 5mila abitanti, avvalendosi della
facoltà di derogare al principio della separazione di poteri e previa
modifica del regolamento edilizio, può affidare al sindaco la presidenza
della commissione edilizia comunale e nominare il responsabile dell'ufficio
tecnico quale componente?
Risposta
La costituzione della commissione edilizia faceva parte del contenuto
obbligatorio del regolamento edilizio comunale come disciplinato dall'art.
33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150. Tale norma fu poi abrogata
dall'art. 136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, il
quale, inoltre, fornendo una nuova disciplina dei regolamenti, all'art. 4,
comma 2, ha reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia,
confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con
l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449, il quale, imponendo all'organo di
direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni
amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini
istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione per
quelli non identificati come indispensabili.
Ciò premesso, la commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n.
492/1999 in data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n.
1/2005, ha precisato che «la presenza di organi politici nella
commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni
e concessioni, non è più consentita dall'assetto normativo attuale» e
che «qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti
comunali, gli enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche»
(in conformità alla previsione del
comma 4, dell'art. 4 del dlgs n.
165/2001).
Tuttavia, se da un lato nel suddetto enunciato si espone un principio
generale applicabile in materia, dall'altro va parimenti osservato
che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art.
29, comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione
del principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo
politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il
richiamato orientamento del Consiglio di stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97,
comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in
deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del
predetto testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi e il potere di adottare atti anche
di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio».
Giova ricordare che il citato art. 107 prevede, al comma 4, che «le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui
all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad
opera di specifiche disposizioni legislative» ed è indubbio che la
citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso
introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il consiglio di stato in sede giurisdizionale (sezione terza)
con
sentenza
26.06.2013 n. 3490 ha ritenuto che «il sindaco potesse
legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della
specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento edilizio comunale e
che trova il supporto normativo anche nel citato
articolo 53, comma 23,
della legge 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001,
recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà
regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle
funzioni proprie».
Peraltro, lo stesso Cds con la medesima sentenza, richiamando la sentenza
della IV sezione n. 1070/2009, che si è pronunciata su analoga questione, ha
ritenuto che «è proprio la complessità della normativa, in materia
urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici, a
consentire a quei comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e
regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai
principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs n. 267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina
derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato
disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della
giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico
preposto alla gestione del settore edilizio (articolo ItaliaOggi del
11.11.2016). |
COMPETENZE
GESTIONALI:
Attribuzione al sindaco della presidenza della commissione edilizia
comunale. Modifica al regolamento edilizio.
Sintesi/Massima
In materia di composizione della Commissione edilizia comunale, sulla base
della giurisprudenza consolidata che trova il supporto normativo anche nell’art.
53, comma 23, della legge 388/2000
e nella legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V
della Costituzione che attribuisce potestà regolamentare ai Comuni circa la
disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie, ai comuni con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti è applicabile la suddetta disciplina
derogatoria qualora l'ente adotti preventivamente disposizioni regolamentari
che affidino espressamente ad un componente della giunta (nella specie, il
sindaco) la responsabilità dell’ufficio tecnico preposto alla gestione del
settore edilizio.
Testo
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale è stato posto un
quesito in ordine alla composizione della commissione edilizia comunale.
In particolare, avendo una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, il
Comune di … si è avvalso della facoltà di derogare al principio della
separazione di poteri affidando al sindaco la presidenza della predetta
commissione e nominando il responsabile dell’ufficio tecnico quale
componente.
Al riguardo, si osserva preliminarmente, che la costituzione della
commissione edilizia faceva parte del contenuto obbligatorio del regolamento
edilizio comunale come disciplinato dall’art. 33 della legge urbanistica
17.08.1942, n. 1150. Tale norma fu poi abrogata dall’art. 136 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, il quale, inoltre, fornendo
una nuova disciplina dei regolamenti, all’art. 4, comma 2, ha reso
facoltativa l’istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo
di organo consultivo. La facoltatività dell’istituzione della commissione
edilizia è coerente con l’art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449, il quale,
imponendo all’organo di direzione politica di individuare ... ogni organo
collegiale con funzioni amministrative ritenuto indispensabile per la
realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, prevede la
relativa soppressione per quelli non identificati come indispensabili.
Ciò premesso, si richiama il
parere n. 492/1999
della Commissione Speciale del Consiglio di Stato, in data 21.05.2003,
diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, con il quale è stato
precisato che “…
la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata a
pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più
consentita dall’assetto normativo attuale”
e che “…qualora
tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli Enti
locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche”
(in conformità alla previsione del
comma 4, dell’art. 4 del d.lgs. n.
165/2001).
Tuttavia, se da un lato nel suddetto enunciato si espone un principio
generale applicabile in materia, dall’altro, va parimenti osservato che
l’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall’art. 29,
comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all’applicazione del
principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo
politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il
richiamato orientamento del Consiglio di Stato. Tale norma, infatti, dispone
che “…
gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva
l’ipotesi di cui all’art. 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali, anche al fine di operare un
contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari
organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo
3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni e all’art. 107 del predetto testo unico, attribuendo ai
componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei
servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita
deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
Giova ricordare che il citato art. 107 prevede, al comma 4, che “le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui
all’articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad
opera di specifiche disposizioni legislative”
ed è indubbio che la citata norma della legge finanziaria 2001 ha
esplicitamente inteso introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi
burocratici.
Nella specie, il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
con
sentenza
26.06.2013 n. 3490
ha ritenuto che “il
sindaco potesse legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata,
in virtù della specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento
edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel nominato
articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, indirizzato proprio ai Comuni
con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, e nella stessa legge
costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della
Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai Comuni circa la
disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie”.
Peraltro, lo stesso C.d.S., con la medesima sentenza, richiamando la
sentenza della IV sezione
23.02.2009 n. 1070,
che
si è pronunciata su analoga questione, ha ritenuto che “è
proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia
nonché in quella di impianti radioelettrici, a consentire a quei Comuni,
nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita,
l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della
separazione di cui al T.U.E.L. (D.Lgs. n. 267/2000)”.
Sulla base della ricostruzione operata si ritiene che, trattandosi di un
comune con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, sia applicabile la
suddetta disciplina derogatoria qualora l'ente in questione abbia
preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano
espressamente ad un componente della giunta (nella specie, il sindaco) la
responsabilità dell’ufficio tecnico preposto alla gestione del settore
edilizio (parere
27.07.2016 - link a http://dait.interno.gov.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Le esigenze di
contenimento dei bilanci, almeno nei Comuni di più modeste
dimensioni, possono oggi nuovamente comportare quella
commistione fra politica e amministrazione.
Invero, l’art. 53, comma 23, della
l. n. 388/2000 disponeva che
"Gli enti locali con
popolazione inferiore a 3mila abitanti fatta salva
l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera d), del
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con dlgs 18.08.2000, n. 267, che
riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di
figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti,
anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative,
se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo
3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all'art. 107 del
predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio.".
Nella versione più recente, risultante dalla modifica
introdotta dal comma 4 dell'art. 29, L. 28.12. 2001, n. 448,
è stato innalzato il limite dimensionale (si parla infatti
di "enti locali con popolazione inferiore a 5mila
abitanti") ed è scomparso l'inciso "che riscontrino e
dimostrino la mancanza non rimediabile di figure
professionali idonee nell'ambito dei dipendenti".
---------------
Il Comune di Conflenti ha pubblicato il Bando del 01.06.2015
per l'appalto di progettazione esecutiva ed esecuzione dei
lavori di rifacimento di parte delle pavimentazioni
stradali, manutenzione delle opere connesse e sistemazione
generale delle strade comunali.
La procedura prescelta è stata quella di cui all'art. 55
D.Lgs. n. 163/2003 e s. m. e i. con criterio di
aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa
previa valutazione delle offerte tecniche sulla base dei
criteri indicati al punto 17 del Bando (con attribuzione di
punteggio previa valutazione —da parte della Commissione di
gara— delle offerte sotto i profili quali-quantitativi).
Alla gara partecipavano tra le altre la ricorrente Fi.
s.r.l. nonché la controinteressata Al.Co. s.r.l..
In data 03.09.2015 il responsabile dell'Ufficio Tecnico
geom. Ni.St. ha comunicato che, nella seduta del 30.08.2015,
l'odierna ricorrente si era classificata seconda con il
punteggio finale pari a 64,62 mentre invece la gara era
stata aggiudicata, provvisoriamente alla ditta Al.Co. s.r.l.
con il punteggio pari a 72,50.
In data 11.12.2015 è stata, infine, pubblicata
l'aggiudicazione definitiva all'odierna controinteressata
Al.Co. S.r.l.
Avverso il provvedimento di aggiudicazione definitiva e gli
atti in epigrafe insorgeva la Fi. s.r.l. società di
ingegneria affidandosi ai seguenti motivi di diritto:
1) VIOLAZIONE ART. 53, COMMA 23, L. 388/2000 poiché con il decreto
n. 14 del 16.11.2015 il Sindaco, senza addurre motivazione
alcuna, si è auto attribuito, ai sensi dell'art. 53, comma
23, L. 388/2000, la responsabilità del Servizio Tecnico con
tutti i conseguenti poteri, tra cui quello di adottare ogni
atto amministrativo anche in deroga al principio di
separazione tra potere politico;
...
Il ricorso è infondato.
Con riferimento al primo motivo di ricorso il
Tribunale osserva che l’art. 53, comma 23, della l. n.
388/2000 disponeva che "Gli enti locali con popolazione
inferiore a 3mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui
all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, che riscontrino e
dimostrino la mancanza non rimediabile di figure
professionali idonee nell'ambito dei dipendenti, anche al
fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se
necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3,
commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio.".
Nella versione più recente, risultante dalla modifica
introdotta dal comma 4 dell'art. 29, L. 28.12. 2001, n. 448,
è stato innalzato il limite dimensionale (si parla infatti
di "enti locali con popolazione inferiore a 5mila
abitanti") ed è scomparso l'inciso "che riscontrino e
dimostrino la mancanza non rimediabile di figure
professionali idonee nell'ambito dei dipendenti".
In sostanza, le esigenze di contenimento dei bilanci, almeno
nei Comuni di più modeste dimensioni, possono oggi
nuovamente comportare quella commistione fra politica e
amministrazione.
Nel caso di specie la nomina del Sindaco è stata peraltro
indotta dalle dimissioni presentate dal precedente
responsabile geom. St. con decorrenza 01.11.2015 (v. decreto
sindacale n. 13 del 16.11.2015) (TAR Calabria-Catanzaro,
Sez. I,
sentenza 16.06.2016 n. 1249 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Nei
piccoli Comuni poteri gestionali a tutto campo per i politici.
L'art. 53, comma 23, della legge 388/2000 (Finanziaria 2001), che consente
ai Comuni con meno di 5mila abitanti di attribuire compiti di gestione ai
componenti dell'organo di vertice politico dell'ente, è una norma di
carattere speciale che costituisce una deroga sia al principio di
separazione dei ruoli tra politica e gestione amministrativa sancito
dall'art. 107 del Tuel, sia al divieto di nominare nelle commissioni di gara
«coloro che nel biennio precedente hanno rivestito cariche di pubblico
amministratore (...) relativamente a contratti affidati dalle
amministrazioni presso le quali hanno prestato servizio» (art. 84, comma 5,
del codice dei contratti).
Questo il principio enunciato dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 20.11.2015 n. 5296,
che assegna una valenza di grande rilievo alla norma al punto da ritenere
che il disposto mosso peraltro dalle tipiche esigenze di contenimento della
spesa pubblica, proprie di una legge finanziaria giustifichi una deroga
sostanziale ai principi dell'ordinamento delle autonomie locali, in ragione
della tutela del buon andamento dell'azione amministrativa.
I fatti
La vicenda addotta in giudizio
prende avvio dal ricorso di un'impresa che impugna gli atti della procedura
di gara per l'affidamento dei lavori di bonifica e messa in sicurezza
dell'ex discarica dei rifiuti solidi urbani, ubicata nel territorio di un
piccolo Comune.
L'impresa contesta, in particolare, che il vicesindaco, quale amministratore
preposto al settore dei lavori pubblici, abbia svolto le funzioni di
presidente della commissione di gara, con effetti invalidanti per
l'aggiudicazione della procedura disposta a favore di un soggetto terzo.
La decisione
Il tema è estremamente delicato, in primo luogo, sotto il profilo del
principio di separazione tra organi di governo e organi gestionali, secondo
cui agli uni competono essenzialmente funzioni di indirizzo politico, di
definizione degli obiettivi e di controllo sul complessivo svolgimento
dell'attività dell'ente locale, mentre agli altri spettano invece, in via
tendenzialmente esclusiva, compiti di gestione del patrimonio e degli
interessi economici dell'ente medesimo, mediante l'esercizio di funzioni e
responsabilità gestionali con rilevanza esterna.
Si noti, oltretutto, che l'articolo 107, comma 3, del testo unico prevede
espressamente il conferimento ai dirigenti sia della presidenza delle
commissioni di gara e di concorso, sia della responsabilità delle procedure
di appalto e di concorso, ivi compresa la stessa nomina della commissione
giudicatrice.
C'è da aggiungere che la nomina dell'amministratore nella commissione di
gara sembra contraddire il principio in base al quale i membri delle
commissioni delle gare pubbliche devono essere provvisti di una specifica e
documentata esperienza di settore, in rapporto alla peculiarità della gara
da svolgere.
Una volta accertato il vizio relativo alla mancanza della professionalità
specifica occorrente, discende da ciò, in via generale, l'illegittimità
della nomina della commissione e l'esigenza che l'ente adotti un
provvedimento in sede di autotutela.
Si tratta di rilievi ben noti al giudice amministrativo e che tuttavia non
lo distolgono dal confermare, nel caso di specie, la reiezione del ricorso
avverso la composizione della commissione giudicatrice, che presiede allo
svolgimento della gara indetta da un piccolo ente locale.
A suffragio di tale decisione il collegio ribadisce l'odierna vigenza
dell'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, che nei Comuni di ridotta
consistenza demografica prevede l'attribuzione della responsabilità degli
uffici ai componenti dell'organo esecutivo, nonché il loro potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
Inutile dire che la decisione in commento trova una particolare eco
specialmente in questo periodo, che registra una battuta d'arresto
nell'attuazione degli obblighi di gestione associata per quasi 6mila piccoli
enti, che rappresentano ben il 70% di tutti i Comuni italiani ((articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.11.2015).
---------------
SENTENZA
- da respingere è anche l’eccezione di inammissibilità del
ricorso per mancata impugnazione del regolamento degli uffici e servizi del
Comune di Luogosano, nella parte in cui è stata recepita la facoltà prevista
per i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti dall’art.
53, comma 23, della L. n. 388/2000 (legge
finanziaria per il 2001) di derogare al principio della separatezza tra
funzioni di indirizzo politico e gestionali enunciato dall’art. 107 t.u.e.l.,
ivi attribuendosi ai componenti della giunta la responsabilità degli uffici
e dei servizi (facoltà introdotta dall’amministrazione resistente con
delibera giuntale n. 9 del 10.01.2007, di modificazione del citato
regolamento);
- come infatti pone in evidenza la società appellante, e
contrariamente a quanto ritenuto dal TAR (che ciò nondimeno ha esaminato nel
merito il ricorso), la contestazione da essa formulata nel presente giudizio
è diretta non già alla preposizione del vicesindaco prof. An.An. di Gr. al
settore lavori pubblici, ambiente ed ecologia del Comune di Luogosano (con
decreto sindacale prot. n. 1453 del 10.06.2011), ma alla nomina dello stesso
a presidente della commissione giudicatrice della procedura di affidamento
qui in contestazione, unico atto lesivo degli interessi della Hg.Am.,
all’esito dell’aggiudicazione della gara a terzi (nei termini sopra
esposti);
- più precisamente, secondo la chiara prospettazione della società,
la nomina in questione viene ritenuta in contrasto con i principi «in
tema di separazione di attività di indirizzo e attività di gestione»
(così l’intitolazione dell’unico motivo di ricorso e d’appello) e con l’art.
84, cod. contratti pubblici (anch’esso richiamato nelle intitolazioni), ed
in particolare, come si evince dalla narrativa della censura formulata nel
presente appello, in primo luogo (§ 2.1) con il divieto, contenuto nel comma
5 della citata disposizione, di nominare commissari delle procedure da
aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa «Coloro
che nel biennio precedente hanno rivestito cariche di pubblico
amministratore (…)relativamente a contratti affidati dalle amministrazioni
presso le quali hanno prestato servizio»; ed in secondo luogo (§ 2.3)
con la regola che impone che i commissari esterni diversi dal presidente
della commissione siano in possesso di «adeguate professionalità», ai
sensi del comma 8 del medesimo art. 84;
- la censura così articolata è ulteriormente corroborata dalla
Hg.Am. dalla circostanza che per tutte le 150 valutazioni da effettuare con
riguardo ai profili tecnici delle offerte presentate in gara, in
applicazione del metodo aggregativo-compensatore previsto nel bando, i
commissari hanno espresso lo stesso coefficiente (§ 2.2).
2. Passando dunque ad esaminare il motivo nel merito, lo stesso deve essere
respinto, per la decisiva considerazione che la citata norma di legge
finanziaria del 2001 che consente ai comuni di più ridotta consistenza
demografica di attribuire compiti di gestione amministrativa ai componenti
dell’organo di vertice politico dell’ente è da considerarsi norma speciale e
derogatoria, tanto rispetto al principio di separazione politica –
amministrazione sancito dal parimenti citato art. 107 t.u.e.l., quanto
all’art. 84 cod. contratti pubblici.
Si tratta infatti di una previsione che ha l’evidente scopo di assicurare la
necessaria funzionalità ai comuni “polvere”,
i cui organici sono privi di posizioni dirigenziali, permettendo loro di
coprire le posizioni apicali all’interno della propria “micro-struttura”
mediante ricorso ai componenti dell’organo di direzione politica.
3. Le ragioni che giustificano questa deroga al principio di separazione
poc’anzi enunciato comporta non può quindi che comportare, quale ulteriore e
coerente conseguenza, che il componente della giunta cui è attribuita la
responsabilità dei servizi comunali è pienamente investito delle funzioni
connesse a tale attribuzione, ivi compresa quella di presidenza delle
commissioni di gare per l’affidamento di contratti d’appalto da parte
dell’ente, ai sensi del comma 3 del più volte citato art. 84, nonché del
comma 1, lett. a) del medesimo art. 107 d.lgs. n. 267/2000 (secondo il quale
ai dirigenti sono attribuiti «tutti i compiti di attuazione degli
obiettivi e dei programmi», tra i quali «la presidenza delle
commissioni di gara»).
In virtù della medesima deroga deve conseguentemente essere ritenuto
inapplicabile il divieto enunciato dal successivo comma 5 del medesimo art.
84, sopra richiamato.
3. Il sacrificio così imposto alle ragioni di imparzialità amministrativa
invece perseguite dalla disposizione del codice dei contratti pubblici
richiamata dalla società appellante è dunque pienamente giustificato da
ragioni di buon andamento dell’attività amministrativa, e dunque da esigenze
aventi pari rango costituzionale. Alla luce di quest’ultima notazione la
questione di legittimità costituzionale della norma di legge finanziaria
2001 sollevata dalla società appellante deve essere dichiarata
manifestamente inammissibile. |
COMPETENZE GESTIONALI:
COMPETENZE
GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Amministratori
degli enti locali. Sindaco. Incarico di P.O. e d.lgs. 39/2013.
Atteso che l'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 si
configura quale norma speciale, sembra potersi ritenere prevalente sulla
norma successiva introdotta dall'art. 12, comma 1, del d.lgs. 39/2013.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità che il Sindaco,
cui è stata conferita la titolarità di una posizione organizzativa dell'area
tecnica in applicazione dell'art. 53, comma 23, della l. 388/2000, possa
mantenere detto incarico alla luce di quanto disposto dall'art. 12, comma 1,
del d.lgs. 39/2013, che recita testualmente: 'Gli incarichi dirigenziali,
interni ed esterni, nelle pubbliche amministrazioni (...) sono incompatibili
con l'assunzione e il mantenimento, nel corso dell'incarico, della carica di
componente dell'organo di indirizzo nella stessa amministrazione o nello
stesso ente pubblico che ha conferito l'incarico (...)'.
Com'è noto, l'art.
53, comma 23, della L. n. 388/2000,
come novellato dall'art. 29, comma 4, della l. 448/2001, prevede che gli
enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva
l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 [1],
anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a
quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo
03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni [2],
e all'articolo 107 [3] del
predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli
uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica
gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
La predetta norma, quindi, ha espressamente introdotto la possibilità di
deroga al generale principio di separazione dei poteri, nei piccoli enti, al
fine di favorire anche il contenimento della spesa e consentire comunque
soluzioni di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà
di modeste dimensioni demografiche.
Il richiamato d.lgs. 39/2013 stabilisce, tra l'altro, una serie articolata e
minuziosa di cause di inconferibilità e incompatibilità, con riferimento a
determinate tipologie di incarichi.
In particolare, l'art. 12, comma 1, definisce le cause di incompatibilità
tra l'assunzione e il mantenimento di incarichi dirigenziali [4],
interni ed esterni, e la carica di componente dell'organo di indirizzo nella
stessa amministrazione che ha conferito l'incarico.
Come già da tempo rilevato, tale norma sembra porsi in netto contrasto con
le previsioni di cui al
comma 23 dell'art. 53 della l. 388/2000 [5].
Premesso che le valutazioni in ordine all'effettiva sussistenza di detto
apparente contrasto spettano esclusivamente alle competenti autorità statali
(ANAC), in via collaborativa si esprimono le seguenti considerazioni.
In relazione al raccordo tra le fonti legislative di cui si discute, preme
rilevare che l'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 si configura, dal punto
di vista giuridico, quale norma speciale (applicabile esclusivamente nei
comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, in deroga al
consolidato principio di separazione dei poteri) e, come tale, prevalente
sulla disciplina, di portata generale in materia di inconferibilità e
incompatibilità, intervenuta successivamente ad opera del d.lgs. 39/2013.
E' da sottolineare, infatti, che il criterio della specialità viene a porsi
quale limite all'applicazione del generale principio della successione delle
leggi nel tempo, secondo il consolidato canone 'lex posterior generalis
non derogat legi priori speciali'. Pertanto, il principio contenuto in
una normativa speciale risulta insuscettibile di abrogazione tacita [6] o
implicita da parte di una norma generale sopravvenuta.
Come rilevato dalla Suprema Corte, 'la regola dell'abrogazione non si
applica quando la legge anteriore sia speciale od eccezionale e quella
successiva, invece, generale (...), ritenendosi che la disciplina generale -
salvo espressa volontà contraria del legislatore - non abbia ragione di
mutare quella dettata, per singole o particolari fattispecie, dal
legislatore precedente. Le norme speciali sono norme dettate per specifici
settori o per specifiche materie, che derogano alla normativa generale per
esigenze legate alla natura stessa dell'ambito disciplinato ed obbediscono
all'esigenza legislativa di trattare in modo eguale situazioni eguali e in
modo diverso situazioni diverse (...) E' ovvio che (...) le norme speciali
(...) si pongano in termini di deroga rispetto a regole generali, perché
finalizzate o a 'calibrare certi istituti alle particolarità specifiche di
un determinato settore o perché sono gli stessi presupposti di fatto che
impongono un intervento legislativo derogatorio delle regole vigenti' [7].
Si segnala, infine, che l'ANCI aveva formulato una proposta di emendamento [8] al
DDL recante 'Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato'- Legge di stabilità 2015, ritenendo necessario
specificare la vigenza della disposizione di cui all'art. 53, comma 23,
della l. 388/2000, 'attesa la finalità di contenimento della spesa cui è
preposta ed il carattere di specialità della stessa, valevole solo per i
piccoli Comuni'.
---------------
[1] In virtù di tale norma il segretario comunale esercita ogni altra
funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal
sindaco.
[2] Ora
art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] La norma prevede l'attribuzione ai dirigenti di tutti i compiti non
compresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo.
[4] A mente di quanto disposto dall'art. 2, comma 2, del medesimo d.lgs.
39/2013, al conferimento negli enti locali di incarichi dirigenziali è
assimilato quello di funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale
(incarico di posizione organizzativa).
[5] Cfr. Conferenza delle Regioni e delle province autonome, ANCI-UPI,
Documento di sintesi sui possibili contenuti delle intese ex commi 60 e 61
dell'art. 1 della l. 190/2012, dell'11.07.2013, in cui si evidenziava
l'opportunità che le intese precisassero il persistere della vigenza delle
previsioni di cui al comma 23, dell'art. 53, della l. 388/2000.
[6] Cfr. parere ANCI del 18.09.2014, ove si rileva che la deroga introdotta
dall'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 è tanto più significativa a
seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 39/2013, evidenziando che: 'La
portata disapplicativa della norma lascia presumere, in assenza di
indicazioni contrarie, che in quanto lex specialis debba prevalere sulle
disposizioni generali in tema di incompatibilità, escludendosi quindi
un'ipotesi di abrogazione tacita (per il principio lex posterior derogat
priori).
[7] Cfr. Corte di Cass. civ., Sez. lavoro,
n. 4900/2012.
[8] 'All'articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 è
aggiunto infine il seguente capoverso: Restano in ogni caso ferme le
previsioni di cui al comma 23 dell'articolo 53 della legge 23.12.2000, n.
388'
(30.01.2015 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).). |
COMPETENZE GESTIONALI: Un
Sindaco in via temporanea ha conferito, ai sensi dell’art. 53, c. 23, della
legge 388/2000, ad un assessore municipale l’incarico di dirigenza dell’area
amministrativa nonostante la presenza nell’area di dipendenti di cat. D e C,
mentre per le ...
Sintesi/Massima
Il surrichiamato art. 15 del CCNL 22.01.2004 ha definitivamente chiarito che
negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i responsabili
delle strutture apicali secondo l’ordinamento organizzativo dell’ente, sono
titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli artt. 8 e seguenti
del CCNL 31.03.1999.
Alla luce delle citate disposizioni, appare evidente che negli enti privi di
qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di
posizione organizzativa.
Pur dovendosi ritenere tuttora applicabile l’art. 53, comma 23, della legge
388/2000 il ricorso a tale disposizione resta, comunque, limitato e
subordinato alla non concessione della posizione organizzativa al personale
in possesso della qualifica apicale dell’ente, al fine del conseguimento di
un effettivo risparmio di spesa.
Per quanto attiene all’ultimo quesito si fa presente che la materia attiene
alla competenza dell’Albo nazionale dei segretari comunali e provinciali cui
la presente è anche diretta.
Testo
Con una nota un segretario comunale di un ente, ha rappresentato che con un
provvedimento il sindaco, in via temporanea, ha conferito, ai sensi
dell'art. 53, comma 23, della legge 388/2000, ad un assessore Municipale
l'incarico della dirigenza dell'area amministrativa nonostante la presenza
nell'area di dipendenti di cat. D e C, mentre per le altre aree, contabile e
tecnica, sono stati lasciati in vita gli incarichi di posizione
organizzativa.
All'uopo è stato chiesto di conoscere se detta normativa: possa ritenersi
ancora applicabile, anche alla luce della disciplina contrattuale di cui
all'art. 15 del CCNL 21.01.2004; possa applicarsi anche in assenza della
modifica del regolamento sull'ordinamento degli uffici ed dei servizi, che
attualmente non disciplina la fattispecie; possa essere applicata per un
solo settore di attività; possa essere giustificabile con la sola vacanza in
organico di dipendenti preposti alla direzione di strutture. E' stato,
inoltre, chiesto se il controllo di regolarità amministrativa nella fase
successiva all'atto di cui all'art. 3 del DL 174/2012 consentito nella legge
213/2012 possa essere espletato dal medesimo segretario comunale nei
confronti dell'assessore municipale incaricato della dirigenza.
In merito ai cennati quesiti si formulano nel complesso le seguenti
osservazioni.
L'art. 53, comma 23, della legge 388/2000,
come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 488/2001, com'è noto,
consente agli enti locali, in presenza di determinati presupposti (avere una
popolazione inferiore a 5.000 ab., non aver affidato le relative funzioni al segretario comunale in base
all'art. 97, c. 4, lett. d), del D.Lgs. n. 267/2000, poter conseguire
risparmi di spesa), la possibilità di adottare disposizioni regolamentari
organizzative, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale, senza la necessità di dimostrare la
mancanza non rimediabile di figure professionali idonee.
Il carattere speciale della norma, che introduce una deroga al generale
principio di separazione dei poteri, richiede necessariamente il rispetto
delle condizioni poste dalla norma medesima per la sua legittima
applicazione. A tal fine si ritiene necessaria la sussistenza di un apposito
atto di giunta o regolamentare che disciplini la fattispecie. Inoltre, data
la specialità della norma, giova evidenziare che il contenimento della spesa
deve essere documentato annualmente in sede di approvazione del bilancio.
Si rammenta, inoltre, che il surrichiamato art. 15 del CCNL 22.01.2004 ha
definitivamente chiarito che negli enti privi di personale di qualifica
dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo l'ordinamento
organizzativo dell'ente, sono titolari delle posizioni organizzative
disciplinate dagli artt. 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999. Alla luce delle
citate disposizioni, appare evidente che negli enti privi di qualifiche
dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di posizione
organizzativa. Conseguentemente, pur dovendosi ritenere tuttora applicabile
l'art. 53, comma 23, della legge 388/2000 il ricorso a tale disposizione
resta, comunque, limitato e subordinato alla non concessione della posizione
organizzativa al personale in possesso della qualifica apicale dell'ente, al
fine del conseguimento di un effettivo risparmio di spesa.
Peraltro, all'applicazione della disposizione in commento non osta il fatto
che la stessa venga utilizzata per un solo settore di attività, tenuto conto
che l'ente gode di ampia autonomia nelle proprie scelte organizzative.
Per quanto attiene all'ultimo quesito si fa presente che la materia attiene
alla competenza dell'Albo nazionale dei segretari comunali e provinciali cui
la presente è anche diretta (Ministero dell'Interno,
parere 18.12.2014
- tratto da e link a https://dait.interno.gov.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Personale degli enti locali. Incarico di P.O. a organo politico.
L'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 consente, negli
enti locali con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, previa adozione di
disposizioni organizzative regolamentari, l'attribuzione della
responsabilità degli uffici ai componenti dell'organo esecutivo, anche in
presenza di dipendenti ascritti alla categoria D nell'organico
dell'amministrazione.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità che un
“consigliere/assessore (esterno)” svolga le funzioni di posizione
organizzativa, in presenza di figure professionali, nell’organico dell’Ente,
ascritte alla categoria D.
L’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, come novellato dall’art. 29,
comma 4, della l. 448/2001, prevede che gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo
97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[1], anche al
fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni
[2], e
all’articolo 107
[3] del predetto
testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai
componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei
servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita
deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Si sottolinea preliminarmente che la disposizione in esame si riferisce
all’attribuzione di funzioni gestionali a componenti dell’organo esecutivo
delle amministrazioni locali: ne consegue l’inapplicabilità della stessa nei
confronti di soggetti che ricoprano esclusivamente la carica di consigliere
comunale.
La predetta norma ha espressamente introdotto la possibilità di deroga al
generale principio di separazione dei poteri, nei piccoli enti, al fine di
favorire anche il contenimento della spesa e consentire comunque soluzioni
di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà di
modeste dimensioni demografiche.
Si ritiene utile precisare, a tal proposito, che la giurisprudenza
amministrativa ha evidenziato come l’art. 53, comma 23, della L. n.
388/2000, ai fini della sua concreta applicazione, richieda che
l’attribuzione di responsabilità degli uffici e dei servizi comunali ai
componenti degli organi esecutivi, ed il conseguente potere degli stessi di
adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano essere previsti da
specifiche norme regolamentari organizzative
[4]. L’adozione
della richiesta norma organizzativa si pone, pertanto, quale condizione
necessaria per l’applicazione dell’articolo in esame, con la conseguenza
che, in mancanza di detto preliminare adempimento, si renderebbe, di fatto,
inapplicabile la norma stessa
[5].
E’ da notare inoltre che la modifica apportata alla norma in esame dall’art.
29, comma 4, della l. 448/2001, non solo ha esteso tale facoltà anche ai
comuni con popolazione fino a 5mila abitanti
[6] (comma 4,
lett. a) ma ha anche abrogato la condizione precedentemente prevista, che
imponeva la verifica preliminare dell’assenza non rimediabile, nella
struttura comunale, di figure professionali idonee nell’ambito dei
dipendenti (comma 4, lett. b).
Pertanto la scelta, da parte del Comune, di avvalersi della potestà
derogatoria al principio di separazione dei poteri può avvenire attualmente
anche in presenza di dipendenti appartenenti alla categoria D
[7].
---------------
[1] In virtù di tale norma il segretario comunale esercita ogni altra
funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal
sindaco.
[2] Ora
art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] La norma prevede l’attribuzione ai dirigenti di tutti i compiti non
compresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo.
[4] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
sentenza
29.07.2008 n. 9545.
[5] Il giudice amministrativo ha individuato proprio nella determinazione di
carattere organizzativo la fonte legittimante del potere esercitato (nella
fattispecie esaminata) dal Sindaco cui erano state attribuite le funzioni di
responsabile del Servizio tecnico (Cfr. TAR Emilia Romagna, sez. staccata di
Parma
sentenza n. 160 del 2009).
[6] Nella precedente formulazione la norma era riferita esclusivamente ai
Comuni con popolazione fino a 3mila abitanti.
[7] Cfr.
parere
30.09.2003 del Ministero
dell’Interno, consultabile in http://incomune.interno.it/pareri
(16.12.2014 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Il
comma 23 dell'art. 53 della legge n. 388 del 2000, nel
testo modificato dell'art. 29, comma 3, della legge
28.12.2001, n. 448 ha il carattere facoltativo, cioè di
previsione di scelta affidata al singolo Comune e nello
stesso tempo mantiene fermo il presupposto già previsto (per
l'attribuzione di competenze all'organo esecutivo) di
concorrente realizzo di contenimento di spesa, annualmente
documentata in apposita deliberazione in sede di
approvazione di bilancio (conf: Corte Cost.
sentenza 16.01.2004 n.
17).
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
dell'Ordinanza n. 16/2012 avente ad oggetto il provvedimento
di sgombero della parte di strada di strada comunale
inglobato nel perimetro della discarica.
...
Visto
l'art.
53, comma 29, della Legge n. 388 del 2000, nel
testo modificato dalla dall'art. 29, comma 4, della legge
28.12.2001 n. 448 secondo cui: "Gli enti locali con
popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva
l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche
al fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se
necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3,
commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto
testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio";
Ritenuto che il
comma 23 dell'art. 53 della legge n. 388 del 2000, nel
testo modificato dell'art. 29, comma 3, della legge
28.12.2001, n. 448 ha il carattere facoltativo, cioè di
previsione di scelta affidata al singolo Comune e nello
stesso tempo mantiene fermo il presupposto già previsto (per
l'attribuzione di competenze all'organo esecutivo) di
concorrente realizzo di contenimento di spesa, annualmente
documentata in apposita deliberazione in sede di
approvazione di bilancio (conf: Corte Cost.
sentenza 16.01.2004 n.
17);
Considerato che, nella specie, l’assessore risulta essere stato
nominato responsabile dell’area funzionale tecnica con
decreto sindacale n. 18/2011 e che il regolamento comunale
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, approvato con
Deliberazione di GC. n. 84 del 10.12.2001 e ss.mm.ii.
(soggetto alle forme di pubblicità generale) contempla la
possibilità di affidare la direzione delle aree anche ai
componenti della giunta (art. 7, comma 1, regolamento);
Considerato che non è in contestazione il fatto che, nel caso di
specie, non sia intervenuta la previa deliberazione di
contenimento della spesa, come dedotto dalla ricorrente
società;
Ritenuto, pertanto, all’esito di una sommaria delibazione, che
risulta fondata la censura con cui si deduce difetto di
competenza;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione
Prima), accoglie e fissa la prima pubblica udienza utile del
mese di febbraio dell’anno 2013 (TAR Calabria-Reggio Calabria,
ordinanza 08.06.2012 n. 284 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Richieste di parere formulate da un segretario di un comune
intese a conoscere se sia possibile attribuire ai componenti dell’organo
politico competenze gestionali, nonostante l’esistenza in pianta organica di
personale di categoria D e se sia possibile ...
Sintesi/Massima
Per il primo quesito l’art. 53, comma 23, legge
388/2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge
488/2001, consente agli enti locali in presenza di determinati presupposti,
la possibilità di adottare disposizioni regolamentari organizzative,
attribuendo ai titolari dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici
e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica
gestionale. Appare evidente che negli enti privi di qualifiche dirigenziali
le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa.
Per il secondo quesito, trattasi di due posizioni giuridiche che non
possono essere considerate equivalenti, pertanto non appare possibile, come
sostenuto dall’Aran, coprire per mobilità un posto di categoria D1 con un
dipendente in possesso di trattamento tabellare iniziale in D3.
Testo
Un prefettura con una nota ha trasmesso le richieste di parere formulate dal
segretario di un comune indirizzate a codesto Dipartimento, intese a
conoscere se sia possibile attribuire ai componenti dell'organo politico
competenze gestionali, nonostante l'esistenza in pianta organica di
personale di categoria D e se sia possibile coprire per mobilità un posto
vacante di cat. D1 con un soggetto in possesso della cat. giuridica D3,
avendo acquisito la preventiva dichiarazione da parte dell'interessato di
rinuncia alla categoria di appartenenza.
Riguardo al primo quesito, l'art. 53, comma 23, della legge 388/2000,
come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 488/2001, consente agli
enti locali, in presenza di determinati presupposti (avere una popolazione
inferiore a 5.000 ab., non aver affidato le relative funzioni al segretario
comunale in base all'art. 97, c. 4, lett. d), del D.Lgs. n. 267/2000, poter
conseguire risparmi di spesa), la possibilità di adottare disposizioni
regolamentari organizzative, attribuendo ai titolari dell'organo esecutivo
la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale, senza la necessità di dimostrare la
mancanza non rimediabile di figure professionali idonee.
Ciò posto, si rammenta che l'art. 15 del CCNL 22.01.2004 ha definitivamente
chiarito che negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i
responsabili delle strutture apicali secondo l'ordinamento organizzativo
dell'ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli
artt. 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999.
Alla luce delle citate disposizioni, appare evidente che negli enti privi di
qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di
posizione organizzativa. Conseguentemente, il ricorso all'art. 53
sopracitato resta limitato e subordinato alla non concessione della
posizione organizzativa al personale in possesso della qualifica apicale
dell'ente, al fine del conseguimento di un effettivo risparmio di spesa.
Relativamente al secondo quesito, il sistema di classificazione del
personale degli enti locali di cui al CCNL 31.03.1999 prevede, nell'ambito
della categoria D, due diverse soglie di accesso relative alla posizione D1
(ex 7^ qualifica funzionale) e alla posizione D3 (ex 8^qualifica
funzionale).
Trattasi di due posizioni giuridiche che non possono essere considerate
equivalenti, tenuto conto del differente trattamento stipendiale iniziale.
Pertanto, non appare, possibile, come in più occasioni sostenuto dall'Aran,
coprire per mobilità un posto di categoria D1 con un dipendente in possesso
di un profilo professionale avente il trattamento tabellare iniziale in D3,
in quanto ciò si tradurrebbe in una dequalificazione professionale del
dipendente, rispetto alle mansioni svolte, proprie di un profilo
professionale corrispondente alla categoria D3.
A nulla rileva, peraltro, l'eventuale consenso del lavoratore alla modifica,
con conservazione del trattamento economico in godimento, del proprio
profilo professionale, (da D3 a D1), in quanto l'eventuale accordo potrebbe
essere impugnato dal lavoratore entro sei mesi dalla data di cessazione del
rapporto di lavoro (Ministero dell'Interno,
parere 29.03.2012
- tratto da e link a https://dait.interno.gov.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: L’art.
53, comma 29, della Legge n. 388 del 2000 ha stabilito che, nei
Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, le funzioni dirigenziali
possono essere attribuite ai componenti della giunta, previa introduzione di
apposite disposizioni regolamentari.
Si tratta di un caso paradigmatico in cui il Legislatore, in presenza di
un’esigenza ragionevole, costituzionalmente rilevante in quanto collegata al
buon andamento (segnatamente l’esigenza di contenere i bilanci nei Comuni di
più modeste dimensioni) ha optato per un parziale ritorno alla commistione
fra politica e amministrazione, il cui superamento ha invece rappresentato
un principio cardine delle riforme nell’ultimo decennio del secolo scorso.
