e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
 

NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-quesiti & pareri M.I.T.
13-utilità
- - -
DOSSIER
:
14-
ABBAINO
15-
ABUSI EDILIZI
16-ABUSI EDILIZI (tolleranza del 2%)

17-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
18-AGIBILITA'
19-AMIANTO
20-ANAC (già AVCP)
21
-APPALTI
22-ARIA
23-ASCENSORE
24-ASL + ARPA
25-ATTI AMMINISTRATIVI
26-ATTI AMMINISTRATIVI (abuso d'ufficio ed altri reati correlati con la P.A.)
27-ATTI AMMINISTRATIVI (accesso esposto e/o permesso di costruire e/o atti di P.G.)
28-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
29-ATTI AMMINISTRATIVI (P.E.C. - Posta Elettronica Certificata)
30-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
31-BARRIERE ARCHITETTONICHE
32-BOSCO
33-BOX
34-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
35-CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro - SBARRA/STANGA
36-CANNE FUMARIE e/o COMIGNOLI
37-CARTELLI STRADALI
38-CARTELLO DI CANTIERE - COMUNICAZIONE INIZIO LAVORI
39-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
40-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
41
-C.I.L. e C.I.L.A.
42
-COMPETENZE GESTIONALI
43
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
44-CONDIZIONATORE D'ARIA
45-CONDOMINIO
46
-
CONDONO EDILIZIO (4° - D.L. 69/2024)
47-CONSIGLIERI COMUNALI
48-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
49-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
50-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
51-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
52-DEBITI FUORI BILANCIO
53-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
54-DIA e SCIA
55-DIAP
56-DIRITTI di SEGRETERIA in MATERIA EDILIZIO-URBANISTICA
57-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
55-DISTANZA dai CONFINI
59-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA - DEMANIO MARITTIMO/LACUALE
60-DISTANZA dalla FERROVIA

61-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
62-DURC
63-EDICOLA FUNERARIA
64-EDIFICIO UNIFAMILIARE
65-ESPROPRIAZIONE
66-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
67-IMMEDIATA ESEGUIBILITA' DELIBERAZIONI di CONSIGLIO e GIUNTA COMUNALE
68-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
69-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
70-INCENTIVO PROGETTAZIONE (ora INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE)
71-INDUSTRIA INSALUBRE
72-L.R. 12/2005
73-L.R. 23/1997
74-L.R. 31/2014
75-LEGGE CASA LOMBARDIA
76-LICENZA EDILIZIA (necessità)
77-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
78-LOTTO INTERCLUSO
79-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
80-MOBBING
81-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
82-OPERE PRECARIE
83-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
84-PATRIMONIO
85-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
87-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
88-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
89-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
90-PERMESSO DI COSTRUIRE (commissione edilizia e/o paesaggio - parere)
91-PERMESSO DI COSTRUIRE (commissione paesaggio - nomina, compenso, ecc.)

92-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
93-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
94-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
95
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
96-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
97-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
98-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
99-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
100-PISCINE
101-PUBBLICO IMPIEGO
102-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
103-RIFIUTI E BONIFICHE
104-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
105-RUDERI
106-
RUMORE
107-SAGOMA EDIFICIO
108-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi) e SANATORIA SISMICA
109-SCOMPUTO OO.UU.
110-SEDIME (area di)
111-SEGRETARI COMUNALI
112-SEMINTERRATI
113-SIC-ZSC-ZPS - VAS - VIA
114-SICUREZZA SUL LAVORO
115
-
SILOS
116-SINDACATI & ARAN
117-SOPPALCO
118-SOTTOTETTI
119-SUAP
120-SUE
121-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
122-
TELEFONIA MOBILE
123-TENDE DA SOLE
124-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
125-TRIBUTI LOCALI
126-VERANDA
127-VINCOLO CIMITERIALE
128-VINCOLO IDROGEOLOGICO
129-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
130-VINCOLO STRADALE
131-VOLUMI TECNICI / IMPIANTI TECNOLOGICI

132-ZONA AGRICOLA
133-ZONA SISMICA E CEMENTO ARMATO

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link 1-BG - link 2-MI
link 3-CR
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2 - link 3-BG
link 4-MI

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
P.E.C. (indirizzi):
Registro I.P.A. – Indice delle PP.AA. e dei gestori dei pubblici servizi
Registro RE.G.IND.E. delle PP.AA. (Registro Generale degli Indirizzi Elettronici)
Registro I.N.I.-P.E.C. delle IMPRESE e PROFESSIONISTI
Registro I.NA.D. Indice Nazionale dei Domicili Digitali
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2 - inPA - Portale del Reclutamento
3
- mobilità
 
 
 

In questa home-page sono presenti oltre all'ultimo aggiornamento, che inizia appena qui sotto, anche i seguenti aggiornamenti pregressi:
 
    AGGIORNAMENTO AL 26.09.2024
AGGIORNAMENTO AL 23.09.2024 AGGIORNAMENTO AL 31.08.2024 (ore 23,59) AGGIORNAMENTO AL 26.08.2024

AGGIORNAMENTO AL 30.09.2024 (ore 23,59)

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAL’edificio abusivo va distrutto. La sua demolizione è un atto di ripristino. Non è una pena. Una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo chiude definitivamente la querelle.
L’ordine di demolizione di una costruzione illegale, previsto dalla legge italiana, ha natura di ripristino e non punitiva. In sostanza, non è una pena, ma il restauro della situazione ambientale precedente l’abuso.

Lo ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. I, con la decisione 12.09.2024 n. 35780/18, pubblicata il 16.09.2024.
La vicenda.
Si tratta di un caso di un magazzino costruito senza permesso, come confermato dai tribunali italiani. Per questo, il proprietario era stato condannato e non poteva ragionevolmente fare affidamento sulla legalità della costruzione.
La Corte, esaminando il quadro normativo nazionale sui permessi di costruzione, la regolarizzazione e i condoni, e valutando il rapporto tra regolamenti edilizi e procedimenti penali, osserva che l'ordine di demolizione era stato emesso ai sensi dell'art. 7, comma 9, della legge n. 47 del 1985 (incorporato nell'art. 31, comma 9, del Testo Unico dell'Edilizia).
La sentenza
Testualmente, si legge: «(…) La Corte rileva che, secondo la pertinente giurisprudenza interna (…), nell'ambito della risposta complessiva del sistema interno alle violazioni edilizie, l'ordine di demolizione emesso con una condanna è identico nell'oggetto e nella natura all'ordine di demolizione emesso dall'autorità amministrativa, che ha il diritto di ordinare la demolizione di costruzioni non autorizzate, indipendentemente dal fatto che sia stato avviato o concluso un procedimento penale».
Infatti, lo scopo di un ordine di demolizione è proprio quello di ripristinare il sito al suo stato precedente, e tali ordini, secondo la Corte, non possono essere soggetti a prescrizione. Ciò é necessario per garantire l'efficacia delle norme edilizie e dissuadere altri potenziali trasgressori. E il tempo trascorso non può modificare questa conclusione.
La forza della pronuncia
La Corte sottolinea, inoltre, che un ordine di demolizione é mantenuto anche se l'edificio non appartiene più all'autore del reato (ad esempio a enti giuridici, successori o terzi). Evidenzia, ancora la Corte, che l'ordine di demolizione viene mantenuto in caso di morte dell'autore del reato o di estinzione del reato dopo la condanna, per ragioni diverse dalla concessione di un permesso retroattivo o dall'amnistia.
Più precisamente: «A parere della Corte tali circostanze sono sintomatiche della natura riparativa degli ordini di demolizione, che sembrano volti a rimuovere le costruzioni abusive indipendentemente dalla punizione dell'autore del reato, al fine di garantire il rispetto dell'interesse pubblico all'ordinato utilizzo di terreno violato da costruzioni abusive o illegali allo scopo di riportare il terreno alla sua condizione originaria».
Nessuna scappatoia
E non rileva quanto il ricorrente lamenta e cioè che la demolizione del magazzino costituirebbe un’ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di proprietà ai sensi dell’articolo 1 del protocollo n. 1 alla Convenzione sui Diritti dell’Uomo, che recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno potrà essere privato dei suoi beni se non nell'interesse pubblico e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale».
Infatti tali disposizioni: «(…) Non pregiudicano tuttavia in alcun modo il diritto di uno Stato di applicare le leggi che ritiene necessarie per controllare l'uso dei beni in conformità con l'interesse generale o per garantire il pagamento di tasse o altri contributi o sanzioni» (articolo ItaliaOggi del 24.09.2024).
---------------
DECISIONE

I FATTI
1. Il ricorrente, il signor Ce.Lo., è un cittadino italiano nato nel 1946 e residente a Balestrate, Palermo. È stato rappresentato dinanzi alla Corte dalla signora S. Sp., avvocato esercente a Palermo.

2. I fatti del caso, come esposti dal ricorrente, possono essere riassunti come segue.

  1. La condanna del ricorrente per il reato di abuso edilizio e l'amnistia edilizia concessa dal comune

3. Nel marzo 1995 gli ufficiali della polizia municipale di Partinico effettuarono un'ispezione su un terreno di proprietà del ricorrente e constatarono che su di esso era stato costruito un magazzino di 200 metri quadrati.

4. Successivamente gli ufficiali hanno accertato che l'edificio era stato costruito senza permesso di costruire.

5. Il 30.03.1995 il ricorrente ha presentato istanza di condono edilizio ai sensi dell'articolo 39 della legge 23.12.1994, n. 724 (vedi paragrafo 33 infra), dichiarando, tra l'altro, che la costruzione abusiva era stata ultimata dopo il 15.03.1985, vale a dire tra novembre e dicembre 1993. Ha presentato la documentazione pertinente e ha pagato l'oblazione come richiesto dalla normativa pertinente (vedi paragrafi 30 e seguenti infra).

6. Il 03.10.1997 il pretore di Palermo, sezione distaccata di Partinico, ha dichiarato il ricorrente colpevole, tra l'altro, del reato di abuso edilizio di cui all'articolo 20, lettera b), della legge 28.02.1985, n. 47 (vedi paragrafo 21 infra). Il pretore ha accertato che egli aveva edificato il magazzino senza permesso di costruire e che, contrariamente a quanto dichiarato ai fini dell'ottenimento del condono edilizio, la costruzione era stata effettivamente ultimata dopo il 1993. Per tale motivo, egli non poteva beneficiare del condono edilizio poiché, ai sensi della normativa pertinente (vedi paragrafo 33 infra), tale misura poteva essere concessa solo se l'abuso edilizio era stato ultimato prima del 31.12.1993 (vedi paragrafo 31 infra).

7. Il giudice ha condannato il ricorrente a una pena complessiva sospesa di due mesi di detenzione (arresto) e a una multa (ammendadi 8.000.000 di lire italiane (circa 4.130 euro). Inoltre, il giudice ha ordinato la demolizione della costruzione abusiva ai sensi dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23 di seguito).

8. Il 19.10.1998 il Comune di Partinico accolse il condono edilizio richiesto dal ricorrente. In data imprecisata la costruzione venne trascritta nel catasto. 

9. Il ricorrente ha proposto ricorso contro la sentenza di condanna pronunciata dal giudice di Palermo, chiedendo l'estinzione del reato di abuso edilizio, in quanto era stata concessa una sanatoria edilizia (cfr. paragrafi 29-33 infra).

10. L'08.03.1999 la Corte d'appello di Palermo ridusse l'importo della multa, ma confermò la condanna del ricorrente e l'ordine di demolizione. La corte ritenne "irrilevante" l'amnistia concessa dal comune, in quanto non sussistevano le condizioni rilevanti richieste dalla legge (vedi paragrafo 33 infra). Di conseguenza, il magazzino non poteva essere regolarizzato. La corte stabilì inoltre che, in caso di condanna per il reato di edilizia abusiva ai sensi dell'articolo 20(b) della legge n. 47 del 1985, il giudice era tenuto a ordinare la demolizione della costruzione ai sensi dell'articolo 7(9) di tale legge.

11. Il 30.01.2001, su richiesta del ricorrente, il comune di Partinico ha rilasciato un certificato di agibilità (cfrparagrafo 34 infra) per il magazzino. Il ricorrente utilizzava il magazzino nell'ambito di attività agricole.

12. In una data non specificata, la condanna del ricorrente divenne definitiva.

  1. Esecuzione dell'ordine di demolizione e procedimento di revisione (incidente di esecuzione )

13. Il 25.11.2015 il sostituto procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo ha notificato al ricorrente un'ingiunzione demolire emessa dalla Corte d'appello di Palermo l'08.03.1999. In particolare, gli è stato intimato di demolire il magazzino abusivo entro novanta giorni. Il pubblico ministero lo ha inoltre avvisato che, se non si fosse conformato volontariamente, le autorità avrebbero eseguito l'ingiunzione a sue spese.

14. Il 24.02.2016 gli ufficiali della polizia municipale effettuarono un'ulteriore ispezione del terreno del ricorrente e constatarono che la costruzione non era stata demolita. 

15. Il 22.06.2016 il ricorrente ha depositato presso la Corte d'appello di Palermo una richiesta di revisione dell'ordinanza esecutiva.
Basandosi su una sentenza del Tribunale di Asti del 03.11.2014 che affermava la natura "penale" degli ordini di demolizione (vedi paragrafo 53 infra), ha chiesto al tribunale di sospendere l'esecuzione dell'ordinanza di demolizione. Ha sostenuto che erano trascorsi più di dieci anni dalla sua condanna e che l'ordinanza di demolizione, che poteva essere considerata una pena, era pertanto prescritta ai sensi dell'articolo 173 del codice penale (vedi paragrafo 38 infra). Sottolineando che l'ordinanza di demolizione era stata eseguita sedici anni dopo la sua emissione e che nel frattempo il comune aveva concesso un condono edilizio, il ricorrente ha sostenuto che non vi era più un interesse pubblico nella demolizione e che le azioni del comune erano state incoerenti con la sentenza (in particolare il rilascio di un certificato di agibilità, vedi paragrafo 11 sopra).

16. Il 30.08.2016 la Corte d'appello di Palermo, in qualità di giudice dell'esecuzione, ha rigettato la domanda del ricorrente.
La Corte ha innanzitutto ribadito che il condono edilizio non avrebbe potuto essere concesso in assenza dei presupposti richiesti dalla legge. In secondo luogo, richiamando una sentenza della Corte di cassazione (n. 49331 del 2015, v. infra, paragrafi 44 e ss.), ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione, più che una sanzione, costituisse una misura riparatoria volta a riportare il sito o la costruzione alle condizioni precedenti. In quanto tale, essa usciva dall'ambito di applicazione dell'articolo 7 della Convenzione e, di conseguenza, dal termine di prescrizione di cui all'articolo 173 del codice penale.
Infine, la Corte d'appello ha osservato che il certificato di agibilità, in considerazione della sua diversa funzione (v. infra, paragrafo 34), era irrilevante rispetto alla normativa edilizia o urbanistica.
 

17. Il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione, ribadendo le sue argomentazioni e aggiungendo che la Corte d'appello non aveva ritenuto che il lungo lasso di tempo trascorso dalla sua condanna, unitamente alla condotta del comune, avesse fatto sorgere un legittimo affidamento sulla legittimità del magazzino, che doveva essere soppesato con l'assenza di un attuale interesse pubblico alla sua demolizione. 

18. Con ordinanza n. 2781 del 20.01.2017, depositata in cancelleria il 23.01.2018, la Corte di cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso del ricorrente, accogliendo la motivazione del giudice di merito e affermando che la sentenza di abuso edilizio era divenuta definitiva, nonostante l'amnistia concessa dal Comune.

19. Al momento in cui il ricorso è stato depositato presso la Corte, il magazzino non era ancora stato demolito. Il ricorrente sembra aver continuato a utilizzarlo in relazione ad attività agricole. Ad oggi, non ha informato la Corte di eventuali cambiamenti nella situazione.

QUADRO GIURIDICO E PRASSI RILEVANTI

  1. Quadro giuridico rilevante

    1. Considerazioni preliminari

20. All'epoca dei fatti, il quadro legislativo italiano rilevante era costituito principalmente dalle disposizioni della legge n. 47 del 28.02.1985 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie ).
Il decreto presidenziale n. 380 del 06.06.2001 (
Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – “Testo unico delle leggi edilizie”) ha codificato le disposizioni esistenti in materia di urbanistica e regolamentazione edilizia, tra cui la maggior parte delle disposizioni della legge n.
47 del 1985 (vedi GIEMSrl e altri contro Italia (merito) [GC], nn. 1828/06 e altri 2, § 105, 28.06.2018).
Per la maggior parte, le disposizioni rilevanti della legge n. 47 del 1985 sono state incorporate nel Testo unico delle leggi edilizie senza modifiche; qualora siano state apportate modifiche, queste sono indicate nelle note a piè di pagina dei relativi articoli.
 