---------------
Il Sindaco del comune di Pellio Intelvi (CO) –comune con popolazione
inferiore ai 5mila abitanti e quindi non soggetto al Patto di Stabilità
(PSI)- ha chiesto un parere sostanzialmente articolabile in due
quesiti:
i) se il compenso previsto per il personale non dirigente che
ricopra funzioni afferenti alla dirigenza ai sensi dell’art. 109, comma 2,
T.U.E.L sia da considerarsi “trattamento accessorio” ai sensi
dell’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78 del 2010, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122;
ii) se in ogni caso –in base ad un’interpretazione che,
secondo le prospettazioni dell’ente, sarebbe “costituzionalmente
orientata” poiché rispettosa dell’autonomia comunale ai sensi dell’art.
114 Cost.- si debba ritenere sottratta agli effetti di tale norma
finanziaria l’attribuzione di posizione organizzativa ai sensi dell’art.
109, comma 2, T.U.E.L., secondo cui, negli enti privi di dirigenza, è
possibile affidare le funzioni dirigenziali a risorse prive di tale
status. Ciò anche laddove tale scelta si traducesse in uno sforamento
del tetto previsto per i trattamenti accessori del personale dal comma 2-bis
dell’art. 9 del D.L. n. 78, pari all’ammontare complessivo delle risorse
destinate per tale tipo di trattamento nell’anno 2010.
...
2. Quanto al quesito sub ii) sulla possibilità o meno dei comuni privi di
dirigenza, di procedere comunque ed in ogni caso alla retribuzione del
personale non dirigente incaricato ai sensi del comma 2 dell’art. 109 T.U.E.L., a prescindere dal superamento del tetto fissato dall’art. 9, comma
2-bis, del D.L. n. 78 del 2010, la Sezione ritiene che la questione rimanga
assorbita da quanto sopra richiamato a proposito dell’identificazione della
base di calcolo della norma (l’“ammontare complessivo”) con i fondi
per la contrattazione decentrata.
Peraltro, in generale, le considerazioni effettuate dal comune meritano
qualche riflessione, in quanto le argomentazioni spese potrebbero in linea
di massima trasportarsi sul piano degli altri vincoli di finanza pubblica in
materia di personale, pur non rilevando, nel caso di specie, l’applicazione
del ridetto art. 9, comma 2-bis: l’ente richiedente, infatti, nella sua
prospettazione ritiene possibile sottrarsi ad un vincolo di spesa per la
necessità di assicurare la distinzione tra politica e amministrazione, anche
nei comuni di piccoli dimensioni, separazione che avrebbe un fondamento
costituzionale e che imporrebbe, perciò, una “interpretazione
costituzionalmente orientata” della summenzionata disciplina
vincolistica.
Si tratta perciò di capire se ed in che modo una simile argomentazione possa
essere posta a fondamento di deroghe agli altri limiti posti in tema di
spesa per il personale, in particolare l’art. 1, comma 562, della legge
296/2006.
In primo luogo, è indubitabile che la separazione tra gestione e
indirizzo politico sia un principio fondamentale dell’organizzazione
pubblica delineatosi nel corso degli anni ‘90; tuttavia, come ricavabile
dalla giurisprudenza della Consulta in materia di spoils system
(sentenze nn. 233 del 2006; 103 e 104 del 2007; 161 del 2008; 81 del 2010;
124 del 2011), si tratta di un principio che -pur avendo un fondamento
costituzionale- rimane di matrice legislativa ordinaria.
Il principio, infatti, esprime uno dei possibili moduli organizzativi
attraverso cui realizzare i principi di buon andamento e imparzialità di cui
all’art. 97 Cost. ed il Legislatore è libero di individuare modelli
alternativi e diversi, che prevedono vari livelli di compenetrazione o
separazione tra politica e gestione, salvo il limite costituzionale di
ragionevolezza di tale scelte, imposto dal citato art. 97 Cost. Tale
disposizione costituzionale, infatti, impone al Legislatore di bilanciare il
buon andamento dell’azione amministrativa (principio che può giustificare
-ad esempio, con riferimento ai ruoli di dirigenza apicali-
l’assottigliamento dei diaframmi tra organi politici e amministrazione, in
modo da consentire un’immediata traduzione in atti amministrativi delle
direttive politiche, cfr. sent. 233/2006, punto 4.1. in diritto) con il principio
di imparzialità, che nella separazione e nel giusto procedimento vede dei
precipitati certamente essenziali (cfr. sent. 103/2007, punto 9.2. e sent. 104/2007,
punto 2.8.-2.10 in diritto).
Del resto, come ha ben ricordato il comune nella propria istanza di parere,
l’art. 53, comma 29, della Legge n. 388 del 2000 ha stabilito che, nei
Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, le funzioni dirigenziali
possono essere attribuite ai componenti della giunta, previa introduzione di
apposite disposizioni regolamentari. Si tratta di un caso paradigmatico in
cui il Legislatore, in presenza di un’esigenza ragionevole,
costituzionalmente rilevante in quanto collegata al buon andamento
(segnatamente l’esigenza di contenere i bilanci nei Comuni di più modeste
dimensioni) ha optato per un parziale ritorno alla commistione fra politica
e amministrazione, il cui superamento ha invece rappresentato un principio
cardine delle riforme nell’ultimo decennio del secolo scorso
(cfr. in tal
senso TAR Campania, Napoli, sez. V, sentenza 22.10.2003, n. 13054).
In secondo luogo, la caratteristica fondamentale della disciplina
finanziaria è quella di non interferire mai, direttamente (a meno di deroghe
espresse), con la disciplina ordinamentale (cfr. deliberazioni di questa
Sezione nn. 679 e 680/2011/PAR): in linea di massima, essa tiene fermi
capacità, facoltà, obblighi, e divieti sostanziali imputabili
all’amministrazione; piuttosto introduce indirette limitazioni alla
discrezionalità operativa degli enti che, a causa dei predetti limiti, sotto
la propria responsabilità, devono effettuare scelte gestionali che li
mettano in condizione di esercitare facoltà e adempiere doveri
compatibilmente con il rispetto di tali obbiettivi di spesa.
Questo vale anche per l’esercizio di legittime prerogative, come, nel caso
di specie, l’affidamento di funzioni dirigenziali a soggetti privi della
qualifica dirigenziale, laddove manchino dipendenti con lo status di
dirigente, ai sensi dell’art. 109 T.U.E.L.. Tale scelta, infatti, non può
prescindere dalla valutazione degli effetti economici sul bilancio dell’ente
e dal rispetto del tetti massimi per la spesa per il personale.
In definitiva, è onere dell’amministrazione adottare moduli organizzativi
che consentano di dotarsi di soggetti abilitati ad agire con i poteri dei
dirigenti con i necessari risparmi di spesa, come, ad esempio,
l’attribuzione di tali funzioni ai componenti dell’organo esecutivo (ai
sensi dell’art. 53 della Legge n. 388 del 2000). In ogni caso, resta ferma
la necessità per l’amministrazione medesima di verificare la compatibilità
di qualsiasi scelta con la vigente disciplina finanziaria (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 08.03.2012 n. 59). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Personale degli enti locali. Poteri di gestione all'organo esecutivo.
Rilevazione popolazione del Comune.
La popolazione del comune da considerare, ai fini dell'applicazione del
disposto dell'art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, è quella risultante
dalla rilevazione del censimento generale della popolazione, ai sensi della
normativa vigente.
Il Comune ha chiesto di conoscere con quale criterio si debba calcolare la
popolazione dell’Ente, ai fini dell’applicazione di quanto disposto
dall’art. 29 della L. n. 448/2001. In particolare, l’Amministrazione si è
posta la questione se si debba far riferimento ai dati del censimento
generale della popolazione o se, invece, si debba tener conto di quanto
disposto dall’art. 12, comma 32, della L.R. n. 17/2008.
L’art.
53, comma 23, della L. n. 388/2000,
prevede che gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti,
fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento
della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se
necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4,
del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e
all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale.
La citata norma prevede, pertanto, per i comuni di minori dimensioni, la
possibilità di affidare la responsabilità di determinati settori comunali
anche ai componenti della giunta, introducendo una deroga espressa al
principio di separazione dei poteri, per cui spetta agli organi di governo
esercitare funzioni di indirizzo politico-amministrativo, mentre agli organi
burocratici (dirigenti e posizioni organizzative) compete l’adozione degli
atti e provvedimenti gestionali.
L’art. 12, comma 32, della L.R. n. 17/2008, prevede che, ai fini di quanto
disposto dall’articolo medesimo della legge regionale, si deve considerare
la popolazione dei comuni risultante, al 31 dicembre del penultimo anno
precedente a quello di riferimento, dai dati delle anagrafi comunali,
contenuti nella rilevazione statistica ufficiale della Regione, desunti
dalla <<Rilevazione
sulla popolazione residente comunale per sesso, anno di nascita e stato
civile (Istatt/Posas)>>
individuata dal programma statistico nazionale, previsto dal decreto
legislativo 06.09.1989, n. 322 (Norme sul Sistema statistico nazionale
e sulla riorganizzazione dell’istituto nazionale di statistica, ai sensi
dell’articolo 24 della legge 23.08.1988, n. 400).
Si ritiene, ad ogni buon conto, che le indicazioni fornite dalla citata
norma si riferiscano alle disposizioni inerenti, nello specifico, al patto
di stabilità interno e al contestuale contenimento della spesa di personale,
con esclusiva applicabilità ai fini predetti.
Qualora non vi sia una norma specifica che disponga diversamente, si reputa
che, per determinare la popolazione di un comune, si debba fare riferimento
ai dati demografici risultanti dall’ultimo censimento, in applicazione della
regola secondo cui la “popolazione
legale”
è determinata dal censimento generale della popolazione, come da ultimo
ribadito dall’art. 2, comma 1, lett. b), e dall’art. 3, comma 2, del D.P.R.
22.05.2001, n. 276
[1].
Anche la giurisprudenza amministrativa ha rilevato che la locuzione “popolazione
del comune”
deve essere interpretata, alla stregua dei principi del nostro ordinamento
giuridico
[2]
intendendosi, pertanto, la popolazione legale, vale a dire, la “popolazione
residente censita”,
non potendo prendersi, ad esempio, in considerazione il concetto di
popolazione anagrafica, specie allorché i dati ricavati dall’anagrafe si
pongano in contrasto con gli atti ufficiali emanati a conclusione del
censimento, attestando una popolazione del comune diversa da quella che per
legge va, invece, mantenuta ferma da un censimento all’altro
[3].
Pertanto, si è dell’avviso che, nell’ipotesi prospettata dall’Ente, si debba
far, comunque, riferimento ai dati del censimento generale della
popolazione.
---------------
[1] Recante regolamento di esecuzione del 14° censimento della popolazione,
del censimento generale delle abitazioni e dell’8° censimento dell’industria
e dei servizi, a norma dell’art. 37 della L. 17.05.1999, n. 144.
[2] Nella fattispecie esaminata si richiamava l’ art. 2, comma 2, del d.p.r.
23.07.1991 n. 254, contenente il regolamento di esecuzione del 13mo
censimento generale della popolazione di cui alla legge 09.01.1991, n. 11.
[3] Cfr. TAR Lazio, Latina, sentenza n. 363 del 13.04.1994 (21.01.2010 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.
29, comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448 che modifica
il
comma 29
dell'art. 53 della Legge n. 388/2000.
Invero, trattasi di intervento legislativo statale
riguardante ”l'organo esecutivo” comunale e le funzioni essenziali
attribuibili allo stesso organo, settore che -pur appartenente in linea di
principio alla materia dell'organizzazione degli enti locali- resta
enucleato dalla norma costituzionale ed attribuito alla competenza esclusiva
dello Stato in forza dell'art. 117, comma secondo, lett. p) della
Costituzione.
Del resto la innovazione apportata dalla disposizione denunciata conserva il
carattere facoltativo, cioè di previsione di scelta affidata al singolo
Comune e nello stesso tempo mantiene fermo il presupposto già previsto
(per l'attribuzione di competenze all'organo esecutivo) di concorrente
realizzo di contenimento di spesa, annualmente documentata in apposita
deliberazione in sede di approvazione di bilancio.
---------------
1.- Con tre separati ricorsi la Regione Marche, la Regione Toscana e la
Regione Basilicata hanno impugnato la legge 28.12.2001, n. 448 (Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge
finanziaria 2002) censurando una serie di disposizioni, tra cui l'art.
29 della stessa legge.
Con ricorso n. 10 del 2002 la Regione Marche ha sollevato, in riferimento
agli artt. 117, commi secondo, lettera e), quarto e sesto, e 119 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 29, commi 1,
2, 3, 4 e 5, della legge 28.12.2001, n. 448.
...
2.- Stante la sostanziale identità dell'oggetto e la evidente connessione
delle questioni proposte, i tre giudizi possono essere riuniti e definiti
con unica sentenza per quanto attiene al predetto
art. 29 della legge n. 448 del 2001, mentre resta riservata a separate
pronunce ogni decisione sulle ulteriori questioni di legittimità
costituzionale della medesima legge.
3.- L'art.
29 della legge n. 448 del 2001 stabilisce una serie di misure tendenti a
rafforzare l'efficienza e la economicità di gestione delle pubbliche
amministrazioni.
...
6.- Il
comma 4 dell'art. 29, modifica il
comma 29
dell'art. 53 della Legge n. 388 del 2000.
Tale ultima disposizione prevedeva che gli enti locali con popolazione
inferiore a 3mila abitanti che dimostrassero la mancanza non rimediabile
di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti, anche al fine di
operare un contenimento della spesa, potessero adottare disposizioni
regolamentari organizzative, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo
(Sindaco e assessori) la responsabilità degli uffici e dei servizi e il
potere di porre in essere anche atti di natura tecnico gestionale.
La norma impugnata ha elevato a 5mila abitanti il limite dimensionale
degli enti locali per l'applicabilità della suddetta disciplina e ha
soppresso il presupposto della mancanza non rimediabile di figure
professionali idonee nell'ambito dei dipendenti.
6.1.- La Regione Marche (reg. ric. n. 10 del 2002) censura il predetto comma
4 dell'art. 29, in quanto violerebbe l'art. 117, comma quarto, della
Costituzione, che riserva alla competenza legislativa regionale cd.
residuale la materia dell'organizzazione degli enti locali.
Anche la Regione Basilicata (reg. ric. n. 20 del 2002) denuncia in via
generale la lesione della competenza regionale in materia di organizzazione.
6.2.- La questione è infondata.
Infatti, trattasi di intervento legislativo statale riguardante ”l'organo
esecutivo” comunale e le funzioni essenziali attribuibili allo stesso
organo, settore che -pur appartenente in linea di principio alla materia
dell'organizzazione degli enti locali- resta enucleato dalla norma
costituzionale ed attribuito alla competenza esclusiva dello Stato in forza
dell'art. 117, comma secondo, lettera p) della Costituzione.
Del resto la innovazione apportata dalla disposizione denunciata conserva il
carattere facoltativo, cioè di previsione di scelta affidata al singolo
Comune e nello stesso tempo mantiene fermo il presupposto già previsto
(per l'attribuzione di competenze all'organo esecutivo) di concorrente
realizzo di contenimento di spesa, annualmente documentata in apposita
deliberazione in sede di approvazione di bilancio.
D'altro canto la norma lascia spazio alla prevista potestà regolamentare dei
Comuni in materia di organizzazione e svolgimento delle funzioni loro
attribuite (art. 117, secondo comma, della Costituzione).
...
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunzie ogni decisione sulle ulteriori questioni di
legittimità costituzionale della legge 28 dicembre 2001, n. 448
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato - Legge finanziaria 2002), sollevate dalle Regioni Marche, Toscana e
Basilicata con i ricorsi indicati in epigrafe;
riuniti i giudizi relativamente all'art. 29 della predetta legge n. 448 del
2001;
- dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art.
29, commi 1, 4,
e 5 della predetta legge 28.12.2001, n. 448,
sollevata, in riferimento all'art. 117, commi quarto e sesto, della
Costituzione, dalla Regione Marche con il ricorso indicato in epigrafe;
- ... (Corte
Costituzionale,
sentenza 16.01.2004 n. 17). |
COMPETENZE GESTIONALI -
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Svolgimento
funzioni responsabile settore (in ente popolazione inferiore 5.000 abitanti)
da Segretario comunale - Applicabilità art. 97, D.Lgs. n. 267 del
18.08.2000.
Sintesi/Massima
Possibilità o meno, attribuzione responsabilità ufficio Tecnico comunale a
suddetto segretario, stante presenza - in organico medesimo settore - due
dipendenti cat. D - Applicazione normativa contrattuale su affidamento
responsabilità e facoltà avvalersi (attese ridotte dimensioni)
art. 53,
comma 23, L. n. 388/2000, come modificato da art. 29, comma 4, L. n.
488/2001.
Testo
Con una nota, un’Amministrazione, con popolazione inferiore ai 5.000
abitanti, ha chiesto di conoscere se sia possibile attribuire la
responsabilità dell’Ufficio Tecnico comunale al segretario comunale ai sensi
dell’art. 97 del D.Lgs. n. 267/2000.
Al riguardo, si rappresenta che, com’è noto, l’art. 97 del citato D.Lgs. n.
267/2000, nell’andare a definire, al comma 4, i compiti e le funzioni, ha
previsto che il segretario comunale eserciti “ogni altra funzione
attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o
dal presidente della provincia…” (lett. d).
Certamente, nell’ambito di questa formula potrebbe rientrare il conferimento
delle funzioni di responsabile di un settore dell’amministrazione. Ciò,
peraltro, trova conferma nella previsione del contratto collettivo
integrativo dei segretari comunali e provinciali sottoscritto il 22.12.2003
che prende in considerazione, autonomamente, l’ipotesi di “affidamento al
segretario di attività gestionali”.
Tuttavia, occorre rilevare che l’art. 15 del CCNL del 22.01.2004, ha
definitivamente chiarito che negli enti privi di personale
di qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo
l’ordinamento organizzativo dell’ente, sono titolari delle posizioni
organizzative disciplinate dagli artt. 8 e seguenti del CCNL del 31.03.1999.
Da quanto sopra emerge, quindi, chiaramente che negli enti
privi di personale dirigenziale le relative competenze spettano ai titolari
di posizione organizzativa.
Conseguentemente, poiché dalla documentazione allegata al quesito risulta
che presso l’Ente sono presenti due dipendenti di cat. D, con profili di
architetto e geometra, attinenti al servizio tecnico, si ritiene che la
discrezionalità riconosciuta al sindaco di conferire al segretario la
responsabilità dell’area di cui trattasi non possa essere esercitata in
violazione del diritto dei predetti dipendenti.
Dalle considerazioni suesposte e tenuto conto del sistema di affidamento
delle responsabilità, che ne incentiva la suddivisione tra il personale in
servizio, emerge, quindi, chiaramente che l’ambito della
discrezionalità riconosciuta al sindaco dal legislatore con la previsione ex
art. 97, può essere legittimamente esercitata solo quale strumento
residuale, ovvero utilizzabile esclusivamente da quelle amministrazioni che
si trovassero nella difficoltà di reperire le necessarie professionalità
all’interno della propria dotazione organica.
Per completezza di informazione, si soggiunge che essendo l’ente in
questione di ridotte dimensioni può avvalersi del disposto di cui all’art.
53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall’art. 29, comma
4, della legge n. 488/2001 (Ministero dell'Interno, parere
17.12.2008 - tratto da e link a https://dait.interno.gov.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Commissione edilizia comunale. Modalità di nomina dei componenti politici.
In ordine alla presenza di componenti politici in seno alla Commissione
edilizia, il principio generale dell'ordinamento italiano della separazione
di funzioni di indirizzo politico e di amministrazione, nonché la recente
posizione espressa dal Consiglio di Stato nel senso di un'esclusione di una
rappresentanza politica all'interno della Commissione, potrebbero indurre i
Comuni a modificare i regolamenti edilizi in senso conforme alla
giurisprudenza del Consiglio di stato, qualora contengano previsioni di
segno opposto.
Pur tuttavia, la derogabilità del principio della separazione di funzioni,
riconosciuta dal legislatore statale e regionale, l'autonomia statutaria
propria dei Comuni in ordine alla disciplina dell'attività edilizia, possono
anche far ritenere che i Comuni possano prevedere o conservare nell'ambito
della propria autonomia normativa una componente politica in seno alla
Commissione edilizia eventualmente costituita.
Il Comune pone un quesito relativo alle modalità di nomina dei componenti
della Commissione edilizia comunale, in funzione consultiva, di cui all’art.
12, della L.R. 10.01.1983, n. 2, “Interventi regionali per i centri
storici”.
Dal testo della norma emerge come la commissione edilizia comunale risulti
integrata, per la specifica funzione consultiva chiamata a svolgere, da una
componente tecnica –due funzionari della Direzione regionale dei lavori
pubblici, il soprintendente ai monumenti competente per territorio, o un suo
delegato, il professionista che ha redatto il piano particolareggiato –e da
una componente espressione di un organo politico– tre rappresentanti del
Consiglio comunale, uno dei quali espresso dalla minoranza.
In ordine ai componenti tecnici, la norma contiene già le indicazioni per la
nomina: il Comune potrà chiedere alla Direzione regionale per i lavori
pubblici (ora Direzione centrale ambiente e lavori pubblici) di designare
due funzionari; alla Soprintendenza ai monumenti competente per territorio
di indicare la persona del Soprintendente, o un suo delegato, che per
espressa previsione normativa è chiamato a integrare la Commissione edilizia
comunale in funzione consultiva; chiamerà a farne parte il professionista
che ha redatto il piano particolareggiato.
In ordine alle modalità di nomina dei rappresentanti del consiglio comunale,
in linea generale, si osserva come il Consiglio di Stato con riferimento
alla finalità di garantire la rappresentanza delle minoranze, abbia espresso
due opposti orientamenti.
In passato il giudice amministrativo ha infatti ritenuto che l’elezione dei
rappresentanti del consiglio comunale andasse effettuata secondo il sistema
del voto separato, con l’elezione del rappresentante di minoranza da parte
dei componenti della stessa minoranza (CDS, 16/10/1995, n. 796).
Di recente e con più pronunce conformi il Consiglio di Stato si è invece
espresso nel senso del sistema del voto limitato, con collegio elettorale
unico, sostenendo come tale modello di voto sia tradizionalmente preordinato
alla realizzazione di una funzione di garanzia delle minoranze (CDS, sez. V,
19/04/2007, n. 1789; CDS, n. 494/2006; CDS, n. 1378/2002).
Pur tuttavia occorre fare alcune considerazioni sulla legittimità, allo
stato normativo e giurisprudenziale attuale, della presenza di organi
politici dell’ente locale nella commissione edilizia.
Infatti, sempre secondo quanto espresso dal Consiglio di Stato, con parere
del 21.05.2003, n. 492/1999, a seguito dell’introduzione del
fondamentale principio di separazione tra funzioni di indirizzo e controllo
degli organi politici e funzioni di gestione degli organi burocratici,
sancito in via generale dall’art. 3 del D.Lgs. n. 29/1993, poi trasfuso
nell’art. 4 del D.Lgs. n. 165/2001, e affermato espressamente per quanto
riguarda gli Enti locali, dall’art. 51 della Legge n. 142/1990, anch’esso
modificato e poi trasfuso nell’art. 107 del D.Lgs. n. 267/2000, che
espressamente attribuisce ai dirigenti la competenza ad emanare le
autorizzazioni e concessioni edilizie, “la presenza di organi politici nella
Commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni
e concessioni edilizie, non è più consentita dall’assetto normativo
attuale”.
Prosegue il Consiglio di Stato, affermando come a seguito delle innovazioni
derivanti dal Testo unico sull’edilizia di cui al D.P.R. n. 380/2001 la
Commissione edilizia ha perso il suo carattere di organo necessario
ex lege
e la sua istituzione è dunque attualmente facoltativa, e dunque “gli enti
locali potranno scegliere se conservarla, adeguando la composizione, oppure
sopprimerla”.
Va peraltro evidenziato come il principio di necessaria separazione fra
indirizzo politico ed amministrazione non sia assoluto ma possa essere
derogato dalla legge, come conferma la deroga di fatto operata dalla
disposizione di cui all’art. 107, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, secondo cui
“spettano ai dirigenti tutti i compiti (…) non ricompresi espressamente
dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo degli organi di governo (…)”, nonché dall’art.
53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388
(come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001, n.
448), che consente agli enti locali, con popolazione inferiore a 5mila
abitanti, di regolamentare l’attribuzione di competenze di natura gestionale
ai componenti degli organi esecutivi.
Nella Regione Friuli Venezia Giulia, il legislatore regionale,
nell’esercizio della potestà esclusiva riconosciuta alla Regione dall’art. 4
dello Statuto, sia in materia di urbanistica che di ordinamento degli enti
locali, con la legge 19.11.1991, n. 52, art. 82, comma 1, aveva
stabilito che “la concessione edilizia è rilasciata dal Sindaco, o dal
diverso organo competente ai sensi dello statuto comunale”, derogando in tal
modo al principio della necessaria separazione tra indirizzo politico e
amministrazione.
Tale legge è stata abrogata dalla L.R. 5/2007, la quale rinvia ai principi
generali della legislazione statale in materia edilizia (art. 37), prevede
espressamente la facoltatività della commissione edilizia (art. 42), e
conferma altresì, esclusivamente in merito al rilascio del permesso di
costruire, la deroga al principio della separazione di funzioni prevedendo
all’art. 43 che il permesso di costruire è rilasciato dal sindaco o da un
suo delegato; diversamente, la riforma regionale nulla dispone in merito
alla competenza degli eventuali provvedimenti di sospensione lavori o
sanzionatori, i quali risultano disciplinati dal D.P.R. 380/2001 (in forza
del richiamo effettuato dal comma 1, lett. g), dell'art. 37 l.r. 5/2007) che
li attribuisce alla competenza del dirigente o del responsabile del
competente ufficio comunale.
Il rinvio ai principi generali della legislazione statale, e dunque al
principio della separazione di funzioni, e l’espressa previsione della
facoltatività dell’istituzione della Commissione sembrerebbero far ritenere
che i principi giurisprudenziali del Consiglio di Stato possano trovare
applicazione all’interno degli enti locali del FVG. I Comuni della Regione
potrebbero dunque dar corso alla modifica dei regolamenti edilizi comunali,
in senso conforme alle considerazioni espresse dal Consiglio di Stato,
qualora contengano previsioni di segno opposto.
Pur tuttavia, il richiamo ai principi generali della legislazione statale,
di cui all’art. 37, L.R. 5/2007, induce a prendere in considerazione anche
l’art. 4, del D.P.R. 380/2001, il quale riconduce all’autonomia statutaria
propria dei Comuni, la disciplina dell’attività edilizia. Tale dato,
unitamente al fatto che la L.R. 2/1983, che prevede una componente politica
nell’ambito della commissione, non è stata espressamente abrogata dalla L.R. 5/2007, e stante la non assolutezza, nel quadro normativo nazionale e
regionale, del principio della separazione delle funzioni, può anche far
ritenere che il Comune possa prevedere o conservare nel Regolamento
edilizio, nell’ambito della propria autonomia normativa di cui all’art. 2,
co. 4, D.P.R. 380/2001, una componente politica all’interno della
Commissione.
Alla luce delle suesposte considerazioni, si suggerisce, dunque, al Comune
di valutare l’opportunità della presenza di rappresentanti politici in seno
alla commissione edilizia eventualmente istituita (08.11.2007 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Divieto per gli organi politici comunali di partecipare alla composizione
della Commissione edilizia nel caso in cui la stessa si esprima quale organo
consultivo.
Sintesi/Massima
Divieto per gli organi politici comunali di partecipare alla composizione
della Commissione edilizia nel caso in cui la stessa si esprima quale organo
consultivo.
Testo
E' stato posto un quesito diretto a conoscere se il divieto per gli organi
politici comunali di partecipare alla composizione della Commissione
edilizia valga nel caso in cui la stessa si esprima quale organo consultivo.
Al riguardo, preliminarmente, si richiama la circolare n. 1/2005 con la
quale questo ufficio ha diramato il parere n. 492/1999 della Commissione
Speciale del Consiglio di Stato in data 21.05.2003, nel quale è stato
precisato che 'la presenza di organi politici nella Commissione edilizia,
deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è
più consentita dall'assetto normativo attuale' e che 'qualora tale
presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli Enti locali
dovranno provvedere alle necessarie modifiche'.
Tuttavia, se da un lato nel suddetto enunciato si espone un principio
generale applicabile in materia, dall'altro, va parimenti osservato che
l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29,
comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del
principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo
politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il
richiamato orientamento del Consiglio di Stato.
Tale norma, infatti, dispone che 'gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97,
comma 4, lettera a), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al
fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29,
e successive modificazioni e all'art. 107 del predetto testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento
della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione,
in sede di approvazione del bilancio'.
È utile ricordare che l'art. 107 sopracitato prevede, al comma 4, che 'le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui
all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad
opera di specifiche disposizioni legislative' ed è indubbio che la citata
norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una
deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Sulla base di tali considerazioni, nel caso in esame, trattandosi di un
comune che ha una popolazione di 2.036 abitanti, si ritiene che sia
applicabile la suddetta disciplina derogatoria qualora l'Ente abbia
preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano
espressamente ad un componente della Giunta la responsabilità dell'ufficio
tecnico, preposto alla gestione del settore edilizio (Ministero
dell'Interno, parere
08.08.2006 - tratto da e link a https://dait.interno.gov.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Composizione Commissione edilizia comunale.
Sintesi/Massima
Il parere n. 492/1999 della Commissione Speciale del Consiglio di Stato del 21.05.2003 precisa che la presenza di organi politici nella Commissione
edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e
concessioni, non è più consentita dall’assetto normativo attuale.
L’art. 53 comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall’art. 29,
comma 4, L. 448/2001, ha, però, previsto una deroga all’applicazione del
principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo
politico-amministrativo da quelle di gestione, su cui si basa il richiamato
indirizzo del Consiglio di Stato. Tale norma dispone che “gli enti locali
con popolazione inferiore a 5mila abitanti…possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a
quanto disposto all’art. 3, commi 2, 3, 4, del D.Lgs. 29/1993 e successive
modificazioni e all’art. 107 T.U.O.E.L., attribuendo ai componenti
dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.”
E’, pertanto, consentito ai comuni, con popolazione inferiore ai 5mila
abitanti, applicare la disciplina derogatoria nell’ipotesi in cui l’ente
sulla base di preventive disposizioni regolamentari abbia affidato ad un
componente della giunta la responsabilità dell’ufficio tecnico, preposto
alla gestione del settore edilizio.
Testo
E' stato chiesto di conoscere se il divieto per gli organi politici comunali
di partecipare alla composizione della Commissione edilizia, valga nel caso
in cui la stessa si esprima quale organo consultivo.
Al riguardo, preliminarmente, si richiama la circolare n. 1/2005 con la
quale questo Ufficio ha diramato il parere n. 492/1999 della Commissione
Speciale del Consiglio di Stato in data 21.05.2003, nel quale è stato
precisato che 'la presenza di organi politici nella Commissione edilizia,
deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è
più consentita dall'assetto normativo attuale' e che 'qualora tale
presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli Enti locali
dovranno provvedere alle necessarie modifiche'.
Tuttavia, se da un lato nel suddetto enunciato si espone un principio
generale applicabile in materia, dall'altro, va parimenti osservato che
l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29,
comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del
principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo
politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il
richiamato orientamento del Consiglio di Stato.
Tale norma, infatti, dispone che 'gli enti locali con popolazione
inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97,
comma 4, lettera a), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al
fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29,
e successive modificazioni e all'art. 107 del predetto testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento
della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione,
in sede di approvazione del bilancio'.
È utile ricordare che l'art. 107 sopra citato prevede, al comma 4, che 'le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui
all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad
opera di specifiche disposizioni legislative' ed è indubbio che la citata
norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una
deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Sulla base di tali considerazioni, nel caso in esame, trattandosi di un
comune che ha una popolazione di 2.036 abitanti, si ritiene che sia
applicabile la suddetta disciplina derogatoria qualora l'ente in questione
abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano
espressamente ad un componente della giunta la responsabilità dell'ufficio
tecnico, preposto alla gestione del settore edilizio (Ministero
dell'Interno, parere
29.05.2006 - tratto da e link a https://dait.interno.gov.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Attribuzione responsabilità degli uffici e servizi ai componenti
della Giunta comunale.
Sintesi/Massima
Attribuzione responsabilità degli uffici e servizi ai componenti della
Giunta comunale.
Testo
E' stato posto da un comune un quesito inerente la facoltà di attribuire la
responsabilità degli uffici e dei servizi ai componenti della Giunta
comunale, come previsto dall'art.
53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388.
L'ente, nel rappresentare che tale facoltà è espressamente consentita dalla
normativa richiamata e pertanto applicabile da parte del comune, rileva,
tuttavia, delle perplessità in ordine alla compatibilità di tale norma con i
principi posti alla base del nuovo ordinamento degli enti locali in materia
di separazione tra attività politica e attività di gestione.
Al riguardo, si fa presente che il
comma 23 dell'art. 53 della legge 23.12.2000, n. 388, legge finanziaria
2001, ha consentito agli enti locali con popolazione inferiore ai 3.000
abitanti, in mancanza di figure professionali idonee nell'ambito dei
dipendenti, di adottare disposizioni regolamentari organizzative, anche in
deroga all'art. 107 del d.lgs. 267/2000, mirate ad attribuire ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
Detta disposizione, com'è noto, è stata poi modificata dall'art. 24, comma
4, della legge 28.12.2001, n. 448, legge finanziaria 2002, che ha ribadito
la predetta facoltà, estendendola peraltro agli enti fino a 5.000 abitanti,
senza necessità di dimostrare la mancanza non rimediabile di figure
professionali idonee. L'applicazione della norma deve essere finalizzata,
tuttavia, al contenimento della spesa, la quale deve essere documentata ogni
anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione di bilancio (art.
53, comma 23, l. 388/2000).
Quindi l'affidamento dei poteri gestionali ai componenti dell'organo
esecutivo trova fondamento nella succitata disposizione che introduce una
deroga al principio generale della separazione dei poteri nell'ambito delle
amministrazioni pubbliche, principio affermato fin dal 1990, con la legge n.
142 e portato a compimento con il d.lgs. 18.08.2000, n. 267.
Pertanto, in riferimento ai diversi chiarimenti richiesti dall'Ente, si
ritiene di specificare che l'eventuale attribuzione della responsabilità
degli uffici e dei servizi -che, peraltro, non si ravvisa possibile alla
Giunta nel suo insieme ma soltanto ai singoli componenti- comporta
necessariamente il rispetto della specifica normativa di riferimento, così
come avviene per il personale comunale. Sicché anche le relative competenze,
riferite all'incarico di responsabile del servizio, debbono essere espletate
mediante atti amministrativi e secondo le procedure stabilite per ogni
singola competenza.
Per completezza, si rammenta che, in riferimento all'articolo 53, comma 3,
del d.lgs. 165/2001, il Consiglio di Stato, con
parere 07.05.2003 n. 2807,
ha ritenuto illegittima la norma regolamentare che assegna la presidenza
delle commissioni di concorso agli organi di direzione politica nominati
responsabili dei servizi ai sensi dell'art.
53, comma 23, della legge 388/2000 (Ministero dell'Interno, parere
30.09.2003 - tratto da e link a https://dait.interno.gov.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
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Oggetto: Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione
pubblica – Ufficio personale delle pubbliche amministrazioni. Quesito in
tema di commissioni di concorso per l’assunzione di personale presso enti
locali.
...
Il Dipartimento della funzione pubblica riferisce che il Comune di Monterosi,
avvalendosi della facoltà prevista dall’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388 (poi modificato in senso ampliativo dall’art. 29,
comma 4, della legge n. 448/2001), ha attribuito ai componenti della giunta
la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare anche
atti di natura tecnica gestionale (deliberazione consiliare 10.01.2001, n.
15).
Successivamente ha approvato un regolamento il cui art. 22 assegna le
presidenze delle commissioni concorsuali “al segretario comunale o al
responsabile del servizio, escludendo la partecipazione degli organi di
direzione politica dell’ente tranne nel caso di nomina come responsabile del
servizio, ai sensi dell’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000”. In
applicazione di tale norma, la giunta ha nominato l’assessore responsabile
del servizio amministrativo presidente della commissione di concorso per la
copertura di un posto di istruttore amministrativo (deliberazione di giunta
28.08.2001, n. 101).
La questione da esaminare è se la norma regolamentare sia compatibile con
l’art. 35, comma 3, lett. e), del D.Lgs. n. 165/2001, secondo il quale devono
far parte delle commissioni di concorso “esperti di provata competenza nelle
materie di concorso scelti fra funzionari delle amministrazioni, docenti ed
estranei alle medesime, che non siano componenti dell’organo di direzione
politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche politiche…”.
Il dubbio nasce perché potrebbe ritenersi implicita nella affidabilità di un
ufficio ad un assessore, prevista dal citato
art. 53, comma 23, della legge
n. 388/2000, la possibilità di assegnare allo stesso assessore la presidenza
di una commissione di concorso, che, di norma, compete ad un dirigente
dell’ente locale (art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267).
Questa tesi non può essere condivisa.
Il citato
art. 23, comma 53, della legge n. 388/2000, che consente agli enti
locali di attribuire, in presenza di determinate condizioni, “ai componenti
dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale”, ha natura
derogatoria rispetto al principio fondamentale che nelle amministrazioni
pubbliche riserva l’attività di indirizzo agli organi di governo e
l’attività di gestione ai dirigenti (art. 4 del D.Lgs. 30.03.2001, n.
165 e art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267).
Vale, allora, il
criterio ermeneutico secondo cui l’interpretazione deve essere strettamente
aderente alla formulazione letterale della norma. Le commissioni di concorso
non sono “uffici” né “servizi”; inoltre, non adottano atti di “natura
tecnica gestionale”, che sono espressione delle competenze proprie degli
uffici e dei servizi, ma formulano giudizi di merito sulle attitudini e
sulla preparazione dei candidati.
L’indirizzo seguito dal Comune
condurrebbe, quindi, ad allargare l’applicazione della norma al di là dei
limiti voluti dal legislatore. Senza considerare che l’interpretazione che
estendesse la portata del predetto art. 23 nel senso prospettato dal Comune
rivelerebbe, per le considerazioni esposte di seguito, la difformità della
norma dai principi espressi dall’art. 97 della Costituzione.
La conclusione esposta trova conferma nella considerazione che il citato
art. 35 del citato D.Lgs. n. 165/2001 regolamenta il reclutamento del
personale da parte delle amministrazioni pubbliche mediante una serie di
“principi” (fra cui il principio relativo alla composizione delle
commissioni di concorso) e si atteggia come fonte di una disciplina speciale
della specifica materia. Per entrambe le ragioni la norma non può ritenersi
cedevole rispetto al disposto del predetto
art. 53, comma 23, della legge n.
388/2000, che concerne l’organizzazione degli enti locali. Tanto più, in
presenza dell’ultimo comma dell’art. 35, secondo il quale i regolamenti
degli enti locali disciplinano l’assunzione agli impieghi “nel rispetto dei
principi fissati dai commi precedenti”.
Viene chiesto di esaminare se e quali riflessi produca sulla questione in
esame la recente riforma operata dalla legge cost. 18.10.2001, n. 3,
che ha sostituito il Titolo V della Costituzione.
L’art. 128, nel testo ora abrogato, riconosceva l’autonomia delle Province e
dei Comuni “nell’ambito
dei principi fissati da leggi generali della Repubblica”.
Secondo il vigente art. 114 “la
Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città
metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e
funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.
Il nuovo art. 117 indica, fra le materie soggette alla legislazione
esclusiva dello Stato, la
“legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di
Comuni, Province e Città metropolitane”
(comma 2, lett. p); attribuisce alle Regioni “la
potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente
riservata alla legislazione dello Stato”
(comma 4); riconosce ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane la “potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”
(comma 6).
Il disposto dell’art. 114 attribuisce, dunque, in via diretta ai Comuni
l’autonomia statutaria, che ha per oggetto i principi e le norme
fondamentali per l’organizzazione e il funzionamento dell’ente. Questo
ambito risulta, pertanto, riservato, al di fuori dei profili di cui all’art.
117, comma 2, lett. p), e fermo restando l’obbligo di rispettare i principi
costituzionali in materia di organizzazione pubblica, alla potestà
regolamentare dell’ente locale.