  1. Legge 28.02.1985, n. 47 e Testo Unico delle Leggi sull'Edilizia (D.P.R. 06.06.2001, n. 380)

21. L'articolo 4 della legge n. 47 del 1985, nelle parti pertinenti recepito con lieve modifica nell'articolo 27 del Testo Unico delle Costruzioni [1], ha designato il sindaco quale autorità incaricata di vigilare sulle attività urbanistiche ed edilizie nel territorio comunale per garantirne la conformità alle leggi e ai regolamenti, alle disposizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità di costruzione stabilite nei permessi di costruire.
22. Le parti rilevanti dell'articolo 7 della legge n. 47 del 1985, recepite senza modifiche nell'articolo 31 del Testo Unico delle Costruzioni [2], disponendo quanto segue:

   “1. Sono considerati interventi edilizi eseguiti in violazione del permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un fabbricato totalmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di destinazione d'uso da quello oggetto del permesso stesso, ovvero la realizzazione di volumi edificabili eccedenti i limiti indicati nel progetto e che costituiscano un fabbricato o parte di esso separatamente individuabile ed utilizzabile.  
   2. 
Il sindaco, accertato l'esecuzione di lavori edilizi senza permesso di costruire, in violazione dell'autorizzazione o con variazioni essenziali da quanto previsto dal permesso, ne ordina la demolizione.  
   3. 
Se il responsabile della costruzione abusiva non procede alla demolizione o al ripristino del sito entro novanta giorni dal provvedimento di demolizione, la costruzione e l'area di sedime ... sono acquisite senza indennizzo dal comune ... 
   4. La mancata ottemperanza all'ordine di demolizione entro il termine stabilito nel comma precedente costituisce motivo di presa di possesso [dell'immobile] e di trascrizione nel registro immobiliare, che deve essere effettuata gratuitamente. 
   5. Il sindaco ordina la demolizione dell'opera edilizia incorporata a spese del responsabile, a meno che una deliberazione del consiglio comunale non dichiari l'esistenza di un prevalente interesse pubblico e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali. 
   ...
   8. Se [il sindaco] non provvede ... il capo della Giunta regionale ... adotta i provvedimenti richiesti, dandone contestuale comunicazione all'autorità giudiziaria competente per l'esercizio dell'azione penale. 
   ...

23. La parte rilevante dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985, che è stata incorporata senza modifiche nell'articolo 31 § 9 del Testo Unico sull'edilizia, prevedeva quanto segue:

   “In caso di condanna per il reato di cui all'articolo 20 della presente legge relativamente all'opera abusiva di cui al presente articolo, il giudice ordina la demolizione dell'opera se non è stata ancora eseguita diversamente.

24. L'articolo 17 della legge n. 47 del 1985, convertito senza modifiche nell'articolo 46 del Testo Unico dell'edilizia, nelle parti rilevanti prevedeva che i contratti di compravendita aventi ad oggetto edifici o parti di edifici realizzati dopo il 17.03.1985 erano nulli se non menzionavano gli estremi del relativo permesso di costruire o del condono.

25. L'articolo 20, lettera b), della legge n. 47 del 1985, convertito senza modifiche nell'articolo 44, lettera b), del Testo unico dell'edilizia, prevedeva la punizione per chi eseguiva lavori edilizi senza o in violazione del permesso di costruire con l'arresto fino a due mesi con la multa da lire 10.000.000 (5.164 euro) a lire 100.000.000 (51.645 euro).

  1. Regolarizzazione abusivismo edilizio

26. In base al diritto interno, l'abusivismo edilizio può essere regolarizzato mediante il rilascio di un permesso /concessione in sanatoria o di un condono edilizio .  

27. Il rilascio dell'autorizzazione retroattiva è disciplinato dall'articolo 36 del Testo Unico delle Costruzioni, che recepisce, con modificazioni [3], articolo 13 della legge n. 47 del 1985, vigente all'epoca dei fatti.

28. L'autorizzazione retroattiva è concessa per sanare le violazioni “formali”, vale a dire i lavori edili che, pur essendo realizzati in assenza o in violazione del permesso di costruire, sono conformi alle norme edilizie vigenti al momento della costruzione e al momento della presentazione della domanda di doppia conformità.

29. Ai sensi dell'articolo 22(1) della legge n. 47 del 1985, recepito con modificazioni nell'articolo 45 del Testo Unico sull'edilizia, la prosecuzione dei reati edilizi è sospesa fino al completamento delle procedure di regolarizzazione. Ai sensi dell'articolo 22(3) della legge n. 47 del 1985, il rilascio dell'autorizzazione retroattiva estingue le contravvenzioni previste dalle norme urbanistiche applicabili. 

30. I condoni edilizi sono misure di natura eccezionale introdotte da specifiche leggi nazionali. A differenza dell'autorizzazione retroattiva, la concessione del condono non è subordinata alla conformità dell'opera edilizia alle norme in materia e può pertanto essere concessa per regolarizzare violazioni "sostanziali", purché siano rispettate le condizioni stabilite dalla legge di condono pertinente e venga versata una tassa di condono (oblazione ). Inoltre, i condoni edilizi sono misure temporanee in quanto si applicano solo alle opere edili completate prima di una certa data. 

31. La prima sanatoria edilizia fu introdotta dall'articolo 31 della legge n. 47 del 1985, che prevedeva che i proprietari di opere edilizie realizzate senza o in violazione di un permesso di costruire potessero presentare domanda di sanatoria a condizione, tra l'altro, che i lavori fossero stati ultimati prima di una certa data (01.10.1983).

32. L'articolo 38(2) della legge n. 47 del 1985 prevedeva che il reato di costruzione abusiva punibile ai sensi dell'articolo 20 della legge e qualsiasi altro reato connesso fosse estinto (vedere paragrafo 21 sopra) a condizione che la richiesta di amnistia ai sensi dell'articolo 31 della legge fosse presentata entro il termine perentorio e che fosse pagata la relativa tassa.

33. La seconda amnistia edilizia [4] è stato introdotto dall'art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724, che ha stabilito le condizioni alle quali le costruzioni abusive completate prima del 31.12.1993 potevano beneficiare di una sanatoria. Se tali condizioni fossero state soddisfatte, si sarebbero potute applicare le disposizioni degli artt. 31 e seguenti della legge n. 47 del 1985, e la sanatoria avrebbe avuto i medesimi effetti (tra cui l'estinzione dei reati edilizi).

  1. Certificate of fitness for use (certificato di agibilità)

34. Ai sensi dell'articolo 220 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265 [5] e l'articolo 107 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Testo unico degli enti locali), i governatori dei comuni possono rilasciare certificati di agibilità per gli edifici ad uso non residenziale, a condizione che siano rispettate le relative condizioni di sicurezza degli edifici.

  1. Revisione di un ordine di esecuzione

35. L'articolo 665 del codice di procedura penale contiene disposizioni relative alle funzioni del giudice dell'esecuzione .  

36 . Ai sensi dell'articolo 666 § 1 del codice di procedura penale, che disciplina il procedimento in questione (incidente di esecuzione ), il giudice dell'esecuzione agisce su richiesta del pubblico ministero, dell'interessato o del suo rappresentante.  

37. La validità o l'esecutività di una condanna possono essere contestate mediante opposizione all'esecuzione ai sensi dell'articolo 670 § 1 del codice di procedura penale (“Questioni sul titolo esecutivo” ). Se l'opposizione è accolta, il giudice dell'esecuzione sospende l'esecuzione della sentenza e ordina i successivi provvedimenti necessari.

  1. Altre disposizioni nazionali rilevanti

38 . Le parti rilevanti dell'articolo 173 del codice penale (“Estinzione delle pene dell'arresto e dell'ammenda per decorso del tempo) recitano come segue:

   “1. Le pene dell’arresto e dell’ammenda si estinguono dopo un periodo di cinque anni .  
   2. Se alla sanzione pecuniaria si aggiunge la detenzione, ai fini dell'estinzione di entrambe le pene si terrà conto solo della scadenza del termine stabilito per la detenzione.
   3. Il punto di partenza è determinato ai sensi dell'[articolo 172 § 3].
 

39. Ai sensi dell'articolo 172 § 3 del codice penale, il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla data in cui la condanna è divenuta definitiva o dalla data in cui il condannato è evaso dalla pena dopo la sua esecuzione.

  1. Pratica nazionale rilevante

    1. Giurisprudenza della Corte Costituzionale

40. Con ordinanza n. 33 del 18.01.1990, la Corte costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 nella parte in cui richiedeva l'emissione di un ordine di demolizione nell'ambito di un procedimento penale quando l'ordine di demolizione non era ancora stato eseguito con ordine del comune (vedi paragrafo 23 sopra). Sebbene la Corte abbia ritenuto la questione manifestamente infondata, ha ritenuto che l'ordine di demolizione fosse un provvedimento amministrativo emesso dal giudice in sostituzione dell'amministrazione locale quando quest'ultima non vi aveva provveduto. 

41. Con ordinanza n. 56 del 09.03.1998, la Corte costituzionale ha ribadito che l'ordinanza di demolizione emessa dal giudice penale con condanna per il reato di abusivismo edilizio ha una «funzione integrativa» nell'assicurare l'efficacia delle sanzioni amministrative non ancora eseguite dall'autorità amministrativa, e che si tratta di una sanzione amministrativa e non di una pena accessoria o di una sanzione penale atipica, secondo la consolidata giurisprudenza delle sezioni penali della Corte di cassazione.
A tale riguardo, la Corte costituzionale ha inoltre ritenuto che l'ordinanza di demolizione dovesse essere revocata qualora risultasse incompatibile con una diversa decisione adottata dall'amministrazione; a tal fine, essa poteva essere riesaminata in sede esecutiva (cfr. infra, paragrafo 48).
  

  1. Giurisprudenza della Corte di Cassazione

           (a)  Giurisprudenza delle sezioni penali della Corte di Cassazione

42. La Corte plenaria di Cassazione, nella sentenza n. 15 del 24.07.1996, ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione emessa dal giudice ai sensi dell'art. 7, comma 9, della legge n. 47 del 1985 (cfr supra, paragrafo 23) avesse una finalità risarcitoria direttamente collegata all'esigenza di estirpare le conseguenze del reato di abuso edilizio. Ha poi precisato che l'ordinanza di demolizione, pur essendo un provvedimento amministrativo, faceva anche parte della pena. Pertanto, quando faceva parte di una pena penale, l'esecuzione era affidata al pubblico ministero, che poteva presentare richiesta al giudice dell'esecuzione. 

43 . In proposito, la Corte di Cassazione (anche nelle sentenze n. 8409 del 28.02.2007; n. 37836 del 28.07.2017 e 10.10.2022 n. 38104) ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione può essere pronunciata dal giudice solo in caso di condanna, mentre non può essere emessa in caso di archiviazione del procedimento per prescrizione del reato. In ogni caso, l'amministrazione comunale resta libera di adottare i provvedimenti opportuni nell'ambito del suo compito di garantire la conformità degli interventi edilizi alle norme edilizie (ai sensi degli articoli 4 e 7 della legge n. 47 del 1985, recepiti negli articoli 27 e 31 del Testo Unico delle Costruzioni, v. paragrafi 21 e 22 sopra). 

44. Con sentenza n. 49332 del 15.12.2015, nota come sentenza Delorier, la Corte di cassazione ha annullato la sentenza del tribunale di Asti del 03.11.2014 (cfr. paragrafi 15 supra e 53 infra), con cui tale tribunale aveva ritenuto che gli ordini di demolizione costituivano una sanzione penale ai sensi dell'articolo 6 § 1 e dell'articolo 7 della Convenzione e, in quanto tali, rientravano nell'ambito di applicazione dell'articolo 173 del codice penale, che prevedeva la prescrizione delle pene qualificate come penali nel diritto interno (cfr. paragrafo 38 supra). 

45. La Corte di cassazione ha esaminato in dettaglio le disposizioni di legge che disciplinano gli ordini di demolizione, anche alla luce della giurisprudenza pertinente della Corte (in particolare Engel e altri c. Paesi Bassi, 08.06.1976, serie A n. 22, e Öztürk c. Germania, 21.02.1984, serie A n. 73).
Ha osservato che la demolizione era una risposta obbligatoria alle violazioni più gravi delle norme edilizie; una volta accertato che era stata realizzata una costruzione abusiva, la demolizione doveva essere eseguita nei confronti di qualsiasi soggetto connesso alla costruzione (
in rem), indipendentemente dalla responsabilità personale del suo proprietario e dall'avvio di un procedimento penale nei suoi confronti; di conseguenza, poteva essere eseguita anche nei confronti di persone giuridiche e aventi causa del responsabile della costruzione.
Inoltre, un ordine di demolizione aveva la stessa natura, indipendentemente dall'autorità che lo emetteva, il comune o il giudice a seguito di una condanna; entrambi potevano emettere tali ordini in modo indipendente, poiché il coordinamento era garantito nella fase di esecuzione (vedere paragrafi 22-23 sopra).
 

46. ​​Per tali motivi, la Corte di cassazione ha concluso che i provvedimenti di demolizione costituiscono una misura di natura reale e di carattere ripristinatorio, volta a riportare un sito alle sue condizioni originarie; essi non costituiscono pertanto una sanzione e non sono soggetti a prescrizione.

47. Nella sentenza n. 41475 del 04.10.2016, la Corte di cassazione ha ribadito le proprie conclusioni sulla qualificazione degli ordini di demolizione come misura riparatoria, sottolineando che la normativa rilevante (vale a dire l'art. 7(9) della legge n. 47 del 1985, recepito nell'art. 31 § 9 del Testo unico sull'edilizia, vedi paragrafo 23 che precede) imponeva al giudice di emettere un ordine di demolizione se non era già stato eseguito altrimenti, vale a dire dal comune.
A parere della Corte di cassazione, ciò ha confermato l'identità di tali ordini, che conservavano la loro natura riparatoria anche quando erano disposti a seguito di una condanna per il reato di abuso edilizio (vedi paragrafo 21 che precede).

48 . La Corte di Cassazione ha costantemente osservato che, mentre il giudice ha il diritto di accertare autonomamente gli elementi costitutivi del reato di abusivismo edilizio (che può comportare una valutazione di legittimità del permesso di costruire, del nulla osta retroattivo o dell'amnistia concessi dall'amministrazione), la demolizione non può essere ordinata o mantenuta quando è incompatibile con i provvedimenti adottati dall'amministrazione.
In tal caso, anche dopo che la condanna sia passata in giudicato, l'ordinanza può essere revocata mediante richiesta di revisione del provvedimento esecutivo (cfr., 
tra le altre, le sentenze della Corte di Cassazione n. 47402 del 18.11.2014; n. 42699 del 07.07.2015; e 10.12.2018 n. 55028, v. paragrafo 36 sopra).
Inoltre, l'esecuzione di un ordine di demolizione può essere sospesa, a determinate condizioni, se è stata presentata all'amministrazione una richiesta di autorizzazione retroattiva o di amnistia dopo la condanna (vedere, tra le altre, le sentenze della Corte di Cassazione n. 16686 del 20.04.2009 e n. 35201 del 22.08.2016).
Pertanto, il coordinamento tra giurisdizione penale e autorità amministrativa è sempre assicurato nella fase esecutiva e il giudice dell'esecuzione è chiamato a valutare la compatibilità dell'ordine di demolizione con le decisioni dell'amministrazione, al fine di stabilire se e con quali mezzi l'ordine possa essere eseguito (vedere, 
tra le altre, la sentenza della Corte di Cassazione n. 702 del 14.02.2000).

49 . Inoltre, la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che l'ordinanza di demolizione prevista dall'art. 7(9) della legge n. 47 del 1985 (cfr. paragrafo 23 che precede), essendo misura riparativa reale identica per oggetto e natura ad un ordine di demolizione emesso da un'autorità amministrativa, sopravvive all'estinzione del reato (per cause diverse dal rilascio del nulla osta retroattivo o dall'amnistia, cfr. paragrafi 29 e 32 che precede) di abusivismo edilizio, nonché alla morte del condannato, poiché riguarda esclusivamente l'esistenza di abusivismo edilizio ed è diretta contro il bene e non contro la persona (in rem ) (cfr., tra le altre, sentenze della Corte di Cassazione n. 2674 del 18.09.2000; n. 7228 del 25.02.2011; n. 18533 dell'11.05.2011; e n. 41475 del 04.10.2016). 

50. In altri termini, secondo la Corte di Cassazione, l'ordinanza di demolizione, sia essa emanata dai giudici di giurisdizione penale o dall'autorità amministrativa, ha come finalità la rimozione di edifici abusivi e abusivi (vale a dire, di edifici realizzati senza autorizzazione o avvalendosi di un'autorizzazione che gli stessi giudici di giurisdizione penale, nella loro autonoma valutazione, ritengono invalida; v. par. 48 che precede), autonoma rispetto alla punizione dell'autore del reato, in quanto risponde all'interesse pubblico all'uso ordinato del suolo (v. sentenza della Corte di Cassazione n. 51044 del 03.10.2019). 

51. A seguito della citata sentenza Delorier, la giurisprudenza della Corte di cassazione è stata costante e ormai consolidata nel respingere l'applicazione della prescrizione delle pene all'ordinanza di demolizione, data la sua natura riparatoria (cfr., tra le altre, sentenze della Corte di cassazione n. 9949 del 20.01.2016; n. 35052 del 10.03.2016; n. 51044 del 09.11.2018; n. 11916 del 21.11.2018; n. 3979 del 28.01.2019; e n. 21198 del 18.05.2023).