Potrebbe porsi l’ulteriore questione se la materia relativa al rapporto di
lavoro del personale, che attiene alla organizzazione e al funzionamento
degli uffici, ma non investe profili fondamentali dell’ordinamento
dell’ente, debba intendersi inclusa nella sfera di previsione dell’art. 114.
E, nel caso negativo, se rientri nel disposto del successivo art. 117, comma
4, che assoggetta alla potestà legislativa della Regione ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione statale. Ciò che implicherebbe, in
base al principio di continuità, la sopravvivenza della legislazione statale
nella fase transitoria.
Ma,
ai fini della risposta al quesito, è sufficiente osservare che la
disciplina della materia deve, comunque, rispettare i principi posti dalla
Costituzione in tema di organizzazione pubblica, fra i quali il principio
che vuole assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione
(art. 97, comma 1).
Sul tema si è espressa in più occasioni
la Corte Costituzionale, che
ha
ritenuto incompatibile con il principio stabilito dall’art. 97 della
Costituzione la nomina a presidente della commissione di un’autorità
politica (Corte Costituzionale, 23.07.1993, n. 333).
In concreto
l’incompatibilità è stata riferita ai “delicati
problemi di direzione”
che competono al presidente, la cui posizione esige cautele accentuate di
neutralità, anche per la possibilità di condizionamenti nei confronti degli
altri componenti della commissione.
Questa considerazione e questa conclusione, che poggiano sulla preminenza
del ruolo del presidente nell’ambito della commissione, non sono scalfite
dalla successiva pronunzia della Corte, resa in una fattispecie diversa,
secondo cui “la
presenza di tecnici ed esperti estranei agli organi di governo”
deve essere “se non esclusiva, quanto meno prevalente”.
Per le ragioni esposte,
si ritiene, in conclusione, che la norma
regolamentare in esame, nella parte in cui assegna la presidenza delle
commissioni di concorso agli organi di direzione politica nominati
responsabili del servizio ai sensi dell’art. 53, comma 23, della legge n.
388/2000, sia illegittima (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 07.05.2003 n. 2807). |
... e sulla responsabilità
contabile dell'Organo politico che firma "illegittimamente" atti
gestionali di competenza dirigenziale: |
COMPETENZE GESTIONALI:
Sulla illegittimità
- del provvedimento sindacale di
annullamento, in autotutela, ai sensi dell’art. 21-nonies l. n.
241/1990, della la concessione edilizia in sanatoria, rilasciata
dall’ente locale, in persona del Responsabile dell’Ufficio
Tecnico
- della precedente e presupposta delibera con
cui la Giunta Comunale ha autorizzato il Sindaco in
questione, ai sensi dell’art. 53 L. n. 388/2000, ad assumere
la responsabilità dell’Area Tecnica in luogo del predetto
geom. -OMISSIS-, in esclusiva considerazione dell’assenza di
quest’ultimo per malattia, dal -OMISSIS-.
Colgono nel segno le censure tese a
contestare la violazione, tanto da parte del Sindaco quanto della Giunta Comunale
dallo stesso guidata, degli artt.
107 D.lgs. n. 267/2000 e
53, comma 23, L. n. 388/2000.
L’apprezzamento della fondatezza di siffatte censure
passa dalla preliminare ricognizione della regola generale,
in tema di ordinamento degli enti locali, espressamente
sancita dall’art. 107 T.U.E.L., secondo cui i poteri di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano
agli organi di governo (e, quindi, nel comune, al Sindaco,
Consiglio comunale e Giunta ex art. 36 D.lgs. n. 267/2000,
cd. T.U.E.L.) mentre i poteri di gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica dell’ente, rientrano nella sfera di
attribuzione della cd. Dirigenza.
Tenuto conto del summenzionato principio di separazione
dell’azione amministrativa dalla gestione dell’indirizzo
politico dell’ente locale, la coesistenza di tale duplice
ruolo in capo alla medesima persona (il Sindaco, nel caso di
specie) non è conforme all’ordinamento vigente in quanto il
principio di organizzazione della pubblica amministrazione,
introdotto dal d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nel d.lgs. n.
267/2000, individua quale responsabile dell’azione
amministrativa l’organo al vertice della struttura
burocratica.
Siffatta rigida separazione tra i poteri, sancita dall’art.
107 citato T.U.E.L. (secondo cui: «Spetta ai dirigenti la
direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le
norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si
uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo spettano agli organi di
governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri
di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali
e di controllo») trova riscontro anche nell’art. 4 D.lgs. n.
165/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego), secondo cui:
«1. Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo
politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i
programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti
nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la
rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e
della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano,
in particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione
dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed
applicativo;
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e
direttive generali per l'azione amministrativa e per la
gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed
economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e
la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale
generale;
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili
finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e
analoghi oneri a carico di terzi;
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi
attribuiti da specifiche disposizioni;
f) le richieste di pareri alle autorità amministrative
indipendenti ed al Consiglio di Stato;
g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione
finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi
poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane,
strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via
esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei
relativi risultati.
3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2
possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di
specifiche disposizioni legislative.
4. Le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non
siano direttamente o indirettamente espressione di
rappresentanza politica, adeguano i propri ordinamenti al
principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un
lato, e attuazione e gestione dall'altro. A tali
amministrazioni è fatto divieto di istituire uffici di
diretta collaborazione, posti alle dirette dipendenze
dell’organo di vertice dell’ente».
Una delle ipotesi “derogatorie” a cui si riferisce il
comma 3 della disposizione sopra trascritta, come tale
suscettibile di una interpretazione restrittiva e rigorosa,
secondo quanto previsto dall’art. 14 disp. prel. cod. civ.,
che non ne ampli il cono d’ombra al di fuori delle ipotesi
ivi espressamente previste, coincide con il disposto di cui
all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, secondo cui: «Gli
enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti
fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali, approvato con dlgs 18.08.2000, n. 267,
anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative,
se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs
03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo
ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli
uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di
natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve
essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in
sede di approvazione del bilancio».
In coerenza con il carattere derogatorio della disposizione
in esame rispetto al sopra menzionato principio cardine
della gestione dell’ente locale, la giurisprudenza
amministrativa e contabile, condivisa dal Collegio, è
unanime nel sostenere che la possibilità, per gli enti
locali “minori”, di attribuire ai componenti dell'organo
esecutivo la responsabilità degli uffici è condizionata
all’esistenza di obiettive carenze di organico e deve,
comunque, consentire un risparmio di spesa, in favore
dell’amministrazione.
Lo stesso Ministero dell’Interno, tenuto conto della portata
derogatoria della disposizione in esame, con parere 18.12.2014, ne ha
fornito una interpretazione rigorosa, precisando che la
legittima applicazione della stessa è condizionata non
soltanto dalla sussistenza di un apposito atto di giunta o
regolamentare che disciplini la fattispecie, ma anche dalla
documentazione annuale del risparmio di spesa che ne è
conseguito.
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E' illegittima la Delibera di Giunta Comunale -non recante
alcuna legittima giustificazione- della disposta
attribuzione in capo al Sindaco delle funzioni di
Responsabile dell’Area Tecnica assegnate al geom. -OMISSIS-.
Nel caso di specie, non possono considerarsi sussistenti gli
eccezionali presupposti di operatività del meccanismo
sostitutivo di cui all’art. 53,
comma 23, L. n. 388/2000, il quale non si ritiene
utilizzabile a fronte di mere assenze del dirigente dovute a
malattia.
Tali “assenze”, rientrando invero nell’ordinaria
e, per così dire, fisiologica dinamica del rapporto di
lavoro del dipendente pubblico, devono semmai essere
fronteggiate mediante la razionalizzazione e distribuzione
delle risorse umane, quali la supplenza del Segretario
Comunale, ex art. 97, comma 4, lettera d), T.U.E.L.,
richiamato dallo stesso art. 53 sopra citato, lo strumento
del “comando” ovvero il “servizio/utilizzo in convenzione”.
---------------
E' stata ulteriormente dedotta la violazione dell’obbligo
del Sindaco di astenersi, ai sensi degli artt.
54 D.lgs. n. 165/2001 e
7 D.P.R. n.
62/2013 (cd. codice di comportamento dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni), dall’assumere iniziative avuto
riguardo alla vicenda inerente l’immobile di proprietà delle
sorelle -OMISSIS-.
Tali norme, laddove impongono ai pubblici dipendenti di
astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni ovvero
dal compiere attività che possano coinvolgere interessi di
persone con le quali intercorra una “grave inimicizia”, sono
immediatamente strumentali alla tutela dei principi,
costituzionalmente rilevanti, di trasparenza ed imparzialità
dell’agire della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.),
così da scongiurare anche solo il pericolo che l’attività
compiuta difetti di obiettività.
Sul punto, la giurisprudenza è,
infatti, granitica nell’affermare che il dovere di
astensione dei pubblici dipendenti e degli amministratori
vale a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia
dell'Amministrazione e scatta a fronte di situazioni di
“mero rischio”, in tutti i casi in cui sussistono condizioni
che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione
da assumere, appaiano anche soltanto potenzialmente idonee a
porre in pericolo l'assoluta imparzialità e la serenità di
giudizio dei titolari dell'ente stesso, a prescindere dai
profili o dalle conseguenze penali che possono implicare.
La
prevenzione del conflitto di interessi è, ad oggi, volta non
soltanto a garantire, in concreto ed “a valle”,
l'imparzialità della singola decisione, ma, più in generale
ed “a monte”, a tutelare il profilo dell'immagine di
imparzialità dell'Amministrazione.
---------------
... per l'annullamento,
previa sospensione dell’efficacia:
- della Determinazione n. -OMISSIS-, con cui il Sindaco di
Bassano in Teverina –in qualità di Responsabile del
Servizio D4 “Ragioneria – ha disposto l'annullamento in autotutela, ai sensi della L. 241/1990 art. 21-nonies, del
provvedimento di SCIA in sanatoria relativa all'accertamento
di conformità -OMISSIS- ad oggetto “realizzazione di
modifiche ed ampliamento su edificio in Via -OMISSIS-
autorizzato con Nulla Osta per Esecuzione lavori edili del
-OMISSIS-, immobile distinto in catasto al -OMISSIS-.
Conclusione del procedimento amministrativo”;
- della Deliberazione di Giunta Comunale n. -OMISSIS-,
recante all'oggetto “Autorizzazione al sindaco ad assumere
la responsabilità dell'area tecnica”;
- di ogni altro atto ad esse presupposto, connesso e/o
conseguente, ancorché non cognito, se ed in quanto
illegittimo e lesivo.
Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati in data
-OMISSIS-:
- dell'ordinanza n. -OMISSIS-, notificata a mezzo PEC in
data 24.12.2021, con cui il Sindaco di Bassano in
Teverina – in qualità di Responsabile dell'Ufficio Tecnico –
ha ingiunto alle sig.re -OMISSIS- e -OMISSIS- -OMISSIS-, “a
propria cura e spese, la demolizione e rimozione delle opere
abusive (…) poste in questo comune in Via -OMISSIS-,
distinte in catasto al foglio -OMISSIS- nonché il ripristino
dello stato originale dei luoghi, entro il termine
perentorio di giorni 90”; della Deliberazione di Giunta
Comunale n. -OMISSIS-, avente ad oggetto “Organizzazione
Area Tecnica - Determinazioni”;
- di ogni altro atto ad esse presupposto, connesso e/o
conseguente, ancorché non cognito, se ed in quanto
illegittimo e lesivo.
Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati in data
28/06/2022:
- della Determinazione n. -OMISSIS- –notificata a mezzo pec
in pari data- con cui l'Ufficio Tecnico del Comune di Bassano in Teverina ha disposto il rigetto dell'istanza di
accertamento di conformità prot. n. -OMISSIS-, avente ad
oggetto l'“Ampliamento della Superficie Coperta (SC), della
Superficie Lorda di Pavimento (SLP) e conseguentemente del
Volume (V) del fabbricato precedentemente autorizzato”
(posto in essere attraverso la “realizzazione di un piano
aggiuntivo e di un volume aggiuntivo al piano autorizzato”),
nonché la “realizzazione di un balcone di aggetto inferiore
a 1,20 m”, la “modifica dei prospetti autorizzati e degli
spazi interni” dell'unità immobiliare sita nel Comune di Bassano in Teverina, Via -OMISSIS-;
- di ogni altro atto ad essa presupposto, connesso e/o
conseguente, ancorché non cognito, se ed in quanto
illegittimo e lesivo.
...
1. Con ricorso tempestivamente notificato e depositato, le
ricorrenti, quali proprietarie di un fabbricato residenziale
sito nel Comune di Bassano in Teverina, via -OMISSIS-,
distinto in catasto al Foglio -OMISSIS-, hanno premesso di
aver presentato, in data -OMISSIS-, una S.C.I.A. ai sensi
dell’art. 37 D.P.R. n. 380/2001, al fine di sanare talune
difformità riscontrate tra lo stato di progetto, assentito
dall’amministrazione comunale in data -OMISSIS-, e lo stato
di fatto per come pervenuto loro a seguito della successione
legittima del rispettivo padre.
Con la nota prot. n.
-OMISSIS-, il Sindaco di Bassano in Teverina, in pendenza
della direzione dell’Ufficio Tecnico Comunale in capo al
geom. -OMISSIS-, qualificandosi “Responsabile dell’Ufficio
Tecnico Comunale F.F.”, richiedeva alle ricorrenti una
integrazione documentale della suddetta S.C.I.A. in
sanatoria, con espressa avvertenza che, in mancanza, la
stessa sarebbe stata dichiarata improcedibile, con adozione
dei conseguenti adempimenti da parte dell’amministrazione.
Con nota del -OMISSIS-, prot. n. -OMISSIS-, questa volta il
Responsabile dell’Ufficio Tecnico, geom. -OMISSIS-,
richiamata la precedente richiesta istruttoria del Sindaco (prot.
n. -OMISSIS-) e valutata l’incompletezza della
documentazione prodotta dalle ricorrenti in data -OMISSIS-,
invitava queste ultime a depositare quanto ancora necessario
per la definizione del procedimento di sanatoria.
Preso atto dell’integrazione effettuata in data 24.07.2019,
il predetto Responsabile dell’Ufficio Tecnico, con nota n.
-OMISSIS-, comunicava alle ricorrenti la positiva
conclusione dell’istruttoria, invitandole a produrre la
ricevuta attestante l’avvenuto pagamento dei diritti di
segreteria e, successivamente, con il provvedimento di cui
alla nota prot. n. -OMISSIS-, dava espressamente atto
dell’accoglimento dell’istanza di sanatoria.
Con nota prot. n. -OMISSIS-, il Sindaco del Comune di
Bassano in Teverina, nella dichiarata qualità di “Ufficiale
di Polizia Giudiziaria”, chiedeva al Responsabile
dell’Ufficio Tecnico Comunale di revocare in autotutela la
S.C.I.A. in sanatoria rilasciata in favore delle ricorrenti
nell’ottobre del 2019.
Facendo seguito a tale sollecitazione, il geom. -OMISSIS-,
con nota prot. n. -OMISSIS-, comunicava alle ricorrenti
l’avvio del procedimento di annullamento, in autotutela,
della sanatoria assentita ai sensi dell’art. 37 D.P.R. n.
380/2001 e, a seguito del riscontro da queste ultime
fornito, richiedeva ulteriore documentazione, giusta nota
prot. n. -OMISSIS-.
A questo punto, il Sindaco, nella dichiarata qualità di
Responsabile del Servizio Risorse Umane, con la determina n.
-OMISSIS-, preso atto dell’esigenza di definire celermente
il procedimento di annullamento in autotutela della S.C.I.A.
in sanatoria e ritenuto che il Dirigente dell’Ufficio
Tecnico, tenuto conto di tutte le istruttorie pendenti, non
fosse in grado di garantire, da solo, lo svolgimento
dell'iter istruttorio in tempi ragionevolmente brevi,
riteneva opportuno “vista la complessità e delicatezza della
pratica, dotarsi di un approfondito parere urbanistico-edilizio sull'intera vicenda”, all’uopo nominando, quale
consulente esterno, l’arch. Mario -OMISSIS-.
In data -OMISSIS-, le ricorrenti presentavano una prima
denuncia-querela nei confronti del Sindaco, successivamente
integrata in data -OMISSIS- ed in data -OMISSIS-. Con la
denuncia in questione si evidenziava l’animosità del
rapporto intercorrente tra la ricorrente, consigliera di
minoranza, -OMISSIS- -OMISSIS-, ed il Sindaco del Comune di
Bassano Teverina il quale l’avrebbe più volte vessata ed
aggredita verbalmente, nel corso delle sedute del Consiglio,
fino ad ingerirsi indebitamente - circostanza mai
verificatasi dall’inizio del relativo mandato - nell’unica
pratica edilizia pendente presso l’amministrazione comunale,
ovvero quella relativa alla sanatoria dell’immobile di
proprietà delle istanti, promuovendone l’annullamento in
autotutela.
Preso atto della relazione istruttoria elaborata dall’arch.
-OMISSIS-, la Giunta Comunale, vista la complessità della
questione, in data 31.03.2021 deliberava (n. 15) di
demandare al competente servizio il conferimento di uno
specifico incarico a legale ovvero esperto in materia.
Con successiva delibera n. -OMISSIS-, la medesima Giunta,
preso atto dell’assenza per malattia, dal -OMISSIS-, del
Responsabile dell’Area Tecnica, geom. -OMISSIS-, al fine di
garantire la continuità dell’attività della struttura
organizzativa, deliberava di autorizzare il Sindaco ad
assumere la direzione dell’Area Tecnica e le correlate
funzioni gestionali, ai sensi dell’art. 53, comma 23, L. n.
388/2000.
Le ulteriori integrazioni istruttorie, effettuate ad
iniziativa delle ricorrenti, venivano valutate negativamente
dal consulente esterno il quale, con nota prot. n.
-OMISSIS-, ribadiva le proprie considerazioni in ordine alla
illegittimità della S.C.I.A. in sanatoria, così determinando
il Sindaco, medio tempore designato Responsabile del
Servizio, ad assegnare alle ricorrenti un ulteriore termine
per presentare memorie e documenti.
A valle delle ulteriori integrazioni istruttorie fornite
dalle interessate, non condivise dal tecnico esterno, arch.
-OMISSIS- (nota prot. n. -OMISSIS-), il Sindaco del Comune
di Bassano in Teverina, quale inedito Responsabile
dell’Ufficio Ragioneria, annullava in autotutela la S.C.I.A.
in sanatoria, giusta determina n. -OMISSIS-, assunta
soltanto due giorni prima della scadenza del periodo di
malattia del titolare dell’Ufficio.
Avverso la determina in parola e la presupposta delibera di
Giunta n. -OMISSIS-, le ricorrenti sono, dunque, insorte,
affidando il gravame principale ai motivi di diritto
appresso sintetizzati.
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART.
107, COMMI 1 E 2 DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60,
COMMA 2, DELLO STATUTO COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N.
3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C. N. 25/2009) E DELL’ART. 53, COMMA
23, DELLA L. N. 388/2000. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI
PRESUPPOSTI, CARENZA DI MOTIVAZIONE E SVIAMENTO”;
Il Sindaco del Comune di Bassano in Teverina avrebbe
adottato l’impugnato provvedimento di autotutela in
violazione dell’art. 107 T.U.E.L. ovvero del principio di
separazione tra il potere di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo, attribuito agli organi di governo -
tra cui, per l’appunto, il vertice dell’ente locale e la
Giunta - ed il potere di gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica dell’ente, attribuito alla Dirigenza.
Ciò nella misura in cui la Giunta comunale, con la delibera
n. -OMISSIS-, avrebbe assegnato al Sindaco la Responsabilità
dell’Ufficio Tecnico comunale in assenza dei presupposti
all’uopo previsti dall’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000,
consistenti nell’esigenza di sopperire a carenze di
personale dipendente a cui affidare le funzioni di
responsabile del relativo Ufficio amministrativo, anche al
fine di assicurare il contenimento della spesa pubblica.
Nella fattispecie in esame, l’amministrazione sarebbe,
infatti, dotata di un funzionario responsabile dell’Ufficio
tecnico, identificato nella persona del geom. -OMISSIS-, il
quale si sarebbe semplicemente assentato per malattia, di
talché la sostituzione dello stesso, con la persona del
Sindaco, sarebbe priva dei presupposti legittimanti, per
come delineati dall’art. 53 citata L. n. 388/2000. Tanto più
in considerazione dell’esigenza di affiancare il vertice
dell’amministrazione comunale, privo delle necessarie
competenze tecniche, con la figura di un professionista
esterno a cui corrispondere i relativi compensi, con
conseguente frustrazione delle esigenze di risparmio sottese
alla disposizione summenzionata.
Del resto, ancor prima di essere sostituito per effetto
della delibera giuntale n. -OMISSIS-, il geom. -OMISSIS-
sarebbe stato più volte esautorato dal Sindaco
nell’esercizio del potere gestionale di sua esclusiva
competenza.
Ciò nella misura in cui, violando il summenzionato principio
della separazione dei poteri di cui all’art. 107 D.lgs. n.
267/2000 (cd. T.U.E.L.), il Sindaco avrebbe pesantemente
interferito con le sorti della S.C.I.A. in sanatoria
rilasciata in favore delle ricorrenti, dapprima sollecitando
l’esercizio del potere di autotutela e, successivamente,
giungendo a nominare professionisti esterni a cui affidare
l’istruttoria del procedimento di secondo grado, in assenza
di qualsivoglia richiesta, in questo senso, da parte del
geom. -OMISSIS-, titolare dell’ufficio in carica, il quale,
nel periodo antecedente all’assenza per malattia (dal
-OMISSIS-), giammai avrebbe accusato di non essere nelle
condizioni di occuparsene personalmente.
Ad avviso delle ricorrenti, quindi, la decisione dell’organo
giuntale di trasferire in capo al Sindaco le funzioni di
responsabile dell’Area Tecnica comunale non sarebbe stata
determinata dall’esigenza –sottesa alla disposizione
contenuta all’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000– di
far fronte a carenze “strutturali” della pianta organica
dell’Ente e per ragioni di contenimento della spesa
pubblica, quanto, piuttosto, dalla (deliberata) volontà di
estromettere il geom. -OMISSIS- (responsabile dell’Ufficio
Tecnico comunale) dal procedimento di verifica urbanistica
avviato in relazione all’immobile di proprietà delle
ricorrenti e di concluderlo nel senso dell’annullamento in autotutela della sanatoria.
- “VIZIO DI INCOMPETENZA ed essendo stato adottato in
VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 107
DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60, COMMA 2, DELLO STATUTO
COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N. 3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C.
N. 25/2009) E DELL’ART. 7 DEL D.P.R. N. 62/2013”;
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT.
31 E 37 DEL D.P.R. N. 380/2001 E DEGLI ARTT. 15 E 22, COMMA
1, DELLA L.R. LAZIO N. 15/2008. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO
DI ISTRUTTORIA, CARENZA DI MOTIVAZIONE E SVIAMENTO”;
Il Sindaco del Comune di Bassano in Teverina si sarebbe,
comunque, dovuto astenere da qualsivoglia iniziativa
procedimentale e provvedimentale, in relazione alla
sanatoria in contestazione, trovandosi in una situazione di
palese incompatibilità, a mente dell’art. 7 D.P.R. n.
62/2013. Ciò tenuto conto della “grave inimicizia”
intercorrente con il consigliere di minoranza -OMISSIS-
-OMISSIS-, odierna ricorrente, la quale aveva sporto, nei
confronti del Sindaco, ripetute denunce ricognitive anche
del pregresso rapporto conflittuale esistente tra i soggetti
in questione.
Peraltro, la determina di ritiro oggetto di causa sarebbe
stata adottata, in violazione del principio del contrarius
actus, dal Sindaco nella dichiarata qualità di Responsabile
del “Servizio Ragioneria” ovvero di un Settore che non
avrebbe alcuna competenza in materia urbanistico-edilizia.
- “VIOLAZIONE, PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART.
21-NONIES DELLA L. N. 241/1990, NONCHE’ DEGLI ARTT. 103,
COMMA 1, DEL D.L. N. 18/2020 (CONV. IN L. N. 27/2020) E 37,
COMMA 1, DEL D.L. N. 23/2020 (CONV. IN L. N. 40/2020)”;
La determina sindacale n. -OMISSIS- sarebbe stata, comunque,
adottata in assenza dei presupposti legittimanti il potere
di autotutela di cui all’art. 21-nonies l. n. 241/1990, in
considerazione:
- della legittimità della sanatoria assentita dal
Responsabile dell’Ufficio Tecnico geom. -OMISSIS- e
dell’impossibilità di motivare l’autotutela sulla scorta
dell’accertamento di ulteriori pretesi abusi, diversi da
quelli indicati nell’istanza ex art. 37 T.U.E., i quali, a
ben vedere, sarebbero pure inesistenti, considerata la piena
conformità tra quanto realizzato e quanto assentito negli
anni 60;
- dell’intervenuto superamento del termine massimo previsto
per l’esercizio del potere in parola (18 mesi ridotto a 12,
per effetto del D.L. 31.05.2021, n. 77).
Con ricorso per motivi aggiunti depositati in data
18.03.2022, le ricorrenti hanno impugnato:
- la deliberazione di Giunta Comunale n. -OMISSIS- con cui
l’Amministrazione resistente ha modificato l’organizzazione
del proprio Ufficio Tecnico e –dando seguito alla richiesta
formulata dal titolare dell’Ufficio (Geom. -OMISSIS-
-OMISSIS-) di “temporanea riduzione delle responsabilità
relative ai servizi e funzioni allo stesso affidate con
decreto Sindacale n. -OMISSIS-” – ha ridotto drasticamente
le funzioni a quest’ultimo assegnate, autorizzando –contestualmente– il Sindaco “ad assumere la responsabilità
ed ogni atto a carattere gestionale inerenti le residue
competenze e funzioni dell’Area Tecnica”;
- l’ordinanza n. -OMISSIS-, con cui il Sindaco di Bassano in
Teverina, in qualità di Responsabile dell’Ufficio Tecnico,
preso atto dell’annullamento in autotutela della sanatoria
ex art. 37 T.U.E. rilasciata dal geom. -OMISSIS-, ha
ingiunto alle ricorrenti, ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n.
380/2001, la demolizione delle opere abusive distinte in
catasto al foglio -OMISSIS- nonché il ripristino dello stato
originale dei luoghi.
Il ricorso risulta affidato ai motivi di diritto appresso
sintetizzati.
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART.
107, COMMI 1 E 2, DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60,
COMMA 2, DELLO STATUTO COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N.
3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C. N. 25/2009) E DELL’ART. 53, COMMA
23, DELLA L. N. 388/2000. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI
PRESUPPOSTI, CARENZA DI MOTIVAZIONE E SVIAMENTO”;
L’affidamento, da parte della Giunta comunale, in favore del
Sindaco del Comune di Bassano in Teverina –con sottrazione
delle relative responsabilità in capo al geom. -OMISSIS--
di una parte degli affari rientranti nella competenza
dell’Ufficio Tecnico violerebbe il principio della
separazione dei poteri di cui all’art. 107 T.U.E.L., in
assenza dei presupposti -carenza del personale e
contenimento della spesa pubblica, a contrario aggravata
dall’esigenza di reperire all’esterno le professionalità
necessarie- di cui all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, a
torto citato nella delibera n. -OMISSIS- a fondamento
dell’esercizio del potere in contestazione.
La richiesta del geom. -OMISSIS- di essere “temporaneamente
esonerato” dalle responsabilità relative ai servizi e
funzioni allo stesso affidate con decreto Sindacale n.
-OMISSIS- e l’assenso de plano formulato dalla Giunta
risulterebbero, peraltro, privi di qualsivoglia
giustificazione, tanto più in considerazione delle ridotte
dimensioni dell’ente locale e dell’esiguo numero di pratiche
edilizie in carico all’Ufficio tecnico.
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 107
DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60, COMMA 2, DELLO STATUTO
COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N. 3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C.
N. 25/2009) E DELL’ART. 7 DEL D.P.R. N. 62/2013”;
L’impugnata ordinanza di demolizione sarebbe inficiata dalla
situazione di grave incompatibilità in cui si sarebbe
trovato il Sindaco, il quale si sarebbe dovuto astenere
dall’esercizio del relativo potere sanzionatorio.
Ciò in considerazione del rapporto altamente conflittuale
esistente con la ricorrente -OMISSIS- dallo stesso querelata,
“in proprio”, oltre che nella qualità di vertice dell’ente
locale, per il reato di diffamazione, fin dal -OMISSIS- (per
come appreso dall’interessata soltanto in data -OMISSIS-,
all’esito della notifica dell’avviso di conclusioni
indagini) e, quindi, in epoca antecedente alle denunce dalla
stessa successivamente sporte dal -OMISSIS- al -OMISSIS-.
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 17
DELLA L. N. 765/1967 E DELL’ART. 31 DEL D.P.R. 380/2001,
NONCHE’ IN ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI
ISTRUTTORIA, CARENZA DEI PRESUPPOSTI E TRAVISAMENTO DEI
FATTI”;
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3
DELLA L. N. 241/1990. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI
PRESUPPOSTI, CARENZA DI MOTIVAZIONE, VIOLAZIONE DEL
PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’ DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA E
SVIAMENTO”;
Nel merito, il potere sanzionatorio di cui alla contestata
ordinanza di demolizione sarebbe privo dei relativi
presupposti, considerata la legittimità delle opere edilizie
ivi sanzionate, anche in quanto realizzate in epoca
antecedente al 1967, in zona esterna al centro abitato,
oltre che carente di qualsivoglia motivazione in ordine alla
sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto al
ripristino dello stato dei luoghi, di fatto modificato da
oltre cinquanta anni.
Con atto depositato in data 27.05.2022, la sig.ra -OMISSIS- ha
rinunciato al ricorso, al precipuo e dichiarato scopo di non
incorrere all’ipotesi di incompatibilità con la sua carica
di consigliere comunale di minoranza del Comune di Bassano
in Teverina.
Con ulteriore ricorso per motivi aggiunti depositato in data
28.06.2022, la sig.ra -OMISSIS- -OMISSIS- ha impugnato il
provvedimento prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS- con cui il
Sindaco del predetto Comune, nell’esercizio dei poteri di
Responsabile dell’Ufficio Tecnico, affidati giusta delibera
di Giunta n. -OMISSIS-, preso atto della relazione
istruttoria conclusiva redatta dal professionista dallo
stesso incaricato, arch. -OMISSIS-, ha rigettato la
richiesta di sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2021
presentata in data 18.02.2022.
Il gravame risulta affidato ai motivi di diritto appresso
sintetizzati.
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10-bis DELLA L. N. 241/1990”;
L’amministrazione comunale avrebbe concluso il procedimento
senza consentire alla ricorrente di aver accesso ai relativi
atti istruttori, avuto particolare riguardo alla relazione
dell’arch. -OMISSIS- prot. n. -OMISSIS- dell’11.03.2022, con
conseguente frustrazione delle garanzie partecipative di cui
all’art. 10-bis l. n. 241/1990.
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART.
107, COMMI 1 E 2, DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60,
COMMA 2, DELLO STATUTO COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N.
3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C. N. 25/2009), DELL’ART. 53, COMMA
23, DELLA L. N. 388/2000 E DELL’ART. 97 DELLA COSTITUZIONE –
ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, CARENZA DI
MOTIVAZIONE E SVIAMENTO”;
Anche in questo caso l’esercizio, da parte del Sindaco, del
potere amministrativo in contestazione, per come affidato
con le delibere di Giunta n. -OMISSIS- e -OMISSIS-, gravate
con i precedenti gravami, violerebbe il principio della
separazione dei poteri di cui all’art. 107 T.U.E.L., in
assenza dei presupposti -carenza del personale e
contenimento della spesa pubblica, a contrario aggravata
dall’esigenza di reperire all’esterno le professionalità
necessarie- di cui all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000.
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 107
DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60, COMMA 2, DELLO STATUTO
COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N. 3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C.
N. 25/2009) E DELL’ART. 7 DEL D.P.R. N. 62/2013, NONCHE’ IN
ECCESSO DI POTERE PER SVIAMENTO DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA”;
Il contestato diniego di sanatoria ex art. 36 T.U.E. sarebbe
parimenti inficiato dalla situazione di grave
incompatibilità in cui si sarebbe trovato il Sindaco, il
quale, per le ragioni sopra già sintetizzate, si sarebbe
dovuto astenere dall’esercizio del relativo potere, a fronte
del quale il consigliere di minoranza, -OMISSIS- -OMISSIS-,
è rimasta inerme, in considerazione del suo munus di
consigliere comunale.
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3,
COMMA 1, LETT. E.1), E DELL’ART. 36 DEL D.P.R. N. 380/2001
NONCHE’ IN ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA,
CARENZA DEI PRESUPPOSTI E TRAVISAMENTO DEI FATTI”;
- “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 36
DEL D.P.R. N. 380/2001 E DELL’ART. 22 DELLA L.R. LAZIO N.
15/2008, NONCHE’ IN ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI
ISTRUTTORIA, CARENZA DEI PRESUPPOSTI E TRAVISAMENTO DEI
FATTI”;
Il diniego di sanatoria opposto dal Comune risulterebbe
condizionato da un’erronea qualificazione delle opere
edilizie in contestazione in termini di “nuova costruzione”
anziché di mero “ampliamento”, oltre a difettare dell’esatta
ricostruzione, nel tempo, dei diversi interventi che hanno
determinato la progressiva trasformazione dell’immobile
oggetto di sanatoria.
Il Comune di Bassano Teverina ha resistito al gravame
mediante articolate e documentate deduzioni difensive,
chiedendone il rigetto.
Con ordinanza n. -OMISSIS-, confermata in appello, il
Collegio ha accolto la richiesta cautelare, previa
delibazione del cd. fumus boni iuris.
In occasione della pubblica udienza del 19.12.2022, in
vista della quale ciascuna delle parti ha ribadito le
proprie ragioni, mediante il deposito di memorie conclusive
e di replica, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. In via pregiudiziale, si deve dare atto della ritualità
della rinuncia al ricorso, ai sensi dell’art. 84, comma 1,
c.p.a., depositato e notificato alle controparti in data 27.05.2022 dalla sola ricorrente -OMISSIS- e recante
sottoscrizione della parte e del difensore.
1.1 Tanto precisato in rito, il ricorso, per come integrato
dai successivi motivi aggiunti, è fondato in accoglimento
delle preliminari ed assorbenti censure appresso scrutinate.
2. Con il gravame principale, le odierne ricorrenti hanno
censurato la legittimità:
- del provvedimento n. -OMISSIS- con cui il Sindaco del
Comune di Bassano in Teverina, dott. -OMISSIS-, ha
annullato, in autotutela, ai sensi dell’art. 21-nonies l. n.
241/1990, la concessione edilizia in sanatoria, rilasciata
dall’ente locale, in persona del Responsabile dell’Ufficio
Tecnico, geom. -OMISSIS-, giusto provvedimento di cui alla
nota prot. n. -OMISSIS- in favore delle sorelle -OMISSIS- ed
-OMISSIS- -OMISSIS-, la prima delle quali riveste il munus
di consigliere comunale di minoranza;
- della precedente e presupposta delibera n. -OMISSIS- con
cui la Giunta Comunale ha autorizzato il Sindaco in
questione, ai sensi dell’art. 53 L. n. 388/2000, ad assumere
la responsabilità dell’Area Tecnica in luogo del predetto
geom. -OMISSIS-, in esclusiva considerazione dell’assenza di
quest’ultimo per malattia, dal -OMISSIS-.
3. In proposito, colgono nel segno le censure tese a
contestare la violazione, tanto da parte del Sindaco del
Comune di Bassano in Teverina quanto della Giunta Comunale
dallo stesso guidata, degli artt.
107 D.lgs. n. 267/2000 e
53, comma 23, L. n. 388/2000.
4. L’apprezzamento della fondatezza di siffatte censure
passa dalla preliminare ricognizione della regola generale,
in tema di ordinamento degli enti locali, espressamente
sancita dall’art. 107 T.U.E.L., secondo cui i poteri di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano
agli organi di governo (e, quindi, nel comune, al Sindaco,
Consiglio comunale e Giunta ex art. 36 D.lgs. n. 267/2000,
cd. T.U.E.L.) mentre i poteri di gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica dell’ente, rientrano nella sfera di
attribuzione della cd. Dirigenza.
Tenuto conto del summenzionato principio di separazione
dell’azione amministrativa dalla gestione dell’indirizzo
politico dell’ente locale, la coesistenza di tale duplice
ruolo in capo alla medesima persona (il Sindaco, nel caso di
specie) non è conforme all’ordinamento vigente in quanto il
principio di organizzazione della pubblica amministrazione,
introdotto dal d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nel d.lgs. n.
267/2000, individua quale responsabile dell’azione
amministrativa l’organo al vertice della struttura
burocratica.
Siffatta rigida separazione tra i poteri, sancita dall’art.
107 citato T.U.E.L. (secondo cui: «Spetta ai dirigenti la
direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le
norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si
uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo spettano agli organi di
governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri
di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali
e di controllo») trova riscontro anche nell’art. 4 D.lgs. n.
165/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego), secondo cui:
«1. Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo
politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i
programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti
nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la
rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e
della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano,
in particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione
dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed
applicativo;
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e
direttive generali per l'azione amministrativa e per la
gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed
economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e
la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale
generale;
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili
finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e
analoghi oneri a carico di terzi;
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi
attribuiti da specifiche disposizioni;
f) le richieste di pareri alle autorità amministrative
indipendenti ed al Consiglio di Stato;
g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione
finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi
poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane,
strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via
esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei
relativi risultati.
3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2
possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di
specifiche disposizioni legislative.
4. Le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non
siano direttamente o indirettamente espressione di
rappresentanza politica, adeguano i propri ordinamenti al
principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un
lato, e attuazione e gestione dall'altro. A tali
amministrazioni è fatto divieto di istituire uffici di
diretta collaborazione, posti alle dirette dipendenze
dell’organo di vertice dell’ente».
5. Una delle ipotesi “derogatorie” a cui si riferisce il
comma 3 della disposizione sopra trascritta, come tale
suscettibile di una interpretazione restrittiva e rigorosa,
secondo quanto previsto dall’art. 14 disp. prel. cod. civ.,
che non ne ampli il cono d’ombra al di fuori delle ipotesi
ivi espressamente previste, coincide con il disposto di cui
all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, secondo cui: «Gli
enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti
fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4,
lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un
contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a
quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e all'articolo, 107 del predetto testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo
ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli
uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di
natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve
essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in
sede di approvazione del bilancio».
In coerenza con il carattere derogatorio della disposizione
in esame rispetto al sopra menzionato principio cardine
della gestione dell’ente locale, la giurisprudenza
amministrativa e contabile, condivisa dal Collegio, è
unanime nel sostenere che la possibilità, per gli enti
locali “minori”, di attribuire ai componenti dell'organo
esecutivo la responsabilità degli uffici è condizionata
all’esistenza di obiettive carenze di organico e deve,
comunque, consentire un risparmio di spesa, in favore
dell’amministrazione (cfr. TAR Liguria sez. I,
sentenza 31.03.2021 n. 284).
Lo stesso Ministero dell’Interno, tenuto conto della portata
derogatoria della disposizione in esame, con
parere 18.12.2014, ne ha fornito una interpretazione rigorosa,
precisando che la legittima applicazione della stessa è
condizionata non soltanto dalla sussistenza di un apposito
atto di giunta o regolamentare che disciplini la
fattispecie, ma anche dalla documentazione annuale del
risparmio di spesa che ne è conseguito (cfr. TAR
Sardegna, Cagliari,
sentenza 24.06.2022 n. 435; TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 03.02.2022 n. 83).
6. Tanto premesso in linea di principio, venendo alla
fattispecie in esame, osserva, in primo luogo, il Collegio
come la Delibera di Giunta Comunale n. -OMISSIS- non rechi
alcuna legittima giustificazione della disposta attribuzione
in capo al Sindaco, dott. -OMISSIS-, delle funzioni di
Responsabile dell’Area Tecnica assegnate al geom. -OMISSIS-.
Ciò se solo si considera che quest’ultimo non è affatto
venuto meno al suo incarico, essendosi piuttosto assentato,
per malattia, per un intervallo temporale, indicato nella
stessa delibera, che va dal -OMISSIS-.
Sicché alla data di adozione della delibera in parola -12.05.2021- non sussisteva quella strutturale carenza di
organico che, secondo il pertinente disposto normativo, per
come interpretato anche dalla giurisprudenza, legittima, in
via derogatoria, l’ingerenza del Sindaco nella gestione
amministrativa dell’ente.
Tanto più in considerazione, per un verso, della mancata
allegazione, da parte della Giunta, di circostanze di fatto
idonee a far prevedere che siffatto periodo di “malattia” si
sarebbe protratto nel tempo, oltre la data ivi indicata
(“sino al 6 giugno compreso”), e, per altro verso, della
genericità del riferimento all’esigenza di garantire “anche
nel periodo di assenza” del geom. -OMISSIS- il corretto
funzionamento dei servizi, senza tuttavia dare conto del
numero complessivo nonché della rilevanza e complessità dei
procedimenti pendenti presso l’Area Tecnica, in relazione ai
quali non sarebbe stato possibile attendere il rientro del
Responsabile del Servizio.
A quanto sopra si aggiunga, per come parimenti obiettato da
parte ricorrente, che la predetta delibera di nomina del
Sindaco, quale Responsabile dell’Area Tecnica, non ha
determinato alcun risparmio di spesa ma anzi ha aggravato le
uscite dell’ente, in considerazione dell’esigenza, da quest’ultimo
avvertita, di esternalizzare l’istruttoria del procedimento
di autotutela della S.C.I.A. in sanatoria, rilasciata in
favore delle sorelle -OMISSIS-, all’uopo affidando
l’incarico all’arch. -OMISSIS-, professionista esterno,
all’uopo remunerato.
Peraltro, all’“esigenza” in questione -rientrante nelle
ordinarie competenze dell’Area Tecnica di un ente locale–
il Sindaco ha ritenuto di poter ovviare con la determina n.
-OMISSIS-. Quest’ultima, tuttavia, essendo stata adottata
dal predetto Sindaco -al pari della richiesta di
integrazione documentale prot. n. -OMISSIS- nonché del
sollecito all’esercizio dell’autotutela di cui alla nota
prot. n. -OMISSIS-- ancor prima della sua formale
investitura, da parte della Giunta, quale Responsabile
dell’Area Tecnica (delibera G.C. n. -OMISSIS-), viola
ulteriormente il summenzionato principio di separazione dei
poteri di cui all’art. 107 T.U.E.L., con ciò inficiando il
provvedimento finale di annullamento in autotutela, dallo
stesso adottato a valle di una istruttoria così condotta.
7. In tale peculiare contesto, non possono, dunque,
considerarsi sussistenti gli eccezionali presupposti di
operatività del meccanismo sostitutivo di cui all’art. 53,
comma 23, L. n. 388/2000, il quale non si ritiene
utilizzabile a fronte di mere assenze del dirigente dovute a
malattia. Tali “assenze”, rientrando invero nell’ordinaria
e, per così dire, fisiologica dinamica del rapporto di
lavoro del dipendente pubblico, devono semmai essere
fronteggiate mediante la razionalizzazione e distribuzione
delle risorse umane, quali la supplenza del Segretario
Comunale, ex art. 97, comma 4, lettera d), T.U.E.L.,
richiamato dallo stesso art. 53 sopra citato, lo strumento
del “comando” ovvero il “servizio/utilizzo in convenzione” (cfr.
Corte Conti, Sez. Contr. Emilia Romagna, deliberazione
24.12.2021 n. 272 e
giurisprudenza contabile ivi citata).
Pertanto, in accoglimento della prime due censure aventi
carattere assorbente (come meglio si dirà appresso) sono
illegittimi il provvedimento del Sindaco n. -OMISSIS- e la
delibera di Giunta Comunale n. -OMISSIS-, gravati con il
ricorso introduttivo.
8. Tuttavia, le medesime considerazioni consentono di
apprezzare la fondatezza delle analoghe censure svolte con
il primo ricorso per motivi aggiunti, avente ad oggetto la
delibera n. -OMISSIS-, con cui la Giunta Comunale,
nell’assentire le richieste formulate dal geom. -OMISSIS-,
tese ad ottenere, per ragioni di salute, una “temporanea
riduzione delle responsabilità relative ai servizi e
funzioni allo stesso affidate con decreto Sindacale n.
-OMISSIS-”, ha autorizzato il Sindaco, al di fuori
dell’ambito di operatività della disposizione derogatoria di
cui all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000 –a torto citata
quale norma attributiva del poter- ad assumere la
responsabilità delle residue competenze e funzioni dell’Area
Tecnica, diverse da quelle mantenute dal titolare
dell’Ufficio, ivi incluso lo Sportello Unico dell’Edilizia.
Anche in tale fattispecie difettano, quindi, i presupposti
per l’applicazione del derogatorio meccanismo di
sostituzione di cui all’art. 53 citata L. n. 388/2000
giacché, per come sopra evidenziato, alle esigenze legate
allo stato di salute del geom. -OMISSIS- si sarebbe dovuto
far fronte con gli strumenti “ordinari” sopra indicati.
Tanto più che la nomina del Sindaco, ad opera della Giunta,
quale con-titolare dell’Area Tecnica non ha assicurato alcun
un risparmio di spesa, determinando piuttosto un ulteriore
aggravamento della stessa.
In proposito, basti considerare gli ulteriori affidamenti da
parte dello stesso Sindaco, sempre in favore dell’arch.
-OMISSIS-, di pareri tecnici avuto riguardo alla fattispecie
edilizia in contestazione, ovvero il parere tecnico in
affidato con determina n. -OMISSIS- e l’ulteriore parere
assegnato con successiva determina n. -OMISSIS-, con
conseguente indebito utilizzo dell’istituto del conferimento
di incarichi all’esterno in una sorta di stabile
affiancamento dell’organo di governo, nell'esercizio di
ordinarie attività rientranti nell’esclusiva sfera di
attribuzione della dirigenza, quale strumento per supplire a
singole carenze all'interno degli uffici
dell'amministrazione (cfr. Corte Conti sez. III giurisdiz.
centrale d'appello,
sentenza 15.01.2020
n. 8).
8.1 L’illegittimità della delibera di Giunta n. -OMISSIS-
vizia, in via derivata, per come dedotto da parte
ricorrente, la conseguente ordinanza sindacale di
demolizione n. -OMISSIS-, impugnata con il primo ricorso per
motivi aggiunti nonché la determina n. -OMISSIS- del
15.04.2022, adottata sempre dal Sindaco, quale co-titolare
dell’Area Tecnica, impugnata con il secondo ed ultimo
ricorso per motivi aggiunti.
9. Nonostante, come sopra già accennato, l’accoglimento
delle superiori censure consenta di definire, con efficacia
assorbente, l’intera materia del contendere, per come
complessivamente devoluta al Collegio, trattandosi di vizi
che afferiscono al difetto di “competenza” dell’organo che
li ha adottati, si ritiene in ogni caso opportuno scrutinare
anche quegli ulteriori motivi di gravame con i quali, sempre
sotto il profilo della competenza, è stata ulteriormente
dedotta la violazione dell’obbligo del Sindaco di astenersi,
ai sensi degli artt.
54 D.lgs. n. 165/2001 e
7 D.P.R. n.
62/2013 (cd. codice di comportamento dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni), dall’assumere iniziative avuto
riguardo alla vicenda inerente l’immobile di proprietà delle
sorelle -OMISSIS-.
Tali norme, laddove impongono ai pubblici dipendenti di
astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni ovvero
dal compiere attività che possano coinvolgere interessi di
persone con le quali intercorra una “grave inimicizia”, sono
immediatamente strumentali alla tutela dei principi,
costituzionalmente rilevanti, di trasparenza ed imparzialità
dell’agire della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.),
così da scongiurare anche solo il pericolo che l’attività
compiuta difetti di obiettività.
9.1 Sul punto, la giurisprudenza, condivisa dal Collegio, è,
infatti, granitica nell’affermare che il dovere di
astensione dei pubblici dipendenti e degli amministratori
vale a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia
dell'Amministrazione e scatta a fronte di situazioni di
“mero rischio”, in tutti i casi in cui sussistono condizioni
che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione
da assumere, appaiano anche soltanto potenzialmente idonee a
porre in pericolo l'assoluta imparzialità e la serenità di
giudizio dei titolari dell'ente stesso, a prescindere dai
profili o dalle conseguenze penali che possono implicare. La
prevenzione del conflitto di interessi è, ad oggi, volta non
soltanto a garantire, in concreto ed “a valle”,
l'imparzialità della singola decisione, ma, più in generale
ed “a monte”, a tutelare il profilo dell'immagine di
imparzialità dell'Amministrazione (cfr. TAR Veneto,
Venezia, sez. II,
09.07.2021 n. 908; Consiglio di Stato
sez. III,
20.08.2020 n. 5151).
10. Ciò posto, il rapporto di “grave inimicizia”
intercorrente tra il Sindaco del Comune di Bassano in
Teverina, dott. -OMISSIS- e la sig.ra -OMISSIS- -OMISSIS-,
consigliere di minoranza, è disvelato non tanto dalle
denunce da quest’ultima presentate, unitamente alla sorella
-OMISSIS-, a decorrere dal -OMISSIS- -ovvero allorquando il
procedimento di autotutela della sanatoria era già stato
avviato sì dal geom. -OMISSIS- ma su sollecitazione dello
stesso Sindaco (cfr. comunicazione di avvio prot. n.
-OMISSIS- che richiama la nota sindacale n. -OMISSIS-)-
quanto piuttosto dalla querela in precedenza da quest’ultimo
sporta proprio nei confronti del summenzionato consigliere
di minoranza.
Ed invero, già in data -OMISSIS-, il predetto Sindaco, “in
proprio”, oltre che quale vertice dell’amministrazione
comunale (cfr. testo della querela in atti, laddove si
legge: “personalmente ed in qualità di sindaco prot-tempore
del Comune di Bassano Teverina, espone quanto segue”), aveva
deferito alla Procura della Repubblica presso il Tribunale
di Viterbo la sig.ra -OMISSIS- -OMISSIS-, unitamente ad
altri consiglieri di minoranza, per il reato di diffamazione
di cui all'articolo 595, comma 3, c.p. -reato contro
l’onore, procedibile a querela della persona offesa- asseritamente perpetrato con la pubblicazione, sul
quotidiano on-line “Tusciaweb”, di un articolo risalente al
-OMISSIS-, con il quale erano state riportate informazioni
in merito a irregolarità nell’approvazione dell’assestamento
degli equilibri economico finanziari di bilancio.
10.1 Orbene, nella peculiare fattispecie posta
all’attenzione del Collegio, la proposizione di siffatta
querela, da parte del dott. -OMISSIS-, per fatti, si badi
bene, risalenti al -OMISSIS- e, quindi, ad un periodo di
certo antecedente sia all’avvio del procedimento di cui alla
nota prot. n. -OMISSIS-, sollecitato dallo stesso Sindaco,
giusta nota prot. n. -OMISSIS-, che alle denunce
successivamente presentate dalle sorelle -OMISSIS- innanzi
all’Autorità Giudiziaria penale, denota certamente una
situazione di grave inimicizia tra le parti che, come tale,
avrebbe dovuto indurre il primo ad astenersi dal formulare
richieste di annullamento in autotutela della S.C.I.A.
indirizzate al Responsabile dell’Ufficio Tecnico (nota prot.
n. -OMISSIS-), adottare atti istruttori (nomina
professionista esterno incaricato dell’istruttoria in luogo
del predetto Responsabile; determina n. -OMISSIS-) e,
dunque, a fortiori, annullare, in autotutela, la S.C.I.A. in
sanatoria prot. n. -OMISSIS-, rilasciata dal geom.
-OMISSIS-, in favore delle ricorrenti, e quindi, adottare
tutti gli atti e provvedimenti che ne sono conseguiti.
11. Il suddetto dovere di astensione, nella specie violato,
appare ancor più cogente in considerazione della natura
tipicamente “discrezionale” e non certo “dovuta e vincolata”
–per come erroneamente asserito dalla difesa dell’ente–
del potere di annullamento in autotutela ex art. 21-nonies
l. n. 241/1990, contestato con il gravame principale, avente
ad oggetto la S.C.I.A. in sanatoria prot. n. -OMISSIS-, il
cui ritiro ha poi determinato, quale atto meramente
conseguenziale, l’esercizio del potere ripristinatorio di
cui all’ordinanza di demolizione gravata con i motivi
aggiunti e, quindi, a catena tutti i successivi
provvedimenti, parimenti oggetto di gravame.
Siffatta discrezionalità si riferisce sia all’an
dell’attivazione del potere in parola –che, infatti, non
può essere coartata (tranne che in ipotesi del tutto
peculiari, non ricorrenti nel caso in esame) mediante
l’utilizzo del rimedio processuale di cui agli artt. 31-117
c.p.a.- che ai presupposti normativi condizionanti, nel
merito, l’esercizio dello stesso.
Tali presupposti, per come
evincibile dal tenore letterale dell’art. 21-nonies l. n.
241/1990, lungi dall’essere rigidamente predeterminati ex ante
dal Legislatore, così che la p.a. si possa limitare ad un
mero controllo circa l’esistenza degli stessi (atto dovuto e
vincolato), si identificano nell’esecuzione, entro un
determinato arco temporale, di un ponderato e motivato
giudizio di valore –di natura evidentemente discrezionale-
circa l’eventuale preminenza, rispetto agli interessi
consolidatisi in capo al privato, dell’interesse pubblico,
attuale, concreto e non coincidente con il mero ripristino
della legalità, al ritiro dell’atto illegittimo.
Siffatta natura “discrezionale” del potere amministrativo in
discussione è stata recentemente ribadita dalla
giurisprudenza amministrativa anche nelle ipotesi, sancite
dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies, in cui
l’amministrazione è, comunque, facultata –e non anche
obbligata- ad agire in autotutela anche oltre il limite
temporale di 12 mesi fissato nel primo comma della
disposizione in esame.
Sul punto, lo stesso Consiglio di Stato ha chiarito che “le
rappresentazioni non veritiere non determinano l'insorgenza
di un interesse in re ipsa dell'Amministrazione al
ripristino della legalità violata. L'asserito “mendacio” (o
dichiarazioni non veritiere) non obbliga infatti
l'Amministrazione all'esercizio dei poteri inibitori e
repressivi invocati, che, presupponendo la non conformità
dell'atto alle vigenti norme edilizie e urbanistiche,
richiede anche la ricorrenza dell'ulteriore presupposto
dell'interesse pubblico al ritiro dell'atto, valutato
tenendo anche conto degli interessi privati in gioco” (così
Consiglio di Stato sez. VI, 21/12/2021, n. 8495).
11.1 In altri termini, anche nelle ipotesi di cui al comma 2-bis dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990, l’accertamento circa
l’esistenza di false, ovvero anche soltanto erronee,
rappresentazioni della realtà da parte di chi ha ottenuto un
provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica
nonché la valutazione dell’incidenza di siffatte circostanze
sulla legittimità del provvedimento medesimo, da apprezzare
in rapporto a tutti gli interessi in gioco, pubblici e
privati, identificano i presupposti normativi di un potere
amministrativo di secondo grado, la cui ontologica natura
“discrezionale” rende ancor più cogente il dovere di
astensione in capo a quel pubblico dipendente/amministratore
che versi, come nel caso in esame, in una situazione di
“grave inimicizia” rispetto al destinatario dello ius
poenitendi.
12. In conclusione, in parte si deve dare atto della
rinuncia agli atti depositata da una delle ricorrenti
(-OMISSIS- -OMISSIS-) in data 27.05.2022, con
conseguente declaratoria di estinzione del giudizio nei
confronti della medesima e compensazione delle spese nei
confronti della medesima, sussistendo evidenti e gravi
ragioni.
Per il resto, il ricorso, per come integrato dai motivi
aggiunti, è fondato in accoglimento delle preliminari ed
assorbenti censure sopra scrutinate, con conseguente
necessario assorbimento degli altri motivi dedotti.
Ciò in
adesione all’orientamento della pronuncia dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato 27.04.2015, n. 5,
secondo cui “in tutte le situazioni di incompetenza, carenza
di proposta o parere obbligatorio, si versa nella situazione
in cui il potere amministrativo non è stato ancora
esercitato, sicché il giudice non può fare altro che
rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte
le altre censure, non potendo dettare le regole dell'azione
amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora
esercitato il suo munus” (conformi, ex multis, Consiglio di
Stato, Sez. V, 12.02.2020, n. 1104; TAR Sardegna, Sez. II, 23.03.2004, n. 393).
Ne consegue, fatti salvi i successivi provvedimenti
dell’amministrazione, l’annullamento:
- della Determinazione n. -OMISSIS-, con cui il Sindaco di
Bassano in Teverina –in qualità di Responsabile del
Servizio D4 “Ragioneria”– ha disposto l'annullamento in autotutela, ai sensi della L. 241/1990 art. 21-nonies, del
provvedimento di SCIA in sanatoria relativa all'accertamento
di conformità -OMISSIS- ad oggetto “realizzazione di
modifiche ed ampliamento su edificio in Via -OMISSIS-
autorizzato con Nulla Osta per Esecuzione lavori edili del
-OMISSIS-, immobile distinto in catasto al -OMISSIS-.
Conclusione del procedimento amministrativo”;
- della Deliberazione di Giunta Comunale n. -OMISSIS-,
recante “Autorizzazione al sindaco ad assumere la
responsabilità dell'area tecnica”;
- dell'ordinanza n. -OMISSIS-, adottata dal Sindaco di
Bassano in Teverina, in qualità di Responsabile dell'Ufficio
Tecnica;
- della Deliberazione di Giunta Comunale n. -OMISSIS-;
- della Determinazione n. -OMISSIS- con cui il Sindaco di
Bassano in Teverina, in qualità di Responsabile dell'Ufficio
Tecnico, ha disposto il rigetto dell'istanza di accertamento
di conformità prot. n. -OMISSIS-.
13. Sussistono i presupposti affinché copia degli atti del
presente procedimento vengano inviati alla Procura Regionale
presso la Corte dei Conti di Roma affinché valuti
l’esistenza di possibile danno erariale (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-quater,
sentenza 26.01.2023 n. 1360 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Niente
esimente politica agli organi di governo che hanno assunto compiti di
gestione.
L'esimente politica stabilita dall'art. 1, comma 1-ter, della legge 14.01.1994 n. 20 non si applica agli organi di governo che si siano
assunti compiti di gestione, alterando il fisiologico riparto di competenze
e funzioni individuati dal Tuel, divenendo, quindi, soggetti all'ordinario
regime di responsabilità che a tali compiti consegue, come ad esempio,
l'affidamento di un incarico di ordinarie funzioni istituzionali a soggetto
esterno, il quale non costituisce un compito tipico della giunta, ma un
provvedimento (non generale) di gestione in materia di personale.
Questo è
il principio della
sentenza 09.08.2021 n. 374 della Corte dei conti,
III Sez.
giurisdizionale centrale d'appello.
Tale "esimente", prevede che «nel caso di atti che rientrano nella
competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità
non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li
abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione».
La norma, si legge nella sentenza, è stata introdotta nell'ordinamento con
la finalità, di tutelare gli organi locali di governo nell'esercizio delle
funzioni deliberative loro proprie laddove la decisione di loro competenza
necessiti di una istruttoria tecnico-amministrativa complessa, che coinvolga
accertamenti affidati a organi tecnico amministrativi interni.
Questa regola costituisce infatti la naturale conseguenza, sul piano delle
responsabilità, del principio di separazione tra funzioni di indirizzo
politico (spettanti agli organi di governo) e attività di gestione
(spettanti agli organi amministrativi di vertice), introdotto dal Dlgs 03.02.1993 n. 29 e, poi, dall'articolo 4 del Dlgs 30.03.2001 n. 165,
ed è volta a garantire che l'organo politico-amministrativo rimanga esente
da responsabilità connesse all'esercizio di proprie funzioni che risultino,
in concreto, viziate da un errore imputabile agli accertamenti istruttori di
specifica competenza dei dirigenti.
Da tale ratio consegue che, dove sia alterato il fisiologico riparto di
competenze e funzioni individuati dal Tuel (è il corollario del divieto di
interferenza reciproca tra i due comparti di funzioni, di governo e
amministrative, nello specifico settore del governo degli enti locali),
detta regola non si applica e gli organi di governo che si siano assunti
compiti di gestione sono soggetti all'ordinario regime di responsabilità che
a tali compiti consegue.
Il principio generalissimo che trova applicazione al fine di individuare i
centri di responsabilità per il danno conseguente a deliberato di organi
collegiali è che del danno possono rispondere i soggetti che hanno proposto
la delibera, quelli che avevano compiti consultivi o di controllo sul
rispetto delle condizioni di legge e quelli che, in seno all'organo
collegiale, hanno espresso voto favorevole laddove fossero nelle condizioni
di conoscere le violazioni che con il deliberato sono state perpetrate, o
avrebbero dovuto esserlo in ragione del fatto che il deliberato esprime
competenze proprie dell'organo collegiale o comunque da quello assunte.
E in
questo senso occorre verificare la colpa grave dei convenuti rispetto alla
conoscenza o conoscibilità da parte loro delle circostanze che determinano
l'illegittimità degli atti deliberati, con l'avvertenza che la sentenza
richiama il principio secondo il quale «la colpa grave non può ritenersi
esclusa dalla mera prospettazione di un fideistico affidamento sulla
legittimità della condotta altrui, giacché la diligenza richiesta al
pubblico amministratore indubbiamente impone a colui che subentra nella
gestione di un affare in corso di assumere un atteggiamento comunque
finalizzato a ponderarne la legittimità» (Sezione II centrale d'appello
sentenza
27.11.2020 n. 278)
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.09.2021).
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SENTENZA
5. Nel merito, gli appellanti non hanno contestato il quadro normativo
applicabile ai due incarichi de quibus e i principi di diritto che il
giudice ne ha ricavato.
Ritiene il Collegio, tuttavia, opportuno
esprimere la piena condivisione del principio, ampiamente esposto dal
giudice di prime cure, che
l’affidamento all’esterno delle ordinarie mansioni
che costituiscono normale e quotidiano espletamento
dei compiti rientranti nelle funzioni del
personale, nei vari livelli e mansioni alle quali
esso è assegnato, costituisce una deviazione dalla
regola generale dell’autosufficienza
dell’amministrazione e dell’efficiente impiego
delle risorse destinate a remunerare il personale.
Per questo motivo la presenza dei presupposti ai
quali la legge consente tale deviazione, e di
procedere all’affidamento all’esterno di incarichi
–in termini generalissimi: l’effettiva sussistenza
delle condizioni di necessità sottese all’incarico
e l’inesistenza di personale interno al quale
poterle affidare- sono circostanze che
l’amministrazione deve valutare con particolare
ponderazione, non trattandosi di affidare speciali
compiti o progetti o di risolvere questioni di
carattere straordinario o contingente, ma di far
fronte ai propri compiti istituzionali in modo
conforme all’ordinamento ed efficiente.
6. Nella fattispecie emerge agli atti il carattere del tutto ordinario delle
mansioni oggetto dei due incarichi, accertato dal giudice di prime cure.
Dalla mera lettura delle due delibere in questione si ricava che i due
incarichi hanno ad oggetto compiti consistenti nell’espletamento di mansioni
rientranti in quelle di un funzionario/dirigente del settore ragioneria.
Il primo incarico -allo studio associato De Le. (conferito con delibera
di Giunta n. 157/2010)- ha avuto ad oggetto la “predisposizione
degli atti economici finanziari dell’ente di cui in premessa”, e cioè “la
predisposizione di atti contabili complessi come elaborazione del bilancio
e la gestione dello stesso; predisposizione del
rendiconto, osservanza del patto di stabilità, ecc.
ecc.”.
La stessa modalità esemplificativa degli
atti oggetto di incarico ne rende palese
l’individuazione in funzione del generale ambito di
attività contabile nel quale essi si inquadrano (e
non in relazione a specifici obiettivi, progetti o
questioni), ambito che sostanzialmente coincide con
quello della predisposizione del bilancio
preventivo e consuntivo e degli atti connessi.
Si
tratta con tutta evidenza del principale compito
del settore ragioneria di un ente.
Il secondo incarico è stato conferito ex art. 110 TUEL al Dr. GU. (su
parere positivo espresso con delibera di Giunta n. 32 dell’11.03.2011,
applicando la normativa interna sugli incarichi ex art. 110 TUEL, che ne
riservava il conferimento al Sindaco su parere della Giunta)
e ha avuto ad oggetto, oltre alle funzioni di Vice-Segretario generale e a quelle di dirigente part-time del Settore III
socio-assistenziale, anche
quelle di Dirigente del Settore II ragioneria e
finanze, ad interim e sino a conclusione del
concorso citato.
Per quanto riguarda tali ultime
funzioni (le uniche oggetto di causa), è evidente
che si tratta di funzioni di dirigenza di settore
interno all’ente, quindi ordinarie funzioni
dirigenziali espletate in seno al Comune.
7. In relazione all’evidenza della natura del
tutto ordinaria dei compiti affidati, la Sezione
regionale ha correttamente concluso nell’accertare
che non risulta alcun elemento (né dalla
motivazione dei due incarichi, né agli atti del
giudizio) che possa giustificare la scelta di
conferire gli incarichi all’esterno senza
previamente accertare le disponibilità interne. E
difatti, rileva il Collegio:
- la motivazione del conferimento dell’incarico allo studio associato De Le. (delibera di Giunta n.
157/2010) richiama le “non poche problematiche” afferenti al settore
ragioneria “a causa dell’assenza di un referente strutturale di supporto per
la preparazione degli atti fondamentali” e “così come organizzato [cioè
affidato
temporaneamente ad interim al Segretario
generale-Direttore generale] nelle more
dell’esaurimento della procedura concorsuale
indetta nel 2006, coadiuvato da consulenze
temporanee affidate a soggetti esterni tra
cui il Rag. Te., che però, si riferisce
nelle premesse, “dal mese di giugno u.s. non
espleta più l’incarico de quo”); tale
motivazione non rende esaustiva ragione della
necessità di conferire l’incarico
all’esterno.
Indubbiamente, la stessa
pendenza di un concorso per la copertura del
posto in questione dimostra l’assenza di un
“referente strutturale” del servizio;
tuttavia, dalla riscontrata inefficienza
dell’organizzazione sino ad allora
predisposta non derivava necessariamente
l’opzione di ricorrere ad affidamento all’esterno delle attività di
predisposizione
degli atti contabili generali, ma il dovere
di riorganizzare il servizio, seguendo la
regola del previo utilizzo delle competenze
interne all’ente.
Non giustifica il diretto
ricorso all’esterno nemmeno il richiamo, pur
contenuto nelle premesse della delibera
citata, all’art. 46 del d.lgs. n. 112/2008,
norma che anzi, nell’ottica di una riduzione
della spesa per incarichi esterni, ribadisce
la necessità (quale condizione generale per
l’affidamento all’esterno) del previo
accertamento dell’inesistenza di personale
interno adeguato a svolgere le mansioni
oggetto dell’incarico (“6. Per esigenze cui
non possono far fronte con personale in
servizio, le amministrazioni pubbliche
possono conferire incarichi individuali, con
contratti di lavoro autonomo, di natura
occasionale o coordinata e continuativa, ad
esperti di particolare e comprovata
specializzazione anche universitaria”).
Infine, l’affermazione contenuta in
motivazione della delibera che “Per lo
svolgimento del servizio medesimo è richiesta
elevata competenza e professionalità”, è
senz’altro condivisibile e difatti tali
compiti sono ordinariamente svolti dai
funzionari aventi competenza specifica,
addetti al servizio ragioneria di un ente -dal funzionario istruttore a quello di
livello dirigenziale-, ai quali spetta
ordinariamente di redigere sia i prospetti di
bilancio che le proposte di variazione (in
tal senso unicamente può essere inteso il
compito di “gestione del bilancio”);
tuttavia, tali competenze devono reperirsi
all’interno dell’ente e, ove disponibili,
precludono il ricorso a competenze esterne;
- la motivazione della delibera di Giunta
n. 32/2011, nell’esprimere parere positivo
all’incarico delle funzioni di dirigente ex
art. 110 TUEL al Dr. GU., rileva che
il Segretario generale (che “assicura[va] la
reggenza del settore socio assistenziale e
del settore ragioneria”) è “fortemente
impegnato nell’esercizio delle proprie
funzioni di direttore generale ed è in
prossimità del collocamento a riposo,
previsto per il 01.08.2011”; tali circostanze non costituiscono una
legittima
ragione per la quale l’amministrazione non
abbia riorganizzato un servizio, ritenuto
non più espletabile dal Segretario generale,
ricorrendo a personale disponibile
all’interno, senza ulteriori oneri per
l’amministrazione e nelle more della
copertura del posto in organico;
- non può accedersi alla tesi, prospettata
da alcuni degli appellanti, per la quale gli
incarichi sarebbero stati “conseguenziali
all’annullamento delle prove scritte”
(appello ME.) e dal prevedibile
rallentamento dei tempi del concorso,
elementi scusanti in quanto dovuti a cause
loro non addebitabili.
Sia il primo incarico
(del. Giunta n. 157 del 22.10.2010) che il
secondo delibera di Giunta n. 32
dell’11.03.2011), sono antecedenti
all’annullamento delle prove scritte,
disposto dalla Commissione con verbale del
24.03.2011.
In ogni caso, logica di
efficienza avrebbe voluto il ragionamento
esattamente inverso: poiché i tempi per la
copertura del posto di dirigente del Settore
ragioneria prevedibilmente si allungano,
occorre ricorrere in primis alle risorse
disponibili all’interno dell’amministrazione,
per evitare di “stabilizzare” un ricorso a
soggetto esterno per lo svolgimento di
mansioni che l’ordinamento prevede siano
svolte da personale interno.
8. È fatto pacifico (emergente dallo stesso tenore
delle motivazioni delle due delibere di incarico e
non contestato dagli appellanti) il mancato previo
espletamento di una indagine concreta (cioè
realmente avvenuta) ed effettiva (cioè, condotta
con riferimento al personale direttivo in organico
e con riferimento alle competenze maturate da
ciascuno) circa la carenza di adeguate
professionalità nell’ambito dei dipendenti in
servizio.
Gli appellanti insistono, invero, sulla diversa
questione dell’assenza di figure interne adeguate a
svolgere le mansioni affidate all’esterno. Sul
punto il giudice di prime cure ha ritenuto
“processualmente indimostrata o confutata
l’asserzione dei convenuti circa l’assenza, nei
ruoli interni dell’Amministrazione locale, di
dirigenti o di funzionari direttivi di ctg. D in possesso di particolari e
comprovate qualificazioni
professionali necessarie per lo svolgimento di
detti incarichi”.
8.1 L’inesistenza di personale adeguato in servizio
è condizione per il conferimento di incarichi a
soggetti esterni posta dall’ordinamento in termini
del tutto generali (applicabile anche al caso di
incarichi conferiti ex art. 110 TUEL, 46 d.l.
112/2008, e di incarichi di alta specializzazione o
comunque denominati previsti da normativa interna
delle pubbliche amministrazioni). Fermo rimanendo
che, come correttamente accertato in prime cure, vi
è stata carenza istruttoria al momento
dell’adozione dei due atti di conferimento (in
quanto non è stato svolto alcun interpello per il
personale, né stilato un elenco di personale
astrattamente adeguato, né indicato chi, tra il
personale direttivo con esperienza in materia, si
fosse dichiarato o dovesse ritenersi non
disponibile a svolgerlo nelle more della
conclusione del concorso), il punto da decidere
relativamente alla censura in esame è accertare se,
concretamente, al momento del conferimento degli
incarichi tali disponibilità interne vi fossero o
meno.
8.2 Sulla prova di tale circostanza vi è ampia
casistica giurisprudenziale quanto all’estensione
dell’onere a carico della Procura attrice e al
riparto della prova del fatto contrario a carico di
parte convenuta; in particolare, il Collegio
condivide il principio che la mera produzione di
tabelle di organico o elencazione di dipendenti in
servizio non costituisce di per sé prova adeguata a
dimostrare che vi fosse, o non vi fosse in
organico, disponibilità di personale interno,
dovendo invece essere in atti la prova che vi fosse
(o non vi fosse) personale interno adeguato (quanto
a professionalità) e disponibile (a svolgere
l’incarico esternalizzato).
Ritiene il Collegio che tali circostanze debbano
essere accertate caso per caso in base al quadro
probatorio in atti, con riferimento:
a) al
contenuto dell’incarico, dal quale si evidenzia una
minore o maggiore specializzazione e complessità
delle competenze professionali necessarie a
svolgerlo;
b) alla specificità delle indicazioni
sul personale interno prodotte agli atti dalla
Procura attrice e dai convenuti (alla quale si
correla, in maniera direttamente proporzionale, un
aggravamento dell’onere di controprova a carico della parte avversa);
c)
alla peculiare situazione
della disponibilità del personale e
dell’organizzazione dell’ente, anche sotto il
profilo meramente quantitativo del personale avente
determinata qualifica o preparazione professionale,
d) ad altri elementi che possono ricavarsi con ogni
mezzo di prova, nei limiti del principio del libero
convincimento del giudice.
8.3. Il giudice di prime cure ha dedotto la
prova dell’esistenza di personale interno adeguato
da “dichiarazioni in atti secondo cui le risorse
umane presenti al 31.12.2011 consistevano in n. 32
funzionari di qualifica D, di cui n. 5 erano
Responsabili dei Servizi e Uffici nei quali era
articolato il Settore II Ragioneria e Finanze”,
dunque dotati di idonee competenza ed esperienza in
materia.
8.3.1 Tra questi dipendenti, rileva il giudice
di prime cure, era anche il Dr.In., lo stesso
che aveva ricoperto proprio il posto di dirigente
del settore II Ragioneria per incarico
conferitogli dl Sindaco ME. dal 2004 al 2008.
Con particolare riguardo alla posizione del
Dr. In., la tabella richiamata dagli appellanti
(e la nota n. 2445 del 17.01.2018 del Servizio
risorse umane, a cui è allegata) indica il suo
inserimento nell’elenco dei dipendenti con
qualifica D per il 2010 e 2011 già trasmesso con
nota in stessa data n. 2416, nel quale l’In. era
stato erroneamente non inserito.
Dunque, alla
qualificata pregressa esperienza come capo Servizio
Ragioneria ad interim per quattro anni, indizio
della sua idoneità alle funzioni in assenza di
alcuna prova del contrario (il Collegio osserva che
la circostanza che egli sarebbe stato revocato da
tali funzioni per inidoneità, affermata
nell’appello capofila ME., contrasta con
l’affermazione dell’appello GI., che egli
sarebbe stato revocato per l’opportunità di non
consentire ad un vincitore delle prove scritte di
svolgere le funzioni messe a concorso, e che su
entrambe le circostanze, in ogni caso, non sono
versate agli atti adeguate prove documentali), si
aggiungeva l’alta qualifica posseduta (D3 al tempo)
e la circostanza che il Dr. In. risultava il
primo nella graduatoria provvisoria tra i tre
vincitori delle prove scritte del concorso per la
copertura del posto di dirigente dello stesso
Settore Ragioneria (prove superate nel 2009,
dunque prima del conferimento degli incarichi).
L’argomentazione degli appellanti, che sarebbe
risultato inopportuno incaricare lo stesso In.
proprio perché vincitore delle prove scritte non ha
alcun supporto logico né giuridico;
l’argomentazione che la stessa indizione del
concorso per la copertura del posto dimostrerebbe
l’assenza di personale interno adeguato risulta
inconferente, atteso che il posto messo a concorso
era di qualifica dirigenziale, non direttiva (per
cui nella specie si tratta di accertare solo se
sussistesse temporaneamente, per il tempo
necessario a espletare la procedura, personale
interno direttivo che fosse adeguato e disponibile
a svolgere le relative mansioni).
8.3.2. Quanto al restante personale in servizio,
i dati affermati dal giudice di prime cure non sono
stati confutati, ma anzi confermati dagli
appellanti in quanto emergenti dalla citata tabella
richiamata da entrambi gli appelli; questa non
fornisce alcun elemento a favore della tesi
sull’inesistenza di personale qualificato e
disponibile, in quanto costituisce un elenco dei
“dipendenti categoria D anni 2010-2011” che (oltre
a comprendere lo stesso In.) non prova alcuna
condizione di inadeguatezza o indisponibilità del
personale, e anzi dimostra la presenza in servizio,
presso il Settore ragioneria nel 2010 e 2011, di 4
funzionari direttivi di cui tre D2 e uno di livello
D4; in altri termini, la citata tabella dimostra
quindi la presenza in servizio di un rilevante
numero di dipendenti, oggettivamente presenti e
astrattamente qualificati all’incarico.
Rispetto alla documentata quantità e qualità dei
funzionari in organico, alla specifica circostanza
che uno di questi aveva già ricoperto quelle
medesime funzioni e alla mancanza di qualsiasi
elemento per dedurre (la sua o di altri) inidoneità
o l’indisponibilità a svolgere le funzioni in
questione, deve confermarsi quanto statuito dal
giudice di prime cure in punto di prova, e cioè che
manca la prova del presupposto primo per il
legittimo affidamento a terzi delle funzioni di
dirigente del Settore ragioneria (delibera
n. 32/2011), o di funzioni comunque espletate dal
Servizio ragioneria (delibera di Giunta n.
157/2010).
9. La condanna risulta emessa ultra petita
quanto ad alcune posizioni (VO. e IO., citati
per euro 1.248,00 ciascuno e condannati per
rispettivamente euro 1.687,00 e 1.600,009) e quelle di errore di calcolo del
giudice (SC. e
TE., per i quali, seguendo i calcoli del
giudice con decurtazione del 40% e di ulteriore
10%, essi devono rispondere di euro 1.668,86).
Tuttavia, la rilevanza di tale circostanza sarà
eventualmente esaminata ad esito delle conclusioni
che questo giudice trarrà in merito alla fondatezza
delle censure rivolte dagli stessi appellanti
avverso la statuizione di colpa grave loro
ascritta, e che sono di seguito esaminate.
10. Alcune precisazioni preliminari si impongono
riguardo all’esame dell’elemento soggettivo degli
Assessori e dei componenti la Giunta.
Nella fattispecie va escluso che, diversamente
da quanto censurato dagli appellanti, trovi
applicazione l’art. 1, comma 1-ter legge 14.01.1994 n. 20 (“Nel caso di atti che rientrano nella
competenza propria degli uffici tecnici o
amministrativi la responsabilità non si estende ai
titolari degli organi politici che in buona fede li
abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o
consentito l'esecuzione”).
Tale “esimente” è stata introdotta
nell’ordinamento con la finalità (perseguita dal
legislatore nel riformare l’organizzazione degli
enti locali in coerenza con la riforma della
dirigenza nel settore pubblico), di tutelare gli
organi locali di governo nell’esercizio delle
funzioni deliberative loro proprie laddove la
decisione di loro competenza necessiti di una
istruttoria tecnico-amministrativa complessa, che
coinvolga accertamenti affidati ad organi tecnico-amministrativi interni.
Tale regola costituisce
infatti la naturale conseguenza, sul piano delle
responsabilità, del principio di separazione tra
funzioni di indirizzo politico (spettanti agli
organi di governo) e attività di gestione (spettanti
agli organi amministrativi di vertice), introdotto
dal d.lgs. 03.02.1993, n. 29 e, poi, dall’art.
4, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, ed è volta a
garantire che l’organo politico-amministrativo
rimanga esente da responsabilità connesse
all’esercizio di proprie funzioni che risultino, in
concreto, viziate da un errore imputabile agli
accertamenti istruttori di specifica competenza dei
dirigenti.
Da tale ratio consegue che, ove sia alterato
il fisiologico riparto di competenze e funzioni
individuati dal TUEL (e il corollario del divieto di
interferenza reciproca tra i due comparti di funzioni, di governo e
amministrative, nello
specifico settore del governo degli enti locali),
detta regola non si applica e gli organi di governo
che si siano assunti compiti di gestione sono
soggetti all’ordinario regime di responsabilità che
a tali compiti consegue.
Venendo al caso di specie, che non è
disciplinato da normativa derogatoria quanto al
riparto di competenze all’interno dell’ente, nel
quadro delle funzioni regolamentate dal TUEL
l’affidamento di un incarico di ordinarie funzioni
istituzionali a soggetto esterno non costituisce un
compito tipico della Giunta, ma un provvedimento
(non generale) di gestione in materia di personale;
come tale, esso non rientra nella ratio e nella
disciplina dell’invocata ”esimente”, ed è in grado
di generare (se ne sussistano i presupposti) una
responsabilità della Giunta quale riflesso
dell’assunzione di tali compiti gestori (cd.
“responsabilità per assunzione”: cfr. Sez. II App., sentenza n. 171/2017), la quale deve essere valutata
secondo gli ordinari parametri utilizzabili
nell’accertamento della responsabilità dei
dirigenti, che ordinariamente tali compiti
espletano.