           (b)  Giurisprudenza delle Sezioni civili della Corte di Cassazione

52. Con sentenza 22.03.2019 n. 8230, la Corte plenaria di Cassazione è intervenuta sulla questione, ampiamente dibattuta nella giurisprudenza interna, della validità dei contratti di compravendita relativi a costruzioni abusive.
La Corte ha affermato che, ai sensi della normativa interna in materia (v. supra, paragrafo 24), tale validità non è subordinata alla conformità della costruzione al permesso di costruire, ma solo all’esplicita menzione del permesso di costruire o della sanatoria nell’atto notarile di trasferimento inter vivos del titolo

Secondo 
la Corte di Cassazione, tale requisito costituisce solo uno degli strumenti scelti dal legislatore per contrastare la proliferazione di costruzioni abusive, atteso che l’interesse pubblico all’uso ordinato e sicuro del suolo nel rispetto delle norme edilizie è soddisfatto dalle altre misure previste in ambito amministrativo e penale e, nei casi più gravi, dalla misura riparatoria della demolizione.

  1. Altre pratiche nazionali rilevanti

53. Con sentenza del 03.11.2014, il Tribunale di Asti, in qualità di giudice dell'esecuzione, ha accolto un'opposizione avverso l'esecuzione di un ordine di demolizione emesso a seguito di una condanna per il reato di edilizia abusiva.
Il tribunale ha confermato che gli ordini di demolizione, nonostante la loro qualificazione nel diritto interno come misura riparatoria sulla base dei criteri stabiliti nella sentenza 
Engel e altri (citata sopra), costituivano una pena ai sensi della Convenzione a causa del loro scopo repressivo, della loro severità e della loro connessione con un reato penale.
Pertanto, secondo il tribunale, gli ordini di demolizione rientravano nell'ambito di applicazione della normativa sull'estinzione delle pene, incluso l'articolo 173 del codice penale sulla prescrizione (vedere paragrafo 38 sopra).
 

54. Tale decisione è stata poi annullata dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 49332 del 15.12.2015, nota come sentenza Delorier, v. paragrafi 44 e ss. sopra). 

RECLAMI

55. Invocando l'articolo 7 della Convenzione, il ricorrente lamentava la violazione del principio di legalità, poiché l'ordine di demolizione del suo magazzino, che a suo avviso equivaleva a una sanzione, non poteva essere eseguito dopo la scadenza del termine di prescrizione rilevante. 

56. Ai sensi dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, egli si è lamentato del fatto che il tribunale interno abbia qualificato l'ordinanza di demolizione come misura riparatrice anziché come sanzione. 

57. Infine, ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, egli ha sostenuto che l'esecuzione dell'ordine di demolizione avrebbe costituito un'ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di proprietà. 

LA LEGGE

  1. Presunta violazione dell'articolo 7 della Convenzione

58. Il ricorrente ha sostenuto che, alla luce dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, i giudici nazionali avrebbero dovuto concludere che l'ordine di demolizione previsto dall'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23 sopra) equivaleva a una sanzione. A suo avviso, la loro omissione aveva comportato una violazione del principio di legalità –in quanto impediva l'applicazione dell'articolo 173 del Codice penale relativo all'estinzione delle pene per decorso del tempo (vedere paragrafo 38 sopra)– e del principio di proporzionalità delle pene. Egli si è basato sull'articolo 7 della Convenzione, che recita come segue:    

   “1. Nessuno può essere ritenuto colpevole di alcun reato penale per un atto o un’omissione che non costituisse reato ai sensi del diritto nazionale o internazionale al momento in cui è stato commesso. Né può essere imposta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.”

59. Il ricorrente ha sottolineato che l'ordinanza di demolizione in questione è stata emessa a seguito di una condanna per il reato penale di costruzione abusiva, che non poteva essere mantenuta se tale reato fosse stato dichiarato prescritto (vedere paragrafo 43 sopra) e, per quanto riguarda la sua gravità, che comportava una radicale privazione di proprietà. Egli si è basato, in particolare, sulle conclusioni della Corte nella causa Hamer c. Belgio, n. 21861/03, § 60, CEDU 2007 ‑ V (estratti).  

60. La Corte ribadisce che il concetto di “punizione” o “pena” come stabilito dall’articolo 7 § 1 della Convenzione ha una portata autonoma.
Per rendere effettiva la protezione offerta da questa disposizione, la Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare autonomamente se una particolare misura costituisca in sostanza una “pena” ai sensi di questa disposizione (vedi 
Welch c. Regno Unito, 09.02.1995, § 27, serie A n. 307 ‑ A; Del Río Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, § 81, CEDU 2013; e GIEMSrl e altri c. Italia 
(merito) [GC], nn. 1828/06 e altri 2, § 210, 28.06.2018).
La formulazione della seconda frase dell'articolo 7 § 1 indica che il punto di partenza in qualsiasi valutazione dell'esistenza di una sanzione è se la misura in questione sia imposta a seguito di una condanna per un "reato penale". Altri fattori che possono essere presi in considerazione come rilevanti a questo proposito sono la natura e lo scopo della misura in questione; la sua caratterizzazione ai sensi del diritto nazionale; le procedure coinvolte nell'elaborazione e nell'attuazione della misura; e la sua severità (vedi 
Welch, § 28; Del Río Prada, § 82; e GIEMSrl e altri (meriti), § 211, tutti citati sopra).
Tuttavia, la severità della misura non è di per sé decisiva, poiché molte misure non penali di natura preventiva possono avere un impatto sostanziale sulla persona interessata (vedi 
Del Río Prada, cit., § 82, e i riferimenti ivi contenuti, e Rola c. Slovenia, nn. 12096/14 e 39335/16, § 66, 04.06.2019).
 

61. La Corte osserva di aver generalmente ritenuto che l'esistenza di una condanna per un reato penale fosse solo uno dei criteri da prendere in considerazione (vedi Saliba c. Malta (dec.), n. 4251/02, 23.11.2004, e Berland c. Francia, n. 42875/10, § 42, 03.09.2015), e che non potesse essere ritenuta decisiva per stabilire la natura della misura (vedi Valico Srl c. Italia (dec.), n. 70074/01, CEDU 2006 ‑ III, e Balsamo c. San Marino, nn. 20319/17 e 21414/17, § 60, 08.10.2019).
La Corte ha raramente considerato questo fattore come decisivo per dichiarare l'inapplicabilità dell'articolo 7 (vedi 
Yildirim c. Italia (dec.), n. 38602/02, CEDU 2003 ‑ IV, e Bowler International Unit c. Francia, n. 1946/06, § 67, 23.07.2009).

62. Passando al caso di specie, la Corte rileva anzitutto che al ricorrente è stato ordinato di demolire il suo magazzino ai sensi dell'articolo (9) della legge n. 47 del 1985 (recepito nell'articolo 31 § 9 del Testo Unico sull'edilizia), che autorizza il giudice penale ad emettere tale ordine in caso di condanna per il reato di edilizia abusiva (vedere paragrafo 23 sopra).
Poiché la demolizione non può essere ordinata quando il reato è prescritto, poiché richiede una “condanna” (vedere paragrafo 43 sopra), la Corte ritiene che vi sia, in effetti, un nesso tra la misura in questione e la commissione di un reato (vedere, nel contesto dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, 
Hamer, sopra citato, § 54; vedere anche, mutatis mutandis, Ulemek c. Serbia (dec.), n. 41680/13, § 48, 02.02.2021).
Allo stesso tempo, la Corte rileva che, secondo la pertinente giurisprudenza interna (vedere paragrafo 43 sopra), nell'ambito della risposta complessiva del sistema interno alle violazioni edilizie (vedere paragrafo 41 sopra), l'ordine di demolizione emesso a seguito di una condanna è identico per oggetto e natura all'ordine di demolizione emesso dall'autorità amministrativa, che ha il diritto di ordinare la demolizione di costruzioni abusive, indipendentemente dal fatto che sia stato avviato o concluso un procedimento penale (vedere paragrafi 22 e 43 sopra).
 

63. Poiché l'irrogazione della misura impugnata a seguito di condanna per un reato non è di per sé decisiva per stabilire la natura della misura (vedi GIEMSrl e altri (merito), § 215, e Balsamo, § 60, entrambe citate sopra), la Corte esaminerà gli altri criteri rilevanti (vedi paragrafo 61 sopra). 

64. Per quanto riguarda la qualificazione degli ordini di demolizione ai sensi del diritto nazionale, la Corte riconosce che, diversamente dalla causa Hamer (citata sopra) invocata dal ricorrente, la classificazione di tali ordini come misura riparatoria è unanime tra i giudici nazionali, che sono giunti a tale conclusione alla luce dei criteri elaborati nella giurisprudenza della Corte (vedere paragrafi 46-50 sopra e confrontare il paragrafo 53 sopra; confrontare e contrapporre Hamer, § 57, e GIEMSrl e altri (merito), §§ 121 e 223, entrambi citati sopra).

65 . Quanto alla natura e allo scopo degli ordini di demolizione, la Corte ritiene che la misura sia chiaramente volta a ripristinare un sito alle sue condizioni originali, rendendo i lavori di costruzione conformi alle norme edilizie, indipendentemente dal fatto che venga imposta una sanzione anche nei confronti di coloro che sono accusati del reato di costruzione abusiva. A questo proposito, essa attribuisce innanzitutto importanza al fatto che la demolizione, essendo una misura in rem, è ordinata anche se l'edificio non appartiene all'autore del reato (ad esempio a persone giuridiche, successori in proprietà o terzi, vedere paragrafo 45 sopra).
In secondo luogo, essa rileva che, secondo la prassi nazionale, un ordine di demolizione è mantenuto in caso di morte dell'autore o di estinzione del reato dopo la condanna, per motivi diversi dalla concessione di un permesso retroattivo o di un'amnistia (vedere paragrafo 49 sopra).
La Corte ritiene che tali circostanze siano sintomatiche della natura riparatoria degli ordini di demolizione, che sembrano concepiti per rimuovere le costruzioni abusive indipendentemente dalla punizione dell'autore del reato, al fine di garantire il rispetto dell'interesse pubblico all'uso ordinato del suolo violato da edifici abusivi o illegali mediante il ripristino del suolo alle sue condizioni originarie (vedere 
Saliba e, mutatis mutandis, Ulemek, § 53, entrambi citati sopra; confrontare The J. Paul Getty Trust e altri contro Italia, n. 35271/19, § 314, 02.05.2024; confrontare e contrapporre Valico Srl GIEMSrl e altri (merito), § 224, entrambi citati sopra).
 

66. Quanto alle procedure di adozione e di esecuzione degli ordini di demolizione, la Corte ha già rilevato che l'ordine di demolizione contestato è stato emesso dai giudici di giurisdizione penale. Tuttavia, ha ripetutamente affermato che ciò non può essere di per sé decisivo, poiché è una caratteristica comune di diversi ordinamenti giuridici nazionali che i giudici penali adottino decisioni di natura non punitiva, come, ad esempio, misure di riparazione civile per la vittima del fatto criminoso (vedi Balsamo, cit., § 63).
A questo proposito, la Corte rileva ancora una volta il fatto che l'amministrazione ha il diritto di emettere un ordine di demolizione di identico contenuto, indipendentemente dal fatto che sia stato avviato o concluso un procedimento penale (vedi paragrafi 22 e 43 sopra), cosicché il giudice penale ordinerà la demolizione finché non sarà già stata eseguita dall'amministrazione (vedi ordinanza della Corte costituzionale n. 33 del 18.01.1990, paragrafo 40 sopra; vedi anche paragrafo 
45 sopra).
 

La Corte osserva inoltre che, mentre i tribunali penali e il comune hanno in abstracto il diritto di agire indipendentemente l'uno dall'altro, la concessione di un'amnistia o di un'autorizzazione retroattiva da parte dell'autorità amministrativa è presa in considerazione dai tribunali penali, che agiscono in qualità di tribunali esecutivi, i quali possono in tal caso, a condizione che tali misure siano state adottate legalmente, revocare l'ordine di demolizione o sospenderne l'esecuzione dopo che la condanna è divenuta definitiva (vedere paragrafo 48 sopra).

67 . Quanto, infine, alla severità degli ordini di demolizione, la Corte ribadisce che tale fattore non è di per sé decisivo, poiché numerose misure non penali possono avere un impatto sostanziale sulla persona interessata (cfr.  Welch, § 32; Del Río Prada, § 82; e Balsamo, § 64, tutti citati sopra). La Corte ritiene che, sebbene un ordine di demolizione sia una misura che può avere un impatto sulla persona interessata (a seconda delle caratteristiche e della natura della costruzione non autorizzata), la sua severità non è tale da suggerire che debba essere caratterizzata come una sanzione.
L'oggetto di tale ordine è, infatti, limitato a lavori (o parte di essi) che sono stati eretti senza o in violazione di un permesso di costruire (vedere, 
mutatis mutandis, Ulemek, § 56; confrontare e contrapporre GIEMSrl e altri (meriti), § 227, entrambi citati sopra) e, come misura volta a garantire il rispetto delle normative edilizie in modo da ristabilire lo stato di diritto e consentire l'uso ordinato e sicuro del suolo (interessi a cui la Corte ha ripetutamente attribuito un'importanza significativa; confrontare, inter alia,
  Saliba c. Malta, n. 4251/02, § 44, 08.11.2005, e Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria, n. 46577/15, § 51, 21.04.2016), la Corte ritiene che la rimozione degli edifici illegali e abusivi rappresenti una risposta necessaria e appropriata (vedere, mutatis mutandis, Balsamo,
citato sopra, § 64).

68. Alla luce di quanto precede, avendo preso atto e soppesato ciascuna delle caratteristiche della misura contestata, la Corte ritiene che esse siano sintomatiche della sua natura prevalentemente riparatoria; a questo proposito, il presente caso differisce da Hamer (citato sopra, §§ 54-60).
La Corte conclude pertanto che l'ordine di demolizione in questione non costituiva una "sanzione" ai sensi dell'articolo 7 della Convenzione (vedere, 
mutatis mutandis, Saliba (dec.), citato sopra; confrontare e contrapporre Hamer,
citato sopra, § 60). Tale disposizione non è pertanto applicabile nel presente caso.

69. Ne consegue che il presente ricorso è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell'articolo 35 § 3 e deve essere respinto ai sensi dell'articolo 35 § 4. 

  1. Presunta violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione

70. Il ricorrente lamentava che, alla luce della giurisprudenza della Corte che stabilisce i criteri per valutare l'esistenza di un'accusa penale (in particolare, Engel e altri, citati sopra), la qualificazione da parte del tribunale nazionale dell'ordine di demolizione nel suo caso come misura riparatrice aveva comportato una violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione. La parte rilevante di tale disposizione recita come segue:  

   “Nella determinazione di ... qualsiasi accusa penale rivolta contro di lui, ognuno ha diritto a un'equa ... udienza ... da parte di [un] ... tribunale ...”.

71 . Occorre osservare in via preliminare che il ricorrente ha contestato l'interpretazione data dal tribunale nazionale dell'ordinanza di demolizione come misura riparatoria in quanto tale, sostenendo che essa era incompatibile con la giurisprudenza della Corte.  

72. A questo proposito, la Corte, riferendosi alle sue conclusioni di cui sopra ai sensi dell'articolo 7 della Convenzione (vedere paragrafo 68 sopra), ribadisce che non è suo compito occuparsi di presunti errori di diritto o di fatto commessi dai giudici nazionali, a meno che e nella misura in cui possano aver violato i diritti e le libertà tutelati dalla Convenzione (vedere, tra molte altre autorità, Moreira Ferreira c. Portogallo (n. 2) [GC], n. 19867/12, § 83, 11.07.2017).  

73. La Corte ritiene pertanto che, anche supponendo che l'articolo 6 sia applicabile al procedimento di cui al capo civile, il ricorrente non ha dedotto alcuna privazione delle garanzie di un giusto processo sancite dall'articolo 6 a seguito dell'interpretazione adottata dal tribunale nazionale. 

74. Ne consegue che il ricorso ai sensi dell'articolo 6 § 1 della Convenzione è manifestamente infondato e deve essere respinto ai sensi dell'articolo 35 § 4. 

  1. Presunta violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione

75. Il ricorrente lamentava che la demolizione del magazzino avrebbe costituito un'ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di proprietà ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, che recita come segue:   

   “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al pacifico godimento dei suoi beni. Nessuno può essere privato dei suoi beni se non per causa di pubblico interesse e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
   Le disposizioni precedenti non pregiudicano tuttavia in alcun modo il diritto di uno Stato di applicare le leggi che ritiene necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per garantire il pagamento delle imposte o di altri contributi o sanzioni
".

76 . Egli sosteneva che i tribunali nazionali non avevano considerato che l'ordine di demolizione del suo magazzino era stato eseguito anni dopo la condanna su cui si basava e che il comune gli aveva concesso l'amnistia (vedere paragrafo 8 sopra) e un certificato di idoneità all'uso (vedere paragrafo 11 sopra). Questi fattori, a suo avviso, avevano dato origine a un'aspettativa legittima che avrebbe dovuto essere soppesata rispetto a qualsiasi interesse pubblico concorrente nell'eseguire la demolizione.   

77. La Corte rileva che il magazzino costruito dal ricorrente è stato dichiarato costruzione abusiva dai tribunali nazionali (vedere paragrafo 10 sopra). La Corte riconosce che è stato dibattuto a livello nazionale se gli edifici abusivi potessero essere oggetto di diritti di proprietà e potessero quindi essere validamente trasferiti e acquistati (vedere paragrafo 52 sopra). 

78. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte ritiene che non sia necessario affrontare specificamente la questione se il magazzino del ricorrente potesse essere considerato un “bene” ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione (vedere, tra le altre, Beyeler c. Italia [GC], n. 33202/96, § 100, CEDU 2000-I; Öneryıldız c. Turchia [GC], n. 48939/99, § 124, CEDU 2004-XII; e Hamer, cit., § 75), dato che, anche supponendo che così fosse, il presente ricorso è in ogni caso inammissibile per le seguenti ragioni.    

79. La Corte rileva innanzitutto che al momento della presentazione del presente ricorso il magazzino del ricorrente non era ancora stato demolito e che, a tutt'oggi, la Corte non è stata informata del contrario (vedere paragrafo 19 sopra). La demolizione pianificata, che mira a garantire il rispetto delle norme edilizie, costituisce un controllo dell'uso dei beni (vedere Ivanova e Cherkezov, citata sopra, § 69).
Essa deve pertanto essere esaminata alla luce del secondo paragrafo dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione (vedere 
Saliba, citata sopra, § 35; Zhidov e altri contro Russia, nn. 54490/10 e altri 3, § 96, 16.10.2018; confrontare Depalle contro Francia [GC], n. 34044/02, § 79, CEDU 2010, e Hamer, citata sopra, § 77).
 

80. La Corte osserva che l'ordinanza di demolizione contestata è stata emessa ai sensi dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23 sopra) e che, di conseguenza, il pubblico ministero ha agito in vista della sua esecuzione, che non era soggetta a prescrizione (vedere paragrafi 13 e 46 sopra). L'ingerenza era quindi conforme alla legge. 

81. La Corte ribadisce che lo scopo di un ordine di demolizione è quello di ripristinare il sito alle sue condizioni originali, garantendo così l'uso ordinato e sicuro del terreno nel rispetto delle norme edilizie (vedere paragrafo 65 sopra). Essa non ha quindi dubbi sulla legittimità dello scopo perseguito dal provvedimento contestato, che è chiaramente "conforme all'interesse generale" (vedere Saliba, § 44, e Ivanova e Cherkezov, § 71, entrambi citati sopra).

82. Quanto alla questione se l'obiettivo perseguito possa essere considerato proporzionato all'ingerenza causata dalla demolizione forzata pianificata del magazzino (vedere, tra molte altre autorità, Depalle, § 83, e Beyeler, § 114, entrambe citate sopra), la Corte ribadisce che nel campo delle normative edilizie e urbanistiche, lo Stato gode di un ampio margine di apprezzamento, in particolare nella scelta dei mezzi di esecuzione e nell'accertamento se le conseguenze dell'esecuzione sarebbero giustificate (vedere Saliba, § 45; Hamer, § 78; e Ivanova e Cherkezov, § 73; tutte citate sopra).
Ribadisce inoltre che l'articolo 1 del Protocollo n. 1 non presuppone in tali casi la disponibilità di una procedura che richieda una valutazione individualizzata della necessità di ciascuna misura di attuazione delle norme di pianificazione pertinenti. Non è contrario a quest'ultimo che il legislatore stabilisca categorie ampie e generali piuttosto che prevedere uno schema in base al quale la proporzionalità di una misura di attuazione debba essere esaminata caso per caso (vedi 
Ivanova e Cherkezov, cit., § 74).
 

83. La Corte rileva anzitutto che il ricorrente non ha contestato che la costruzione del magazzino, da lui consapevolmente realizzata senza permesso di costruire, fosse abusiva.

84. A questo proposito, la Corte rileva che subito dopo l'ispezione del terreno del ricorrente che ha portato la polizia municipale a scoprire il magazzino, è stato avviato un procedimento penale nei suoi confronti per il reato di costruzione abusiva (vedere paragrafi 3 e 6 sopra; in contrasto con Hamer, citato sopra, § 83).
Rileva inoltre che i tribunali di giurisdizione penale hanno preso in considerazione le sue argomentazioni in merito al fatto che il comune gli aveva concesso un'amnistia; tuttavia, hanno ordinato che il magazzino fosse demolito dopo aver constatato che egli non poteva beneficiarne (vedere paragrafo 6 sopra).
Quanto al rilascio di un certificato di idoneità all'uso, che si riferisce alla questione separata della sicurezza dell'edificio (vedere paragrafo 34 sopra), i tribunali nazionali hanno ritenuto tale certificato irrilevante rispetto alle normative edilizie (vedere paragrafo 16 sopra).
   

La Corte ritiene pertanto che, a seguito della sua condanna, il ricorrente non potesse ragionevolmente fare affidamento sulla legalità del magazzino (vedere, mutatis mutandisDepalle, § 86; Hamer, § 85; e Zhidov e altri, § 106, tutti citati sopra).

85. Infatti, nonostante l'ordinanza di demolizione, il ricorrente stesso non ha adottato alcuna iniziativa per ottemperarvi, continuando invece a trarre beneficio per molti anni da una costruzione che avrebbe dovuto essere demolita (cfr. Vagnola spa & Madat Srl c. Italia (dec.), n. 7653/04, 12.01.2010).

86. In tale contesto, la Corte ritiene quindi che l'iniziativa delle autorità di far rispettare l'ordinanza di demolizione in questione fosse necessaria per ripristinare la situazione a quella che sarebbe stata se non fossero stati ignorati i requisiti di legge. In questo modo, le autorità garantiscono l'efficacia delle normative edilizie e scoraggiano altri potenziali trasgressori (vedi Salibacit., § 46, e Tiryakioglu c. Turchia (dec.), n. 24404/02, 13.05.2008). 

87. Secondo la Corte, il fatto che sia trascorso un certo periodo di tempo prima dell'esecuzione dell'ordine di demolizione da parte del pubblico ministero non può portare a una conclusione diversa. Infatti, secondo il diritto interno, gli ordini di demolizione non sono soggetti a prescrizione (vedere paragrafo 46 sopra) e non vi è nulla nella condotta delle autorità successiva alla condanna che suggerisca che l'ordine di demolizione emesso dal giudice abbia perso la sua validità e che il magazzino del ricorrente non sarebbe stato demolito (confronta Hamer, citato sopra, § 85).  

88. In tali circostanze, la Corte conclude che il ricorrente non sopporterebbe un onere eccessivo a seguito dell'esecuzione dell'ordine di demolizione del suo magazzino (vedi Tiryakioglucitato sopra, e Galena Vraniskoska c. "Ex Repubblica jugoslava di Macedonia " (dec.), n. 30844/06, 12.04.2011).

89. Ne consegue che il presente ricorso è manifestamente infondato e deve essere respinto ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Per queste ragioni la Corte, all’unanimità, Dichiara la domanda inammissibile.
---------------

[1] L'unica modifica introdotta dal Testo Unico sull'edilizia è che l'autorità preposta alla vigilanza sull'urbanistica e sull'edilizia non è più il sindaco, ma il dirigente o il responsabile dell'ufficio comunale competente.

[2] L'articolo 31 del Testo Unico delle Costruzioni è stato poi modificato dal decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (convertito dalla legge 11.11.2014, n. 164 ed entrato in vigore il 13.09.2014), che ha introdotto i commi 4- bis, 4-ter e 4-quater, prevedendo che in caso di inosservanza dell'ordine di demolizione è irrogata anche una sanzione pecuniaria.  

[3] Ai sensi dell'articolo 36 del Testo Unico sull'edilizia, l'autorizzazione retroattiva può essere rilasciata se l'opera edilizia abusiva è conforme non solo alle norme edilizie, ma anche a quelle urbanistiche.

[4] La terza sanatoria edilizia è stata introdotta dall'articolo 35 del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326.  

[5] Abrogato dall'art. 136 del Testo Unico delle Costruzioni con efficacia dal 30.06.2003. La disciplina legislativa del certificato di agibilità (relativo agli edifici residenziali e non residenziali) è ora integralmente prevista dall'art. 24 del Testo Unico delle Costruzioni (Agibilità ).

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Il dipendente può usare in giudizio la conversazione registrata.
Un dipendente può utilizzare le conversazioni di suoi colleghi, registrate a loro insaputa e senza il loro consenso, se questo utilizzo è funzionale alla tutela giudiziale di un proprio diritto.

Con questo principio, coerente con l'indirizzo maggioritario della giurisprudenza, la Corte di Cassazione (Sez. I civile - ordinanza 16.09.2024 n.  24797) riafferma il primato della tutela dei mezzi di difesa rispetto alle esigenze di riservatezza dei terzi.
La vicenda nasce quando dei lavoratori, nell'ambito di alcuni contenziosi aventi a oggetto le rispettive posizioni lavorative, hanno depositato in giudizio un file audio contenente la registrazione di una conversazione intrattenuta da un altro dipendente con alcuni rappresentanti della società datrice di lavoro, nel contesto di una riunione indetta dalla dirigenza diversi anni prima.
I dirigenti coinvolti a loro insaputa nelle registrazioni avevano proposto reclamo al Garante per la protezione dei dati personali, in base all'articolo 77 del regolamento Ue 2016/679 (Gdpr), per la cancellazione o la distruzione dei file.
L'Autorità aveva respinto la richiesta, rilevando che le operazioni di trattamento erano state svolte per esclusive finalità di contestazione di addebiti nell'ambito del rapporto di lavoro.
A questo punto i dirigenti hanno spostato la vicenda di fronte al Tribunale ordinario che ha accolto la loro opposizione, dichiarando l'illegittimità del provvedimento dell'Autorità e l'illiceità dei trattamenti dei dati personali posti in essere dai tre lavoratori.
Una lettura non condivisa dalla Corte di cassazione che, aderendo alla prima interpretazione fornita dal Garante, ha dichiarato lecita e immune da censure la condotta dei tre dipendenti. La sentenza ricorda come, in linea generale, l'utilizzo dei dati senza il consenso dell'interessato sia ritenuto lecito quando si tratti di difendere un diritto fondamentale.
Secondo la Corte, quando i dati sono stati utilizzati in giudizio, spetta al giudice di quel giudizio il compito di bilanciare gli interessi in gioco e ammettere o meno le prove che comportano il trattamento di dati di terzi, perché la titolarità del trattamento spetta in questo caso all'autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo (così, in passato, Cassazione 9314/2023).
La Corte aggiunge che non può essere negata la possibilità di difendersi in giudizio, specie ove la controversia attenga a diritti della persona strettamente connessi alla dignità umana, come nel caso della tutela dei diritti dei lavoratori, secondo quanto dispone l'articolo 36 della Costituzione.
Se la posta in gioco è la tutela di un diritto fondamentale, sulla base degli articoli 17 e 21 del Gdpr, è possibile, conclude la Cassazione, che nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in giudizio possa prevalere sui diritti dell'interessato al trattamento dei dati personali (articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2024).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI: Composizione giunta - Nomina assessori esterni - Comune con più di 15.000 abitanti.
Sintesi/Massima
La materia "organi di governo" dei comuni è rimessa alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ed il comune …, avendo una popolazione superiore a 15.000 abitanti, rientra nell'ambito applicativo dalla normativa statale dettata per tale categoria di comuni.
Testo
È stata formulata una richiesta di parere in materia di composizione della giunta.
In particolare, è stato chiesto se, nel nominare la giunta, si debba fare riferimento alla normativa recata dall'art. 47, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, che reca la disciplina in materia per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, in cui rientra attualmente l'ente, o si debba applicare, nelle more della modifica dello statuto, la normativa statutaria, adottata quando il comune aveva un numero di abitanti inferiore a 15.000, che limita la nomina degli assessori cittadini non consiglieri in numero massimo di due.
In proposito, si fa presente che, ai sensi del citato art. 47, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti gli assessori sono nominati dal sindaco anche al di fuori dei componenti del consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere. Tale disposizione non prevede alcun limite numerico riferito agli assessori esterni al consiglio.
Inoltre, si precisa che l'art. 64, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, prevede che, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, qualora un consigliere comunale assuma la carica di assessore nella rispettiva giunta, "… cessa dalla carica di consigliere all'atto dell'accettazione della nomina, ed al suo posto subentra il primo dei non eletti".
Pertanto, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, nessun assessore può rivestire contemporaneamente la carica di consigliere.
Nel caso di specie, la sindaca dell'ente in parola deve fare riferimento alla normativa dettata dal d.lgs. n. 267/2000 per le giunte dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti. La materia "organi di governo" dei comuni, infatti, è rimessa, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ed il comune in parola, avendo attualmente una popolazione superiore a 15.000 abitanti, rientra nell'ambito applicativo dalla normativa statale dettata per tale categoria di comuni.
Tanto premesso, si prega di rappresentare quanto sopra al sindaco del comune in oggetto e di invitare l'ente ad adeguare le norme statutarie sia in relazione al numero dell'attuale popolazione, sia al numero degli assessori in quanto l'art. 24, comma 1, dello statuto prevede, relativamente alla composizione della giunta, 6 assessori. Tale previsione statutaria, come ha già evidenziato il rappresentante dell'ente locale, non è in linea con la normativa vigente (parere 26.09.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

APPALTI: Questa città metropolitana ha in essere un appalto per la pulizia degli immobili istituzionali che scadrà a fine 2024.
Risulta necessario, per ragioni imprevedibili, incrementare l'importo contrattuale del quinto d'obbligo. L'importo del quinto, seppur previsto a base di gara, non è stato incluso nel CIG ottenuto all'avvio della procedura.
È possibile procedere ugualmente?

L'art. 120 del nuovo codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 31.03.2023, n. 36), ad oggetto "Modifica dei contratti in corso di esecuzione”, prevede, al comma 9, che "Nei documenti di gara iniziali può essere stabilito che, qualora in corso di esecuzione si renda necessario un aumento o una diminuzione delle prestazioni fino a concorrenza del quinto dell'importo del contratto, la stazione appaltante possa imporre all'appaltatore l'esecuzione alle condizioni originariamente previste. In tal caso l'appaltatore non può fare valere il diritto alla risoluzione del contratto".
Tanto premesso, il valore del quinto d'obbligo deve essere necessariamente previsto nei documenti di gara come giustamente effettuato dalla stazione appaltante.
Tale disposizione è stata confermata anche recentemente dal Servizio Contratti Pubblici del MIT che con il parere del 21.06.2024 n. 2455 ha evidenziato quanto detto in precedenza ovvero che "l'art. 120, comma 9, ricalibra la disciplina del c.d. quinto d'obbligo riconducendolo definitivamente nell'ambito delle potenziali modifiche del contratto, con la previsione di una sua doverosa (quindi a pena di illegittimità) programmazione nella documentazione di gara".
Con riferimento alla specifica questione del CIG, riteniamo che la stessa debba essere quindi affrontata secondariamente rispetto alla specifica previsione o meno del quinto d'obbligo. Infatti, se ancora possibile, per ciò che concerne il CIG è auspicabile chiedere ad ANAC l'attivazione per la modifica dello stesso.
Qualora questo non fosse possibile per via della tempistica in cui il CIG è stato richiesto (in vigenza del vecchio codice, su smartCIG, ecc.) si verificherà uno "sforamento" dell'importo originario che alla luce della vigente normativa non comporta particolari problematiche di gestione.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 31.03.2023, n. 36, art. 120 - Parere 21.06.2024 n. 2455, Servizio Contratti Pubblici del MIT (25.09.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Patente a Crediti - Decreto Ministero e Circolare INL (ANCE di Bergamo, circolare 26.09.2024 n. 327).
---------------
Si leggano altresì:
   ● allegato 1 - DM 18.09.2024  - Regolamento relativo all'individuazione delle modalità di presentazione della domanda per il conseguimento della patente per le imprese e i lavoratori autonomi operanti nei cantieri temporanei o mobili
  
allegato 2 - INL, circolare 23.09.2024 n. 4
   ● allegato 3 - modulo AUTOCERTIFICAZIONE/DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA PER IL RILASCIO DELLA PATENTE A CREDITI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: RENTRI: manuali di istruzioni per utilizzare l’ambiente DEMO (ANCE di Bergamo, circolare 20.09.2024 n. 319).
---------------
Si leggano altresì:
   ●
allegato 1 - Manuale per l’accesso e l’iscrizione da parte degli operatori al RENTRI
   ● allegato 2 - Manuale per la gestione del Formulario di identificazione del rifiuto (FIR) in formato cartaceo (Ambiente DEMO)
   ● allegato 3 - Manuale per la gestione del Registro cronologico di carico e scarico tramite il servizio di supporto (Ambiente DEMO)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto End of Waste: nuove norme per il recupero di rifiuti inerti (ANCE di Bergamo, circolare 20.09.2024 n. 318).