11. Il principio generalissimo che trova
applicazione al fine di individuare i centri di
responsabilità per il danno conseguente a
deliberato di organi collegiali è che del danno
possono rispondere i soggetti che hanno proposto la
delibera, quelli che avevano compiti consultivi o
di controllo sul rispetto delle condizioni di legge
e quelli che, in seno all’organo collegiale, hanno
espresso voto favorevole laddove fossero nelle
condizioni di conoscere le violazioni che con il
deliberato sono state perpetrate, o avrebbero
dovuto esserlo in ragione del fatto che il
deliberato esprime competenze proprie dell’organo
collegiale o comunque da quello assunte.
Nella specie, esclusa l’applicazione
dell’esimente e accertato che si verte in
fattispecie di assunzione di funzioni non tipiche
della Giunta, occorre verificare la colpa grave dei
convenuti rispetto alla conoscenza o conoscibilità
da parte loro delle circostanze che determinano
l’illegittimità dei due incarichi, le quali si
riducono a due: il carattere del tutto ordinario e
istituzionale dei compiti che ne sono oggetto e la
mancata verifica di personale interno a fronte
della presenza di più funzionari in servizio, qualificati per livello e
mansioni al tempo svolte.
11.1 Quanto alla specifica posizione
dell’assessore alle Finanze SA., la circostanza
che le due proposte di deliberato interessassero il
settore di propria competenza –addirittura
proponente di una delle due (delibera n. 157/2010)-
lo individua quale referente in seno alla Giunta per
la compiutezza ed affidabilità dell’istruttoria
concernente la situazione amministrativa e giuridica
da valutare per l’individuazione di un soggetto a
cui affidare i compiti oggetto dei due incarichi.
Nella sua posizione non risulta di alcuna
giustificazione l’argomentazione difensiva che egli
avrebbe fatto affidamento sull’istruttoria del
proprio dirigente di settore; tale difesa risulterebbe eventualmente efficace entro i limiti,
qui travalicati, di operatività dell’esimente
invocata, ma che non ha alcun rilievo nella
fattispecie, sia per l’inoperatività dell’esimente,
sia per l’esistenza di quello che costituiva a suo
carico un onere specifico di verifica istruttoria
(che la consolidata giurisprudenza non ritiene
assolto dalla presenza di parere favorevole del
Segretario generale o di un organo tecnico: ex
plurimis, Sez. II App. n. 89 del 13.02.2017, e n. 508
del 24.12.2019).
Per le stesse ragioni non lo
giustifica l’argomentazione che la sua proposta si
sarebbe limitata a recepire “quanto rappresentato
dal Segretario generale” riguardo alla questione
della carenza di personale, poiché un suo personale
approfondimento sull’esistenza di un documentato
riscontro delle disponibilità in organico era
doveroso in applicazione del principio per cui “la
colpa grave non [può] ritenersi esclusa dalla mera
prospettazione di un fideistico affidamento sulla
legittimità della condotta altrui, giacché la
diligenza richiesta al pubblico amministratore
indubbiamente impone a colui che subentra nella
gestione di un affare in corso di assumere un
atteggiamento comunque finalizzato a ponderarne la
legittimità” (Sez. II App. n. 278/2020).
In più brevi termini, assumendo la Giunta
compiti di gestione e risultando questi inerenti al
settore del SA. -e nella delibera n. 157/2010
assunti dalla Giunta su sua proposta- l’assessore
avrebbe dovuto informarsi sui fatti rilevanti nonché
sulla completezza e correttezza dell’istruttoria a
base delle proposte.
Nella specie, trattandosi di
incarichi, in entrambe le occasioni egli avrebbe
dovuto almeno accertare (con onere non esaurito dalla proposta del Dirigente
del suo settore) se vi
fosse stata una istruttoria adeguata a dimostrare la
sussistenza dei presupposti generalissimi di legge
sopra detti.
La distanza tra lo schema procedurale previsto
dalla disciplina in materia e il percorso
decisionale concretamente seguito –in assenza di
alcuna documentazione sul previo riscontro sulla
adeguatezza e disponibilità del personale interno-
è tale da evidenziare il nucleo tipico della colpa
grave, sotto il profilo della grave e inescusabile
violazione di legge, perpetrata omettendo
l’esercizio di competenze proprie riflesso
dell’assunzione di compiti di gestione e
pretermettendo i compiti di verifica e garanzia ad
essi associati.
Per il SA. deve quindi confermarsi
l’accertamento del giudice di prime cure di una
“incuria incompatibile con quel minimo di diligenza
e di avvedutezza che l’assolvimento degli obblighi
di servizio pubblico invece esigeva dai convenuti”.
Le censure di lesione del diritto di difesa,
che l’appellante muove sotto il profilo di nullità
della citazione e conseguente nullità della sentenza
di prime cure (che non avrebbe rilevato la mancata contestazione di tale
differente posizione del SA.
rispetto a quella degli altri assessori) sono
infondate.
La contestazione che costituisce il nucleo
indefettibile della domanda (la cui assenza è causa
di nullità dell’atto di citazione) è individuata dai
fatti addebitati (titolo della domanda, o causa
petendi), che nella fattispecie sono esenti dalla
rilevata genericità, come concluso anche dal giudice
di prime cure, perché descrivono sufficientemente la
sua posizione (assessore al settore finanze,
proponente l’incarico di cui alla delibera di
Giunta n. 157/2010 e partecipante che ha espresso
voto positivo ad entrambe le delibere).
L’individuazione delle norme di legge alla luce
delle quali tale addebito deve essere vagliato è
materia spettante alla cognizione del giudice, che
sussume autonomamente i fatti in una fattispecie di
diritto e ne trae le conseguenze in punto di
responsabilità; l’ampiezza delle argomentazioni
difensive, poi, è lasciata alla scelta discrezionale
della difesa, che non incontra preclusioni
nell’individuare e interpretare le norme di diritto
applicabili alla fattispecie addebitata al convenuto
e formulare le proprie conclusioni.
Pertanto, addebitando al SA. una percentuale maggiore del danno in ragione
della sua specifica
posizione (differenziata sia in citazione che in
sentenza rispetto a quella degli altri componenti la
Giunta), il giudice di primo grado non ha leso in
alcun modo il suo diritto difesa.
In conclusione, nei confronti del SA. deve
essere confermata la condanna di euro 4.319,00.
11.2. L’appellata sentenza va invece riformata
quanto alla posizione degli appellanti Assessori che
hanno espresso voto positivo nelle due occasioni, IO., VI., TE. e SC..
Seppure l’inapplicabilità della citata
“esimente” comporti l’assunzione in capo alla Giunta
della responsabilità per l’atto di gestione,
all’interno dell’organo collegiale possono assumere
rilevanza particolari circostanze in virtù delle
quali l’elemento soggettivo può risultare non
connotato dal medesimo grado di colpa con
riferimento a ciascuno dei votanti.
La casistica
giurisprudenziale presenta fattispecie nelle quali
la colpa grave è stata riconosciuta in capo a tutti
i partecipanti che hanno espresso voto positivo, e
altre nelle quali la colpa grave è stata esclusa nei
confronti di tutti o alcuni per la presenza di
particolari condizioni inerenti elementi diversi
che, in concreto, sono stati ritenuti rilevanti per
attenuare il principio di imputabilità ai componenti
dell’organo collegiale degli atti di gestione
assunti (tra i quali le dimensioni dell’ente, il
recente insediamento in Giunta, la complessità degli
accertamenti istruttori a base della proposta e
altri).
Nel caso di specie, il deliberato era
accompagnato dall’istruttoria compiuta dal
funzionario proponente (GI., quale Responsabile
ad interim del Settore Ragioneria e Finanze, nella delib. 157/2010; CA., nella delib. 32/2011) la
cui verifica spettava (per quanto detto)
all’assessore competente del servizio finanze
(SA.); l’organo collegiale era assistito dal
Segretario generale di ruolo (GI.). Questi
soggetti costituivano ed esaurivano i tre diversi
centri di controllo sui quali, nel caso di
deliberazioni collegiali, si incentra il vaglio
delle condizioni di legittimità dell’azione
amministrativa.
Su tali soggetti (e concentrandosi
la funzione di referente in seno al collegio nel SA.) può ritenersi plausibile che gli assessori
votanti abbiano fatto affidamento, e ciò determina
una minore rimproverabilità dell’illecito nei loro confronti.
Difatti, nella fattispecie le motivazioni di
cui alle due proposte e i prescritti pareri non sono
assenti, ma sono viziati da una erronea
rappresentazione della realtà dei fatti: essi danno
una contezza, seppur formale, del riscontro da parte
del proponente di ragioni di necessità organizzativa
attinenti il settore personale (per ciò che riguarda
l’asserita carenza di adeguato personale interno) ed
il settore ragioneria (per l’indisponibilità del
Segretario generale a continuare l’incarico ad
interim) - motivazioni la cui inconsistenza (sia
con riferimento alle prime che alle seconde)
appariva con tutta evidenza a chi appartenesse ai
due settori (CA., SA.) o avesse istituzionalmente compiti di verifica delle
condizioni organizzative del personale (GI.),
ma non necessariamente agli altri assessori.
Né è dimostrata una loro conoscenza personale
dei fatti, loro derivante da ragioni di ufficio o aliunde, o sono agli atti altre circostanze
rilevanti per trarne una gravissima deviazione dalle
regole di azione e giudizio da parte loro
nell’assumere la decisione del conferimento dei due
incarichi.
11.3 Rileva il Collegio che tali circostanze
risultano invece evidenti agli atti per il Sindaco ME..
Il mancato approfondimento da parte sua, in
sede di Giunta, della questione sulla presenza in
servizio di personale adeguato non appare
minimamente giustificabile, considerato che egli
risulta aver personalmente firmato l’incarico
temporaneo di Dirigente del settore Ragioneria e
finanze affidato al Dr. In. nel 2004 e 2005 e sino
al 2008 (con la motivazione che quegli “possiede i
requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire”).
Tale omissione assume, da parte sua, il connotato di
una grave e inescusabile mancanza di diligenza
nell’accertare e approfondire i fatti essenziali
dell’istruttoria a base delle due proposte di
deliberato, tanto più laddove l’assenza di alcuna
documentazione su un previo interpello, o anche solo
un previo esame d’ufficio dei profili di
qualificazione del personale (ivi compreso
l’In.), deponeva per la sua incompletezza e
inadeguatezza.
La conoscenza personale di questioni che, con
tutta evidenza, rientravano doverosamente
nell’ambito dei fatti da considerare ponderatamente nell’istruttoria dei due
deliberati, rende la sua
posizione analoga a quella del SA. non solo quanto
all’onere di approfondimento istruttorio gravante a
suo carico, ma anche al conseguente obbligo di
corretta informazione ai presenti alla seduta (e lo
rende responsabile, dunque, sia per l’incarico da
lui personalmente conferito in attuazione della
delibera di Giunta n. 32/2011, sia per l’incarico di
cui alla delibera Giunta n. 157/2010).
Il giudice di prime cure ha ritenuto di
addebitare al ME. una diversa quota di danno in
relazione ai due incarichi (il 25% diviso pro quota
con gli altri convenuti, per la delibera n. 157/2010,
e l’intero 25% per il danno conseguente alla
delibera 32/2011 e al decreto di incarico a sua
firma, n. 4 del 21.03.2011); pertanto, la sentenza
nei suoi confronti deve essere confermata entro la
somma in condanna, di complessivi euro 9.307,00.
12. L’appellata sentenza deve essere confermata
anche per la posizione del GI..
In qualità di Responsabile ad interim del
Settore Ragioneria e Finanze è di palmare evidenza
che egli conoscesse per ragioni di servizio la
dotazione organica e, in particolare, i funzionari
in servizio presso il suo settore; più in generale,
la situazione del personale tutto dell’ente doveva
necessariamente essergli nota, rivestendo egli il
ruolo di Segretario generale.
Ciononostante, quanto al primo incarico (al dr. De Le., conferito con la delibera di Giunta n.
157 del 22.10.2010), egli ha proposto la delibera
di affidamento ed espresso i pareri positivi di
regolarità tecnica e contabile, ex art. 49 TUEL.
Ciò basta a qualificare come grave la sua colpa,
per palese e profonda deviazione dalla disciplina
di settore sotto più profili dei quali il primo e
più grave è proprio l’aver proposto un affidamento
esterno che, di fatto, ha pretermesso il previo
vaglio del personale interno o qualsiasi proposta
di riorganizzazione del servizio con l’utilizzo del
personale interno nel modo più razionale ed
efficiente in relazione alle disponibilità, certe
agli atti.
Quanto al secondo (conferito al GU. ex art. 110 TUEL previo parere positivo
espresso con la delibera di Giunta n. 32/2011),
dalla mera lettura della delibera egli era in grado
di trarre la natura ordinaria dei compiti affidati
e, dalla documentazione agli atti, l’assenza di
alcuna indagine sulla situazione della
disponibilità in organico; cionondimeno, nulla ha rilevato, omettendo il
dovuto supporto alla Giunta
in qualità di Segretario generale.
Alla luce di tali specifiche competenze,
l’argomentazione difensiva relativa all’elemento
soggettivo (per la quale il GI. non sarebbe
stato in grado di percepire gli elementi ostativi
all’adozione delle delibere proposte alla Giunta)
risulta di evidente infondatezza: posto che altri
non è che il Segretario generale l’organo che, in
virtù dei compiti assegnategli dall’art. 97 TUEL,
in sede collegiale avrebbe dovuto fornire
l’”assistenza giuridico-amministrativa in ordine
alla conformità dell'azione amministrativa alle
leggi, allo Statuto ed ai regolamenti” (e rilevare,
nella fattispecie, le violazioni che, sotto
entrambi i profili, il deliberato concretava), non
risulta dimostrata alcuna circostanza
giustificativa per la quale queste conoscenze (in
fatto e in diritto) egli non ha potuto acquisire.
13. L’ulteriore questione dell’evidenza o meno,
da parte del GI., del ME. e del SA.,
dell’illegittimità dell’annullamento delle prove
scritte e dello stallo dei lavori della Commissione di concorso è, in
concreto, irrilevante ai fini
del decidere.
Le ragioni dell’addebito nei loro confronti non
si radicano nell’illegittimità degli atti della
Commissione, ma in quella delle due delibere (la
157/2010 di conferimento dell’incarico e la 32/2011
di resa del parere positivo al conferimento stesso
da parte del Sindaco), con riguardo alla (diversa)
disciplina sugli incarichi che è stata, peraltro,
ampiamente e correttamente richiamata
nell’appellata sentenza, la quale risulta pertanto
scevra anche da questa censura. |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI:
1. Nelle ipotesi di danno indiretto, il termine iniziale di
prescrizione va fissato alla data in cui il debito della P.A. nei confronti
del terzo danneggiato è diventato “certo, liquido ed esigibile”: pertanto,
nel caso di danno conseguente all’assunzione di debito fuori bilancio, il
termine di prescrizione decorre da tale momento, a nulla rilevando che i
fatti storici, in relazione ai quali è ipotizzabile la responsabilità
amministrativa, siano stati oggetto di atti deliberativi anteriori.
2. L’esimente c.d. politica della responsabilità
amministrativo-contabile, di cui al comma 1-ter dell’art. 1 della legge n.
20 del 1994, opera soltanto quando la decisione che si assume fonte di danno
ingiusto sia stata assunta in materie di particolare difficoltà tecnica o
giuridica, dovendosi altrimenti ritenere che l’evidenza dell’erroneità
dell’atto sia tale da escludere la stessa buona fede dei titolari
dell’organo politico.
3. Gli obblighi di correttezza e buona fede devono caratterizzare
sia la stipulazione dei contratti pubblici sia la fase precontrattuale. In
quest’ultimo ambito, entra l’ipotesi dell’aggiudicazione di un contratto
nella consapevolezza della mancanza di copertura finanziaria ai sensi degli
artt. 151 e ss. del TUEL, foriera di responsabilità ex art. 1337 c.c.
---------------
Ciò posto, dal succedersi cronologico degli avvenimenti si ravvisa in modo
palese la responsabilità dei convenuti, riconducibile alle due cause ben
evidenziate sia dal giudice
amministrativo che dal procuratore regionale:
- la mancata acquisizione della
provvista finanziaria prima della indizione e della aggiudicazione della
gara e
- l’inerzia gravemente colposa inspiegabilmente protratta fino alla
scadenza del termine utile –prorogato– per concludere i lavori.
Rileva in primo luogo, ad avviso del Collegio, l’avere aggiudicato un
contratto nella consapevolezza della mancanza di copertura finanziaria ai
sensi degli artt. 151 e ss. del TUEL.
Dagli atti si evince che la convenzione con la Calabria, che affidava al
Comune di Scalea la realizzazione degli interventi beneficiati relativi al
Progetto Integrato Territoriale n. 1 “Alto Tirreno cosentino”, era stata
stipulata in data 17.01.2008. Già da quella data, dunque, ai sensi
dell’articolo 10 della medesima Convenzione, il Comune si sarebbe potuto
attivare per richiedere al Dipartimento regionale competente l’anticipazione
del 30% sulla somma dell’intero appalto. Ma nulla risulta agli atti che
dimostri una iniziativa in tal senso, né da parte del Sindaco Ru., né da
parte del responsabile del Servizio Lavori Pubblici e RUP, Arch. Ba..
Tale omissione si è protratta per circa dieci mesi, nonostante che in tale
lungo arco temporale il Comune avesse indetto una prima gara secondo
procedura negoziata, che poi in autotutela annullava nell’ottobre 2008.
E’ solo in data 20.11.2008, contestualmente alla aggiudicazione della
seconda procedura di gara indetta dopo l’annullamento della prima, che il
Sindaco di Scalea, con nota prot. 8097 del 20.11.2008, richiedeva alla
regione l’anticipazione del 30% dell’importo dell’appalto.
I convenuti imputano alla Regione il ritardo nella concessione di detta
anticipazione, ma è evidente, per contro, la condotta del tutto
ingiustificabile assunta dai convenuti, sia per non avere tenuto in debita
considerazione la provvista finanziaria già prima di aggiudicare l’appalto,
sia –ancor più– per avere tenuto un comportamento del tutto
contraddittorio, in quanto alla richiesta –tardiva- di concessione della
proroga del 20.11.2008 faceva seguito, dopo sole due settimane, in
data 04.12.2008, una richiesta del Sindaco dal tenore del tutto
opposto, e cioè di “sospensione della erogazione della rata di anticipazione
già richiesta”, e addirittura, di “slittamento dell’intero progetto
nell’annualità 2009”, senza alcuna considerazione delle responsabilità e dei
doveri connessi all’aggiudicazione già conclusa, alla comunicazione formale
data alla ditta dal Ba. e all’affidamento, del tutto legittimo
indotto nel contraente, in ordine alla favorevole conclusione della
procedura ed alla stipulazione del contratto.
Appare dunque palese come la documentazione in atti attesti che, a distanza
di soli due giorni dal visto che aveva reso esecutivo il provvedimento di
aggiudicazione, il Comune chiedeva alla Regione di sospendere l’erogazione
dell’acconto del 30% con la conseguenza di avere, già a quella data, leso
l’affidamento al corretto svolgimento delle trattative contrattuali,
ingenerato nella N. by Te.No. S.r.l. con la comunicazione del
21 novembre precedente.
Le considerazioni che precedono inducono pertanto il Collegio a ritenere che
la responsabilità precontrattuale accertata dal TAR con la sentenza n.
502/2012 fosse maturata in capo ai convenuti già con la nota del 04.12.2008
e che, da quella data in poi, essa si sia ulteriormente aggravata.
Né rileva, ad attenuare la responsabilità gravemente colposa dei convenuti,
la circostanza che con successiva nota del 11.12.2008 il dott. Ru.,
“preso atto di quanto riportato dalla stampa in ordine alla concessione di
proroghe dei progetti POR”, abbia richiesto nuovamente alla Regione lo
slittamento del termine di scadenza al 30.06.2009, atteso che,
contestualmente, siffatta richiesta non era accompagnata da alcuna concreta
iniziativa dei convenuti che denotasse l’effettiva intenzione di realizzare
l’intervento destinatario dei finanziamenti.
Se, dunque, era già noto dagli organi di stampa che il progetto sarebbe
stato prorogato, sia il Responsabile del Procedimento che il Sindaco
avrebbero dovuto concretamente attivarsi per sollecitare la provvista
finanziaria.
Ed invece, nulla di tutto ciò avveniva e il termine del 31.12.2008 spirava
inutilmente senza che il contratto fosse stipulato.
Successivamente, entrambi i convenuti hanno ritenuto inopinatamente di non
dover dare credito alla comunicazione del 25.02.2009, con cui il
Responsabile dell’Ufficio Coordinamento e Gestione “Alto Tirreno cosentino”,
dott. Ma., informava, sia il Comune sia l’aggiudicatario, della
proroga del termine finale al 30.06.2009 per atto espresso della Commissione
europea.
La tesi difensiva, in particolare, non riconosce alcuna giuridica efficacia
alla comunicazione del 25.02.2009 del dott. Ma., poiché “Nello
schema di convenzione, infatti, non è prevista nessuna figura di
coordinamento e non si comprende quale sia stata l’autorità che ha nominato
il dott. Ma. allo svolgimento di tali funzioni di coordinamento di un PIT che nella sostanza è un progetto e non un organo".
L’assunto è totalmente destituito di fondamento.
Basta infatti leggere il testo della Convenzione per verificare che
già all’articolo 3 è previsto che il beneficiario finale dei finanziamenti
dovrà fornire tempestivamente e secondo le scadenze stabilite dalla Regione
ogni informazione relativa alla propria attività, utile al monitoraggio e
alla verifica sull’attuazione dell’intervento, e che tali comunicazioni e le
attestazioni di spesa dovranno pervenire, pena il blocco delle procedure,
tramite l’Ufficio di Coordinamento e Gestione del PIT.
Sempre l’articolo 3 prevede poi che “al fine di garantire l’aggiornamento e
l’approfondimento delle attività in corso e di
fornire eventuali dati aggiuntivi, sarà cura del Responsabile del
procedimento degli interventi finanziati incontrarsi con il Responsabile
dell’Ufficio di Coordinamento e Gestione del PIT e/o con il Responsabile
della misura, ogni volta che gli stessi lo valuteranno opportuno”.
E ancora, viene stabilito nel medesimo articolo, tra gli obblighi cui è
tenuto il beneficiario del finanziamento, quello di comunicare
tempestivamente al Dipartimento e al responsabile della misura ogni
circostanza che abbia influenza sull’esecuzione e sull’andamento
dell’intervento e a trasmettere loro, entro venti giorni dalla relativa
emissione e tramite il Responsabile dell’Ufficio di Coordinamento e Gestone
del PIT, copia conforme degli atti amministrativi rilevanti ai fini della
realizzazione dell’intervento.
Quindi, contrariamente a quanto sostenuto dei convenuti, la figura del
Responsabile dell’Ufficio di Coordinamento e Gestione del PIT era
espressamente prevista nella Convenzione stipulata con il Comune dalla
Regione Calabria, quale organismo con specifiche competenze appositamente
istituito quale tramite fra il Dipartimento regionale ed il beneficiario dei
finanziamenti, nei cui confronti quest’ultimo –e in particolare sia l’ente
locale, sia il Responsabile del procedimento- avevano precisi obblighi di
comunicazione e di trasmissione di atti rilevanti per la realizzazione
dell’intervento.
Dunque, stante il particolare ruolo ricoperto dal Responsabile del
Coordinamento nella suddetta procedura, l’informazione sulla concessa
proroga della rendicontazione del progetto al 30.06.2009, disposta dalla
Commissione europea, non poteva essere considerata “priva di valenza
giuridica”, ma avrebbe invece richiesto l’attivazione dei convenuti, sia in
qualità di rappresentante dell’ente che di responsabile del procedimento e
del Settore Lavori pubblici, per stipulare il contratto e terminare in tempo
utile i lavori.
In presenza di tale comunicazione, promanante comunque da un organo
qualificato all’interno della procedura, appare priva di pregio anche
l’affermazione che occorreva aspettare il formale assenso della Regione.
Di conseguenza, la scelta del Comune di non dare seguito alla stipula a
cagione della mancanza di un atto di conferma da parte della Regione
Calabria, si appalesa arbitraria e irragionevole.
E comunque, nessuna attività risulta essere stata posta in essere dagli
interessati, i quali avrebbero potuto, intanto, consultare la Gazzetta
Ufficiale della Comunità Europea per verificare la fondatezza della notizia
(la Decisione della Commissione europea, in realtà, risultava allegata alla
nota del Ma. del 25.02.2009, ma i convenuti hanno negato che tale atto
fosse presente). In secondo luogo, avrebbero potuto interessare direttamente
il Dipartimento regionale competente piuttosto che rimanere ad attendere un
riscontro formale della
regione.
Nulla di tutto questo si è verificato. Infine, con nota del 24.03.2009, in
replica alla diffida della società aggiudicataria, entrambi i convenuti
sottoscrivevano la nota del 24.03.2009 con cui giustificavano la mancata
stipula del contratto con la necessità di “dover attendere tanto la
concessione ufficiale della proroga quanto l’esito del ricorso
amministrativo”.
Al riguardo occorre precisare che anche la tesi difensiva secondo cui per
l’ente era opportuno attendere la determinazione del giudice amministrativo
sul merito del ricorso introdotto da altro concorrente, non è condivisibile.
In disparte la considerazione, svolta anche dal giudice amministrativo, che
in quel procedimento il previo ricorso cautelare della ditta esclusa era
stato respinto con ordinanza del gennaio 2009, nulla è stato fatto dai
convenuti anche dopo il deposito della sentenza definitiva, sempre
favorevole al Comune, avvenuto il 22.04.2009.
Le suesposte considerazioni comprovano la responsabilità gravemente colposa
dei due convenuti nella gestione dell’appalto, che appare del tutto avulsa
dal rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede che devono
caratterizzare la stipulazione dei contratti pubblici e la fase
precontrattuale, né alcuna attività riconducibile ai medesimi convenuti è
stata realizzata al fine di porre l’aggiudicatario nella condizione di
essere salvaguardato nel suo interesse al corretto svolgimento delle
trattative precontrattuali, ponendo dunque a carico del Comune le
conseguenze economiche di tale responsabilità.
Il comportamento tenuto dai convenuti contrasta con il neminen laedere quale
principio generale dell’ordinamento giuridico, implicante quel
dovere
reciproco di solidarietà contrattuale sovente richiamato dalla
giurisprudenza di legittimità come canone di comportamento secondo buona
fede cui le parti sono tenute, non solo nella fase esecutiva del contratto
stipulato, ma anche in quella delle trattative prodromica al contratto
stipulando (ex pluribus, Cass. Sez. I, n. 19024/2005; Cass. Sez. Un. nn.
26724 e 26725 del 2007). La lesione della buona fede nell’ambito delle trattative precontrattuali
implica per le parti una precisa regola di comportamento secondo
correttezza, foriera di responsabilità ex art. 1337 c.c.
Ritiene il Collegio che la dedotta violazione dell’obbligo di buona fede in
danno dell’aggiudicatario da parte dei convenuti sia riavvisabile nella
condotta gravemente colposa ed ingiustificatamente inerte dagli stessi
tenuta in tutto il corso dell’appalto.
Anzitutto, per aver indetto una gara senza avere garantito la necessaria
copertura finanziaria, nonostante l’art. 10 della Convenzione di
finanziamento firmata con la Regione prevedesse l’anticipazione di una prima
rata del 30% già alla data della stipula, ossia il 17.01.2008, mentre è
documentato
che la prima richiesta per l’erogazione della rata di anticipazione è datata
20.11.2008 e che a distanza di quindici giorni, il 04.12.2008, sempre il
Comune, a firma del Sindaco, ne ha richiesto la sospensione.
Comportamento gravemente colposo se posto in relazione con quanto
documentato in atti.
E’ palese poi che alla data del 21.11.2008, quando il dott. Ba. -(fascicolo Ru., Allegato 15)– comunica alla
N. by Te.No.
S.r.l. di essere risultata aggiudicataria della gara è consapevole di non
avere alcuna copertura finanziaria, dal momento che la Determinazione
assunta non ha ancora ricevuto il visto di regolarità contabile. Ma, una
volta apposto il visto, addirittura il Comune –a firma del Sindaco– chiede
alla Regione la sospensione dell’erogazione del finanziamento di cui alla
nota del 20.11.2008.
È dunque smentita la tesi difensiva volta a riversare eventuali
responsabilità sulla Regione Calabria.
Secondariamente, la grave negligenza nell’operato dei convenuti Comune si
evince anche dalla condotta da entrambi tenuta dopo la scadenza del termine
del 31.12.2008 per la realizzazione dell’intervento previsto dal POR.
Infatti, nonostante la nota del 25.02.2009 (fascicolo Ru., Allegato 20)
con cui il Responsabile del Coordinamento del PIT1 comunicava a entrambe le
parti la proroga del termine finale di ammissibilità delle spese
finanziabili in base al POR 2000/2006 al 30.06.2009, i convenuti sono
rimasti inerti e, alla diffida dell’aggiudicatario, hanno replicato entrambi
con la nota del 24.03.2009 (fascicolo Ru., Allegato 21) con cui hanno
affermato di non poter procedere alla stipulazione dovendo attendere la
comunicazione formale della proroga dei termini di realizzazione del
progetto da parte della Regione, disconoscendo qualsiasi efficacia giuridica
alla comunicazione del 25.02.2009.
E dunque i convenuti, anziché adoperarsi per accertare la veridicità della
comunicata proroga dei termini, hanno preferito persistere nella propria
condotta omissiva, di fatto lasciando spirare il termine del 30.06.2009
e così ponendosi nella condizione di dover rifiutare la stipula del
contratto, costringendo l’altra parte contrattuale a rivolgersi all’autorità
giudiziaria che ha poi accertato la responsabilità dell’ente e quantificato
il relativo danno.
Trattandosi di responsabilità per violazione di regole di comportamento,
deve essere respinta anche l’eccezione della esimente politica da parte del
dott. Ru..
L’art. 1, co. 1-ter, l. 14.01.1994, n. 20 recita testualmente: “Nel caso di
atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o
amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi
politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano
autorizzato o consentito l’esecuzione”.
Ebbene, la giurisprudenza ha dato una lettura assai restrittiva della
portata della norma, statuendo che l’esimente c.d. politica
della responsabilità amministrativo-contabile opera soltanto quando la
decisione che si assume fonte di danno ingiusto sia stata assunta in materie
di particolare difficoltà tecnica o giuridica, dovendosi altrimenti ritenere
che l’evidenza dell’erroneità dell’atto sia tale da escludere la stessa
buona fede dei titolari dell’organo politico (ex pluribus, Corte dei Conti,
Sezione I, n. 282/2002).
Nulla di tutto ciò si ravvisa nell’odierna fattispecie, in quanto tutti gli
atti a firma del Sindaco Ru. non si sono espressi su materie di
particolare complessità tecnica, ma afferiscono tutti alle menzionate
richieste di proroga del termine di realizzazione dei lavori, alla richiesta
dell’erogazione dell’anticipazione del finanziamento, al riscontro alla
diffida del 24.03.2009, a firma congiunta col dott. Ba.: si tratta
cioè di comunicazioni che, proprio perché espressione di principi di
carattere generale afferenti alle varie fasi del procedimento
amministrativo, non rientrano nella competenza propria di un ufficio
tecnico, di cui non costituiscono né approvazione né autorizzazione.
L’eccezione sollevata deve pertanto essere rigettata perché infondata.
Alla luce delle segnalate gravi omissioni e violazioni di regole di
comportamento, la domanda attorea risulta meritevole di accoglimento; i
convenuti Ru.Ma. e Ba.Pi., quindi, devono essere
condannati al pagamento della somma di euro 29.936,57, da ripartire in quote
eguali di euro 14.968,28 ciascuno a favore del Comune di Scalea, pari
essendo l’apporto causale alla produzione del danno, oltre alla
rivalutazione monetaria, su base annua e secondo indici ISTAT, a decorrere
dalla data dell’evento lesivo. Sulla somma così determinata decorrono gli
interessi dal deposito della presente sentenza sino all’integrale soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria,
sentenza
24.07.2020 n. 256). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Disposizioni in materia di riduzione dei tempi
di pagamento delle pubbliche amministrazioni – Attuazione
dell’articolo 4-bis del decreto-legge 24.02.2023, n. 13,
convertito, con modificazioni, dalla legge 21.04.2023, n.
41. Prime indicazioni operative
(Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato e
Dipartimento della Funzione Pubblica,
circolare 03.01.2024 n. 1).
---------------
La circolare fornisce prime indicazioni operative in
materia di riduzione dei tempi di pagamento delle pubbliche
amministrazioni, in attuazione di quanto previsto
dall'articolo 4-bis del decreto-legge 24.02.2023, n. 13,
convertito, con modificazioni, dalla legge 21.04.2023, n.
41.
E' strutturata in tre parti:
- la prima, relativa alla riforma PNRR 1.11, “Riduzione dei tempi
di pagamento delle pubbliche amministrazioni e delle
autorità sanitarie”, Missione 1, componente 1, riconducibile
al primo comma del menzionato articolo;
- la seconda concernente la valutazione della performance mediante
assegnazione, da parte delle Amministrazioni pubbliche di
cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, di obiettivi annuali funzionali al
rispetto dei tempi di pagamento ai dirigenti responsabili
dei pagamenti delle fatture commerciali, nonché a quelli
apicali delle relative strutture, di cui al comma 2
dell'articolo in esame;
- la terza parte afferente il sistema di monitoraggio e
rendicontazione degli obiettivi della riforma PNRR 1.11
sopra richiamata e relativa al comma 3 del menzionato
articolo 4-bis. |
GIURISPRUDENZA |
VARI:
Social, diffamazione e non ingiuria aggravata se il post è
condiviso quando la vittima non è on-line.
Se la persona colpita da frasi offensive all’interno di una chat condivisa
con altri non era on line al momento della loro pubblicazione il reato
commesso dall’autore dell’espressioni ingiuriose è quello della diffamazione
e non dell’ingiuria aggravata.
Il punto di discrimine sta nella conoscenza delle frasi incriminate “in
tempo reale” tra persona offesa dal reato e le altre che le hanno percepite.
Infatti, ciò che distingue i due reati è la percezione delle offese da parte
di due o più persone alla presenza o meno della vittima del reato. E mentre
la diffamazione non si fonda sul tempo reale l’ingiuria aggravata
dall’essere consumata alla presenza di altri e oggi depenalizzata presuppone
che contemporaneamente sia presente anche l’offeso.
Nel caso di una chat aperta su Facebook e di libero accesso, anche se
finalizzata al dibattito di un gruppo politico locale, la circostanza che la
persona offesa non fosse collegata al momento della pubblicazione del post
offensivo fa scattare la fattispecie della diffamazione proprio perché manca
la circostanza che la comunicazione relativa a una persona e diffusa ad
altri si sia svolta in tempo reale rispetto a tutti isoggetti coinvolti. Ciò
che esclude l’ipotesi dell’ingiuria aggravata.
Con tali argomentazioni la Corte di Cassazione, Sez. I
penale, ha rigettato il ricorso del condannato per diffamazione che chiedeva
la riqualificazione del reato contestatogli da diffamazione a ingiuria
aggravata.
La
sentenza 05.01.2024 n. 409 ha rigettato la
domanda contro la declaratoria di prescrizione pronunciata dai giudici di
merito di secondo grado, in sede di rinvio, per il reato di diffamazione.
Il ricorso insisteva nel dire che la persona offesa fosse da considerarsi
presente allo scambio di post compreso quello incriminato, perché tale
compresenza con gli altri utenti in quel momento on-line non poteva essere
messa in discussione dal fatto che l’intervento sulla chat fosse
differito di qualche secondo o minuto.
Ciò che va detto appare normale nell’ambito di un social. Ma, come fa
rilevare la Cassazione penale, in un tale contesto rileva l’accertamento
della mancanza di collegamento alla chat della persona offesa al
momento di pubblicazione del post offensivo.
In effetti, nel caso concreto, era stato accertato tecnicamente che la
persona diffamata era scollegata al momento della diffusione ad altri delle
espressioni illegittime e che ad esse aveva risposto “solo” dopo
venti minuti (articolo NT+Diritto del 05.01.2024). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il dipendente di un ente locale appartenente in
origine all’ex 8^ qualifica funzionale, il quale sia stato
inquadrato, ai sensi del CCNL revisione sistema
classificazione professionale, Comparto Regioni ed autonomie
locali, del 31.03.1999, nella categoria D, posizione D3, non
può essere sottoposto, in occasione dell’assegnazione delle
mansioni, ad altri funzionari, neppure della medesima
categoria, ma solo a dei dirigenti.
---------------
Con il quarto motivo del ricorso principale la
ricorrente censura la violazione e falsa applicazione
dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 3 del CCNL
Comparto Regioni ed Autonomie locali del 31.03.1999 e delle
declaratorie C e D e relativi profili di cui al suo allegato
A, nonché degli artt. da 1362 a 1366 c.c.
Essa sostiene, fra le altre cose e per quanto qui rileva,
che la sentenza gravata non avrebbe tenuto conto che la
categoria D non sarebbe stata un tutto indistinto, ma al suo
interno vi sarebbero state due macrocategorie, ossia la D1 e
la D3. In particolare, un funzionario D3, come era la
ricorrente, sarebbe potuto dipendere solo da un Dirigente,
ma non da un altro funzionario, neppure se D3.
Le considerazioni della ricorrente meritano di essere
condivise nei termini che seguono.
Occorre premettere che essa è stata assunta dal Comune di
San Benedetto del Tronto con decorrenza 01.01.1999 in quanto
vincitrice di concorso per il ruolo di Direttore di Servizi
del Settore Cultura e Sport.
La ricorrente rientrava in origine nell’8^ qualifica
funzionale ed è stata poi inquadrata, in seguito alla
stipula del CCNL revisione sistema classificazione
professionale del 31.03.1999, nella categoria D, con
posizione economica D3.
Come noto, il sistema delle qualifiche funzionali è stato
ormai da tempo superato.
In particolare, il CCNL revisione sistema classificazione
professionale del 31.03.1999 si è occupato, all’art. 1,
comma 1, del sistema di classificazione professionale del
personale con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e
determinato, escluso quello con qualifica dirigenziale,
dipendente dalle amministrazioni del Comparto Regioni e
Autonomie locali di cui all’accordo del 02.06.1998.
Il successivo art. 3, comma 1, ha ripartito il personale in
quattro categorie, A, B, C e D. In queste più ampie
categorie sono confluite le precedenti qualifiche
funzionali, di cui alla legge n. 312 del 1980 e successive
modifiche.
L’art. 7, comma 1, del CCNL del 31.03.1999 ha previsto,
quindi, che “Il personale in servizio alla data di
stipulazione del presente CCNL è inserito, con effetto dalla
medesima data, nel nuovo sistema di classificazione con
l’attribuzione della categoria e della posizione economica
corrispondenti alla qualifica funzionale e al trattamento
economico fondamentale in godimento (tabellare più eventuale
livello economico differenziato), secondo le prescrizioni
della allegata tabella C”.
La menzionata tabella C ha poi prescritto, con riferimento
agli impiegati all’epoca in servizio e appartenenti all’8^
qualifica funzionale, il loro inserimento nella categoria D,
con posizione economica di primo inquadramento D3.
Invece, i dipendenti della 7^ qualifica funzionale sono
stati fatti rientrare sempre nella categoria D, ma con
posizione economica di primo inquadramento D1.
Il quesito giuridico posto dalla ricorrente attiene
all’ammissibilità della condotta del Comune di San Benedetto
del Tronto che, dopo averla trasferita ad altro incarico, la
aveva posta in posizione di subordinazione rispetto ad un
altro funzionario rientrante nella categoria D.
Essa sostiene che, essendo una ex 8^ qualifica funzionale,
non avrebbe potuto che ricoprire incarichi apicali, potendo
essere subordinata esclusivamente a dirigenti.
Quanto alla differenziazione fra personale D1 e personale D3
all’interno della più ampia categoria D, in effetti il
sistema di classificazione delineato dal CCNL 31.03.1999
comparto Regioni-Enti locali (anche alla luce del d.lgs. n.
165 del 2001) configura, nell’ambito della categoria D,
posizioni differenziate non solo sotto il profilo economico,
ma anche professionale in relazione alla diversa
professionalità di provenienza (ex 7^ e 8^ qualifica
funzionale), atteso che l’art. 4 di detto contratto -come
ribadito dall’art. 9 del CCNL del 05.10.2001- prevede, per
il passaggio all’interno della stessa categoria D ad uno dei
profili professionali superiori -rectius alla
posizione economica superiore- la stessa procedura selettiva
per il passaggio da una categoria all’altra.