URBANISTICA: Oggetto: Disciplina degli insediamenti logistici di rilevanza sovracomunale (ANCE di Bergamo, circolare 06.09.2024 n. 306).
---------------
Si legga altresì:
   ●
allegato 1 - L.R. 08.08.2024 n. 15 - Disciplina degli insediamenti logistici di rilevanza sovracomunale

APPALTIOggetto: Articolo 18, comma 10, del decreto legislativo 31.03.2023, n. 36, recante il Codice dei contratti pubblici – Imposta di bollo (Agenzia delle Entrate, circolare 28.07.2023 n. 22/E).
---------------
PREMESSA
Con il decreto legislativo 31.03.2023, n. 36, attuativo dell’articolo 1 della legge 21.06.2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici, è stato emanato il nuovo Codice dei contratti pubblici (di seguito, “Codice”), in aderenza, tra l’altro, alle direttive 2014/24/UE e 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014.
Il citato decreto legislativo prevede, tra le altre, disposizioni in materia di imposta di bollo relativa alla stipulazione del contratto, contenute nell’articolo 18, comma 10, nonché negli articoli e nella tabella di cui all’allegato I.4 al Codice medesimo.
Con la presente circolare si forniscono chiarimenti in merito alle nuove modalità di calcolo e versamento dell’imposta di bollo, con particolare riferimento all’ambito applicativo e alla decorrenza temporale delle stesse. (...continua).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Articolo 10 del decreto-legge 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120. Chiarimenti interpretativi (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e Ministero della Pubblica Amministrazione, circolare 02.12.2020).
---------------
TESTO
   Il recente decreto-legge 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120 (“Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”), ha introdotto, fra le misure finalizzate alla semplificazione e all’accelerazione delle procedure amministrative in vista del rilancio delle attività economiche e produttive, numerose modifiche al testo unico dell’edilizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
   Tali modifiche, contenute nell’articolo 10 del decreto-legge, investono tutti i settori dell’attività edilizia e alcune di esse sono di immediato impatto per le imprese che devono predisporre i progetti e avviare la necessaria interlocuzione con le Amministrazioni competenti.
   In particolare, si è intervenuto in modo sostanziale sia sull’articolo 2-bis, comma 1-ter, del testo unico, in tema di rispetto della disciplina delle distanze tra edifici in caso di interventi di demolizione e ricostruzione di edifici già esistenti (comma 1, lettera a), del citato articolo 10), e sia sulla definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), del medesimo testo unico, con specifico riguardo sempre agli interventi di demolizione e ricostruzione di immobili preesistenti (comma 1, lettera b), dell’articolo 10).
   La presente circolare è intesa a fornire primi chiarimenti interpretativi sulle disposizioni dianzi citate.
1. Premessa: il diverso ambito di applicazione dell’articolo 2-bis, comma 1-ter, e dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001.
   Le modifiche apportare all’articolo 2-bis, comma 1-ter, e all’articolo 3, comma 1, lettera d) del d.P.R. n. 380/2001 rispondono a due esigenze concorrenti, che hanno inciso profondamente anche sull’iter di formazione delle norme medesime: da un lato, la volontà di introdurre previsioni volte a rendere in via generale più semplice e rapido l’avvio dell’attività edilizia; dall’altro, l’esigenza di assicurare in ogni caso la salvaguardia e il rispetto di valori considerati preminenti dall’ordinamento, segnatamente la tutela dei beni culturali e del paesaggio latamente inteso.
   Tali esigenze concorrenti, del resto, corrispondono alla più generale ispirazione dell’intero decreto–legge n. 76/2020, quale espressa nella sua premessa, laddove si enuncia l’intento del legislatore di “realizzare un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e di edilizia, operando senza pregiudizio per i presidi di legalità”.
   Per questo, e per meglio cogliere l’incidenza delle predette esigenze nella lettura e applicazione delle disposizioni sopra indicate, occorre preliminarmente chiarirne i rispettivi ambiti di applicazione.
   In particolare, è necessario considerare che, mentre l’articolo 3 del testo unico è norma intesa a dettare le definizioni degli interventi edilizi in via generale ed ai fini dell’applicazione dell’intera disciplina dell’edilizia, l’articolo 2-bis (a suo tempo introdotto nel d.P.R. n. 380/2001 dal decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98) è finalizzato a regolare la specifica ipotesi nella quale, in occasione di un intervento di demolizione e ricostruzione di edificio preesistente, insorgano problemi inerenti al rispetto di norme in materia di distanze tra edifici (siano esse contenute nell’articolo 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, o in qualsiasi altra normativa).
   Pertanto, appare opportuno procedere in via preliminare alla disamina delle modifiche apportate all’articolo 3, comma 1, lettera d), del testo unico, stante la sua più ampia portata precettiva, e solo successivamente illustrare quelle che riguardano il comma 1-ter del citato articolo 2-bis.
2. Le modifiche alla definizione di ristrutturazione edilizia.
   2.1. La definizione di “ristrutturazione edilizia” contenuta nella lettera d) del comma 1 dell’articolo 3, quale risultante dalle modifiche apportate dal d.l. n. 76/2020 e dalla legge di conversione, fa riferimento a “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
   Le innovazioni significative apportate alla disposizione previgente sono quindi:
      a) la sostituzione del riferimento ai semplici interventi di “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica” con la più articolata previsione per cui rientrano nella ristrutturazione edilizia “gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico”;
      b) l’aggiunta di un ulteriore periodo per cui i medesimi interventi di demolizione e ricostruzione possono prevedere, “nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”;
      c) un maggior rigore della previsione relativa agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del d.lgs. n. 42/2004: mentre in precedenza la demolizione e ricostruzione di detti immobili poteva qualificarsi come ristrutturazione edilizia solo ove ne fosse rispettata la sagoma originaria, oggi si richiede il mantenimento di “sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche” e si precisa che non devono essere previsti incrementi di volumetria;
      d) l’equiparazione agli edifici vincolati ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 di quelli ubicati nelle zone omogenee A e in quelle ad esse assimilabili in base ai piani urbanistici comunali, nonché “nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico”, fatte salve “le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici”.
   2.2. La modifica di cui sub a) amplia l’area degli interventi ricadenti nella nozione di ristrutturazione edilizia, individuando i parametri la cui modifica –a differenza di quanto previsto dalla previgente disciplina– non risulta rilevante ai fini della qualificazione di un intervento di demolizione e ricostruzione come ristrutturazione edilizia, piuttosto che come nuova costruzione.
   In particolare, la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV, 04.10.2019 n. 6666; Tar Napoli, sez. II, 10.06.2020 n. 2304; Tar Puglia-Lecce, sez. III, 03.02.2016 n. 233) aveva evidenziato come, dopo la novella operata col già citato decreto-legge n. 69/2013, che aveva eliminato il vincolo dell’identità di sagoma in precedenza previsto dalla norma, dovessero considerarsi rientranti nella ristrutturazione edilizia anche gli interventi di demolizione e ricostruzione comportanti modifiche della sagoma e/o del sedime rispetto all’edificio preesistente.
   Tuttavia, veniva precisato che, comunque, il nuovo edificio dovesse porsi in sostanziale continuità con quello preesistente, conservandone le caratteristiche planivolumetriche e architettoniche (Cons. Stato, sez. VI, 05.12.2016 n. 5106).
   La novella apportata alla definizione dal decreto–legge n. 76/2020 determina, con tutta evidenza, il superamento di tali limitazioni, potendo ormai rientrare nella nozione di ristrutturazione –salvo quanto si dirà in ordine agli edifici vincolati- qualsiasi intervento di demolizione e ricostruzione anche con caratteristiche molto differenti rispetto al preesistente, salvi i limiti volumetrici che saranno appresso richiamati.
   In effetti, al riferimento a sagoma, sedime, caratteristiche planivolumetriche e tipologiche il legislatore aggiunge anche quello ai “prospetti”, la cui modifica nel regime normativo anteriore comportava la qualificazione dell’intervento in termini di ristrutturazione “pesante”, con conseguente soggezione al regime del permesso di costruire.
   Incidentalmente, si evidenzia che, con un’ulteriore innovazione apportata alla lettera b) del comma 1 del medesimo articolo 3 del testo unico dallo stesso d.l. n. 76/2020, la modifica dei “soli prospetti” costituisce oggi intervento di manutenzione straordinaria, sottoposto al regime della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) ai sensi del successivo articolo 22, laddove:
      - la modifica sia necessaria per mantenere o acquisire l’agibilità di un edificio legittimamente realizzato ovvero per l’accesso allo stesso;
      - l’intervento non abbia ad oggetto immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004, sia conforme alla vigente disciplina urbanistica e non pregiudichi il “decoro architettonico” dell’edificio.
   Quanto alle modifiche apportate alla lettera d) del comma 1 dell’articolo 3, occorre precisare che il riferimento alle “caratteristiche tipologiche” dell’edificio preesistente va letto in stretta correlazione col richiamo agli “elementi tipologici” contenuto nella definizione di restauro e risanamento conservativo di cui alla lettera c) del medesimo articolo 3 (che in parte qua riproduce la nozione introdotta dall’art. 31, comma 1, lettera c), della legge 05.08.1978, n. 457).
   Pertanto, si tratta di una nozione da non sovrapporre a quella di destinazione d’uso dell’edificio –la quale è stabilita dal titolo abilitativo sulla base delle norme urbanistiche di riferimento– e che ha un contenuto al tempo stesso architettonico e funzionale, individuando quei caratteri essenziali dell’edificio che ne consentono la qualificazione in base alla tipologia edilizia (p.es. costruzione rurale, capannone industriale, edificio scolastico, edificio residenziale etc.).
   Il richiamo ai parametri introdotti dal decreto–legge n. 76/2020 (sagoma, sedime, prospetti, caratteristiche planivolumetriche e tipologiche) assume rilievo, a contrario, per quanto riguarda il regime degli edifici sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 ovvero ubicati in zona A e assimilate, laddove l’eventuale modifica di tali parametri comporta l’impossibilità di ricondurre l’intervento alla categoria della ristrutturazione edilizia e il suo assoggettamento al regime autorizzatorio delle nuove costruzioni (fatte salve, per la seconda categoria di edifici sopra indicati, le diverse previsioni di legge o degli strumenti urbanistici, come meglio in appresso precisato).
   2.3. Un’ulteriore novità attiene alla possibilità di incrementi di volumetria non solo “per l’adeguamento alla normativa antisismica”, ma anche “per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico”.
   A tale riguardo, si evidenzia che, secondo l’orientamento della giurisprudenza, la riconducibilità a ristrutturazione edilizia è da escludere in presenza di qualsivoglia intervento di demolizione e ricostruzione comportante incrementi volumetrici rispetto al preesistente, anche laddove questi fossero determinati dall’inserimento di impianti o servizi, salvi i casi, espressamente previsti, di aumenti imposti dalla normativa antisismica (Tar Lazio-Latina, sez. I, 11.06.2015 n. 472).
   Una parziale attenuazione di tale rigore si registra solo qualora detti incrementi si rendano necessari al fine di assicurare il rispetto della normativa in materia di eliminazione delle barriere architettoniche, limitatamente alla previsione di volumi tecnici quali i vani ascensore (Tar Abruzzo-Pescara, sez. I, 09.04.2018 n. 134; Tar Campania-Salerno, sez. I, 09.04.2018 n. 134).
   La previsione odierna supera tali indirizzi, consentendo che gli interventi di demolizione e ricostruzione soggiacciano al regime della ristrutturazione edilizia anche qualora comportino incrementi volumetrici, purché giustificati dal rispetto delle normative dianzi richiamate (e sempre che, ovviamente, non si tratti di edifici vincolati ovvero ricadenti in zona A o assimilate, fatte salve per questi ultimi le diverse previsioni legislative o degli strumenti urbanistici).
   Un’ulteriore possibilità di apportare incrementi alla volumetria dell’edificio preesistente deriva dall’espressa salvezza delle previsioni legislative e degli strumenti urbanistici che contemplino siffatti incrementi per finalità di “rigenerazione urbana”.
   Pertanto, la deroga non è estesa a qualsiasi disposizione che consenta incrementi volumetrici (p.es. in funzione premiale o incentivante), ma vale soltanto per le ipotesi in cui questi siano strumentali a obiettivi di rigenerazione urbana, da intendersi –secondo l’accezione preferibile, nella perdurante assenza di una definizione normativa a carattere generale– come riferita a qualunque tipologia di interventi edilizi che, senza prevedere nuove edificazioni, siano intesi al recupero e alla riqualificazione di aree urbane e/o immobili in condizioni di dismissione o degrado.
   2.4. Quanto al regime degli edifici vincolati ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, si è già sottolineato che la soluzione adottata dal decreto–legge n. 76/2020 per assicurare la loro tutela è stata quella di escludere che possano qualificarsi come ristrutturazione edilizia gli interventi comportanti una loro demolizione e ricostruzione non solo nei casi in cui ne sia modificata la sagoma (come previsto nella disciplina previgente), ma anche nei casi di mutamenti del sedime, dei prospetti e delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche.
   Sotto tale profilo, il regime degli edifici in questione si atteggia in modo “speculare” rispetto a quello degli edifici non vincolati, nel senso che ciò che per questi ultimi ricade nella definizione di ristrutturazione comporta invece per i primi l’applicazione del regime delle nuove costruzioni.
   Altrettanto non può dirsi per gli edifici ubicati nelle zone omogenee A di cui al d.m. n. 1444/1968 e in zone a queste assimilate dai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici ovvero nelle aree comunque di particolare pregio storico o architettonico, atteso che in questi casi l’equiparazione voluta dal legislatore al regime degli edifici vincolati è solo tendenziale, essendo espressamente fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici.
Tale inciso fa innanzitutto salva la validità di eventuali disposizioni di leggi regionali, che consentano, anche per le aree in questione, interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione anche con limiti meno stringenti di quelli individuati dall’art. 3 del testo unico per gli edifici vincolati ex d.lgs. n. 42/2004.
   Inoltre, la clausola di “salvezza” in discorso consente di ritenere ammissibili anche per gli edifici ubicati in dette zone le variazioni imposte dalla normativa antisismica, energetica, sull’accessibilità etc., ferme restando, come è ovvio, le valutazioni delle Amministrazioni competenti in ordine alla compatibilità degli interventi con il regime eventualmente previsto per i medesimi edifici.
   La clausola conferma, altresì, la legittimità delle eventuali previsioni degli strumenti urbanistici (sia generali che attuativi) con cui si consentano, anche per le zone A e assimilate e per i centri storici, interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione entro limiti meno stringenti di quelli ordinariamente stabiliti dalla norma primaria in esame (fermi restando in ogni caso gli ulteriori limiti rivenienti da altre norme del testo unico).
3. Le nuove previsioni in materia di demolizione e ricostruzione e rispetto delle distanze.
  
Come evidenziato in premessa, le previsioni contenute nel comma 1-ter dell’articolo 2-bis del testo unico vanno lette nel contesto della disposizione in questione, che è specificamente intesa a disciplinare i casi in cui siano oggetto di demolizione e ricostruzione edifici preesistenti che risultino “legittimamente” ubicati rispetto ad altri immobili in posizione tale da non rispettare specifiche norme in materia di distanze (ivi comprese quelle contenute nel d.m. n. 1444/1968), di guisa che non ne sarebbe consentita l’edificazione ex novo.
   In questi casi, il primo periodo del comma in esame ha chiarito che la ricostruzione è possibile –in sostanza– in deroga alle norme in questione, e quindi col mantenimento delle distanze preesistenti se non è possibile la modifica dell’originaria area di sedime e purché l’edificio originario fosse stato “legittimamente” realizzato.
   Al fine di verificare la legittima realizzazione dell’immobile preesistente, soccorre la previsione dell’articolo 9-bis del Testo unico, anch’essa inserita dal decreto-legge n. 76/2020, laddove è indicata la documentazione da cui ricavare lo “stato legittimo” di un edificio (di regola consistente nel titolo edilizio sulla base del quale esso è stato realizzato, ovvero da quello relativo all’ultimo intervento che ha subito).
   È importante rilevare che la previsione è testualmente riferita ad “ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici”, e quindi indipendentemente dalla ascrivibilità degli interventi alla categoria della ristrutturazione edilizia o a quella della nuova costruzione, nonché –a fortiori– nella prima ipotesi da quale sia il regime autorizzatorio in concreto applicabile.
   Il secondo periodo, poi, aggiunge che in questi casi sono consentiti gli “incentivi volumetrici eventualmente riconosciuti per l’intervento”, anche fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito, purché sia sempre rispettata la distanza preesistente.
   In considerazione del suo tenore letterale, questa previsione deve intendersi come riferita non a qualsiasi incremento volumetrico, che possa accompagnare l’intervento di demolizione e ricostruzione, ma solo a quelli aventi carattere di “incentivo”, ad esempio perché attribuiti in forza di norme di “piano casa” ovvero aventi natura premiale per interventi di riqualificazione.
   Tanto premesso, il terzo periodo del comma in esame –oggetto della novella apportata con il decreto-legge n. 76/2020-, lungi dall’avere un carattere di principio riferibile alla totalità degli interventi di demolizione e ricostruzione, costituisce manifestamente una specificazione delle previsioni precedenti in relazione all’ipotesi in cui gli interventi qui considerati riguardino edifici siti nelle zone omogenee A o in zone assimilate a queste dai piani urbanistici comunali, ovvero nei centri e nuclei storici consolidati o in aree comunque di particolare pregio storico o architettonico.
   Per queste ipotesi, il legislatore ha posto un’ulteriore condizione per l’applicabilità delle disposizioni dettate dal medesimo comma (e, quindi, perché la ricostruzione dell’edificio possa avvenire nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti e possa fruire degli eventuali incentivi volumetrici nei limiti anzi detti): e cioè che l’intervento sia contemplato “esclusivamente nell’ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale”.
   Ancora una volta, la ratio della previsione risiede nell’esigenza di assicurare una maggior tutela al valore d’insieme delle aree soggette allo specifico regime delle zone A e dei centri storici, escludendo che all’interno di esse gli interventi di cui al medesimo comma 1-ter dell’articolo 2-bis possano essere direttamente realizzati dagli interessati e stabilendo invece che essi debbano inserirsi nella più generale considerazione del contesto di riferimento che solo un piano particolareggiato può assicurare.
   Peraltro, anche in questo caso il legislatore si fa carico di far salve “le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti”, e quindi la facoltà che le Amministrazioni preposte alla pianificazione del territorio, nei rispettivi ambiti di competenza, possano dettare prescrizioni diverse e anche meno rigorose per l’effettuazione degli interventi in discorso, tenuto conto dello specifico contesto preso in considerazione.
   Nonostante il riferimento testuale agli strumenti di pianificazione “vigenti”, la disposizione deve essere intesa non come una semplice salvezza delle eventuali previsioni urbanistiche difformi in essere alla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 76/2020, ma come un rinvio generale al potere di pianificazione esercitabile in ogni tempo dalle amministrazioni competenti.
   Infine, in relazione al richiamo conclusivo ai “pareri degli enti preposti alla tutela” (anch’essi fatti salvi dalla disposizione in esame), si osserva che, con tale inciso, il legislatore ha voluto semplicemente ribadire la necessità, laddove risultino vincoli insistenti sui singoli edifici o sulle aree interessate dagli interventi, di acquisire il parere delle Autorità preposte e non già introdurre un nuovo vincolo legale esteso a tutte le aree cui la previsione è riferita.