La distinzione della qualifica di provenienza è, quindi,
rilevante ai fini del successivo inquadramento nell’invocata
categoria D (Cass., Sez. L, n. 20070 del 07.10.2015; Cass.,
Sez. L, n. 6295 del 18.03.2011).
Per l’esattezza, l’art. 4 del CCNL del 31.03.1999,
stabilisce che “Gli enti disciplinano, con gli atti
previsti dai rispettivi, ordinamenti, nel rispetto dei
principi di cui al d.lgs. 03.02.1993, n. 29, art. 36, come
modificato dal d.lgs. 31.03.1998, n. 80, artt. 22 e 23, e
tenendo conto dei requisiti professionali indicati nelle
declaratorie delle categorie di cui all’allegato A, le
procedure selettive per la progressione verticale
finalizzate al passaggio dei dipendenti alla categoria
immediatamente superiore del nuovo sistema di
classificazione, nel limite dei posti vacanti della
dotazione organica di tale categoria che non siano stati
destinati all’accesso dall’esterno. Analoga procedura può
essere attivata dagli enti per la copertura dei posti
vacanti dei profili delle categorie B e D di cui all’art. 3,
comma 7, riservando la partecipazione alle relative
selezioni al personale degli altri profili professionali
delle medesime categorie”.
Ciò comporta che, se per il passaggio all’interno della
stessa categoria D ad uno dei profili professionali
superiori -rectius alla posizione economica
superiore- è prevista la stessa procedura selettiva per il
passaggio da una categoria all’altra, evidentemente si
tratta di posizioni economiche distinte cui corrisponde
anche un differente contenuto professionale e tanto in
ragione della diversa professionalità di provenienza (ex 7^
e 8^ qualifica funzionale).
La citata previsione non è stata modificata dalla successiva
contrattazione collettiva la quale è stata esplicitamente
confermata dall’art. 9 del CCNL del 05.10.2001, il quale
espressamente dispone che “in materia di progressione
verticale del personale nel sistema di classificazione, è
integralmente ed esclusivamente confermata la disciplina
dell’art. 4 del CCNL del 31.03.1999, relativo alla revisione
del sistema di classificazione del personale del comparto
Regioni - Autonomie Locali, anche nella vigenza del d.lgs.
18.08.2000, n. 267, art. 91, comma 3”.
Ne deriva, come corollario, che un funzionario D3 come la
ricorrente non potrebbe essere subordinato ad un funzionario
D1.
Il problema posto dalla ricorrente, però, attiene anche alla
possibilità di una subordinazione di un funzionario ex 8^
qualifica funzionale, quale essa era, poi inquadrato come
categoria D, posizione economica D.3, ad altro funzionario
della medesima categoria e posizione economica.
Per risolvere tale questione occorre fare riferimento al
collegamento che la giurisprudenza sopra evidenziata ha
indicato fra, rispettivamente, le precedenti qualifiche
funzionali 7^ e 8^ e le categorie D1 e D3.
In pratica, i funzionari D3 sarebbero gli eredi dei
funzionari di 8^ qualifica, i vecchi funzionari direttivi, i
D1 dei funzionari di 7^ qualifica.
Per meglio distinguere i D1 dai D3 è allora opportuno fare
riferimento al testo della legge n. 312 del 1980, che
individua il “Nuovo assetto retributivo-funzionale del
personale civile e militare dello Stato” e lo fonda
proprio sulla sua ripartizione in 8 qualifiche funzionali
(chiaramente, non si ignora che questo articolo è oggi
disapplicato, ai sensi dell’art. 86 del nuovo Contratto
Collettivo di cui all’Accordo 24.05.2000, con riferimento
agli articoli da 24 a 30 dello stesso Contratto).
Prendendo in considerazione solo le due qualifiche più
elevate, la disposizione stabilisce quanto segue:
- “7^ qualifica: attività con preparazione professionale o con
eventuale responsabilità di unità organiche. Attività
professionali comportanti o preposizione a uffici, servizi o
altre unità organiche non aventi rilevanza esterna, con
margini valutativi per il perseguimento dei risultati, e
facoltà di decisione e proposta nell’ambito di direttive
generali; ovvero attività di collaborazione istruttoria o di
studio, nel campo amministrativo e tecnico, richiedente
specializzazione e preparazione professionale di settore a
livello universitario. La preposizione a unità organiche
comporta piena responsabilità per le direttive o istruzioni
impartite nell’attività di indirizzo e coordinamento e per i
risultati conseguiti”.
- “8^ qualifica: attività con specializzazione professionale o
con eventuale responsabilità esterna. Attività professionali
comportanti preposizione a uffici o servizi con rilevanza
esterna, a stabilimenti od opifici; ovvero attività di
coordinamento e di promozione, nonché di verifica dei
risultati conseguiti, relativamente a più unità organiche
non aventi rilevanza esterna operanti nello stesso settore;
oppure attività di studio e di elaborazione di piani e di
programmi richiedenti preparazione professionale di livello
universitario, con autonoma determinazione dei processi
formativi e attuativi, in ordine agli obiettivi e agli
indirizzi impartiti. Vi è connessa responsabilità
organizzativa nonché responsabilità esterna per i risultati
conseguiti”.
Il successivo art. 3 prescrive che “Ogni qualifica
funzionale comprende più profili professionali: questi si
fondano sulla tipologia della prestazione lavorativa,
considerata per il suo contenuto, in relazione ai requisiti
culturali, al grado di responsabilità, alla sfera di
autonomia che comporta, al grado di mobilità ed ai requisiti
di accesso alla qualifica”.
Questa disposizione chiarisce come ad ogni qualifica
funzionale corrisponda, in astratto, uno specifico e,
quindi, più elevato -di qualifica in qualifica- livello di
competenza al quale sono associati gradi di autonomia e
responsabilità sempre più alti che, nell’ambito della
carriera non dirigenziale, non possono che essere massimi
quando vengono in rilievo i funzionari dell’ultimo grado,
ossia quelli di 8^ qualifica.
L’art. 4 della legge da ultimo citata, che stabilisce il “Primo
inquadramento nelle qualifiche funzionali del personale in
servizio al 01.01.1978”, precisa, poi, che rientra: “nella
7^ qualifica funzionale il personale della carriera di
concetto con la qualifica di segretario capo o qualifica
equiparata, delle carriere di concetto strutturate su
un'unica qualifica, limitatamente al personale con parametro
di stipendio 370, e della carriera direttiva con le
qualifiche di consigliere e di direttore di sezione o
qualifiche equiparate; nell’8^ qualifica funzionale il
personale della carriera direttiva con la qualifica di
direttore aggiunto di divisione o qualifica equiparata e
personale delle carriere direttive strutturate su una unica
qualifica, limitatamente al personale con parametro di
stipendio 387 e superiore”.
I principi della legge n. 312 del 1980 sono stati in seguito
trasfusi nel d.P.R. n. 347 del 1983, recante l’accordo
nazionale per il personale dipendente degli Enti Locali, il
cui art. 2 individua la massima qualifica funzionale
applicabile in relazione alla dimensione dell’ente, facendo
ricorso alla classificazione per l’assegnazione del
Segretario, collocando l’8^ qualifica come “apicale”
negli enti di tipo 3.
Successivamente, nell’ambito della ristrutturazione delle
figure del pubblico impiego, inaugurata per detti enti con
il CCNL 31.03.1999, l’8^ qualifica funzionale è confluita
nella categoria giuridica D, alla posizione D3.
Dalle disposizioni appena citate emerge che i funzionari di
categoria D3, proprio perché idealmente riconducibili alla
precedente 8^ qualifica funzionale, sono, fra il personale
non dirigente, gli impiegati che godono del maggiore livello
di autonomia e, di conseguenza, di responsabilità.
Ciò conduce ad affermare che essi non possono essere
gerarchicamente subordinati ad altri funzionari, neppure del
loro livello, perché, di fondo, essi sono destinati alla
carriera direttiva. Pertanto, deve essere affermato, ai
sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., il seguente principio
di diritto: “Il dipendente di un ente locale appartenente
in origine all’ex 8^ qualifica funzionale, il quale sia
stato inquadrato, ai sensi del CCNL revisione sistema
classificazione professionale, Comparto Regioni ed autonomie
locali, del 31.03.1999, nella categoria D, posizione D3, non
può essere sottoposto, in occasione dell’assegnazione delle
mansioni, ad altri funzionari, neppure della medesima
categoria, ma solo a dei dirigenti” (Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 28.12.2023 n. 36214). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Beni culturali privati, la richiesta di accesso civico non può
essere “soggettiva”
Il Tar per il Lazio ha annullato la nota con cui il
Ministero della Cultura aveva accordato alla trasmissione ’Report’
l’“accesso” per conoscere l’elenco delle opere d’arte appartenute a Gianni
Agnelli
Il TAR Lazio-Roma (Sez. II-quater), con la
sentenza
28.12.2023 n. 19889, ha annullato la nota con cui il
Ministero della Cultura - Direzione Generale Archeologia Belle Arti e
Paesaggio aveva accordato ad un giornalista della trasmissione Rai ’Report’
il via libera all’“accesso civico generalizzato” per conoscere l’elenco
delle opere d’arte appartenute a Gianni Agnelli e poi pervenute per
successione ai suoi eredi.
I giudici amministrativi hanno così accolto il
ricorso presentato da John, Lapo e Ginevra Elkann, nipoti dell’Avvocato
affermando che il Ministero non può accogliere l’istanza (formulata ai sensi
del Dlgs n. 33 del 2013) poiché prevalgono le esigenze della riservatezza e
della sicurezza dei proprietari.
I legali degli Elkann, fra l’altro, avevano sollevato il problema della
tutela della sfera di riservatezza, oltre al fatto che la richiesta fosse
“non proporzionata rispetto allo scopo tipico dell’istituto della richiesta
di accesso civico generalizzato”, essendo “strumentale alla ricerca di
informazioni ’soggettive’ anziché ’oggettive’”.
Una doglianza accolta dal Tar che ha stigmatizzato proprio l’impronta
“soggettivistica” della richiesta.
“L’accesso civico generalizzato –si
legge nella decisione- è uno strumento che può astrattamente essere
azionato per accertare se e come il Ministero della cultura abbia valutato
il pregio artistico di un determinato bene, ad esempio nel momento in cui
tale bene sia stato eventualmente fatto oggetto di una richiesta di rilascio
di un attestato di libera esportazione…”.
In quest’ottica, dunque,
“rappresenta lo strumento accordato al quisque de populo per verificare il
perseguimento delle funzioni di salvaguardia del patrimonio culturale della
nazione”. Tale istituto, prosegue il Collegio, però non può tradursi in uno
strumento atto ad “aggirare” le condizioni del Codice dei beni culturali
sulla conoscibilità e segnatamente dei limiti frapposti alla consultazione
di talune informazioni.
Ed è il Legislatore ad avere stabilito, in via generale e astratta, una
limitazione alla libera consultazione del patrimonio informativo esistente
presso il Ministero, e dunque alla accessibilità alle informazioni
concernenti i beni culturali, considerando preminenti gli interessi alla
sicurezza del bene e riservatezza del soggetto che ne è titolare. Nello
stesso senso dispone anche il quadro normativo sovranazionale in materia di
protezione dei dati personali.
Tornando al caso specifico, l’istanza -osserva il Tar- era stata impostata
“su base esclusivamente soggettiva”, in quanto diretta ad appurare quali
erano i beni originariamente di proprietà di un determinato soggetto privato
e, ora, nella titolarità dei suoi eredi, da ciò si desume che “non traspare
un interesse alla conoscenza (“right to know”) di documentazione e/o
informazioni concernenti le funzioni istituzionali di tutela del patrimonio
culturale italiano demandate al Ministero della cultura (meritevole di
soddisfazione ai sensi dell’art. 5 d.lgs. n. 33/2013)”.
Infatti, un accesso
civico generalizzato avrebbe potuto favorevolmente apprezzarsi, in astratto,
unicamente laddove l’istanza fosse stata formulata con riferimento ad opere
d’arte specificamente indicate, e dunque in chiave “oggettiva”, al fine di
valutare se il Ministero ne abbia o meno correttamente apprezzato le qualità
intrinseche.
Quindi sebbene non possa dirsi che l’istanza sia stata presentata al fine di
soddisfare un’esigenza strettamente “personale” o “egoistica” del
giornalista, neppure può sostenersi che la richiesta “è finalizzata ad
accertare la sussistenza di un interesse artistico pubblico di rilievo
costituzionale”.
In altri termini, “l’accesso deve avere comunque ad oggetto dati, elementi
informativi o documenti che consentano di valutare, in un’ottica di
trasparenza e democraticità, la correttezza dell’esercizio dei pubblici
poteri e il perseguimento delle funzioni istituzionali devolute
all’amministrazione, in ciò risiedendo l’interesse pubblico sotteso
all’ostensione”. “Viceversa, non sarebbe ammissibile una richiesta ostensiva
volta ad appurare (in una prospettiva per così dire “rovesciata” e con
intento esplorativo) se, con riferimento ad un ben individuato soggetto,
quelle funzioni siano state o meno esercitate, non rispondendo una siffatta
istanza alle finalità per le quali l’accesso è accordato”.
Anche dunque se si riconosce come “fatto notorio” la circostanza che il
defunto Avvocato fosse stato in possesso di “diverse opere d’arte, anche di
Artisti di primissimo rilievo ciò non rileva minimamente ai fini
dell’accesso ai sensi del d.lgs. n. 33/2013, non potendo tale elemento dare
la stura ad istanze precipuamente volte ad una ricostruzione del patrimonio
culturale meramente “personalizzata”, ossia “tagliata” unicamente sul
soggetto privato titolare dell’opera e non improntata, come invece dovrebbe
essere, allo specifico “oggetto” della tutela (e dunque al bene culturale in
sé), quale elemento che legittima una conoscenza da parte del pubblico”.
Inoltre, il provvedimento è illegittimo anche perché “si pone in frontale
contrasto con il disposto di cui all’art. 17, comma 6, d.lgs. n. 42/2004,
accordando un accesso a dati da mantenersi riservati”. Proprio
l’impronta esclusivamente soggettiva della richiesta, conclude il Collegio,
“avrebbe dovuto indurre il Ministero a negare l’accesso in base alla
citata norma, che per l’appunto esclude dalla consultazione le informazioni
concernenti la titolarità del bene culturale, avendo precipuo riguardo ai
beni vincolati di proprietà privata. Infine, la circostanza che l’avvocato
sia defunto, e pertanto i beni di cui trattasi siano caduti in successione
ereditaria, non elide l’impostazione prettamente “soggettivistica” della
richiesta” (articolo NT+Diritto del 03.01.2024). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Legittimo il licenziamento del sindacalista che lede la
reputazione della sua azienda su Fb.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione affermando che i limiti al diritto di critica si applicano anche al
lavoratore rappresentante sindacale.
La qualifica di sindacalista non salva il dipendente dal licenziamento per
le espressioni lesive della reputazione dell’azienda pubblicate sul suo
profilo Facebook aperto.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
22.12.2023 n. 35922.
Nella contestazione disciplinare venivano appunto contestati i commenti
presenti sul social media “gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio
dell’azienda nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili”. Come
per esempio: “Si informano tutti i gentili colleghi … che, qualora si voglia
aderire e iscriversi alla Filt Cgil perché trattati come stracci…”; oppure:
“Il vecchio oggi di prima mattina va a caccia dei suoi autisti che si sono
iscritti al sindacato per fargli le solite minacce o false promesse”; e
ancora: “Come mai questi hanno tutta questa fottuta paura che la gente si
iscrive? Io personalmente l’unica risposta che mi riesco a dare è che hanno
qualcosa da nascondere e non sono puliti”; “Sto vecchio di merda sempre a
rompere i coglioni alla gente il sabato mattina, ma andasse a fare un giro
in montagna…”, e così via.
Da qui l’intimazione del licenziamento da parte dell’azienda “sul rilievo
che i fatti contestati e ritenuti addebitabili al dipendente, a titolo di
dolo o di negligenza grave e ingiustificabile, travalicassero ogni limite di
critica e di satira e impedissero la prosecuzione del rapporto di lavoro”,
poi confermato nelle sedi di merito.
Proposto ricorso, l’ex dipendente ha sostenuto di essere stato oggetto di
“licenziamento discriminatorio per ragioni di appartenenza sindacale” e “per
aver escluso la scriminante del diritto di critica”.
Con riguardo a quest’ultimo punto la Corte afferma che al lavoratore è
“garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di
lavoro […] ma ciò non consente di ledere sul piano morale l’immagine del
proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e
comprovati, poiché il principio della libertà di manifestazione del pensiero
di cui all’art. 21 Cost. incontra i limiti posti dell’ordinamento a tutela
dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri
interessi degni di pari tutela costituzionale”.
Con riguardo invece al primo punto la Cassazione ricorda che i limiti al
diritto di critica si applicano anche al lavoratore che sia rappresentante
sindacale rilevando come il predetto agisca sotto una duplice veste, in
quanto “quale lavoratore, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione
degli altri dipendenti, (mentre) in relazione all’attività di sindacalista
si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di
qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di
una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost., in quanto
diretta alla tutela degli interessi collettivi”.
La Corte di merito, conclude la decisione, si è attenuta ai principi di
diritto appena richiamati e, con accertamento in fatto ha escluso che
ricorressero i presupposti di un legittimo esercizio del diritto di critica
per essere le espressioni usate dal lavoratore sindacalista, e pubblicate
sul profilo Facebook accessibile a tutti gli utenti, “intrise di assai
sgradevole volgarità”, prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e
finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e
del suo fondatore.
Tale accertamento “esclude ogni profilo di discriminatorietà della decisione di recesso” (articolo NT+Diritto del 22.12.2023). |
APPALTI:
Gare, il Tar Campania smentisce la circolare Mit: solo negoziate
e affidamenti diretti sotto al milione.
Prima sentenza sulla discussa questione delle procedure semplificate del
nuovo codice appalti. Indicazioni anche sull’obbligo di esclusione delle
offerte anomale.
Una sentenza molto recente del TAR Campania-Napoli,
Sez. VII -
19.12.2023 n. 7037, affronta il tema degli affidamenti dei
contratti sottosoglia con alcune affermazioni di grande interesse sotto
diversi profili.
Il primo profilo riguarda la questione centrale della
controversia, e cioè la delimitazione dell’obbligo per le stazioni
appaltanti di procedere all’esclusione automatica delle offerte anomale,
secondo la specifica previsione contenuta nel Decreto legge 76/2020 (Decreto
semplificazioni emanato in relazione... (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.12.2023).
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SENTENZA
1 - La s.r.l. Am.It. ha partecipato alla procedura aperta per l’affidamento
del servizio (che attualmente gestisce) di smaltimento della frazione
organica dei rifiuti solidi urbani derivanti dalla raccolta differenziata
per la durata di n. 1 anno da aggiudicarsi col criterio del minor prezzo ex
art. 95, co. 4, del D.Lgs. n. 50/2016.
La ricorrente lamenta che la S.A., dopo aver individuato la soglia di
anomalia dell’offerta nel 33,200%, ha omesso di provvedere all’esclusione
automatica della So. s.p.a. (poi divenuta aggiudicataria) e della En. s.r.l.,
secondo quanto disposto dall’art. 1, co. 3, ult. periodo, del d.l. n.
76/2020.
1.1 - Avverso la determina di aggiudicazione ed i presupposti atti di gara,
la ricorrente ha, quindi, articolato le seguenti censure:
I) violazione dell’art. 1, co. 3, D.L. 76/2020: la So. s.p.a. e la
En. s.r.l. hanno presentato un’offerta il cui ribasso è pari o superiore
alla soglia consentita, cosicché avrebbero dovuto essere escluse in base
alla normativa ratione temporis applicabile, ricorrendone tutti i
presupposti;
II) violazione art. 1, co. 3, d.l. 76/2020: è illegittimo l’art. 17
del bando/disciplinare che nega l’applicazione dell’art. 1, co. 3, l. n.
d.l. 76/2020 in ragione del ricorso, nel caso di specie, alla procedura
aperta.
...
5 - Può prescindersi dalla delibazione delle eccezioni preliminari formulate
dal Comune resistente, essendo il ricorso nel merito infondato.
6 - Ai sensi dell’art. 1 Legge 11.09.2020, n. 120 di conversione del d.l. n.
76/2020 (rubricato “Procedure per l’incentivazione degli investimenti
pubblici durante il periodo emergenziale in relazione all’aggiudicazione dei
contratti pubblici sotto soglia”):
“1. Al fine di incentivare gli investimenti pubblici nel settore
delle infrastrutture e dei servizi pubblici, nonché al fine di far fronte
alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e
dell’emergenza sanitaria globale del COVID-19, in deroga agli articoli 36,
comma 2, e 157, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante
Codice dei contratti pubblici, si applicano le procedure di affidamento di
cui ai commi 2, 3 e 4, qualora la determina a contrarre o altro atto di
avvio del procedimento equivalente sia adottato entro il 30.06.2023.
2. Fermo quanto previsto dagli articoli 37 e 38 del decreto
legislativo n. 50 del 2016, le stazioni appaltanti procedono all’affidamento
delle attività di esecuzione di lavori, servizi e forniture, nonché dei
servizi di ingegneria e architettura, inclusa l’attività di progettazione,
di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 del decreto
legislativo n. 50 del 2016 secondo le seguenti modalità:
a) affidamento diretto per
lavori di importo inferiore a 150.000 euro e per servizi e forniture, ivi
compresi i servizi di ingegneria e architettura e l'attività di
progettazione, di importo inferiore a 139.000 euro. In tali casi la stazione
appaltante procede all’affidamento diretto, anche senza consultazione di più
operatori economici, fermo restando il rispetto dei principi di cui
all’articolo 30 del codice dei contratti pubblici di cui al decreto
legislativo 18 aprile 2016, n. 50, e l’esigenza che siano scelti soggetti in
possesso di pregresse e documentate esperienze analoghe a quelle oggetto di
affidamento, anche individuati tra coloro che risultano iscritti in elenchi
o albi istituiti dalla stazione appaltante, comunque nel rispetto del
principio di rotazione. (lettera così sostituita dall'art. 51, comma 1,
lettera a), sub. 2.1), legge n. 108 del 2021)
b) procedura negoziata, senza
bando, di cui all’articolo 63 del decreto legislativo n. 50 del 2016, previa
consultazione di almeno cinque operatori economici, ove esistenti, nel
rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, che tenga conto anche di
una diversa dislocazione territoriale delle imprese invitate, individuati in
base ad indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, per
l’affidamento di servizi e forniture, ivi compresi i servizi di ingegneria e
architettura e l’attività di progettazione, di importo pari o superiore a
139.000 euro e fino alle soglie di cui all'articolo 35 del decreto
legislativo n. 50 del 2016 e di lavori di importo pari o superiore a 150.000
euro e inferiore a un milione di euro, ovvero di almeno dieci operatori per
lavori di importo pari o superiore a un milione di euro e fino alle soglie
di cui all'articolo 35 del decreto legislativo n. 50 del 2016. Le stazioni
appaltanti danno evidenza dell’avvio delle procedure negoziate di cui alla
presente lettera tramite pubblicazione di un avviso nei rispettivi siti
internet istituzionali. L’avviso sui risultati della procedura di
affidamento, la cui pubblicazione nel caso di cui alla lettera a) non è
obbligatoria per affidamenti inferiori ad euro 40.000, contiene anche
l’indicazione dei soggetti invitati. (lettera così modificata dall'art. 51,
comma 1, lettera a), sub. 2.2), legge n. 108 del 2021)
3. Gli affidamenti diretti possono essere realizzati tramite
determina a contrarre, o atto equivalente, che contenga gli elementi
descritti nell’articolo 32, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Per gli affidamenti di cui al comma 2, lettera b), rispetto dei princìpi di
trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento, procedono, a
loro scelta, all’aggiudicazione dei relativi appalti, sulla base del
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa ovvero del prezzo più
basso. Nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso, le
stazioni appaltanti procedono all’esclusione automatica dalla gara delle
offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla
soglia di anomalia individuata ai sensi dell’articolo 97, commi 2, 2-bis e
2-ter, del decreto legislativo n. 50 del 2016, anche qualora il numero delle
offerte ammesse sia pari o superiore a cinque”.
6.1 - “La disciplina speciale dettata dal decreto legge n. 76 del 2020
prevale sulla disciplina dei contratti sottosoglia prevista dall'art. 36 del
D.lgs. n. 50/2016, integrando e sostituendo le previsioni della lex
specialis con essa incompatibili, anche con riguardo a quelle in tema di
verifica dell'anomalia. Con le disposizioni in parola, in altri termini,
sono state introdotte previsioni derogatorie con finalità acceleratorie,
funzionali al rapido affidamento degli appalti interessati, riscrivendo, con
efficacia limitata nel tempo, la regolamentazione dell'affidamento diretto e
della procedura negoziata prevista dal D.lgs. n. 50/2016.
Come rilevato dalla giurisprudenza amministrativa la norma di cui all'art. 1
del decreto legge n. 76 del 2020, convertito in legge n. 120 del 2020,
costituisce la consapevole scelta del legislatore di privilegiare la
finalità di maggiore celerità nella definizione delle procedure ad evidenza
pubblica in favore della rapidità dell'erogazione delle risorse pubbliche
per sostenere l'economia in un periodo emergenziale (Cfr. TAR Lazio, Sez. I,
19.02.2021, n. 2104; TAR Venezia, Sez. I, 21.07.2021 n. 960)" - così,
Tar Sicilia, Palermo, sez. II, sent. n. 2327/2023.
Ed ancora, con specifico riferimento al previsto automatismo escludente: “non
può negarsi l’effetto acceleratorio della procedura conseguibile per via del
meccanismo automatico in parola: questo, come visto, è stato anche
riconosciuto dalla Sezione, che lo ha correlato alla necessità di
implementare, nella crisi economica determinata dall’evento pandemico in
atto alla data della decretazione d’urgenza, la speditezza e quindi
l’efficacia della spesa pubblica, non altro del resto potendosi desumere dal
comma 1 dell’art. 1 del d.l. 76/2020, che richiama espressamente la finalità
di “incentivare gli investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e
dei servizi pubblici, nonché al fine di far fronte alle ricadute economiche
negative a seguito delle misure di contenimento e dell'emergenza sanitaria
globale del COVID-19”, e non potendosi poi negare, sotto il profilo
oggettivo, che la soppressione di una fase sub-procedimentale (la verifica
discrezionale di congruità delle offerte) abbia l’effetto di condurre alla
più rapida aggiudicazione della procedura, con la conseguente incentivazione
della spesa pubblica ai fini voluti dal legislatore, a nulla rilevando la
questione di se il singolo affidamento rientrante sotto l’egida della
previsione acceleratoria presenti o meno connotati di urgenza, aspetto che è
stato regolato in via generale e astratta con riferimento non all’oggetto
dei singoli affidamenti bensì alle loro conseguenze positive sul piano
economico generale” - Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 3139/2023.
6.2 - Pur consapevole dell’esistenza di opposto orientamento, il Tribunale
condivide la tesi che preclude l’applicazione della norma in parola alle
gare sotto soglia indette entro il 30/06/2023, espletate con procedura
aperta.
Ed invero, “5.5. Rileva invece che per l’art. 97, comma 8, del d.lgs.
50/2016 l’esclusione automatica dell’offerta anormalmente basse è una
modalità che la stazione appaltante imprime alla procedura competitiva nella
ricorrenza delle condizioni di legge che ne regolano la possibilità di
utilizzo: trattandosi di una misura che intacca il contraddittorio
ordinariamente previsto dallo stesso art. 97 per tale tipologia di offerte,
è connaturale alla dinamica della previsione normativa che detto automatismo
vada previsto nella lex specialis affinché la stazione appaltante possa
farvi in concreto ricorso.
Rispetto a tale norma, il comma 3 dell’art. 1 del d.l. 76/2020, pur
conformando diversamente i presupposti dell’esclusione automatica, non si
muove nella logica derogatoria che costituisce la base della censura in
esame.
Una deroga, peraltro espressa, al Codice dei contratti pubblici si rinviene
infatti nel comma 1 esclusivamente in riferimento agli art. 36, comma 2, e
157, comma 2, del d.lgs. 50/2016, e non nella norma dello stesso comma
immediatamente seguente, che introduce le “procedure di cui ai commi 2, 3 e
4”.
E allora deve concludersi che il comma 3 dell’art. 1 del d.l. 76/2020 altro
non è che una autonoma ed esaustiva regolazione delle modalità con cui
provvedere alle procedure negoziate senza bando di cui trattasi, avente
carattere eccezionale, temporaneo e cogente –e nel cui ambito il meccanismo
dell’espulsione automatica delle offerte anormalmente basse si inserisce a
pieno titolo, considerata la sua evidente strumentalità agli effetti voluti
dalla previsione– che, in quanto tale e laddove applicabile, è destinata a
sostituire interamente quella prevista dall’art. 97, comma 8, d.lgs.
50/2016.
Bene si spiega così il tenore letterale del comma 3 in parola, secondo cui
“nel caso di aggiudicazione al prezzo più basso, le stazioni appaltanti
procedono all’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano
una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia”: esso,
come correttamente rilevato dal Tar, non lascia alcun margine di scelta alle
amministrazioni appaltanti, che, avverandosi la suddetta condizione nelle
procedure soggette alla sua applicazione, non possono che procedere
all’esclusione automatica” - Consiglio di Stato, sez. V, sent. n.
3139/2023.
In fattispecie analoga (procedura aperta) ha escluso l’applicazione della
deroga invocata dalla ricorrente anche il Consiglio della G.A. della Regione
Sicilia, con sent. n. 508/2023.
6.2.1 - Né, d’altro canto, potrebbe diversamente opinarsi muovendo
dall’assunto che la procedura aperta costituisca un’opzione non più
praticabile quando ricorrano i presupposti di cui al citato art. 1, cosicché
–in siffatta evenienza– troverebbe comunque applicazione il meccanismo
derogatorio del d.l. cit.
In argomento, giova richiamare quanto efficacemente sostenuto da Tar
Piemonte, sez. II, sent. 405/2023:
“8.2. L’art. 1, comma 2, D.L. n. 76/2020, infatti, ha introdotto
previsioni derogatorie con finalità acceleratorie, funzionale al rapido
affidamento degli appalti di valore inferiore alla soglia comunitaria,
riscrivendo, con efficacia limitata nel tempo, la regolamentazione
dell’affidamento diretto e della procedura negoziata di cui all’art. 36,
comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016. Non revocando o sospendendo la disciplina
ordinaria, la norma in rilievo non ha sottratto alla discrezionalità della
stazione appaltante la scelta della procedura di aggiudicazione, né ha
escluso la possibilità che la stessa decida di adottare, anche per gli
affidamenti di valore inferiore alla soglia comunitaria, il modello della
procedura aperta (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 14.05.2021, n. 1536).
8.3. L’obbligatorietà della disciplina di cui al D.L. n. 76/2020
deve quindi essere intesa nel senso che essa si impone solo sulle modalità
di affidamento ordinarie di cui al citato art. 36, comma 2, del D.Lgs. n.
50/2016, poiché il perimetro della deroga non può estendersi, con effetto
sostitutivo, oltre la disciplina che ne è oggetto. In sostanza, quando la
stazione appaltante stabilisce di procedere tramite affidamento diretto o
procedura negoziata di valore inferiore alla soglia comunitaria, deve
necessariamente seguire le modalità semplificate recate dal D.L. n. 76/2020.
Ciò non comporta, tuttavia, che questi siano i soli moduli procedimentali
per gli affidamenti alla cui adozione le stazioni appaltanti debbano sempre
imperativamente fare ricorso, potendo esse, al contrario, applicare le
modalità della procedura aperta laddove lo richiedano la natura
dell’affidamento o altre esigenze dell’amministrazione (cfr. TAR Sicilia,
Palermo, Sez. III, 14.05.2021, n. 1536).
8.4. In tal senso depone il contenuto letterale dell’art. 1, comma
1, del D.L. n. 76/2020, in base al quale “in deroga agli articoli 36, comma
2, e 157, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante Codice
dei contratti pubblici” –cioè la disciplina degli affidamenti sottosoglia e
degli incarichi di progettazione di non particolare rilevanza– “si applicano
le procedure di affidamento di cui ai commi 2, 3 e 4, qualora la determina a
contrarre o altro atto di avvio del procedimento equivalente sia adottato
entro il 30.06.2023”. La prevista deroga assume carattere “puntiforme”,
andando a sostituire le sole modalità procedurali per l’affidamento diretto
e lo svolgimento della procedura negoziata. L’art. 1 del D.L. n. 76/2020,
quindi, opera con effetto derogatorio ed efficacia temporalmente limitata,
costituendo una norma di carattere eccezionale che deve essere applicata in
conformità al canone interpretativo dell’art. 14 delle preleggi, in base al
quale essa non si applica “oltre i casi e i tempi in esse considerati”.
In altri termini, nel dettare “le procedure di affidamento di cui ai
commi 2, 3 e 4” dell’art. 1 cit, il legislatore ha inteso derogare
all’art. 36, co. 2, del d.lgs. n. 50/2016 unicamente nel senso di ridefinire
i presupposti e le modalità delle stesse rispetto a quanto ivi previsto, ma
senza eliminare “la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie”
che lo stesso art. 36, co. 2, cit. fa salva.
In questi termini si è da ultimo espressa l’Anac con la delibera n.
443/2023.
6.2.2 - Per completezza, osserva il Tribunale che nessun supporto alla tesi
di parte ricorrente offre l’art. 50 del nuovo codice appalti ex d.lgs. n.
36/2023 (a mente del quale: “Salvo quanto previsto dagli articoli 62 e
63, le stazioni appaltanti procedono all'affidamento dei contratti di
lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui
all’articolo 14 con le seguenti modalità:
a) affidamento diretto per lavori di importo inferiore a 150.000
euro, anche senza consultazione di più operatori economici, assicurando che
siano scelti soggetti in possesso di documentate esperienze pregresse idonee
all’esecuzione delle prestazioni contrattuali anche individuati tra gli
iscritti in elenchi o albi istituiti dalla stazione appaltante;
b) affidamento diretto dei servizi e forniture, ivi compresi i
servizi di ingegneria e architettura e l'attività di progettazione, di
importo inferiore a 140.000 euro, anche senza consultazione di più operatori
economici, assicurando che siano scelti soggetti in possesso di documentate
esperienze pregresse idonee all’esecuzione delle prestazioni contrattuali,
anche individuati tra gli iscritti in elenchi o albi istituiti dalla
stazione appaltante;
c) procedura negoziata senza bando, previa consultazione di almeno
cinque operatori economici, ove esistenti, individuati in base a indagini di
mercato o tramite elenchi di operatori economici, per i lavori di importo
pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 1 milione di euro;
d) procedura negoziata senza bando, previa consultazione di almeno
dieci operatori economici, ove esistenti, individuati in base a indagini di
mercato o tramite elenchi di operatori economici, per lavori di importo pari
o superiore a 1 milione di euro e fino alle soglie di cui all’articolo 14,
salva la possibilità di ricorrere alle procedure di scelta del contraente di
cui alla Parte IV del presente Libro”) che ha reso, in sostanza,
ordinaria la regolamentazione delle procedure di affidamento dei contratti
cc.dd. sotto soglia stabilita dalla l. n. 120/20 solo in via provvisoria e
che soltanto in relazione alla procedura ex lett. d) fa espressamente salva
la facoltà di optare per le procedure di scelta del contraente di cui alla
successiva Parte IV del codice, compresa quella aperta.
Non persuade, infatti, la tesi della ricorrente secondo cui la nuova
normativa (che, in sostanza, per i contratti sotto soglia impone in ogni
caso il ricorso ad affidamenti diretti o procedure negoziate, con la sola
eccezione rappresentata dall’opzione per la procedura aperta per contratti
per lavori di importo pari o superiore a 1 milione di euro e fino alle
soglie di cui all’articolo 14) consentirebbe, in chiave interpretativa, di
ravvisare già nella normativa emergenziale ex l. n. 120/2020, in via
generale, il divieto di optare per la procedura aperta.
Una sì rilevate deroga a principi generali quali la non discriminazione e la
libera concorrenza (più adeguatamente tutelati a mezzo di procedure aperte)
avrebbe richiesto, a parere del Tribunale, una inequivoca previsione che
nella normativa emergenziale, invece, difetta.
----------------
In merito si legga anche:
● L. Oliveri,
Appalti sotto soglia: il Tar Campania sconfessa la circolare 298/2023 del
Mit? Ovviamente no (20.12.2023 - link a https://leautonomie.it).
...
Secondo alcuni interpreti, la sentenza del Tar Campania, Napoli, Sezione VII,
19.12.2023, n. 7037 “sconfesserebbe” la circolare 298/2023 del Mit, in
merito alla possibilità di applicare nel sotto soglia le procedure
ordinarie.
Basta, tuttavia, leggere con attenzione la sentenza, per prendere atto che
essa non sconfessa nulla: nemmeno ne parla della circolare. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Niente sanatoria per il seminterrato che diventa cantina.
Lo ricorda il Tar Lazio bocciando il ricorso di un proprietario che aveva
realizzato spazi per 58 metri quadrati.
La trasformazione a cantina di spazi del seminterrato in area vincolata
comporta nuova volumetria e non può essere sanata.
È quanto emerge dalla
sentenza
18.12.2023 n. 19114 del TAR Lazio-Roma, Sez. IV-ter, che ha respinto il ricorso di una persona che
aveva realizzato nel seminterrato della sua abitazione situata in area
protetta spazi per 58 metri quadrati.
Tutto nasce quando viene presentata al
Comune istanza di condono per opere che riguardano la “trasformazione a
cantine di intercapedine posta tra il terreno... (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 20.12.2023).
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SENTENZA
1. La ricorrente domanda l’annullamento del diniego opposto dal Comune di
Roma alla propria istanza di condono, presentata ai sensi dell’art. 32, l.
326/2003 e della l.reg. 12/2004 e relativa ad opere consistenti nella "trasformazione
a cantine di intercapedine posta tra il terreno e l'intradosso del solaio di
calpestio del II° piano seminterrato, realizzando ambienti che sviluppano
una superficie di mq. 58,18".
1.1. Nella motivazione del provvedimento, il Comune rileva che gli
interventi sono stati eseguiti "su immobile ricadente all'interno della
Riserva Naturale Regionale dell’Insugherata” (area naturale protetta) e
non rientrano tra quelli per cui può essere concessa la sanatoria nelle aree
vincolate.
2. Avverso il provvedimento sono proposti i seguenti motivi: ...
...
5. È utile premettere un breve inquadramento del contesto normativo
rilevante nella vicenda.
5.1. L’istanza della ricorrente ricade nell’ambito del c.d. “Terzo condono”,
introdotto dal d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito in l. 24.11.2003, n. 326.
Secondo l’art. 32, comma 26, del citato decreto, in particolare, all’interno
delle aree sottoposte a vincolo, sono sanabili solo gli abusi di minore
rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6
dell'allegato 1 (restauro, risanamento conservativo, manutenzione
straordinaria).
Ne deriva l’assoluta impossibilità di condonare le opere che
abbiano sviluppato nuove superfici e nuovi volumi in area vincolata (ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 15.11.2022, n. 9986; id., 04.10.2022, n.
8781).
5.2. Nella Regione Lazio la disciplina è stata attuata, in senso ancor più
restrittivo, dalla l.reg. 12 del 2004, che, ferme le generali disposizioni
dettate dalla legge nazionale, ha introdotto una condizione ostativa
ulteriore, prevedendo che anche il vincolo sopravvenuto determini la non
condonabilità delle opere abusive (cfr. art. 3, comma 1, lett. b).
Le
previsioni di fonte regionale sono state ritenute conformi a Costituzione
dalla recente Corte cost., 30.07.2021, n. 181, in quanto rispettose
dell’affidamento, non irragionevoli e poste a “tutela di valori che
presentano precipuo rilievo costituzionale, quali quelli paesaggistici,
ambientali, idrogeologici e archeologici”.
5.3. Alla luce delle illustrate disposizioni, possono essere oggetto di
condono nelle aree vincolate solo gli interventi di restauro, risanamento
conservativo e manutenzione straordinaria.
Per le altre tipologie di abusi,
invece, la sanabilità risulta sempre preclusa ex lege –anche qualora le
opere siano state eseguite prima dell’apposizione del vincolo– senza che
occorra interrogarsi sulla compatibilità degli interventi con la disciplina
urbanistica o con il regime del vincolo (vedi ex plurimis, Tar Lazio, Roma,
sez. II-bis, 17.02.2015, n. 2705; 04.04.2017 n. 4225; 13.10.2017, n. 10336; 11.07.2018, n. 7752; 24.01.2019, n. 931;
09.07.2019, n. 9131; 13.03.2019, n. 4572; 02.12.2019 n. 13758; 07.01.2020, n. 90;
02.03.2020, n. 2743; 26.03.2020 ,n. 2660; 07.05.2020,n.