VARIOggetto: Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 03.11.2020. Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25.03.2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 25.05.2020, n. 35, recante «Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19», e del decreto-legge 16.05.2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.07.2020, n. 74, recante «Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19» (Ministero dell'Interno, nota 07.11.2020 n. 15350 di prot.).

VARIOggetto: Decreto-legge 07.10.2020, n. 125, recante “Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonché per l'attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 03.06.2020” (Ministero dell'Interno, nota 10.10.2020 n. 62445 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVIOggetto: Decreto-legge 16/07/2020 n. 76, come convertito dalla legge 11.09.2020 n. 120 – art. 37 – Disposizioni per favorire l’utilizzo della posta elettronica certificata nei rapporti tra pubbliche amministrazioni, imprese e professionisti - prime indicazioni (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 30.09.2020 n. 615).

COMPETENZE PROGETTUALIOggetto: Competenze professionali - sentenza TAR Lazio-Roma, 25.05.2020 n. 170 – circolare CNAPPC n. 92 del 27.07.2020 - competenze degli Ingegneri e degli Architetti in tema di progettazione delle opere di urbanizzazione primaria – integrazione della circolare CNI 23/06/2020 n. 581 e comunicazione prossime iniziative (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 28.09.2020 n. 612).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Pubblicati i decreti di recepimento delle direttive UE sull’economia circolare: modifiche alla gestione dei rifiuti (ANCE di Bergamo, circolare 21.09.2020 n. 362).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Regione Lombardia – Misure per la limitazione del traffico veicolare e ulteriori disposizioni per il miglioramento della qualità dell’aria (ANCE di Bergamo, circolare 18.09.2020 n. 351).

ATTI AMMINISTRATIVIOggetto: Richiesta di parere su articolo 37, comma 1, lett. e), del d.l. n. 76/2020 (Ministero della Giustizia, nota 17.09.2020 n. 144610 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto del MIT relativo alla attestazione del rischio sismico per gli interventi che beneficiano del Sismabonus (ANCE di Bergamo, circolare 11.09.2020 n. 350).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Lavoratori Fragili – Circolare congiunta Min. Salute e Min. Lavoro (ANCE di Bergamo, circolare 11.09.2020 n. 348).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: “Bonus facciate” – i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate (ANCE di Bergamo, circolare 11.09.2020 n. 347).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: Oggetto: Regione Lombardia – Disciplina degli interventi di manutenzione degli alvei e gestione delle discariche. Legge regionale n. 18 del 07.08.2020 (ANCE di Bergamo, circolare 11.09.2020 n. 346).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: Regione Lombardia – L.R. 18/2019: criteri per l’incremento dell’indice di edificabilità e la riduzione del contributo di costruzione (ANCE di Bergamo, circolare 11.09.2020 n. 345).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: Regione Lombardia – Proroga dei termini in ambito edilizio ed urbanistico a causa dell’emergenza Covid-19. Legge regionale n. 18 del 07.08.2020 (ANCE di Bergamo, circolare 09.09.2020 n. 343).

SICUREZZA LAVORO - VARI: Oggetto: Emergenza Covid-19: aggiornamento sugli ultimi provvedimenti. DPCM 07.09.2020 (ANCE di Bergamo, circolare 09.09.2020 n. 342).

VARI: Oggetto: Decreto Legge 104/2020 (cd. “Decreto Agosto”) – primi commenti (ANCE di Bergamo, circolare 04.09.2020 n. 341).

VARI: Oggetto: COVID 19 – Ulteriori proroghe di validità delle patenti di guida (ANCE di Bergamo, circolare 04.09.2020 n. 340).

CONDOMINIO - ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI - VARI: Oggetto: Decreto Legge c.d. “Agosto”. Pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e nota di commento di ANCE (ANCE di Bergamo, circolare 04.09.2020 n. 339).

ATTI AMMINISTRATIVIOggetto: Misure statali e regionali in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 nelle pubbliche amministrazioni. Disposizioni in merito allo svolgimento delle conferenze di servizi ai sensi dell’art. 14-ter della L. 241/1990 (Regione Lazio, nota 13.03.2020 n. 221352 prot.).
---------------
Come noto, con diversi D.P.C.M. a partire dal 01.03.2020 sono state introdotte misure urgenti per il contenimento del contagio da COVID-2019, tra le quali la sospensione di eventi di svariata natura che comportino il contatto tra le persone nonché la sollecitazione all’utilizzo di modalità telematiche per l’assolvimento delle attività lavorative.
Al fine di assicurare la massima attuazione a quanto disposto dai provvedimenti sopra indicati, si raccomanda ai Comuni, nel quadro delle attività amministrative che svolgono per mezzo dell’istituto della conferenza di servizi, di attenersi scrupolosamente alle disposizioni statali e regionali fin qui adottate, e si forniscono specifiche indicazioni in proposito. (...continua).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Modalità applicative dell'art. 18-ter, comma 1, lett. b-ter), della l.r. 06.07.1998, n. 24 - Integrazione alla nota prot. 261120 del 03.04.2019 (Regione Lazio, nota 23.01.2020 n. 63818 di prot.).
---------------
Con la presente nota si forniscono ai Comuni indicazioni sulle modalità applicative della disposizione in oggetto, rispondenti alle valutazioni espresse in merito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo.
L’art. 18-ter, comma 1, della l.r. 24/1998 (inserito dall’articolo 13, comma 1, della legge regionale 09.12.2004, n. 18), prevede diverse ipotesi di deroga alle disposizioni poste a tutela dei beni e delle aree sottoposte a vincolo paesaggistico.
In particolare, la lettera b-ter), introdotta dall’art. 3, comma 90, della l.r., 31.12.2016, n. 17, dispone che “previo parere preventivo e vincolante del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo sono consentite la realizzazione di opere pubbliche o di pubblico interesse”.
Poiché la norma attribuisce la decisione sull’ammissibilità della deroga al Ministero, questa Direzione regionale ha interpellato l’Ufficio legislativo del MIBAC (nota 03.04.2019, prot. 261120), allo scopo di assicurarne la corretta ed uniforme applicazione.
L’Ufficio legislativo ha risposto in data 19.07.2019, nota prot. 20351, con cui ha richiamato i principi fissati dal Consiglio di Stato nel parere n. 1640 del 13.07.2016 in materia di silenzio-amministrativo tra pubbliche amministrazioni e tra amministrazione e soggetto privato.
Inoltre, per quanto riguarda specificamente l’applicazione dell’art. 18-ter, comma 1, lett. b-ter), della l.r. 24/1998, l’Ufficio legislativo ha trasmesso la nota 17.07.2019, prot. 19803, della competente Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio.
La richiesta di parere della scrivente Direzione regionale, la risposta dell’Ufficio legislativo del Ministero e la nota della Direzione Generale sopra specificate sono state pubblicate sul sito regionale ... (... continua).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31, recante: "Individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata" (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 11.04.2017 n. 11688 di prot.).
---------------
Sulla Gazzetta ufficiale n. 68 del 22.03.2017 è stato pubblicato il decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31 entrato in vigore il giorno 06.04.2017.
Al riguardo, si fornisce qui di seguito, con preghiera di diffusione, una prima informativa di carattere generale delle nuove disposizioni, riservandosi di trasmettere ulteriori approfondimenti analitici con successivi atti, anche alla luce delle prime esperienze applicative e tenuto conto del fatto che la competente Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio, anche su indicazione del Sottosegretario, Onorevole Ilaria Borletti Buitoni, delegata per il paesaggio, intende a breve convocare, entro la fine del corrente mese, un apposito incontro tematico, avente ad oggetto una prima disamina più analitica del regolamento, con i titolari degli uffici periferici competenti.
Una prima, ampia, informazione sul nuovo regolamento è contenuta nella analitica relazione illustrativa che lo accompagna, che è pubblicata sul sito del Ministero e che, comunque, per più agevole consultazione, si allega alla presente nota. (...continua).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICICantieri off limits alle imprese senza la patente a crediti. Dall’1/10 il possesso è obbligatorio per le aziende di ogni tipo e per i lavoratori autonomi.
Cantieri edili off limits. È vietato operarvi, infatti, se non si ha la patente a crediti: imprese di ogni tipo e settore produttivo (non solo quelle qualificabili come edili) e lavoratori autonomi. Non c’è divieto invece, cioè non serve la patente a crediti, a chi deve effettuare attività di mere forniture o prestazioni di natura intellettuale (a esempio ingegneri, architetti, geometri) e alle imprese in possesso di attestazione di qualificazione SOA, pari o superiore alla III.

La novità, prevista dall’art. 29 del decreto legge n. 19/2024 convertito in legge n. 56/2024, è operativa dal 1° ottobre, ma in versione non definitiva per quanto attiene alla procedura per la richiesta. Infatti, imprese e lavoratori autonomi devono fare due domande in due tempi diversi: una per ricevere una patente valida per il mese di ottobre; un’altra per ricevere la patente definitiva, con validità a partire dal 1° novembre.
I soggetti interessati
A decorrere dal 1° ottobre, dunque, il possesso della patente a crediti è indispensabile per le imprese e i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili, fatta eccezione di coloro che effettuano mere forniture o prestazioni di natura intellettuale.
L’Inl ha precisato, in merito, che i soggetti tenuti ad avere la patente sono tutte le imprese, non necessariamente qualificabili come imprese edili, e i lavoratori autonomi che operano “fisicamente” nei cantieri. La precisazione sembra sottolineare che il divieto non opera ai fini dell’accesso al cantiere, ma a operarvi.
L’obbligo riguarda anche le imprese e i lavoratori autonomi stabiliti in uno stato Ue o extraue; tuttavia, il rilascio della patente avviene sulla base di una procedura diversa. Invece, sono escluse dall’obbligo della patente a crediti le imprese in possesso dell'attestazione di qualificazione SOA, in classifica pari o superiore alla III.
I requisiti
Ai fini del rilascio della patente è richiesto il possesso dei seguenti requisiti:
   - iscrizione alla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura;
   - adempimento, da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro, degli obblighi formativi previsti dal dlgs n. 81/2008 (Tu sicurezza sul lavoro);
   - possesso del documento unico di regolarità contributiva (Durc) in corso di validità;
   - possesso del documento valutazione rischi (Dvr), nei casi previsti dalla normativa vigente;
   - possesso della certificazione di regolarità fiscale (Durf), nei casi previsti dalla normativa vigente;
   - avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp), nei casi previsti dalla normativa vigente.
Non tutti i requisiti sono vincolanti per tutte le categorie di soggetti interessati; in alcuni casi, infatti, è precisato “nei casi previsti dalla normativa vigente” (requisiti d, e, f). Un esempio: il Dvr non è richiesto ai lavoratori autonomi e alle imprese prive di lavoratori (le imprese individuali senza lavoratori sono considerate lavoratori autonomi dal Tu sulla sicurezza).
Il possesso dei requisiti è oggetto di autocertificazione/dichiarazione sostitutiva ai sensi del dpr n. 445/2000; pertanto, eventuali falsità sono punite con la sanzione penale (ex art. 76). In particolare, l’iscrizione alla Cciaa, il possesso del Durc e del Durf sono attestati con autocertificazione (ex art. 46); gli adempimenti formativi, il possesso del Dvr e la designazione del Rspp con le dichiarazioni sostitutive (ex art. 47).
Due domande, due tempistiche
La patente è rilasciata in formato digitale accedendo al portale dell’Inl, attivo dal 1° ottobre, con Spid o Cie.
Possono presentare domanda di rilascio della patente il legale rappresentante dell’impresa e il lavoratore autonomo, anche tramite soggetto con apposita delega scritta, inclusi i soggetti della legge n. 12/1979 (consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati e Caf).
Qualora la richiesta della patente sia effettuata dai soggetti delegati, questi ultimi dovranno munirsi delle dichiarazioni rilasciate dal legale rappresentante dell’impresa o dal lavoratore autonomo relative al possesso dei requisiti, da esibire in caso di eventuali accertamenti. All’esito della richiesta, il portale genera un codice univoco associato alla patente che sarà rilasciata in formato digitale.
Dopo la presentazione della domanda, nelle more del rilascio della patente è consentito lo svolgimento delle attività, salva diversa comunicazione notificata dall’Inl. Come accennato, sono previste due tempistiche e due procedure per avere la patente.
Dal 23 settembre al 31 ottobre
In fase di prima applicazione è possibile presentare, utilizzando l'apposito modello, un’autocertificazione/dichiarazione sostitutiva concernente il possesso dei requisiti, tramite Pec all’indirizzo dichiarazionepatente@pec.ispettorato.gov.it”.
L’invio tramite Pec ha efficacia limitata fino al 31.10.2024 e vincola a presentare la domanda per il rilascio della patente, mediante il portale dell’Inl entro la stessa data (31.10.2024).
Dal 1° novembre
Dal 1° novembre non sarà più possibile operare in cantiere in forza della trasmissione, via Pec, dell'autocertificazione/dichiarazione, ma è indispensabile aver inviato la domanda di rilascio della patente tramite il portale dell’Inl.
L’Inl non ha precisato se questa seconda domanda sarà una sorta di regolarizzazione della prima o se costituirà una domanda ex novo. Il problema si pone in ordine al possesso dei requisiti, perché, come precisato dall’Inl stesso, il loro possesso va valutato al “momento della richiesta”.
Può succedere, allora, che la situazione dichiarata il 1° ottobre (rilascio patente provvisoria) possa cambiare il 30 ottobre (seconda richiesta) per l’assenza, ad esempio, del Durc (usando lo stesso esempio dell’Inl).
Come funziona il sistema dei crediti
La patente è dotata di un punteggio iniziale di 30 crediti, che possono salire fino al massimo di 100, e per potere operare nei cantieri sono sufficienti 15 crediti.
Il punteggio viene decurtato in relazione alle risultanze dei provvedimenti definitivi, emanati nei confronti dei datori di lavoro, dirigenti e preposti delle imprese o dei lavoratori autonomi, nei casi e nelle misure che sono indicate nell'allegato I-bis al Tu sicurezza, con le penalità che vanno da 1 a 20 crediti (ad esempio, per l’omessa elaborazione del Dvr, nei casi dove è dovuto, la decurtazione è di 5 crediti; per l’infortunio mortale di un dipendente, causato dalla violazione delle norme sulla prevenzione, la decurtazione è di 20 crediti).
Se nell'ambito di uno stesso accertamento ispettivo sono contestate più violazioni, i crediti sono decurtati in misura non eccedente il doppio di quella prevista per la violazione più grave.
La patente perde crediti solo a seguito di provvedimenti definitivi, comunicati all’Inl, entro 30 giorni, anche con modalità informatiche, dall'amministrazione che li ha emanati. Quali siano questi “provvedimenti definitivi” è precisato dalla norma: una sentenza passata in giudicato o un’ordinanza ingiunzione divenuta definitiva. Il primo caso si verifica quando una sentenza non è impugnata.
Il secondo si può evitare, per esempio, pagando la sanzione del verbale, poiché l’ordinanza-ingiunzione è emessa dopo il decorso del termine di pagamento in misura ridotta delle sanzioni indicate nell’accertamento e diventa definitiva se non c’è opposizione nei 30 giorni dalla notifica (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2024).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIInfortuni, colpa grave ai raggi X. Le istruzioni dell’Inl sulla revoca e sospensione della patente e sui compiti degli ispettori.
La patente a crediti mette la toga indosso all'ispettore. Il quale, infatti, deve inventarsi giudice e verificare se, in un infortunio sul lavoro, ci sia stata “colpa grave” del datore di lavoro, del suo delegato o del dirigente per poter sospendere la patente, principale sanzione legata alle nuove regole per lavorare nei cantieri edili dal 1° ottobre.

Come fare, lo spiega la
circolare 23.09.2024 n. 4 dell'Ispettorato nazionale del lavoro (si veda ItaliaOggi del 24 settembre), che illustra la nuova disciplina della patente a crediti.
Una volta ottenuta la patente, inoltre, faranno fede soltanto i crediti; infatti, ha precisato ancora l'Inl, l'eventuale venir meno di un requisito (ad esempio, il Durc) non ne pregiudicherà la validità (potrà continuare a essere utilizzata).
Una licenza per lavorare. La nuova disciplina obbliga imprese e lavoratori autonomi a possedere la patente a crediti per poter operare nei cantieri temporanei o mobili edili (si veda altro articolo in altra pagina). La patente è dotata di un punteggio iniziale di 30 crediti, ma per potere operare nei cantieri sono sufficienti 15 crediti. Sul versante sanzionatorio, la disciplina prevede tre principali ipotesi: la revoca della patente; la sospensione cautelare della patente; le sanzioni pecuniarie.
La revoca delle patente. Il provvedimento di revoca della patente viene adottato dall'Inl sulla base di un accertamento in ordine all'assenza di uno o più requisiti dichiarati “inizialmente”. Buona notizia, questa, perché ne consegue, come ha precisato l'Inl, che il venir meno di uno o più requisiti in un momento successivo al rilascio della patente (per esempio, successiva assenza del Durc) non inciderà sulla sua utilizzabilità.
Il controllo dei requisiti, a campione, potrà esserci sia d'ufficio, sia in occasione di accessi ispettivi dell'Inl o da altri organi di vigilanza.
L'adozione del provvedimento di revoca, inoltre, sarà preceduto da un confronto con l'impresa o il lavoratore autonomo titolare della patente e da una valutazione in merito alla gravità dei fatti.
A tal proposito, con specifico riferimento al requisito relativo all'assolvimento degli obblighi formativi, pur a fronte di una dichiarazione sostituiva ritenuta non veritiera, andrà comunque valutata la gravità dell'omissione (data, per esempio, dalla totale assenza di formazione tenendo conto del numero dei lavoratori interessati in rapporto alla consistenza aziendale), la circostanza secondo cui l'eventuale omissione riguardi personale non destinato a operare in cantiere (il personale amministrativo, per esempio) o che l'impresa abbia ottemperato o meno alle prescrizioni impartite (ai sensi del dlgs n. 758/1994).
Decorsi 12 mesi dalla revoca l'impresa e il lavoratore autonomo possono richiedere il rilascio di una nuova patente.
La sospensione della patente. Il provvedimento di sospensione cautelare della patente è adottato dall'Inl “se nei cantieri (…) si verificano infortuni da cui deriva la morte del lavoratore o un'inabilità permanente, assoluta o parziale (…)”, al massimo per 12 mesi.
Due le ipotesi di stop. I presupposti per l'adozione del provvedimento di sospensione cautelare della patente sono dati dal verificarsi di infortuni da cui deriva:
   - la morte di uno o più lavoratori imputabile al datore di lavoro, al suo delegato ovvero al dirigente, almeno a titolo di colpa grave;
   - l'inabilità permanente di uno o più lavoratori o una irreversibile menomazione suscettibile di essere accertata immediatamente, imputabile al datore di lavoro, al suo delegato ovvero al dirigente, almeno a titolo di colpa grave.
Stop in caso d'infortunio mortale. Nel primo caso, la disciplina stabilisce che la sospensione “è obbligatoria, fatta salva la diversa valutazione dell'Inl adeguatamente motivata”. Pertanto, ha precisato l'Inl, ferma restando la sussistenza dei presupposti, la sospensione è normalmente adottata, a meno che dall'adozione e, quindi, dalla cessazione delle attività in corso, non possano derivare situazioni di grave rischio per i lavoratori o per i terzi o comunque per la pubblica incolumità.
Stop in caso d'inabilità permanente. Nel secondo caso, ha spiegato l'Inl, la sospensione non può prescindere da un provvedimento di riconoscimento dell'inabilità da parte dell'Inail, il quale dovrà comunicare all'Inl (sede competente) le proprie determinazioni, unitamente a ogni informazione utile a definire eventuali responsabilità in capo al datore di lavoro, al delegato o al dirigente. La disciplina fa richiamo anche all'ipotesi di una “irreversibile menomazione suscettibile di essere accertata immediatamente”.
Secondo l'Inl, si tratta dei casi in cui non è indispensabile attendere il riconoscimento dell'inabilità permanente (ad esempio in caso di perdita di un arto). In tal caso, dunque, l'Inl non dovrà necessariamente attendere l'adozione del provvedimento da parte dell'Inail ai fini della sospensione della patente, a meno che non ritenga che lo stesso sia necessario a consentire una più adeguata valutazione, unitamente alla responsabilità per “colpa grave”, della durata della sospensione.
La discrezionalità dell'ispettore. Il secondo caso, quello dell'adozione della sospensione per inabilità permanente, ha spigato l'Inl, presenta maggiori caratteri di discrezionalità. Infatti, la disciplina stabilisce che lo stop “può essere adottato se le esigenze cautelari non sono soddisfatte mediante il provvedimento di cui all'art. 14 del dlgs n. 81/2008 o all'art. 321 del codice di procedura penale”.
In altri termini, non si provvederà a sospendere la patente ogniqualvolta il cantiere interessato sia stato già oggetto di un provvedimento di sospensione dell'attività d'impresa (ai sensi dell'art. 14 citato), adottata per violazioni prevenzionistiche o in ragione dell'impiego di lavoratori in nero e/o di un provvedimento di sequestro preventivo da parte della Autorità giudiziaria (ai sensi del citato art. 321 c.p.p.), a meno che detti provvedimenti, in relazione all'effettivo rischio che ha determinato l'evento infortunistico, siano del tutto inadeguati a prevenire il ripetersi di eventi infortunistici.
Ispettori in toga. Uno dei presupposti per la sospensione della patente è l'imputabilità al datore di lavoro, al suo delegato ovvero al dirigente, almeno a titolo di colpa grave, dell'evento infortunistico (mortale o d'inabilità permanente), operazione che spetterà fare agli ispettori.
Al riguardo, l'Inl ha spiegato che le indagini dovranno incentrarsi, anzitutto, sul nesso causale tra l'evento infortunistico e il comportamento, commissivo od omissivo, del datore di lavoro, del delegato o del dirigente.
«Pur tenendo conto che l'accertamento definitivo del reato è sempre rimesso alla A.G.», ha aggiunto l'Inl, «l'organo accertatore dovrà acquisire ogni elemento utile a individuare l'esistenza di una responsabilità diretta “almeno a titolo di colpa grave" di uno o più dei soggetti indicati, secondo il criterio del “più probabile che non”, fermo restando che, laddove tali responsabilità non siano del tutto chiare e richiedano approfondimenti che possono essere effettuati solo nell'ambito di un procedimento giudiziario, la sospensione non potrà essere adottata».
Una precisazione che, ai fini pratici, sembra preludere ad uno scarso utilizzo della sospensione cautelare della patente, nonché a un contenzioso in merito alla ricorrenza del presupposto della “colpa grave” (che cosa succede se, sospesa la patente, il giudice poi sentenzia che non c'era colpa grave nell'infortunio?).
L'Inl ricorda, in linea generale, che la “colpa grave” è una forma di responsabilità che va oltre la semplice colpa, caratterizzata da marcata violazione dei doveri di diligenza, specificamente connessi alla prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori, a tal fine tenendo conto delle condizioni indicate in tabella. E precisa che, solo laddove siano state accertate tutte le condizioni indicate, ivi compreso il requisito della gravità della condotta, il provvedimento potrà essere adottato (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2024).
---------------
I paletti per la «colpa grave»
Grado di negligenza
La colpa grave implica un comportamento che si discosta notevolmente da ciò che è considerato ragionevole e diligente
Violazione norme di sicurezza
La colpa grave si concretizza nella violazione evidente e sostanziale di specifiche norme prevenzionistiche da adottare e ciò può includere, ad esempio, il mancato rispetto delle procedure obbligatorie, l’omissione di misure di protezione necessarie o il non aver fornito istruzioni e formazione ai lavoratori
Consapevolezza del rischio
Un aspetto importante della colpa grave è che il responsabile era, o avrebbe dovuto essere, pienamente consapevole del rischio a cui esponeva i lavoratori e pertanto la colpa grave si manifesta quando il soggetto agisce (o omette di agire) con una coscienza chiara del pericolo ma senza adottare le specifiche misure volte a prevenire il rischio che ha determinato l’evento infortunistico

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAI rifiuti da costruzione diventano risorse utili.
Ieri è entrato in vigore il decreto 28.06.2024 n. 127 del Ministero dell'ambiente e della sicurezza energetica che, abrogando il dm 27.09.2022, n. 152, definisce i nuovi criteri per la qualificazione dei rifiuti da costruzione quali End of waste. Le nuove disposizioni regolamentari mirano a superare le criticità della precedente disciplina, soprattutto per quanto attiene i profili di responsabilità del produttore.
Si tratta di un passo importante per il mercato della gestione dei rifiuti, nella misura in cui favorisce la promozione di un approccio più efficiente e sostenibile nonché coerente con il modello di economia circolare.
L'importanza e l'urgenza del decreto sono ancora più avvertite se si considera che il settore delle costruzioni e delle demolizioni è quello con la maggiore produzione totale di rifiuti speciali, con quasi 80,8 milioni di tonnellate, stando ai dati pubblicati dall'Ispra nel 2022.
Il regolamento elabora una nozione di rifiuti inerti derivanti da attività di costruzione e demolizione e di origine minerale (che costituiscono l'ambito applicativo della disciplina) e definisce dettagliatamente le condizioni e i criteri che permettono ai rifiuti inerti di cessare di essere classificati come tali ai sensi dell'art. 184-ter dlgs n. 152/2006 dopo specifiche operazioni di recupero.
Vengono altresì codificati in capo al produttore del rifiuto destinato alle operazioni di recupero una serie di oneri, tra cui la responsabilità della corretta attribuzione dei codici dei rifiuti e delle caratteristiche di pericolo degli stessi, la compilazione del formulario di identificazione del rifiuto (Fir) e il prelevamento di campioni da conservarsi presso l'impianto di produzione.
Al Ministero spetta, in base ai dati acquisiti attraverso il Registro nazionale delle autorizzazioni al recupero (ReCer) dall'attività di monitoraggio, l'opportunità di procedere a una revisione dei criteri previsti.
Le imprese che operano nel settore del recupero dei rifiuti inerti se, da una parte, sono chiamate adeguarsi ai nuovi standard, da recepirsi obbligatoriamente entro il 25.03.2025, dall'altra parte, godono in prospettiva del beneficio di poter trasformare i rifiuti inerti in risorse utili e di conseguenza ridurre la necessità di reperire nuovi materiali. Si avverte, pertanto, anche uno stimolo all'iniziativa imprenditoriale, soprattutto per quanto attiene agli investimenti nelle infrastrutture necessarie per il trattamento e il recupero.
In conclusione, il nuovo quadro normativo, definendo linee guida precise per garantire il rispetto degli standard di qualità e sicurezza, consente la reintroduzione dei materiali nel ciclo produttivo e favorisce la transizione del comparto edilizio verso modelli di circolarità (articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).

SEGRETARI COMUNALIExtra fondi ai segretari.
Spetta alla contrattazione integrativa la quantificazione degli extra per i segretari che ricoprono ad interim incarichi dirigenziali.

È uno dei punti su cui si sofferma l'Anci nel proprio quaderno operativo n. 51 (settembre 2024) riguardante "Le principali novità del Ccnl Area Funzioni locali 2019-2021. Dirigenti e Segretari Comunali e Provinciali".
Il contratto, sottoscritto lo scorso 16 luglio, è la conclusione di una lunga e complessa attività negoziale iniziata con l'approvazione dell'Atto di Indirizzo del Comitato di settore Autonomie Locali e impatta su circa 9.000 uomini e donne che hanno la responsabilità di gestire quotidianamente processi complessi che attengono al soddisfacimento di bisogni delle comunità che amministrano. Si compone di una parte comune e due sezioni: dirigenti e segretari comunali e provinciali.
Tra le novità più significative per quanto riguarda i dirigenti, si segnala in particolare la previsione del cd scavalco condiviso finora previsto per il solo personale dipendente, colmando così una lacuna contrattuale; la maggiorazione della retribuzione di risultato correlata a specifici obiettivi di impatto; la disciplina del lavoro agile.
Nella sezione dei segretari comunali e provinciali le principali novità contrattuali viene finalmente introdotta una disciplina specifica per l'interim per la copertura delle posizioni dirigenziali temporaneamente prive di titolare, che viene parzialmente uniformata a quella prevista per i dirigenti.
In tali casi, al segretario è attribuita una percentuale della retribuzione di posizione come definita dalla contrattazione integrativa per i dirigenti, e corrisposta solo all'esito della valutazione collegata alla performance. Il relativo importo è posto a carico del Fondo per la retribuzione di posizione e risultato di cui all'art. 57 del Ccnl 17.12.2020 (articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Su lavori con 110% difformi non è detto aiuti il Salva casa. LAVORI CON BONUS110% TERMINATI IN TEMPO SOLO SULLA CARTA.
Domanda
Nel mio condominio i lavori Superbonus sono terminati il 31.12.2023, in tempo per fruire del 110%. I lavori sono stati oggetto di sconto in fattura da parte del General Contractor che, credo, li abbia a sua volta ceduti.
Abbiamo però incaricato un consulente per delle verifiche ed è emerso che purtroppo la fine dei lavori è avvenuta solo sulla carta, e alcune opere non risultano eseguite.
Dovremmo rivolgerci a un legale per contestare la situazione?
D.P.
Risposta
Per “bloccare” la percentuale del Superbonus (che è scesa dal 110% al 90% nel 2023, al 70% nel 2024 e che scenderà ancora al 65% del 2025), non serve finire i lavori entro il rispettivo anno, ma aver pagato le spese al 31 dicembre. Ciò, però, vale solo in caso di detrazione diretta, mentre per la cessione del credito e lo sconto in fattura serve aver ultimato i lavori nell'anno.
Dunque, la preoccupazione del lettore è ragionevole, perché tale requisito potrebbe venire a mancare nei fatti. Il caso è complesso, non essendo prevista una procedura ufficiale, ed è anzitutto necessario verificare quali opere non siano state realizzate. Bisognerà cioè valutare la loro incidenza di costo, nonché la loro rilevanza ai fini del raggiungimento degli obiettivi tecnici di efficientamento energetico o sismico richiesti per il Superbonus.
Nell'ipotesi in cui i lavori mancanti risultino di entità e tipologia non trascurabile, è allora consigliabile segnalarlo all'Amministratore di condominio e all'Assemblea. Dopodiché, il lettore si troverà davanti a una decisione difficile, perché a rischio vi è non solo la corretta spettanza della detrazione, ma potrebbero configurarsi anche degli illeciti.
In simili casi non esiste una procedura ufficiale nemmeno nell'ipotesi (remota) in cui il condominio voglia restituire i crediti indebitamente fruiti all'erario, e applicando quali sanzioni, poiché in ogni caso l'Agenzia delle Entrate, eventualmente informata dei fatti, dovrà avviare un accertamento autonomo, volto a verificare il punto in questione ma anche l'intera pratica, con le tempistiche e le incertezze del caso (articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).

EDILIZIA PRIVATA: PROBLEMI CON IL RILASCIO DELL'AGIBILITÀ' PER DUE VILLETTE REALIZZATE CON IL SUPERBONUS.
Domanda
Ho acquistato nel 2020 un fabbricato allo stato collabente (categoria catastale F/2) e, sfruttando il Superbonus, ho realizzato due villette a schiera di circa 90 metri quadrati ciascuna che ho poi messo in vendita.
In fase di rilascio dell'agibilità, il tecnico del Comune ha contestato l'altezza esterna che, a suo dire, sarebbe superiore di 30 cm rispetto a quanto previsto in progetto.
Ciò mette a rischio il Superbonus? Il Salva Casa, inoltre, può venire in aiuto?
E.T.
Risposta
Il Salva Casa (dl 69/2020) ha aumentato le tolleranze dell'art. 34-bis del Testo unico dell'edilizia (Tue, dpr 380/2001) in riferimento alle difformità dai titoli edilizi avvenute prima del 24.05.2024. Per quelle verificatesi dopo, lo scostamento massimo consentito è pari al 2%, mentre per quelle precedenti sono previste percentuali inversamente proporzionali alle dimensioni delle unità immobiliari.
Nel caso presentato, l'unità ha dimensioni sotto i 100 mq, ma sopra i 60 mq, e la franchigia al di sotto della quale non si verifica alcuna violazione è dunque pari al 5%. Perciò, l'altezza può essere sforata fino a 45 cm, e uno scostamento di 30 cm non costituisce violazione per effetto del Salva Casa.
Tuttavia, la situazione non è così semplice.
È normale, infatti, che il tecnico comunale abbia contestato la difformità, non potendo sapere se è stata commessa prima o dopo il 24 maggio. Sarà bene allora avviare un “dialogo” con l'Ufficio preposto, illustrando di rientrare nel Salva Casa. Essendoci in gioco, poi, il Superbonus, i dubbi si moltiplicano.
Infatti, il dl 34/2020, articolo 119, commi 13-ter, lett. b) prevede che l'aver realizzato interventi difformi dalla cilas ne comporta la decadenza. Tuttavia, il Salva Casa rende irrilevante una difformità come quella descritta, ma non è certo che ciò sia sufficiente a “disinnescare” la causa di decadenza, dato che le tolleranze implicano che le difformità contenute nei loro limiti non costituiscono violazioni edilizie, ma la difformità potrebbe rimanere tale.
In ogni caso, la situazione va seguita con attenzione, data la volontà di vendere gli immobili.
Ciò perché il Superbonus non è fruibile da chi percepisca redditi d'impresa, e la prassi fiscale ha spesso considerato imprenditoriale lo svolgimento di un singolo affare “privato” (come la vendita di un immobile) che risulti, tra le altre cose, economicamente voluminoso (articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Fondi contro le opere abusive. Contributi ai comuni per la demolizione. Un’istanza a ente. I municipi avranno tempo fino al 16 ottobre alle ore 12 per presentare le domande.
Fino a mercoledì 16.10.2024 alle ore 12 i comuni posso presentare domanda di accesso al fondo per la demolizione delle opere abusive di cui alla legge 205/2017.