7487; 18.08.2020, n. 9252; sez. Stralcio, 07.06.2022 n. 7384; 15.07.2022, n. 10072; Cons. St., sez. VI, 17.01.2020 n. 425).
6. Ciò premesso, può passarsi alla disamina dei motivi di ricorso.
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la mancata valutazione
delle osservazioni presentate in risposta al preavviso di diniego, con le
quali rappresentava l’estraneità dell’area alla Riserva naturale dell’Insugherata.
6.1. Il motivo è infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza, non sussiste in capo
all’amministrazione un onere di analitica confutazione delle osservazioni
presentate dalla parte privata a seguito della comunicazione dei motivi
ostativi all'accoglimento dell'istanza, ma è sufficiente che il
provvedimento conclusivo sia logicamente e congruamente motivato, alla luce
delle risultanze acquisite e degli apporti procedimentali del privato (Cons.
St., sez. V, 20.10.2021, n. 7054).
A tale proposito, il provvedimento
menziona le deduzioni presentate dalla parte privata, ma le ritiene inidonee
al superamento dei motivi ostativi, stante l'insistenza dell'abuso “in zona
protetta di cui alla L.R. 29/1997”.
6.2. Nel merito, in ogni caso, le osservazioni presentate dalla ricorrente
non colgono nel segno. Dagli atti dell’istruttoria risulta, infatti, che
l’immobile oggetto degli interventi, pur non direttamente ricompreso
all’interno della Riserva Naturale dell’Insugherata, ricade nell’area ad
essa contigua, istituita a protezione della Riserva (cfr. art. 10 della
l.reg. 29 del 07.10.1997) e sottoposta ad analogo vincolo paesaggistico ai
sensi dell’art. 9 della l.reg. n. 24 del 06.07.1998.
6.3. Non è condivisibile, a tale proposito, l’affermazione –formulata dalla
ricorrente nella memoria di replica– secondo cui il vincolo di cui trattasi
sarebbe estraneo alle “peculiari e tassative fattispecie indicate dall’art.
3, comma 1, lett. b), della l.r. n. 12/2004”.
La disposizione regionale sul
condono, invero, fa riferimento ai vincoli posti “a tutela dei parchi e
delle aree naturali protette nazionali, regionali e provinciali”, cui
appartiene anche il vincolo sull’area contigua, che l’art. 9 della l.reg.
24/1998 assimila in toto al vincolo proprio della riserva naturale cui
pertiene.
Secondo l’art. 9, comma 2, infatti, sia la riserva che la relativa
area contigua sono ricomprese nella categoria delle “aree naturali
protette”, soggette a tutela ai sensi dell’art. 82, quinto comma, lett. f),
del d.P.R. 616/1977 (oggi art. 142, comma 1, lett. f), del d.lgs. 42/2004).
7. Attraverso il secondo motivo, la ricorrente deduce
l’inapplicabilità dell’art. 3, comma 1, lett. b) della l.reg. 12/2004,
poiché difetterebbero nella fattispecie sia la riconducibilità delle opere a
quelle “di cui all’art. 2, comma 1” della medesima legge, sia la loro
non conformità “alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici”.
Sostiene, in particolare, la ricorrente che l’intervento di cui trattasi non
avrebbe sviluppato nuova volumetria, consistendo nella realizzazione di un
locale posto al di sotto del livello del terreno e non deputato ad ospitare
stabilmente persone (inidoneo, quindi, a sviluppare un autonomo carico
urbanistico).
7.1. Il motivo è infondato.
Ai fini della classificazione dell’intervento non risulta decisiva la natura
interrata dei locali, pur sempre ricavati attraverso il recupero di uno
spazio tombato, in precedenza inaccessibile, con conseguente incremento
della volumetria complessiva dell’immobile.
È pacifico, del resto, che “l'esecuzione di volumi, anche se completamente
interrati è qualificabile come "nuova costruzione", così come espressamente
stabilito dall'art. 3, lettera e.1), d.p.r. n. 380/2001, e, pertanto, ai sensi
dell'art. 10 del medesimo testo normativo, deve essere assentita
necessariamente con permesso di costruire” (Tar Lazio, Roma, sez. I, 30.08.2012, n. 7396; nello stesso senso, Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, 07.10.2019, n. 235).
Anche ai sensi della normativa paesaggistica, il divieto di incremento dei
volumi esistenti viene riferito indistintamente a qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di volumetria, senza potersi distinguere
tra volume interrato e volume fuori terra (ex multis, Cons. St., sez. IV, 31.08.2023, n. 8097; sez. II, 25.04.2023, n. 4123).
7.2. Appurato, dunque, che trattasi di un intervento realizzato in area
vincolata e non riconducibile agli “abusi minori” (di cui di cui ai nn. 4, 5
e 6 dell'allegato 1 alla l. 326 del 2003) in quanto di nuova costruzione, il
diniego di condono costituiva esito ex lege obbligato del procedimento (cfr.
supra par. 5), senza che l’amministrazione fosse tenuta a svolgere ulteriori
valutazioni.
8. Ininfluente, appare, dunque, anche l’asserita conformità dell’intervento
con le prescrizioni urbanistiche di zona, valorizzata nel terzo motivo di
ricorso.
Infatti, a ritenere sussistente detta conformità, l’intervento
potrebbe al più essere classificato nella di tipologia 2 dell’allegato 1
alla legge 326 del 2003 (“Opere realizzate in assenza o in difformità del
titolo abilitativo edilizio, ma conformi alle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici alla data di entrata in vigore del
presente decreto”) e sarebbe ugualmente non condonabile in area vincolata,
stante la preclusione posta dall’art. 32, commi 26 e 27, della medesima
legge e dall’art. 3, comma 2, lett. b), della l.reg. 12/2004.
9. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere respinto. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Legittima l’imputazione a ferie del festivo infrasettimanale non
lavorato. Per la Cassazione la disciplina contrattuale di riferimento è
quella della turnazione (art. 30, comma 5, del contratto del 16.11.2022)
In presenza di una organizzazione del lavoro per turni articolato su tutti i
giorni della settimana, anche quelli ricadenti in un giorno festivo devono
essere considerati come rientranti nel normale orario di lavoro e ciò sia
per quanto riguarda la disciplina delle assenze, che devono essere sempre
giustificate mediante gli ordinari istituti contrattuali (ferie, malattia o
altre forme di congedo) sia per il regime retributivo.
Pertanto è legittima la
compensazione della mancata prestazione nell'ordinario turno di servizio,
per quanto ricadente in una giornata di festività infrasettimanale, con
l'imputazione a ferie della giornata non lavorata.
È quanto chiarito dalla Corte
di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
11.12.2023 n.
34580.
Alcuni
dipendenti appartenente al corpo di polizia locale di un ente locale, con
prestazione lavorativa in turni articolati su tutti i giorni della
settimana, si
sono visti imputare a ferie delle giornate coincidenti con le festività
infrasettimanali ricadenti nel turno di servizio ma non lavorate.
Gli
interessati
hanno ritenuto il comportamento del proprio datore illegittimo poiché in
materia occorre far riferimento alla disciplina dell'articolo 24, comma 2,
del
contratto del 14.09.2000 laddove stabilisce che «l'attività prestata
in giorno festivo infrasettimanale dà titolo,
a richiesta del dipendente, a equivalente riposo compensativo o alla
corresponsione del compenso per lavoro
straordinario con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario
festivo».
Di diverso avviso si è espresso il
datore di lavoro. Per l'ente, i diritti dei lavoratori turnisti sono
regolati dall'articolo 22 del contratto del 14.09.2000. Cosicché, di fronte a prese di posizioni contrapposte, i lavoratori ha
portato la questione sui tavoli giudiziari.
La
Corte di appello, contrariamente al giudice di primo grado, ha ritenuto di
accogliere la posizione dell'ente così i
ricorrenti hanno proposto ricorso in Cassazione.
In primo luogo, la
cassazione evidenzia come per i turnisti tutti i
giorni della settimana, anche quelli ricadenti in un giorno festivo, devono
essere considerati come non festivi e ciò
sia per quanto riguarda la disciplina delle assenze, che devono sempre
essere giustificate mediante gli ordinari
istituti contrattuali (ferie, malattia o altre forme di congedo), sia per il
regime retributivo onnicomprensivo.
La
disciplina contrattuale di riferimento è, pertanto, quella della turnazione
(oggi il riferimento è l'articolo 30, comma 5,
del contratto del 16.11.2022) e non quella dell'attività prestata in
giorno festivo infrasettimanale (articolo 24
del contratto del 14.09.2000).
Ne consegue che, se il turnista nel
giorno festivo infrasettimanale non presta
attività, dovrà essere considerato in ferie (salvo altre forme di congedo) e
ciò sia se la mancata presenza sia dipesa
dalla sua volontà di assentarsi sia che sia dipesa da una decisione
unilaterale del datore di lavoro adottata in
funzione di ragioni organizzative.
Pertanto è legittima la compensazione della mancata prestazione
nell'ordinario turno di servizio, per quanto
cadente in una giornata di festività infrasettimanale, con l'imputazione a
ferie della giornata non lavorata (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
22.12.2023). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Dalla diffamazione al procedimento disciplinare, le conseguenze
dell’uso inappropriato dei social sul lavoro.
Breve rassegna di giurisprudenza.
A seguito dell’incremento nella diffusione dei Social Network si registra un
dato: la crescita esponenziale del contenzioso nell’ambito del rapporto
avente ad oggetto l’utilizzo, distorto, di tali strumenti.
Diventano infatti tutt’altro che infrequenti i casi in cui l’utilizzo
inappropriato dei Social Network finisce per essere il mezzo con cui si
consumano delle vere e proprie diffamazioni all’interno del contesto
lavorativo che vengono puntualmente sanzionate disciplinarmente.
Del pari,
non mancano i casi in cui l’Azienda scopre, per il tramite degli stessi
Social, condotte illegittime, come, ad esempio, assenze ingiustificate dal
lavoro o utilizzo compulsivo dei Social durante l’orario di lavoro, e anche
in questo caso si aprono le porte del procedimento disciplinare, le cui
conseguenze possono essere anche quelle della perdita del posto di lavoro.
Le decisioni dei Giudici vanno alla ricerca dell’equilibrio, non sempre
raggiunto, tra interessi contrapposti, ossia: da un lato, il diritto alla
libera espressione del pensiero –che i Social network si prefigurano
idealmente- la tutela della privacy, della riservatezza dei lavoratori
anche nella propria vita extra-lavorativa e dall’altro, la tutela
dell’immagine e del patrimonio aziendale.
È utile esaminare alcuni di questi precedenti per comprendere la portata e
le caratteristiche del fenomeno e anche e soprattutto per sviluppare un uso
maggiormente consapevole degli strumenti ed evitare ricadute sul rapporto di
lavoro.
Un caso eclatante di utilizzo inappropriato dei social è quello giudicato
dal Tribunale di Ivrea, con ordinanza 28.01.2015, che ha esaminato
l’impugnazione di un licenziamento di un dipendente il quale, all’indomani
della pubblicazione di un provvedimento giudiziale che disponeva la di lui
reintegra in servizio, era stato licenziato (per la seconda volta) in
quanto, nel commentare il provvedimento giudiziale, aveva pubblicamente
postato su Facebook frasi gratuitamente diffamatorie contro l’azienda ed
offensive contro le colleghe.
È facile intuire come il giudizio sia andato a finire: il Tribunale ha
confermato la legittimità del licenziamento stigmatizzando la gravità delle
offese.
La Cassazione Sezione Lavoro, con la recente
sentenza
06.12.2023 n. 34107, si è pronunciata su un licenziamento
di un dipendente di un Ente Pubblico che, durante l’orario di lavoro, aveva
malamente parcheggiato l’auto aziendale per effettuare degli acquisti presso
un mercato all’aperto, sennonché l’auto veniva fotografata e l’immagine
pubblicata su Facebook con un commento sarcastico circa l’uso personale
dell’auto aziendale da parte del personale dell’Ente.
Tale post veniva
aspramente commentato da molti cittadini con conseguente detrimento
dell’Immagine dell’Ente. La Corte, pur ritenendo disciplinarmente rilevante
il fatto, ha però giudicato illegittimo il licenziamento in quanto la
fattispecie (abbandono del posto di lavoro per i minuti necessari ad
effettuare la spesa) rientrerebbe nell’ambito di una fattispecie punita dal
Contratto Collettivo con una sanzione conservativa.
Altro caso, è quello del Tribunale di Taranto che, con ordinanza 26.07.2021, ha giudicato il licenziamento di un
dipendente di una nota acciaieria Tarantina che aveva pubblicato un post nel
quale, facendo riferimento all’attività imprenditoriale, dichiarava: “… in
nome del profitto la vita dei Bambini tarantini non conta …. Assassini“.
Anche in tale occasione, trattandosi di post pubblico, il Giudice ha risolto
la problematica della riservatezza del dipendente a suo sfavore, ma ha
ritenuto comunque illegittimo il provvedimento disciplinare in quanto, alla
luce del contesto in cui il post era scritto, si poteva comprendere che la
frase offensiva riguardava un periodo storico in cui l’acciaieria era di
proprietà di soggetti giuridici diversi da quelli che avevano comunicato il
licenziamento.
Il Tribunale di Cosenza, con sentenza 13.07.2022 n. 1240, ha giudicato legittimo il licenziamento di un’autista
di Bus di linea che, mentre era alla guida dell’automezzo di servizio,
postava commenti su Facebook e si relazionava con altri utenti esprimendo
giudizi in merito ad articoli pubblicati su diversi quotidiani.
Ha destato poi un certo scalpore la
sentenza
27.05.2015 n. 10955 di Cassazione sez. lav. che concerne il caso
di un datore di lavoro il quale, avendo il sospetto che un proprio
dipendente mentre era in servizio si distraeva lasciando anche incustodita
la postazione di lavoro per intrattenere relazioni su Facebook, decideva di
creare un profilo «civetta» e, spacciandosi per un’avvenente ragazza,
chiedeva l’amicizia al dipendente che cascava nella trappola avviando una
fitta chat con la sedicente ragazza.
Venivano, per questa via, confermati i
sospetti del datore di lavoro e confermata la legittimità del licenziamento.
La sentenza in questione è stata criticata da più fronti in quanto, creare
un profilo fake costituisce una indebita intrusione nella sfera giuridica di
riservatezza e privacy del lavoratore che avrebbe potuto spingere verso una
conclusione diversa, ossia la illegittimità delle prove acquisite con
conseguente illegittimità del licenziamento che, su siffatte prove, si
basava.
Non a caso, sulla questione della legittima acquisizione della prova si è
aperto un dibattito giurisprudenziale non ancora chiuso, avente proprio ad
oggetto le chat riservate a una cerchia ristretta di persone. Ci si è
chiesto se tali chat possano essere utilizzate quale mezzo per provare in
giudizio condotte illegittime, come ad esempio, dichiarazioni diffamatorie.
Una parte della giurisprudenza ha sostenuto che le chat sono coperte dal
segreto sulla corrispondenza e dunque inutilizzabili da chi non è
destinatario del messaggio, si veda, in tal senso, l'ordinanza
10.09.2018
n. 21965 della Corte
di Cassazione, Sez. lavoro, che riguardava
il licenziamento comunicato a un dipendente che aveva apostrofato, in una
chat privata all’interno di un Gruppo Facebook, l’Amministratore Delegato
con epiteti senz’altro diffamatori e insultanti.
Ebbene, pur a fronte di tali gravi affermazioni la Corte di Cassazione ha
ritenuto che debba prevalere l’esigenza di tutela della segretezza nelle
comunicazioni laddove i messaggi siano scambiati all’interno di chat private
e dunque anche in un gruppo Facebook specie se i contenuti sono protetti da
password. Per questa via la Corte è giunta alla dichiarazione di
illegittimità del licenziamento. Precisa poi la Cassazione che, essendo i
messaggi rivolti a un gruppo determinato di persone e non diffusi a una
“moltitudine indistinta” di soggetti non vi sarebbero i requisiti della
diffamazione.
Di senso contrario invece la più recente
ordinanza 31.05.2021 n. 15161, di Cass. sez.
I civile, secondo cui è
legittimo il licenziamento del dipendente che aveva rivolto frasi offensive
nei confronti dei vertici aziendali nel contesto di una “mailing list”
sindacale.
Secondo la Corte era dirimente per stabilire la legittima acquisizione il
rilievo che l’Azienda non si era in alcun modo attivata per raccogliere i
dati dal momento che uno dei destinatari aveva inoltrato i messaggi
direttamente all’Azienda, il che rende, ad avviso della citata sentenza,
legittima l’acquisizione dell’informazione.
Sfumatura diversa del medesimo problema (valore probatorio delle chat)
concerne il caso in cui la chat del social costituisce strumento di lavoro
aziendale, e ciò si verifica, ad esempio, allorquando l’organizzazione del
lavoro prevede la possibilità di utilizzare le chat dei social per
comunicazioni di lavoro all’interno dell’azienda.
In questo caso, la Cassazione, Sez. lavoro con
sentenza 22.09.2021 n. 25731, ha da ultimo, affermato il lineare
principio secondo cui a tale fattispecie di controllo si applica l’art. 4
della L. 300 del 1970 e quindi le prove possono essere legittimamente
raccolte e utilizzate solo a condizione che i dipendenti siano stati resi
preventivamente edotti, anche nel rispetto della normativa in materia di
privacy, delle modalità d’uso degli strumenti, della potenziale
effettuazione dei controlli e delle modalità con cui i controlli vengono
effettuati.
L’esame dei precedenti giurisprudenziali sopra descritti è utile occasione
per trarre alcune considerazioni su un utilizzo adeguato e professionale dei
social che possono essere così sintetizzate:
1. evitare fenomeni di confusione tra ruolo aziendale e
dichiarazioni personali, con ciò avendo cura di specificare se si parla a
nome personale o nello svolgimento di funzioni aziendali;
2. quando il Social è utilizzato per ragioni di servizio, adottare
un linguaggio neutro e professionale in quanto ciò che si scrive viene
attribuito in via diretta anche all’azienda;
3. quando il Social è utilizzato per ragioni di servizio, avere
cura che vi sia distinzione tra il profilo personale e quello professionale
4. evitare di trattare pubblicamente tematiche che potrebbero
impattare, anche indirettamente sull’immagine dell’Azienda (ad. es. se sono
dipendente di un Istituto di Credito evito di commentare notizie che
riguardano il mio datore di lavoro, a meno che ciò non mi sia espressamente
richiesto);
5. evitare la divulgazione di informazioni anche solo
potenzialmente riservate e/o confidenziali;
6. rappresentare sempre i fatti in modo continente e veritiero;
7. utilizzare strumenti che limitano l’accesso al post a una
cerchia definita di persone con ciò preservandone la riservatezza (articolo NT+Diritto del 04.01.2024). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso civico generalizzato e cause ostative legalmente
contemplate.
---------------
Atto amministrativo – Accesso civico – Elementi distintivi
rispetto all’accesso documentale – Cause ostative legalmente
contemplate.
L’accesso civico generalizzato si traduce
nel diritto della persona a ricercare informazioni nonché a
conoscere i dati e le decisioni delle amministrazioni, al
fine di rendere possibile quel controllo democratico che
l’istituto intendere perseguire.
Non occorre verificare la legittimazione dell’accedente né è
necessario che la richiesta di accesso sia supportata da
idonea motivazione, dal momento che chiunque può visionare
ed estrarre copia cartacea o informatica di atti ulteriori
rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria.
L’interesse conoscitivo del richiedente è elevato al rango
di un diritto fondamentale, non altrimenti limitabile se non
in ragione di contrastanti esigenze di riservatezza
espressamente individuate dalla legge.
L’amministrazione può negare la divulgazione dei documenti
richiesti ove tale misura limitativa risulti necessaria per
evitare un pregiudizio concreto alla tutela degli interessi
pubblici e privati legalmente contemplati.
L’amministrazione vieta, invece, l’accesso civico
generalizzato, nei casi di segreto di Stato e negli altri
casi di divieti di divulgazione previsti dalla legge, ivi
compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni,
modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24,
comma 1, della legge n. 241 del 1990.
L’accesso civico generalizzato, pur consentendo l’ostensione
dei documenti richiesti a prescindere dalla dimostrazione di
un interesse diretto, concreto e attuale, incontra un limite
non superabile nelle cause ostative enucleate dall’articolo
5-bis, d.lgs. 14.03.2013, n. 33.
Viceversa, le norme sull’accesso esoprocedimentale esigono
la titolarità di una situazione giuridica legittimante, ma
sanciscono la prevalenza dell’interesse conoscitivo
difensivo nel conflitto con le contrastanti esigenze di
riservatezza. (1)
---------------
(1) Non sono indicati precedenti (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.11.2023 n. 9849 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Ciò premesso, il Collegio ritiene necessario ricostruire
brevemente il quadro normativo e giurisprudenziale di
riferimento.
L’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013 stabilisce “2. Allo
scopo di favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo
delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al
dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati
e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni,
ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai
sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi
alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo
quanto previsto dall'articolo 5-bis.”.
….. “1. L'accesso civico di cui all'articolo 5, comma 2,
è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un
pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi
pubblici inerenti a:
a) la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico;
b) la sicurezza nazionale;
c) la difesa e le questioni militari;
d) le relazioni internazionali;
e) la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato;
f) la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento;
g) il regolare svolgimento di attività ispettive.
2. L'accesso di cui all'articolo 5, comma 2, è altresì
rifiutato se il diniego è necessario per evitare un
pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti
interessi privati:
a) la protezione dei dati personali, in conformità con la
disciplina legislativa in materia;
b) la libertà e la segretezza della corrispondenza;
c) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o
giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il
diritto d'autore e i segreti commerciali.
2-bis. … omissis…..
3. Il diritto di cui all'articolo 5, comma 2, è escluso nei
casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di
accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i
casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente
al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti,
inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge
n. 241 del 1990.
4. Restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti
dalla normativa vigente. Se i limiti di cui ai commi 1 e 2
riguardano soltanto alcuni dati o alcune parti del documento
richiesto, deve essere consentito l'accesso agli altri dati
o alle altre parti.”.
L’art. 24, comma 1, lettera a), l. 241 del 1990, prevede,
per quanto di rilievo nel presente giudizio, che “1. Il
diritto di accesso è escluso: a) per i documenti coperti da
segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e
successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto
di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal
regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche
amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo”.
Il citato comma 3, d.lgs. n. 33/2013, contrariamente ai
commi precedenti, nell’estendere all’accesso civico
generalizzato i limiti relativi all’accesso (documentale) di
cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990,
non esige alcuna motivazione in relazione all’accertamento
della mancanza di un pregiudizio concreto alla tutela
dell’interesse protetto dalla norma che vieta l’accesso.
Trattasi, pertanto, di un rinvio, incondizionato, a fonti di
regolazione che fanno riferimento ad atti che restano in
ogni caso esclusi dal diritto di accesso. Tra le predette
fonti di regolazione figurano, ai sensi del citato art. 24,
comma, 1, gli atti delle pubbliche amministrazioni,
adottati, ai sensi del successivo comma 2, in riferimento
agli interessi elencati nel comma 1.
Nella fattispecie di che trattasi, la fonte di un divieto
assoluto all’accesso civico generalizzato è costituita dal
Decreto del Ministero dell’Interno 16.03.2022, che, in
attuazione dell’art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990,
nell’elencare le categorie di documenti sottratti
all’accesso per motivi di sicurezza, difesa e relazioni
internazionali, annovera, all’art. 2 comma 1 lett. d): “i
documenti relativi agli accordi intergovernativi di
cooperazione e le intese tecniche stipulati per la
realizzazione di programmi militari di sviluppo, di
approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la
collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli
relativi ad intese tecnico-operative per la cooperazione
internazionale di polizia inclusa la gestione delle
frontiere e dell’immigrazione”.
Alla luce delle predette coordinate normative, ai fini
dell’attivazione dei limiti di cui 24, comma 1, (tra i quali
compare la previsione di ulteriori limiti all’accesso
mediante atto della pubblica amministrazione), non occorre,
contrariamente a quanto opina l’appellante, una motivazione
dell’amministrazione che bilanci in concreto le ragioni
sottese alla richiesta di accesso civico generalizzato con
quelle cui è informato il contro-interesse tutelato dalla
legge o in base alla legge.
Neppure può essere condiviso il motivo, non esaminato dal
giudice di prime cure, che fa leva sulla illegittimità del
regolamento 16.03.2022, che ha sostituito il precedente n.
415/1994, perché, a dire dell’appellante, introdurrebbe
limiti incompatibili con il carattere di diritto
fondamentale dell’accesso civico generalizzato.
L’argomento sviluppato dalla parte appellante è
concettualmente errato per le ragioni che seguono.
Non vi è alcun dubbio in ordine al fatto che l’accesso
civico generalizzato costituisca un diritto fondamentale che
contribuisce al miglior soddisfacimento degli altri diritti
fondamentali che l’ordinamento giuridico riconosce alla
persona.
La natura fondamentale del diritto di accesso generalizzato
rinviene, infatti, fondamento, oltre che nella Carta
costituzionale (artt. 1, 2, 97 e 117) e nella Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 42) anche
nell’art. 10 della CEDU, in quanto la libertà di espressione
include la libertà di ricevere informazioni e le eventuali
limitazioni, per tutelare altri interessi pubblici e privati
in conflitto, sono solo quelle previste dal legislatore,
risultando la disciplina delle eccezioni coperta da riserva
di legge.
Il Collegio parimenti non dubita del fatto che l’accesso
civico generalizzato si traduce nel diritto della persona a
ricercare informazioni, quale diritto che consente la
partecipazione al dibattito pubblico e di conoscere i dati e
le decisioni delle amministrazioni al fine di rendere
possibile quel controllo “democratico” che l’istituto
intendere perseguire.
La conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni
amministrative consente, infatti, la partecipazione alla
vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e
governati, il consapevole processo di responsabilizzazione (accountability)
della classe politica e dirigente del Paese.
Ai fini dell’accesso civico generalizzato, inoltre, non
occorre verificare, così come per l’accesso documentale, la
legittimazione dell’accedente, né è necessario che la
richiesta di accesso sia supportata da idonea motivazione.
L’accesso civico “generalizzato”, infatti, consente a
“chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o
informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione obbligatoria (articolo 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
Per effetto dell’adesione dell’ordinamento al modello di
conoscibilità generalizzata delle informazioni
amministrative proprio dei cosiddetti sistemi FOIA (Freedom
of information act), l’interesse conoscitivo del richiedente
è elevato al rango di un diritto fondamentale (cosiddetto
“right to know”), non altrimenti limitabile se non in
ragione di contrastanti esigenze di riservatezza
espressamente individuate dalla legge.
Ciò premesso, la disciplina delle preclusioni all’esercizio
del diritto di accesso civico “generalizzato” si ricava
dall’articolo 5-bis, d.lgs. 14.03.2013, n. 33, le cui
disposizioni contemplano un duplice ordine di cause ostative
all’accoglimento dell’istanza di ostensione.
Alla stregua di tale disposizione, l’amministrazione può
negare la divulgazione dei documenti richiesti ove tale
misura limitativa risulti necessaria per evitare un
pregiudizio concreto alla tutela degli interessi pubblici e
privati rispettivamente enumerati dai commi 1 e 2 del citato
articolo 5-bis.
L’accesso civico “generalizzato” è, invece, escluso in
termini assoluti “nei casi di segreto di Stato e negli altri
casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla
legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato
dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche
condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui
all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990” (comma
3).
A tal riguardo, occorre evidenziare che la disciplina delle
nuove forme di trasparenza amministrativa differisce
significativamente rispetto all’ordinario regime di
ostensione documentale previsto dalla legge 07.08.1990,
n. 241. Ed invero, l’accesso civico “semplice” e
“generalizzato”, pur consentendo l’ostensione dei documenti
richiesti a prescindere dalla dimostrazione di un interesse
diretto, concreto e attuale, incontra un limite non
superabile nelle cause ostative enucleate dall’articolo
5-bis, d.lgs. 14.03.2013, n. 33.
Viceversa, le norme sull’accesso esoprocedimentale esigono
la titolarità di una situazione giuridica legittimante, ma
sanciscono la prevalenza dell’interesse conoscitivo
“difensivo” nel conflitto con le contrastanti esigenze di
riservatezza.
Ne deriva che, contrariamente a quanto ritenuto
dall’appellante, all’ampliamento (rispetto all’accesso
documentale) della platea dei soggetti che possono avvalersi
dell’accesso civico generalizzato corrisponde un maggior
rigore normativo nella previsione delle eccezioni poste a
tutela dei contro-interessi pubblici e privati (rispetto a
quanto si prevede con riferimento all’accesso documentale).
Sulla base delle considerazioni che precedono va respinto
anche il motivo di appello finalizzato a censurare, sotto il
profilo del difetto di proporzione, la mancata concessione
dell’accesso parziale.
La lettera della disposizione di cui al comma 3 del citato
d.lgs. 14.03.2013, n. 33, e l’evidenziata ratio sottesa
all’istituto dell’accesso civico generalizzato non
attribuiscono all’amministrazione, in sede di esame della
richiesta di accesso, alcun potere valutativo suscettibile
di estrinsecarsi nella fissazione di un limite modale. Né,
contrariamente a quanto opinato dalla parte appellante, tale
regola, nel richiamare i limiti di cui all’art. 24, comma 1,
l. n. 241 del 1990, viola il principio di legalità.
In senso contrario va evidenziato che, ai sensi dell’art. 24
comma 2, l. n. 241 del 1990, le pubbliche amministrazioni
sono tenute a individuare le categorie di atti da esse
formati o comunque rientranti nella loro disponibilità
sottratti all'accesso ai sensi del comma I.
Ne discende che alle pubbliche amministrazioni è demandato
non un potere discrezionale illimitato nella individuazione
delle categorie di documenti inaccessibili, ma un potere che
può essere esercitato in relazione ai “soli” casi di
esclusione previsti dal precedente comma 1. Trattasi,
pertanto, di una discrezionalità limitata, e quindi coerente
con il principio di legalità (nella sua duplice dimensione.
legalità-indirizzo e legalità –garanzia)
Ferma restando la sufficienza delle argomentazioni sopra
svolte ai fini del rigetto dell’appello, il Collegio rileva
altresì che appaiono destituite di fondamento anche le
censure articolate dalla parte appellante in relazione alla
assenza di motivazione del diniego sul piano della chiara
esplicazione del pregiudizio concreto all’interesse pubblico
che deriverebbe dalla esibizione dell’Accordo di
collaborazione in oggetto.
Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, le
stesse linee guida dell’ANAC, invocate dal ricorrente,
evidenziano la natura di eccezioni assolute da riferire alle
situazioni di cui al citato co. 3 dell’art. 5-bis, le quali
non richiedono l’esplicitazione di ulteriori motivazioni nel
caso di negato accesso, atteso che “possono verificarsi
circostanze in cui potrebbe essere pregiudizievole
dell’interesse coinvolto imporre all’amministrazione anche
solo di confermare o negare di essere in possesso di alcuni
dati o informazioni (si consideri ad esempio il caso di
informazioni su indagini in corso). In tali ipotesi, di
stretta interpretazione, se si dovesse pretendere una
puntale specificazione delle ragioni del diniego,
l’amministrazione potrebbe disvelare, in tutto o in parte,
proprio informazioni e dati che la normativa ha escluso o
limitato dall’accesso, per tutelarne la riservatezza
(pubblica o privata).” (Linee Guida ANAC).
Ciò, oltre a confermare la fondatezza della motivazione del
diniego -laddove esclude l’accesso in quanto afferente a
documenti categoricamente sottratti all’esibizione, in base
a disposizioni normative specifiche ex art. 24, comma 1,
lett. a), legge n. 241/1990- rende adeguata, nel suo
complesso, la motivazione addotta in quanto da essa è
agevolmente ricavabile il pregiudizio concreto che potrebbe
derivare all’interesse pubblico alla riservatezza del
documento, laddove alle Amministrazioni coinvolte fosse
imposto, soltanto per motivare il diniego, di rendere
espliciti i contenuti di un documento riservato.
Conclusivamente, per le ragioni esposte, l’appello va
respinto in quanto infondato, sia pure all’esito di una
motivazione parzialmente diversa rispetto a quella posta a
base della decisione impugnata (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.11.2023 n. 9849 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sulla natura giuridica delle convenzioni tra enti locali e
sulla necessità della sottoscrizione digitale.
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Enti pubblici in genere – Convenzioni tra enti locali –
Natura giuridica - Accordi tra amministrazioni.
Le convenzioni tra enti locali ex art.
30 d.lgs. n. 267 del 2000 rappresentano con ogni evidenza
una species dell’ampio genus degli accordi fra pubbliche
amministrazioni di cui all’art. 15 l. n. 241 del 1990 (1).
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Enti pubblici in genere – Convenzioni tra enti locali –
Natura giuridica - Accordi tra amministrazioni –
Sottoscrizione digitale – Necessità.
Il comma 2-bis dell’art. 15 l. n. 241 del
1990 indica con chiarezza, quale unica forma di validità di
siffatti accordi, la stipulazione mediante una specifica
tipologia di sottoscrizione, quella digitale: in caso
contrario, gli accordi sono radicalmente “nulli”, ossia
inidonei a produrre un qualunque effetto giuridico.
Siffatta
previsione di nullità in caso di mancanza della
sottoscrizione digitale ha portata generale e riguarda,
dunque, ogni forma di accordo fra pubbliche amministrazioni:
esso, quindi, concerne anche le convenzioni ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 (2).
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(1) Precedenti conformi: Tar per la Campania, Salerno, sez. I,
01.12.2005, n. 2496; Tar per la Lombardia, sez. I,
08.11.2004, n. 5620. Sulla natura dell’accordo di programma
quale species del più ampio genus degli accordi fra
amministrazioni di cui all’art. 15 della l. n. 241 del 1990,
di recente, Tar Veneto, sez. II, 08.08.2023, n. 1169.
Precedenti difformi: non risultano
precedenti difformi.
(2) Precedenti conformi: non risultano precedenti negli specifici
termini.
Precedenti difformi: non risultano
precedenti difformi
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.11.2023 n. 9842 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
6. Il III ed il IV motivo di prime cure, che possono
scrutinarsi contestualmente, sono viceversa fondati.
6.1. L’avviso pubblico del 30.06.2022 stabiliva (art. 4) che
“le candidature per il finanziamento dei Progetti per la
realizzazione di piani di sviluppo di Green Communities
possono essere presentate, a pena di esclusione, da Comuni
confinanti della medesima Regione o Provincia Autonoma solo
in forma aggregata come:
a. Unioni di Comuni ex art. 32 d.lgs. 267/2000;
b. Comunità Montane ex art. 27 d.lgs. 267/2000;
c. Consorzi ex art. 31 d.lgs. 267/2000;
d. Convenzioni ex art. 30 d.lgs. 267/2000”.
6.2. Le domande dovevano essere presentate, “complete
della proposta, dei documenti e delle dichiarazioni di cui
al precedente art. 4”, entro le 23.59 del 16.08.2022,
termine espressamente stabilito “a pena di esclusione”
(art. 11).
6.3. Dal combinato disposto delle due citate disposizioni si
ha che, al momento della presentazione della domanda (e
comunque non oltre le 23.59 del 16.08.2022), doveva essere
stata già costituita, evidentemente nelle forme di legge,
una delle quattro forme di “aggregazione”
tassativamente indicate dall’Avviso (Unione di Comuni,
Comunità Montana, Consorzio, Convenzione).
6.4. La relativa documentazione di comprova, inoltre, doveva
essere allegata alla domanda, quale elemento imprescindibile
della stessa, trattandosi di un profilo formale
condizionante l’ammissione al prosieguo della procedura.
6.5. Nella specie, risulta che la convenzione ex art. 30
d.lgs. n. 267 del 2000 sia stata sottoscritta manualmente
dai (Sindaci dei) Comuni resistenti in data 22.03.2017.
6.6. Non constano successive sottoscrizioni digitali della
convenzione.
6.7. I Comuni hanno poi presentato alla Presidenza un
apposito “atto di aggregazione” datato 27.07.2022, la
cui firma digitale è stata, però, apposta soltanto nel
successivo mese di dicembre.
6.8. In definitiva, non è stata dimostrata, dal Comune di
Stigliano, la presentazione agli atti della procedura (e,
prima ancora, la stessa esistenza fisica) di una convenzione
ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 già firmata digitalmente
alla data del 16.08.2022.
6.9. Il richiamo da parte dell’Avviso alle “Convenzioni
ex art. 30 d.lgs. 267/2000” implica la necessità che
tali convenzioni fossero state concluse nelle forme di
legge, evidentemente anche in punto di forma.
6.10. L’art. 15, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990 stabilisce,
per quanto qui di interesse, che “A fare data dal 30.06.2014
gli accordi di cui al comma 1 sono sottoscritti con firma
digitale, ai sensi dell'articolo 24 del decreto legislativo
07.03.2005, n. 82, con firma elettronica avanzata, ai
sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera q-bis) del decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82, o con altra firma
elettronica qualificata pena la nullità degli stessi”.
6.11. Il comma 1 citato, a sua volta, dispone che “… le
amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro
accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di
attività di interesse comune”.
6.12. L’art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 disciplina le
“convenzioni”, stabilendo che “Al fine di svolgere in modo
coordinato funzioni e servizi determinati, gli enti locali
possono stipulare tra loro apposite convenzioni”.
6.13. Le convenzioni ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000
rappresentano con ogni evidenza una species dell’ampio
genus
degli accordi fra Pubbliche Amministrazioni, di cui all’art.
15 l. n. 241 del 1990.
6.14. La l. n. 241 del 1990, recante “Nuove norme in materia
di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai
documenti amministrativi”, è, infatti, corpus legislativo
generale e di sistema, che disciplina l’intera attività
amministrativa in quanto tale; il d.lgs. n. 267 del 2000,
recante il “Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali”, è di contro dedicato ad una specifica, per
quanto rilevante, partizione della Pubblica Amministrazione,
ossia gli “Enti locali”, identificati nei “comuni, province,
città metropolitane, comunità montane, comunità isolane e
unioni di comuni”.
6.15. Mentre, dunque, la l. n. 241 ha un’ampia prospettiva
di carattere oggettivo (concerne la funzione amministrativa
in quanto tale), il d.lgs. n. 267 enuclea una, più
circoscritta, visione soggettiva (regolamenta gli Enti
locali).
6.16. A sua volta, l’art. 15 l. n. 241 del 1990 delinea la
fattispecie degli accordi fra Amministrazioni con normazione
all’evidenza ed intenzionalmente generale, non limitata né a
precise tipologie di Amministrazioni, né a specifiche
attività.
6.17. Di contro, l’art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 si
riferisce solo agli “enti locali” e concerne lo svolgimento
“in modo coordinato di funzioni e servizi determinati”,
evidentemente nell’ambito delle competenze di tali Enti.
6.18. Il rapporto di species a genus che lega l’art. 30
d.lgs. n. 267 all’art. 15 l. n. 241 del 1990 emerge, dunque,
con nitore tanto dal confronto testuale delle due
disposizioni, quanto, più in generale, dal rapporto fra le
coordinate logico-sistematiche, contenutistiche e
teleologiche dei due testi legislativi che, rispettivamente,
le contengono.
6.19. Il comma 2-bis dell’art. 15 l. n. 241, introdotto per
la prima volta dal d.l. n. 179 del 2012 convertito con l. n.
221 del 2012 (e poi modificato in seguito solo quanto alla
decorrenza del vincolo di forma ivi delineato), prescrive
che gli accordi fra Pubbliche Amministrazioni debbano essere
sottoscritti con firma digitale, “pena la nullità degli
stessi”.
6.20. La disposizione indica con chiarezza, quale unica
forma di validità di siffatti accordi, la stipulazione
mediante una specifica tipologia di sottoscrizione, quella
digitale: in caso contrario, gli accordi sono radicalmente
“nulli”, ossia inidonei a produrre un qualunque effetto
giuridico.
6.21. Giacché il comma 2 dell’art. 15 stabilisce che “per
detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le
disposizioni previste dall'articolo 11, commi 2 e 3”, che a
loro volta rimandano, “ove non diversamente previsto, ai
principi del codice civile in materia di obbligazioni e
contratti in quanto compatibili”, il richiamo in parola non
può che essere riferito all’istituto civilistico della
nullità, che, come noto, si connota, inter alia, per
l’assoluta inidoneità dell’atto a produrre effetti
giuridici: altrimenti detto, dal punto di vista degli
effetti (ossia in un’ottica pragmatica attenta al dato
funzionale della capacità concreta dell’atto di modificare
la realtà giuridica), l’atto essenzialmente non esiste.
6.22. Siffatta previsione di nullità in caso di mancanza
della sottoscrizione digitale ha portata generale e
riguarda, dunque, ogni forma di accordo fra Pubbliche
Amministrazioni: esso, quindi, concerne anche le convenzioni
ex art. 30 d.lgs. n. 267.
6.23. Non convince, sul punto, la ricostruzione del Tar,
secondo cui “l’invocata previsione di cui all'art. 15, co.
2-bis, della l. n. 241/1990, stante la gravità della
sanzione in essa contemplata (che potrebbe essere sospettata
di profili di irragionevolezza), va intesa come di stretta
applicazione e, dunque, non è riferibile –in sede
interpretativa- anche alla fattispecie (qui rilevante)
della convenzione tra enti locali (species del più ampio
genus degli accordi tra pubbliche amministrazioni), la quale
rinviene una disciplina speciale ed esaustiva nell’art. 30
del D.lgs. n. 267/2000 (disposizione che non prevede
particolari formalità di sottoscrizione)”.
6.24. Nessun profilo testuale, infatti, lascia ritenere che
la disciplina dettata dall’art. 30 sia “esaustiva”, ossia
non ammetta alcuna integrazione ab externo.
6.25. Al contrario, in assenza di un’espressa disposizione
che ciò sancisca, risponde agli ordinari criteri ermeneutici
ritenere che le previsioni dettate dalla legge con
riferimento all’istituto generale degli “accordi fra
Amministrazioni” si applichino anche alle specifiche,
speciali e settoriali epifanie normative dello stesso, quali
sono (secondo lo stesso Tar), le convenzioni ex art. 30
d.lgs. n. 267 del 2000.
6.26. Altrimenti detto, in termini di teoria generale quanto
stabilito per il genus vale, di regola, anche per le singole
species, a meno che non sia espressamente disposto in senso
contrario ovvero la concreta fisionomia della species osti
oggettivamente all’applicazione della normativa dettata per
il genus.
6.27. Quest’ultima circostanza non sussiste, perché il
vincolo di forma in esame (ossia la necessità della sola
firma digitale) ben si può applicare alle convenzioni ex
art. 30, posto che da un lato non ricorrono ragioni
strutturali di carattere ostativo, dall’altro la ratio legis
sottesa alla previsione (incentivare la digitalizzazione
dell’Amministrazione) si riferisce pienamente pure
all’azione degli Enti locali.
6.28. Nella specie, pertanto, la proposta del Comune
appellato non poteva essere presa in considerazione dalla
Presidenza del Consiglio, perché fondata su una convenzione
nulla: l’atto impugnato va, conseguentemente, annullato.
6.29. Non vengono in considerazione:
- né l’istituto del soccorso istruttorio, posto che la convenzione
doveva esistere giuridicamente (ossia essere sottoscritta
digitalmente) prima del 16.08.2022, concretando ciò un
elemento necessario per la possibilità stessa di partecipare
alla procedura che, come tale, non può sopravvenire al
termine ultimo per la presentazione della proposta;
- né l’istituto dell’errore scusabile, poiché, in disparte il fatto
che tale istituto ha genesi ed applicazione processuale e
non procedimentale, la nullità prescinde dall’atteggiamento
soggettivo della parte interessata, essendo stabilita
direttamente dalla legge in presenza di determinate
circostanze oggettive (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.11.2023 n. 9842 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO:
Se i fumi della panetteria molestano solo due appartamenti in
condominio il Sindaco non è autorizzato ad intervenire.
L’intervento del Sindaco a difesa dei condomìni che denunciano l’emissione
di fumi molesti da una panetteria si giustifica solo qualora il danno
prodotto riguardi più immobili, non solo i due appartamenti dei due stabili
attigui sovrastanti l’esercizio commerciale.
La
sentenza 10.11.2023 n. 16788 del TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, ribalta il frequente favore verso il danneggiato dalle
emissioni in condominio e precisa quando in sostanza si debbano riconoscere
le ragioni... (articolo NT+Condominio del 05.01.2024).
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SENTENZA
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 15 del 28/04/2023, notificata in
data 21/06/2023, con cui il Sindaco del Comune di Viterbo, ai sensi degli
artt. 30 d.lgs. n. 285/1992 e 50, comma 5, d.lgs. n. 267/2000, ha ordinato
al ricorrente di “effettuare nell’immediatezza… tutte le attività e/o
accorgimenti tecnici necessari per risolvere le situazioni di disagio che i
fumi di cottura provocano ai condomini, dando corso a tutto quanto
necessario al fine di tutelare l’incolumità, l’igienicità e la salubrità
delle persone e cose”.
...
Considerato, in fatto, che parte ricorrente impugna l’ordinanza n. 15 del
28/04/2023, notificata in data 21/06/2023, con cui il Sindaco del Comune di
Viterbo, ai sensi degli artt. 30 d.lgs. n. 285/1992 e 50, comma 5, d.lgs. n.
267/2000, ha ordinato al Bu. di “effettuare nell’immediatezza… tutte le
attività e/o accorgimenti tecnici necessari per risolvere le situazioni di
disagio che i fumi di cottura provocano ai condomini, dando corso a tutto
quanto necessario al fine di tutelare l’incolumità, l’igienicità e la
salubrità delle persone e cose”;
Considerato, in diritto, che il ricorso è fondato e merita accoglimento;
Considerato, in particolare, che:
- con una serie di censure, tra loro connesse, il ricorrente
deduce:
a) i vizi di violazione della
l. n. 241/1990 e l’illegittimità del provvedimento impugnato il quale
conterrebbe un ordine generico ed incomprensibile, sarebbe fondato su un
atto estrapolato da un accertamento condotto da altra autorità e sfociato in
tutt’altro provvedimento e sarebbe volto a conseguire un risultato che non
sarebbe di competenza pubblica (prima doglianza);
b) il difetto d’istruttoria, di
motivazione, la contraddittorietà tra atti ed il vizio d’incompetenza perché
la gravata ordinanza sindacale sarebbe stata emanata senza tenere conto
degli atti del procedimento e delle circostanze di fatto (il forno in
dotazione alla panetteria sarebbe elettrico e non potrebbe produrre
fuliggine e, comunque, sarebbe collegato alla canna fumaria del palazzo) ed,
inoltre, nella fattispecie verrebbe in rilievo la facciata di un palazzo
privato che non potrebbe giustificare l’esercizio del potere comunale
(seconda doglianza),
- i motivi in esame sono fondati nella parte in cui prospettano
l’incompetenza del Sindaco ad emanare l’atto impugnato per l’assenza di una
situazione, a tal fine, legittimante;
- infatti, l’atto impugnato richiama:
a) l’art. 30 d.lgs. n.
285/1992, il cui comma 2 prevede che, “salvi i provvedimenti che nei casi
contingibili ed urgenti possono essere adottati dal sindaco a tutela della
pubblica incolumità, il prefetto, sentito l'ente proprietario o
concessionario, può ordinare la demolizione o il consolidamento a spese
dello stesso proprietario dei fabbricati e dei muri che minacciano rovina se
il proprietario, nonostante la diffida, non abbia provveduto a compiere le
opere necessarie”;
b) l’art. 50, comma 5, d.lgs.
n. 267/2000 il quale stabilisce che “in caso di emergenze sanitarie o di
igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili
e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità
locale. Le medesime ordinanze sono adottate dal sindaco, quale
rappresentante della comunità locale, in relazione all'urgente necessità di
interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del
territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del
decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze
di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo
in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di
bevande alcoliche e superalcoliche”;
- il riferimento dell’atto impugnato al “pericolo per la
pubblica e privata incolumità” induce il Collegio a ritenere che
l’ordinanza sia stata emanata in attuazione dell’art. 50, comma 5, d.lgs. n.
267/2000 e che il richiamo all’art. 30 d.lgs. n. 285/1992 sia non pertinente
(per altro, la disposizione, nel richiamare i provvedimenti contingibili ed
urgenti del Sindaco, si limita a rinviare al disposto dell’art. 50 d.lgs. n.
267/2000 e non costituisce certo fonte di un autonomo potere sindacale di
emanare atti extra ordinem);
- la situazione di fatto posta a fondamento del provvedimento
impugnato è dallo stesso individuata nell’emissione di fumi e fuliggine,
contestata da parte ricorrente, che interesserebbe i due appartamenti
situati al primo piano;
- tale situazione non concretizza quel pericolo per la pubblica
incolumità o le ipotesi di “emergenze sanitarie o di igiene pubblica a
carattere esclusivamente locale”, “urgente necessità di interventi
volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio,
dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della
vivibilità urbana” alla cui sussistenza l’art. 50, comma 5, d.lgs.
condiziona l’esercizio del potere sindacale di adottare ordinanze extra
ordinem di necessità ed urgenza;
- infatti, i presupposti richiesti dall’art. 50 d.lgs. n. 267/2000
postulano la necessaria presenza di una diffusività della situazione di
pericolo (Cons. Stato n. 2895/2023 e Cons. Stato n. 1942/2023) che nella
fattispecie, in cui vengono in rilievo le sole esigenze dei due appartamenti
situati al primo piano, non possono essere ritenute sussistenti;
- in proposito, va ricordato che, secondo la giurisprudenza, il
potere sindacale di adottare ordinanze di necessità ed urgenza richiede la
presenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente
per l’incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di
amministrazione attiva, debitamente motivata a seguito di approfondita
istruttoria. In altri termini, presupposto per l’adozione dell’ordinanza "extra
ordinem" è il pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di
eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed
indilazionabili, consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non
fare a carico del privato e tale pericolo non può essere riconducibile alla
segnalazione pervenuta nella fattispecie al Comune (in termini Cons. Stato
n. 868/2010; nello stesso senso Cons. Stato n. 5150/2019 e n. 6168/2003) la
quale potrà, se del caso, giustificare la tutela degli interessati davanti
al giudice ordinario;
- la fondatezza della censura in esame comporta l’accoglimento del
ricorso (previa declaratoria di assorbimento delle ulteriori doglianze) e
l’annullamento dell’atto impugnato; |
CONDOMINIO:
Barriere architettoniche discriminatorie, condannati Comune e
amministratore. Gli interventi agevolabili con il 75% sono scale, rampe,
ascensori, servoscala e piattaforme elevatrici.
Discriminazioni in condominio per chi ha problemi motori.
Il tema è di strettissima attualità alla luce degli incentivi per
l’abbattimento delle barriere architettoniche a cui si può far ricorso,
rimodellati dal decreto legge 212/23 con la riduzione dello spettro degli
interventi agevolabili con il 75%: ora sono incentivabili le opere per
eliminare le barriere architettoniche «aventi ad oggetto esclusivamente
scale, rampe, ascensori, servoscala e piattaforme elevatrici».
L’ordinanza 17138/2023
Sul tema l’ordinanza
15.06.2023 n. 17138
della Corte di Cassazione, Sez. I civile, ha statuito che «in
materia di tutela antidiscriminatoria delle persone con disabilità vittime
di disparità di trattamento nell’ambito di un contesto condominiale,
costituisce discriminazione, ai sensi dell’articolo 2 della legge 67/2006,
la situazione di inaccessibilità all’edificio determinata dall’esistenza di
barriere architettoniche».
Non poteva recarsi dalla sorella
All’origine della pronuncia il caso di un disabile impossibilitato ad andare
a trovare la sorella, residente in un condominio a lui inaccessibile.
L’uomo aveva citato Comune e amministratore dello stabile, chiedendo la
condanna in solido per condotta discriminatoria, oltre al risarcimento del
danno, e i supremi giudici hanno accolto la richiesta.
Le motivazioni del provvedimento
La legge 67/2006 dispone per le persone con disabilità, di cui all’articolo
3 della legge 104/1992, una particolare tutela giurisdizionale per tutte
quelle situazioni in cui il disabile risulti destinatario di trattamenti
discriminatori al di fuori di un rapporto di lavoro.
La Suprema corte nel richiamare i principi espressi dalla legge 67/2006
(articolo 2) ha ribadito che «l’esistenza di un’ampia definizione
legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di accessibilità
rende la normativa sull’obbligo dell’eliminazione delle prime, e sul diritto
alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente precettiva e
idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la
discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare i
disabili, consentendo loro il ricorso alla tutela antidiscriminatoria,
quando l’accessibilità sia impedita o limitata, a prescindere dall’esistenza
di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di
barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi» (Cassazione
18762/2016 e Cassazione 3691/2020).
Il concetto di disabilità
Da ultimo il concetto stesso di disabilità va interpretato in senso ampio,
sì da doversi ritenere che la normativa concernente il superamento e
l’eliminazione delle barriere architettoniche di cui alla legge 13 del 1989,
articolo 2, sia applicabile anche alle persone che, in conseguenza dell’età
avanzata, pur non essendo portatori di handicap, abbiano comunque disagi
fisici e difficoltà motorie.
La giurisprudenza della Suprema corte ha d’altro canto sottolineato come
l’impossibilità di osservare tutte le prescrizioni della legge 13/1989 per
particolari caratteristiche dell’edificio non comporti la totale
inapplicabilità delle disposizioni di favore finalizzate anche solo ad
agevolare l’accesso agli immobili dei soggetti versanti in condizioni di
minorazione fisica.
Ciò che risulta determinante al riguardo è che l’intervento produca comunque
un risultato «conforme alle finalità della legge, attenuando
sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario
dell’abitazione».
La conclusione
Si può concludere quindi che, laddove il condominio abbia omesso qualsiasi
intervento volto all’abbattimento delle barriere architettoniche, il
soggetto portatore di disabilità anche non condomino potrà agire contro il
condominio/amministratore avvalendosi della tutela antidiscriminatoria della
legge 67/2006 con lo scopo di ripristinare la parità di trattamento, così da
consentirgli di partecipare pienamente a tutti gli ambiti della vita di
relazioni sociali (Cassazione 4734/2015 e Cassazione 21568/2012) (articolo
Il Sole 24 Ore del 03.01.2024).
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ORDINANZA
3.2.- I primi due motivi, da trattare congiuntamente per
connessione, sono fondati e vanno accolti.
4.1. - La L. n. 67 del 2006, sulla cui applicazione si controverte, è
inserita nell'ambito della normativa nazionale (a partire dalla
Costituzione, art. 3) e internazionale (fra queste, va ricordato l'art. 14
della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo), volta ad assicurare e
promuovere la piena realizzazione, senza discriminazioni di alcun tipo, dei
diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone, e
specificamente anche per quelle con disabilità, allo scopo di colmare gli
svantaggi propri di questi soggetti e di assicurare il rispetto del
principio di parità di trattamento.
Questi obiettivi, sul piano convenzionale, sono imposti anche dalla
Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità,
firmata a New York il 13.12.2006, ratificata ai sensi della legge
03.03.2009, n. 18, che «al fine di consentire alle persone con disabilità
di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli
ambiti della vita» obbliga gli Stati Parti ad adottare «misure
appropriate per assicurare alle persone con disabilità, su base di
eguaglianza con gli altri, l'accesso all'ambiente fisico, ai trasporti,
all'informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di
informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o
offerti al pubblico, sia nelle aree urbane che nelle aree rurali».
In particolare, la legge n. 67/2006 intende disporre per le persone con
disabilità, di cui all'art. 3 della legge n. 104/1992, una particolare
tutela giurisdizionale (in parte analoga a quella già accordata ai disabili
vittime di discriminazioni nel contesto lavorativo dal d.lgs. n. 216/2003,
che ha recepito la direttiva 2000/78/CE) per tutte quelle situazioni in cui
il disabile risulti destinatario di trattamenti discriminatori al di fuori
di un rapporto di lavoro.
La legge sancisce, con norme dalla portata immediatamente precettiva,
divieti di discriminazione delle persone disabili sia nei rapporti pubblici,
che nei rapporti tra privati, senza alcuna limitazione soggettiva dei
destinatari dell'obbligo di non discriminazione (sul tema, cfr. Cass. n.
18762/2016; Cass. n. 3691/2020; Cass. n. 3842/2021; Cass. n. 9384/2023).
4.2.- L'impianto normativo (art. 2) parte da una definizione di
discriminazione (diretta, indiretta e discriminazione sotto forma di
molestie, intimidazioni e umiliazioni), per poi predisporre lo schema di
tutela giurisdizionale (art. 3).
4.3.1.- Secondo la nozione di discriminazione di cui all'art. 2 della legge
n. 67/2006 ricorre la "discriminazione diretta" quando una persona
disabile viene trattata in modo diverso, in diritto o in fatto, rispetto ad
un soggetto abile; ricorre la "discriminazione indiretta" quando una
disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento,
apparentemente neutri, mettono una persona con disabilità in una posizione
di svantaggio rispetto ai soggetti abili (Cass. Sez. U. n. 25101/2019; Cass.
n. 9384/2023; Cass. n. 9095/2023; Cass. n. 9870/2022); infine, sono "discriminazioni"
le molestie, ovvero comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi
connessi alla disabilità, che creino un clima di intimidazione, umiliazione,
offesa o ostilità nei confronti della persona disabile.
4.3.2.- Con particolare riferimento alla fattispecie della "discriminazione
indiretta", invocata nel caso in esame, va osservato che l'elencazione
delle modalità con cui essa può esplicarsi, contenuta nell'art. 2, non può
ritenersi né esaustiva, né tassativa e ciò trova conferma nello stesso testo
dell'art. 3, ove le diverse forme di discriminazione sono sinteticamente
(omissis) nella definizione omnicomprensiva di "atti e comportamenti".
L'elemento qualificante che connota la fattispecie è, invero, l'effetto che
in concreto produce, e cioè lo "svantaggio" del soggetto disabile
rispetto al soggetto abile, di guisa che l'accertamento deve necessariamente
riguardare in stretta connessione la condotta denunciata e lo svantaggio
susseguente.
Va considerato, infatti, che spesso non sono il comportamento o la prassi a
creare lo svantaggio, ma il fatto che non sia stata prevista una diversità
di trattamento a favore dei disabili atta e necessaria per ristabilire
l'uguaglianza ed evitare la discriminazione.
4.3.3.- Per restare sul tema del presente giudizio, va affermato che possono
certamente rientrare nell'ambito della "discriminazione indiretta" ai
sensi della L. n. 67 del 2006, art. 2, le barriere architettoniche
ostacolanti l'accesso, sulla cui presenza presso l'immobile di proprietà
della germana, è stata focalizzata la originaria azione del disabile nel
caso in esame, qualora abbiano determinato -come accertato nel caso di
specie una condizione di svantaggio per quest'ultimo- costituita dalla
lesione del diritto a poter accedere ed a potersi spostarsi dall'abitazione,
ove era domiciliato, in maniera dignitosa - rispetto all'omologa situazione
in cui si trovi la persona priva di disabilità.
In proposito, questa Corte ha anche affermato che l'esistenza di «ampia
definizione legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di
accessibilità rende la normativa sull'obbligo dell'eliminazione delle prime,
e sul diritto alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente
precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima
giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si
vengano a trovare queste ultime», consentendo loro «il ricorso alla
tutela antidiscriminatoria, quando l'accessibilità sia impedita o limitata»
ciò, a prescindere, «dall'esistenza di una norma regolamentare apposita
che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un
determinato stato dei luoghi» (così, in motivazione, Cass. n.
18762/2016, tema affrontato anche in Cass. n. 3691/2020), ed ha così messo
in luce che ciò che rileva, ai fini dell'accertamento ex art. 28 del d.lgs.
n. 150/2011, è la situazione di fatto concretamente verificata e non la
qualificazione giuridica dei luoghi.
Una conclusione, questa, che appare del tutto in linea con la necessità di
assicurare alla normativa suddetta un'interpretazione conforme a
Costituzione, se è vero che -come sottolinea la stessa giurisprudenza
costituzionale- l'accessibilità "è divenuta una qualitas essenziale"
perfino "degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile
abitazione, quale conseguenza dell'affermarsi, nella coscienza sociale, del
dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo
alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap
fisici" (così, Corte Cost., sent. n. 167/1999; nello stesso senso, Corte
Cost., sent. n.
251/2008).
Del pari, viene sottolineato come "il superamento delle barriere
architettoniche -tra le quali rientrano, ai sensi del D.P.R. n. 503 del
1996, art. 1, comma 2, lett. b), gli "ostacoli che limitano o impediscono a
chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o
componenti"- è stato previsto (L. n. 118 del 1971, art. 27, comma 1) "per
facilitare la vita di relazione" delle persone disabili", evidenziandosi che
tali principi "rispondono all'esigenza di una generale salvaguardia della
personalità e dei diritti dei disabili e trovano base costituzionale nella
garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute
degli interessati, intesa quest'ultima nel significato, proprio della Cost.,
art. 32, comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica"
(così, ancora, Corte Cost., sent. n. 251 del 2008).
4.4.1.- La tutela giurisdizionale in sede civile avverso gli atti e i
comportamenti discriminatori è attualmente regolata -per rinvio-
dall'articolo 28 del d.lgs. n. 150/2011 (oggetto di recenti modifiche,
apportate dal d.lgs. n. 149/2022, non applicabili al caso di specie e che
non hanno mutato l'impianto del procedimento, per quanto di interesse).
La competenza è radicata presso il tribunale del luogo ove ha domicilio il
ricorrente, che costituisce un foro funzionale ed esclusivo, che deve essere
preferito agli altri fori, anche inderogabili, compreso quello erariale
(Cass. n. 296/2021; anche, Cass. n. 3936/2017) e le parti in primo grado
possono stare in giudizio personalmente.
Il soggetto discriminato che si ritenga danneggiato può chiedere al giudice
il risarcimento del danno anche non patrimoniale e può chiedere che il
giudice adotti ogni provvedimento idoneo secondo le circostanze a rimuovere
gli effetti della discriminazione, compreso un piano di rimozione delle
discriminazioni entro un termine.
L'esigenza di assicurare ai diritti lesi concreta tutela giurisdizionale
impone al giudice di assumere tutti quei provvedimenti anche atipici e
innominati idonei a neutralizzare incidenze irreversibili nella posizione
sostanziale del richiedente.
Quanto alla ripartizione
dell'onere probatorio, questa Corte ha già avuto modo di sottolineare la
peculiarità del sistema connotato da una parziale inversione dell'onere
della prova, atteso che «In tema di discriminazione indiretta nei
confronti di persone con disabilità ai sensi della legge n. 67 del 2006,
l'art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150 del 2011 (disposizione speciale rispetto
all'art. 2729 c.c.) realizza un'agevolazione probatoria mediante lo
strumento di una parziale inversione dell'onere della prova: l'attore deve
fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di
gravità, precisione e concordanza, devono rendere plausibile l'esistenza
della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in
ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie
discriminatoria; il rischio della permanenza dell'incertezza grava sul
convenuto, tenuto a provare l'insussistenza della discriminazione una volta
che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla
desumere.» (Cass. n. 9870/2022).
4.4.2.- Quanto alla tutela risarcitoria, invocata in via esclusiva nel
presente procedimento, va osservato che essa è costantemente ricondotta
all'ambito applicativo dell'art. 2043 cod. civ., a fronte a condotte attive
o omissive discriminatorie che assurgono a fatti illeciti.
La persona lesa può agire, secondo le regole generali, per il risarcimento
del danno e, ai fini dell'accoglimento della azione risarcitoria, è tenuta a
dimostrare i requisiti oggettivi e soggettivi dell'illecito aquiliano e,
quindi, sia l'esistenza di un pregiudizio effettivo qualificabile come
ingiusto, sia la riconducibilità del danno, sotto il profilo eziologico, a
una condotta intenzionale o quanto meno colposa dell'agente, in quest'ultimo
caso nelle diverse declinazioni della colpa, anche soltanto lieve, generica
e specifica.
La natura della situazione soggettiva azionata, in quanto afferente ai
diritti inviolabili della persona, costituzionalmente garantiti, per
affermazione ormai consolidata, implica che in caso di lesione sorga in capo
al soggetto offeso anche il diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., secondo costante giurisprudenza di
questa Corte (tra molte, Cass. Sez. U. n. 4063/2010; Cass. n. 24585/2019;
Cass. n. 29206/2019; Cass. n. 4723/2023), a prescindere dalla circostanza
che il fatto lesivo integri o meno un reato.
5.1.- Tanto premesso, quanto al quadro normativo di riferimento, va esclusa
in diritto la correttezza del ragionamento giuridico sviluppato dalla Corte
di appello, nella statuizione pronunciata nei confronti del Comune di
(omissis) per quanto attiene alla condotta accertata ed alla condanna
risarcitoria accolta nei suoi confronti a far data dall'inizio dell'anno
2001, perché la decisione impugnata non risulta avere fatto applicazione
dei principi enunciati e non risulta avere rettamente individuato gli
elementi costitutivi della fattispecie discriminatoria ascritta all'ente
pubblico a titolo colposo e gli elementi sulla scorta dei quali ha accolto
la domanda risarcitoria, con violazione di legge.
5.2.- Va rammentato, in proposito -come risultata incontestato in atti ed
accertato dalla Corte di appello- che: l'acquisto dell'immobile da parte di
P.M.L. avvenne il (omissis) , con atto nel quale era indicato che il
fabbricato non prevedeva strutture per il superamento delle barriere
architettoniche e che vi era un impegno ad eliminarle, oltre che era in
corso la pratica per la sanatoria; in epoca successiva all'acquisto vennero
rilasciati dal Comune la concessione edilizia in sanatoria n. (omissis) ed
il permesso di agibilità il (omissis) e solo quest'ultimo venne annullato
dal TAR Lecce nel 2019.
A fronte di queste circostanze, la Corte di appello ha ravvisato la
responsabilità solidale del Comune per avere rilasciato la concessione
edilizia in sanatoria, prima, ed il permesso di agibilità, poi, malgrado
l'edificio realizzato dalla (omissis) SRL non fosse conforme alle
prescrizioni di cui alla legge numero 13 del 1989, applicabile alla
fattispecie, così conferendo "una veste di apparente legittimità alla
condotta omissiva illecita posta in essere dalla suddetta società,
favorendone la mancata cessazione e consentendo la protrazione dei suoi
effetti lesivi", e non provata dal Comune l'assenza di colpa e lo ha
condannato al risarcimento in misura percentuale assommante al 50%, e ciò,
nonostante la Corte di appello abbia implicitamente convenuto sul fatto che
-come sostenuto dal Comune in propria difesa- questi non era tenuto a nessun
intervento volto all'abbattimento delle barriere architettoniche.
5.3.- Orbene, come si evince dalla motivazione, la Corte di appello ha
effettuato una falsa applicazione della L. n. 67 del 2006, art. 2,
consistente nella sussunzione della fattispecie concreta in una
qualificazione giuridica che non le si addice (Cass. n. 640/2019; Cass. n.
23851/2019), perché non ha riscontrato la presenza degli elementi normativi
integranti la fattispecie della "discriminazione indiretta" a carico
del Comune.
Invero, il comportamento pregiudizievole -la realizzazione e la mancata
eliminazione delle barriere architettoniche- non è stato posto in essere
dall'ente pubblico mediante l'adozione degli atti amministrativi in
questione, intervenuti solo in epoca successiva alla costruzione e solo in
parte annullati, e non risulta evidenziato lo svantaggio che sarebbe
conseguito per il disabile a seguito dello specifico comportamento
dell'ente, svantaggio che costituisce elemento costitutivo caratterizzante
la fattispecie di cui alla L. n. 67 del 2006, art. 2: la disposizione in
esame non risulta essere stata rettamente applicata con conseguente
fondatezza del primo motivo.
5.4.- Piuttosto, la Corte di appello sembra avere ravvisato un concorso
colposo del Comune nella condotta discriminatoria attuata, ben prima, da
altri soggetti proprio mediante la realizzazione e la mancata eliminazione
di barriere architettoniche, sul quale ha fondato la pronuncia per
responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. per avere conferito "una veste
di apparente legittimità alla condotta omissiva illecita posta in essere
dalla suddetta società, favorendone la mancata cessazione e consentendo la
protrazione dei suoi effetti lesivi".
Anche sotto questo profilo, la decisione è viziata.
Innanzi tutto, va osservato che non può condividersi il rilievo dato all'"apparente"
legittimità di un comportamento o di una situazione perché la stessa
legittimità di un comportamento o di una situazione non costituisce in sé
ostacolo all'attuazione delle disposizioni immediatamente precettive della
L. n. 67 del 2006 (cfr. Cass. n. 18762/2016; Cass. n. 3842/2021), come già
ricordate prima.
Quindi, va ribadito che il riconoscimento del carattere discriminatorio di
"una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un
comportamento apparentemente neutri" in ogni caso "presuppone la verifica
della sussistenza degli elementi soggettivi e oggettivi dell'illecito
aquiliano ai sensi dell'art. 2043 c.c., al quale va ricondotta la
fattispecie prevista dalla L. n. 67 del 2006, art. 3, comma 3" (cfr.
Cass. n. 18762/2016; Cass. n. 3691/2020).
Inoltre va considerato che, qualora, l'evento dannoso possa essere
ipoteticamente ricondotto ad una pluralità di cause, vanno applicati i
principi che regolano l'accertamento del nesso causale a fronte di domanda
risarcitoria in tema di responsabilità civile aquiliana, secondo i quali il
nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per
il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si
sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della
cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie
causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano -ad una
valutazione ex ante- del tutto inverosimili, con la precisazione che,
nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della
preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel
processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio"
(Cass. Sez. U. n. 576 del 11/01/2008), ciò perché "In tema di illecito
aquiliano perché rilevi il nesso di causalità tra una condotta e l'evento
lesivo deve ricorrere, secondo la combinazione dei principi della "condicio
sine qua non" e della causalità efficiente, la duplice condizione che si
tratti di una condotta antecedente necessaria dell'evento e che la stessa
non sia poi neutralizzata dalla
sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento stesso."
(Cass. n. 23915 del 22/10/2013; cfr. Cass. n. 23197 del 27/09/2018), tenendo
conto che "lo standard di cd. certezza probabilistica in materia civile
non può essere ancorata esclusivamente alla cd. probabilità quantitativa
della frequenza di un evento, che potrebbe anche mancare o essere
inconferente, ma va verificato, secondo la cd. probabilità logica,
nell'ambito degli elementi di conferma, e, nel contempo, nell'esclusione di
quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto." (Cass.
n. 47 del 03/01/2017); pertanto, "il giudice di merito è tenuto,
dapprima, a eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno
probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative
concretamente identificabili, attesa l'impredicabilità di un'aritmetica dei
valori probatori), poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più
probabili e, infine, a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo
un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli
elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste
di probabilità prevalente" (cfr. Cass. n. 18584/2021; Cass. n.
19033/2021; Cass. n. 25884/2022).
Ne consegue che la seconda censura, assorbite le ulteriori questioni
proposte nel motivo in merito alla quantificazione del danno, deve essere
accolta perché la Corte di appello non ha fatto applicazione dei plurimi
principi ricordati ed ha violato le disposizioni in tema di responsabilità
aquiliana. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Come affermato in giurisprudenza, “i
provvedimenti limitativi della circolazione stradale sono
espressione di scelte ampiamente discrezionali, non
sindacabili in sede giurisdizionale se non per manifesta
illogicità o irragionevolezza. La regolamentazione del
traffico è una disciplina funzionale alla pluralità degli
interessi pubblici meritevoli di tutela ed alle diverse
esigenze, e sempre che queste rispondano a criteri di
ragionevolezza il cui sindacato va compiuto dal giudice
amministrativo, in ossequio al principio di separazione dei
poteri ed alla tassatività dei casi di giurisdizione di
merito, ab externo nei limiti della abnormità”.
---------------
I commi 2 e 5, art. 381, del regolamento di esecuzione e di
attuazione del nuovo codice della strada, adottato con
d.P.R. n. 495/1992, disciplinano
sia il
rilascio dell’apposita autorizzazione in deroga per la
circolazione e la sosta dei veicoli a servizio delle persone
invalide con capacità di deambulazione sensibilmente
ridotta, previo specifico accertamento sanitario (comma 2)
- sia l’adeguamento della segnaletica stradale in maniera
“personalizzata” consentendo «nei casi in cui ricorrono
particolari condizioni di invalidità della persona
interessata» di assegnargli con apposita ordinanza e a
titolo gratuito «un adeguato spazio di sosta individuato da
apposita segnaletica indicante gli estremi del “contrassegno
invalidi” del soggetto autorizzato ad usufruirne» (comma 5).
Quanto allo spazio di sosta “personalizzato”, è stato
affermato che “Presupposto di applicabilità della norma,
infatti, è esclusivamente la mancanza di disponibilità di
uno spazio di sosta privato accessibile, nonché
utilizzabile, ovvero il fatto che l’istanza si riferisca ad
una zona «ad alta densità di traffico», con riferimento alla
quale è di agevole comprensione la compromissione della
qualità della vita che rischia di rivenirne al soggetto
affetto da difficoltà deambulatorie cui non si consenta un
accesso agevolato ad esempio, al luogo di abitazione,
dimora, ovvero di lavoro”.
---------------
5 - Va, poi, riscontrata l’infondatezza del gravame (rectius:
del ricorso introduttivo) anche con riferimento alle censure
incentrate sulla carenza istruttoria e sullo sviamento di
potere da cui sarebbe affetta l’ordinanza n. -OMISSIS-.
5.1 - Come affermato in giurisprudenza, “i provvedimenti
limitativi della circolazione stradale sono espressione di
scelte ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede
giurisdizionale se non per manifesta illogicità o
irragionevolezza. La regolamentazione del traffico è una
disciplina funzionale alla pluralità degli interessi
pubblici meritevoli di tutela ed alle diverse esigenze, e
sempre che queste rispondano a criteri di ragionevolezza il
cui sindacato va compiuto dal giudice amministrativo, in
ossequio al principio di separazione dei poteri ed alla tassatività dei casi di giurisdizione di merito, ab externo
nei limiti della abnormità (Cons. Stato, sez. VI, 08.04.2022, n. 2599; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, n. 2031/2017;
id., n. 2255/2015)” - Consiglio di Stato, sez. V, sent.
07/03/2023 n. 2366.
Nel caso in esame, si osserva che parte ricorrente non
contesta che la misura adottata sia abnorme o irragionevole
rispetto alla finalità di assicurare un più agevole accesso
alle proprietà private pregiudicate da “soste non
autorizzate” (secondo quanto emerso anche all’atto del
sopralluogo del 19/11/2020 - all. 003: 04 prod. Comune del
18/05/2021).
Inoltre, la documentazione fotografica versata in
atti rivela che –effettivamente– il divieto di sosta è
funzionale ad un agevole accesso a (nonché ad un’agevole
uscita da) la stradina adiacente la proprietà dei
ricorrenti, cui sarebbe di oggettivo ostacolo la presenza di
auto, anche tenuto conto della ridotta larghezza della sede
stradale.
5.2 - Con riferimento, poi, all’avvenuta presentazione da
parte della -OMISSIS- della richiesta di uno stallo di sosta
“personalizzato”, si osserva quanto segue.
Ai sensi del comma 2 dell’art. 381 del regolamento di
esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada,
adottato con d.P.R. n. 495/1992, come modificato dal d.P.R.
151/2012, “Per la circolazione e la sosta dei veicoli a
servizio delle persone invalide con capacità di
deambulazione impedita, o sensibilmente ridotta, il comune
rilascia apposita autorizzazione in deroga, previo specifico
accertamento sanitario. L'autorizzazione è resa nota
mediante l'apposito contrassegno invalidi denominato:
"contrassegno di parcheggio per disabili" conforme al
modello previsto dalla raccomandazione n. 98/376/CE del
Consiglio dell'Unione europea del 04.06.1998 di cui alla
figura V.4.”.
Il successivo comma 5 dispone: “Nei casi in cui ricorrono
particolari condizioni di invalidità della persona
interessata, il comune può, con propria ordinanza, assegnare
a titolo gratuito un adeguato spazio di sosta individuato da
apposita segnaletica indicante gli estremi del "contrassegno
di parcheggio per disabili" del soggetto autorizzato ad
usufruirne (fig. II 79/a). Tale agevolazione, se
l'interessato non ha disponibilità di uno spazio di sosta
privato accessibile, nonché fruibile, può essere concessa
nelle zone ad alta densità di traffico, dietro specifica
richiesta da parte del detentore del "contrassegno di
parcheggio per disabili”.
Orbene, “Tali disposizioni disciplinano, quindi, sia il
rilascio dell’apposita autorizzazione in deroga per la
circolazione e la sosta dei veicoli a servizio delle persone
invalide con capacità di deambulazione sensibilmente
ridotta, previo specifico accertamento sanitario (comma 2);
sia l’adeguamento della segnaletica stradale in maniera
“personalizzata” consentendo «nei casi in cui ricorrono
particolari condizioni di invalidità della persona
interessata» di assegnargli con apposita ordinanza e a
titolo gratuito «un adeguato spazio di sosta individuato da
apposita segnaletica indicante gli estremi del “contrassegno
invalidi” del soggetto autorizzato ad usufruirne» (comma 5)”
- Consiglio di Stato, sez. II, sent. 29/10/2020 n. 6630.
Quanto allo spazio di sosta “personalizzato”, è stato
affermato che “Presupposto di applicabilità della norma,
infatti, è esclusivamente la mancanza di disponibilità di
uno spazio di sosta privato accessibile, nonché
utilizzabile, ovvero il fatto che l’istanza si riferisca ad
una zona «ad alta densità di traffico», con riferimento alla
quale è di agevole comprensione la compromissione della
qualità della vita che rischia di rivenirne al soggetto
affetto da difficoltà deambulatorie cui non si consenta un
accesso agevolato ad esempio, al luogo di abitazione,
dimora, ovvero di lavoro” - Consiglio di Stato cit.
Tanto evidenziato, si osserva che parte ricorrente si è
limitata a produrre in giudizio un modulo di richiesta di
stallo di sosta personalizzato privo di sottoscrizione e
neppure compilato, non corredato da documentazione atta a
comprovare l’esistenza di tutte le condizioni cui la
normativa subordina il riconoscimento della tutela
aggiuntiva rappresentata dallo stallo “ad personam”;
tale carenza non consente al Tribunale di apprezzare
l’esistenza di quelle condizioni che (sole) avrebbero potuto
indurre il Comune a contemperare in modo differente gli
interessi coinvolti nella decisione amministrava per la
quale è causa (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 05.06.2023 n. 3439 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
La sostituzione dei
componenti della commissione esaminatrice, in un pubblico
concorso, è facoltativa nei confronti di chi ha perso lo
"status" di dipendente, in base al quale era stato chiamato
a far parte della stessa commissione, se ciò avviene quando
la procedura concorsuale è ancora in atto […].
---------------
9. - L’accertata fondatezza dell’appello impone di esaminare
i motivi del ricorso non esaminati dal primo giudice e qui
riproposti ai sensi dell’art. 101, comma 2, del Codice del
processo amministrativo.
9.1. - Con il primo, gli originari ricorrenti in primo grado
deducono la violazione dell’art. 97 della Costituzione e del
principio di tipicità e legalità degli atti amministrativi
in quanto, nel corso della procedura, è venuto a cessare
l'incarico di responsabile dell'area tecnica, attribuito al
Sindaco del Comune di Siligo solo fino al 30.04.2019 (mentre
la commissione esaminatrice risulta aver concluso i lavori
in data 28.08.2019).
Per effetto della decadenza dall'incarico di un membro della
commissione, gli atti di concorso adottati successivamente
alla decadenza dovrebbero ritenersi viziati. Per analoghe
ragioni, è impugnato anche l’art. 13 del regolamento sui
concorsi del Comune di Siligo, nella parte in cui stabilisce
che i commissari rimangono in carica anche nel caso in cui
cessano dalla qualifica in base alla quale furono nominati.
9.1.2. Il motivo è infondato, dovendosi, nel caso di specie,
fare applicazione della consolidata giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato secondo la quale «la sostituzione dei
componenti della commissione esaminatrice, in un pubblico
concorso, è facoltativa nei confronti di chi ha perso lo
"status" di dipendente, in base al quale era stato chiamato
a far parte della stessa commissione, se ciò avviene quando
la procedura concorsuale è ancora in atto […]» (cfr. V,
25.02.2004, n. 764; VI, 03.05.2011, n. 2601).
...
10. - L’appello, in conclusione, va accolto e, previa
riforma della sentenza impugnata, ricorso in primo grado
deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.04.2021 n. 3436 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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