Lo ha stabilito il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti guidato da Matteo Salvini che, a tale scopo, ha predisposto la piattaforma telematica all’indirizzo fondodemolizioni@mit.gov.it, utile alla predisposizione delle domande. Entro la scadenza, le istanze devono essere compilate nella piattaforma, scaricate e firmate digitalmente dal legale rappresentante dell’ente o dal suo delegato, nonché inviate a: fondodemolizioni@pec.mit.gov.it.
Contributi ai comuni
Possono presentare la domanda di concessione del contributo i comuni nel cui territorio ricadono l’opera o l’immobile realizzati in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire. Ciascun comune può compilare e inviare una sola istanza.
Ciascuna istanza può essere composta da più schede, una per ogni intervento proposto, individuata da un identificativo. Gli abusi possono riguardare edifici o ampliamenti edilizi insistenti su aree demaniali o di proprietà di altri enti pubblici, aree a rischio idrogeologico, aree sismiche, aree sottoposte tutela dei beni culturali e paesaggistici oppure aree sottoposte a tutela delle aree naturali protette appartenenti alla rete natura 2000.
Contributo a fondo perduto
I contributi assegnati a valere sul fondo demolizioni riguardano interventi ancora da eseguire identificati attraverso il codice cup. I contributi a fondo perduto sono concessi a copertura del 50% del costo degli interventi di rimozione o di demolizione delle opere o degli immobili realizzati in assenza o totale difformità dal permesso di costruire, per i quali sia stato adottato un provvedimento definitivo di rimozione o di demolizione non eseguito nei termini stabiliti.
Sono incluse le spese tecniche e amministrative, nonché quelle connesse alla rimozione, trasferimento e smaltimento dei rifiuti derivanti dalle demolizioni. Non sono ammesse richieste di contributo per interventi già assegnatari dei finanziamenti di cui ai decreti del ministro per le infrastrutture e i trasporti di approvazione degli interventi di demolizione delle opere abusive e dei relativi importi ammessi al contributo a valere sulle risorse di cui alla legge 27.12.2017 e successivi rifinanziamenti.
Non sono inoltre ammesse richieste di contributo per interventi presentati nelle precedenti campagne e non ammessi al contributo oppure interventi ammessi al contributo per i quali il comune abbia successivamente presentato richiesta di revoca o rinuncia.
Infine, non sono ammesse richieste di contributo per interventi già integralmente finanziati attraverso altri programmi o fondi e non sono ammessi al contributo interventi su immobili oggetto di un giudizio pendente e per i quali alla data della presentazione dell’istanza sia stata accolta l’istanza di sospensione del provvedimento di demolizione o rimozione.
Interventi finanziabili
Possono essere oggetto di contributo unicamente gli interventi ancora da eseguire al momento della presentazione della domanda, pertanto non possono essere rimborsate spese per lavori già eseguiti. I comuni provvedono all’affidamento dei lavori e alla stipulazione del contratto con l’impresa entro 12 mesi dall’assegnazione del contributo e concludono gli interventi nel termine di 24 mesi dalla medesima data di assegnazione, pena la revoca del contributo.
Con provvedimento motivato, i comuni possono chiedere alla competente direzione generale del ministero delle infrastrutture e dei trasporti una proroga della data di ultimazione dei lavori, di durata non superiore a ulteriori 24 mesi, in considerazione della dimensione delle caratteristiche tecnico-costruttive dell'opera da demolire (articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Listino prezzi per sanare. Il Mit indicherà ai comuni quanto chiedere. Salvini al convegno Confedilizia: in arrivo circolare sul dl Salva Casa.
Arriva un listino prezzi per il Salva Casa. Per venire incontro agli uffici comunali in difficoltà nella quantificazione dell'oblazione da chiedere ai cittadini interessati a sanare le piccole difformità edilizie, il ministero delle infrastrutture sta lavorando a una circolare esplicativa che entro gli importi minimi e massimi previsti dal decreto legge n. 69/2024 chiarirà per ciascun intervento l’importo da pagare.

Matteo Salvini ha scelto Piacenza e il tradizionale convegno del coordinamento legali di Confedilizia (dove l’anno scorso fu per la prima volta annunciato il piano del governo) per anticipare un altro tassello attuativo del decreto che, ha rivendicato il ministro, “ha liberato milioni di immobili, ostaggio della burocrazia, da piccole difformità interne che li rendevano non vendibili sul mercato”.
Salvini ha ammesso che ad aver reso necessaria una circolare esplicativa sul tariffario previsto dal dl (da 1.032 a 10.328 euro, ma nei casi in cui l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda, l’oblazione da pagare andrà da un minimo di 516 euro a un massimo di 5.164 euro) è la paura della firma che sta frenando i funzionari degli uffici comunali a seguito delle inchieste della procura di Milano sulle presunte irregolarità nei cantieri.
Il dubbio dei dirigenti comunali in questa fase di attuazione è: quanto chiedo? E per questo dovremo fare una sorta di listino prezzi”, ha spiegato. “L’obiettivo è che gli uffici comunali si liberino di milioni di pratiche, per di più incassando. Solo il comune di Roma stima in 200 mila le pratiche edilizie risalenti a tre condoni. Senza il dl Salva casa non sarebbe mai riuscito a smaltirle. Ora può farlo incassando soldi da mettere a beneficio dei cittadini. E’ un meccanismo win-win”.
Salva Milano
E per sbloccare definitivamente i cantieri fermi non solo nel capoluogo lombardo, ma in tutta Italia, alla Camera accelera la proposta unitaria della maggioranza (Atto Camera 1987 a firma Aldo Mattia, Gianpiero Zinzi, Piergiorgio Cortellazzo e Martina Semenzato) che, sfumata la possibilità di intervenire sulla materia con decreto legge, punta a salvare la pianificazione urbanistica dei comuni e in particolare quella del capoluogo lombardo i cui uffici negli anni hanno suffragato un’interpretazione troppo estensiva (al punto da essere finita nel mirino della procura) sulla possibilità di costruire nelle aree urbanizzate oltre i limiti dei 25 metri di altezza e dei tre metri cubi per metro quadro di volume anche in assenza di piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata.
La proposta di legge dà sei mesi di tempo per realizzare “un riordino organico della disciplina di settore” previo accordo in Conferenza unificata. Governo, regioni, province, comuni e comunità montane dovranno individuare i casi in cui è necessario adottare un piano particolareggiato o una lottizzazione convenzionata.
Nel frattempo gli interventi realizzati o autorizzati fino alla data di entrata in vigore della disciplina di riordino del settore (senza approvazione preventiva di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata) saranno considerati conformi alla disciplina urbanistica alle seguenti condizioni:
   a) edificazione di nuovi immobili su singoli lotti situati in ambiti edificati e urbanizzati;
   b) sostituzione di edifici esistenti in ambiti caratterizzati da una struttura urbana definita e urbanizzata;
   c) interventi su edifici esistenti in ambiti caratterizzati da una struttura urbana.
Verranno considerati interventi di ristrutturazione edilizia, gli interventi di totale o parziale demolizione e ricostruzione realizzati o autorizzati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto Salva Casa.
L’obiettivo della maggioranza è portare il testo in aula “verso la seconda metà di ottobre” (ha precisato a ItaliaOggi il relatore Tommaso Foti di Fratelli d’Italia). Il testo, all’esame della commissione ambiente di Montecitorio, non si annuncia blindato, ma i tempi di approvazione dovranno essere celeri proprio per sbloccare gli oltre 150 cantieri fermi a Milano ma anche in altre città d’Italia.
Deve essere ancora fissato il termine per la presentazione degli emendamenti. Quando lo avremo ricevuto, vedremo se vi e’ qualcosa di migliorativo”, ha spiegato Foti (articolo ItaliaOggi del 24.09.2024).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., nel Ccnl il lavoro agile diventa strumento di welfare.
Clausole per una p.a. troppo anziana e configurazione del lavoro agile sempre più come strumento di welfare invece che di innovazione organizzativa.

La bozza di rinnovo del Ccnl del comparto Funzioni centrali, oggi all'esame di Aran e parti sociali, conferma una tendenza già assodata, manifestata qualche giorno addietro nell'ambito della contrattazione per il rinnovo delle Funzioni locali.
Con risorse finanziarie limitate e comunque al di sotto dell'indice Ipca e già, per altro, in gran parte utilizzare per effetto delle anticipazioni previste dalla legge di bilancio 2023, i contenuti della contrattazione collettiva hanno la strada obbligata dell'aumento di attenzione verso istituti giuridici, più che economici.
L'attenzione maggiore è rivolta, quindi, alla necessità di affrontare il problema dell'eccessivo invecchiamento dell'età media anche dei dipendenti del comparto Funzioni centrali, “nobilitato” dall'aziendalistica definizione di “age management”.
E' una previsione di alcune misure sostanzialmente di welfare nell'ambito lavorativo. In primo luogo, cercando di non rassegnarsi al pericolo di una perdita di aggiornamento e competenza, mediante la valorizzazione della persona lungo l'intero percorso professionale; la bozza punta sulla garanzia di opportunità adeguate per esprimere la professionalità acquisita e favorire lo sviluppo continuo delle competenze.
Allo scopo, occorreranno ambienti di lavoro (non solo logistici, ma anche organizzativi) favorevoli alla produttività individuale, promuovendo al contempo le migliori condizioni di salute possibili e prevenzione di malattie professionali e infortuni sul lavoro.
Uno dei metodi più di rilievo suggeriti dalla bozza per avvalersi al meglio delle capacità del personale anziano è il “dialogo intergenerazionale”, cioè l'impostazione di sistemi di affiancamento ai neoassunti, anche attraverso attività individuali di formazione e scambio di competenze tra le diverse generazioni. Il punto di forza è, comunque, la maggiore flessibilità nella gestione del lavoro. Per il personale più avanti con l'età, l'organizzazione dovrebbe prevedere l'adibizione a lavori ed attività “smart”, così da favorire modalità di lavoro a distanza, ma anche la concessione del part-time, e in generale, orari che facilitino la conciliazione tra vita privata e professionale.
L'estensione dello smart working è uno dei punti forti. Ma, la bozza non può uscire troppo oltre i binari di una normativa pubblicistica ancora influenzata dalle linee guida del novembre 2021, secondo le quali il “lavoro in presenza” deve risultare prevalente su quello agile.
A conferma indiretta di questo assunto, la bozza configura il lavoro agile nella sostanza come un benefit di conciliazione delle esigenze di benessere e flessibilità dei lavoratori con gli obiettivi di miglioramento del servizio pubblico, sebbene siano da considerare le specifiche necessità tecniche delle attività da svolgere in smart working.
Proprio questa implicita prevalenza della visione del lavoro agile come welfare induce alla proposta di facilitare l'accesso a tale modalità lavorativa ai dipendenti “in condizioni di particolare necessità, non coperte da altre misure” (particolari esigenze di salute, assistenza a familiari con disabilità in situazione di gravità ai sensi della legge 104/1992 o beneficiari delle misure previste dal d.lgs. 151/2001), nonché a a sostegno della genitorialità e altre casistiche individuate in sede di contrattazione integrativa.
Solo in questi casi, mediante l'accordo individuale, si consentirà di “estendere il numero di giorni di attività resa in modalità agile rispetto a quelle previste per il restante personale”, che invece resterà soggetto ai vincoli di prevalenza della presenza.
Altro elemento di rilievo, le ferie. La bozza si rivolge principalmente alle amministrazioni ed ai loro dirigenti, imponendo loro di agevolare la programmazione dei dipendenti, così da presentare loro a inizio anno il “calendario” delle giornate in cui sia possibile collocarsi in ferie: in tal modo si vuole scongiurare il problema del cumulo delle ferie ed il rischio di condanne alla monetizzazione, connesse, come noto, all'assenza di un corretto presidio della programmazione e fruizione (articolo ItaliaOggi del 24.09.2024).

AMBIENTE-ECOLOGIATracciabilità rifiuti, si cambia. Iscrizioni al Rentri e geolocalizzazione dei mezzi trasporto.  Scattano dal 15/12/2024 i nuovi obblighi documentali per produttori e gestori di residui.
Conto alla rovescia per la transizione verso il nuovo regime di tracciabilità dei rifiuti. Dal prossimo 15.12.2024 scatterà per il primo e consistente contingente di imprese l'obbligo di iscriversi al nuovo Registro elettronico per la tracciabilità dei rifiuti (c.d. "Rentri", erede del noto "Sistri").
Dalla stessa data, i professionisti del trasporto di rifiuti pericolosi dovranno inoltre fornire i propri veicoli di un sistema di geolocalizzazione. Dal successivo 13.02.2025, invece, tutti gli operatori tenuti alla tracciabilità dei rifiuti (e non solo, quindi, quelli obbligati a farlo tramite Rentri) dovranno compilare una nuova tipologia di modulistica per documentare le operazioni che coinvolgono i rifiuti.
L'esordiente sistema di tracciabilità dei rifiuti. Il nuovo sistema il controllo pubblico sulle movimentazioni di rifiuti manterrà l'architettura dell'uscente, continuando ad essere fondato sull'obbligo degli operatori interessati di dare traccia delle attività che coinvolgono i residui utilizzando tre tipologie di documenti, ossia: il registro di carico e scarico, su cui annotare i rifiuti prodotti o gestiti nel periodo immediatamente precedente; il formulario che deve accompagnarli durante il loro trasporto; la denuncia annuale che deve essere presentata alle pubbliche autorità a consuntivo di quanto fatto nel precedente anno.
Ciò che cambierà sarà la modalità di tenuta della suddetta documentazione, poiché: molti degli operatori obbligati ad assicurare la tracciabilità dei rifiuti dovranno adempiere ai confermati obblighi documentali attraverso una piattaforma telematica (il Rentri), ed in alcuni casi anche munire di sistemi di localizzazione i mezzi di trasporto dei residui; tutti gli operatori obbligati alla tracciabilità dei rifiuti (con Rentri o meno) dovranno da una certa data utilizzare nuovi modelli di registro di carico/scarico e formulario trasporto rifiuti, che sostituiranno gli "storici" degli anni '90.
Le norme che disciplinano l'esordiente sistema di tracciabilità sono recate dal Dlgs 152/2006 ("Codice ambientale"), dal Dm Ambiente 04.04.2023 n. 59 (prime regole di dettaglio del nuovo sistema), dai decreti direttoriali MinAmbiente pubblicati direttamente a mezzo del portale Rentri.
Il Rentri, in particolare. Il "Registro elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti" (Rentri), accessibile all'indirizzo www.rentri.gov.it e gestito direttamente dal MinAmbiente, integra al suo interno le tre componenti documentali per la tracciabilità dei rifiuti, ma in versione digitale e interattiva.
Oltre alla tenuta on-line dei registri di carico/scarico e formulario trasporto rifiuti, infatti, il portale Rentri a partire dal 2025 metterà infatti a disposizione di tutti gli iscritti un modello precompilato da utilizzabile per l'assolvimento dell'obbligo di denuncia annuale "Mud".
Tra i soggetti tenuti a garantire la tracciabilità dei rifiuti prodotti/gestiti, Codice ambientale e connesso Dm 59/2023 individuano le categorie di quelli che devono farlo obbligatoriamente tramite Rentri (con pagamento del relativo contributo annuale e diritto di segreteria), lasciando la facoltà agli altri operatori di utilizzarlo a titolo volontario.
Obbligati all'iscrizione al Rentri sono: enti/imprese che effettuano trattamento di rifiuti; produttori di rifiuti pericolosi; enti/imprese che effettuano raccolta/trasporto di rifiuti pericolosi a titolo professionale; commercianti ed intermediari di rifiuti pericolosi senza detenzione; consorzi istituiti per il recupero di particolari tipologie di rifiuti; enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali non pericolosi ex 184, comma 3, lettere c), d) e g), del Dlgs 152/2006 (ossia provenienti da lavorazioni industriali, artigianali o di trattamento rifiuti, oppure coincidenti con fanghi da trattamenti acque, rifiuti da abbattimento fumi, fosse settiche, reti fognarie) non assimilabili agli urbani.
Gli operatori obbligati dovranno iscriversi al Rentri secondo le seguenti tempistiche (chiarite dal decreto direttoriale 22/9/2023): se in attività, nelle finestre temporali previste per la propria categoria di appartenenza, con calendario che va dal 15.12.2024 al 13.02.2026 (si veda la tabella in questa stessa pagina); se con avvio attività dopo il febbraio 2026, precedentemente all'effettuazione della prima annotazione documentale dovuta per legge. Gli operatori ammessi all'iscrizione in via facoltativa potranno invece farne istanza in ogni momento.
Tra i soggetti non obbligati (ma comunque ammessi) ad aderire volontariamente al Rentri figurano: (ex articolo 188-bis, Dlgs 152/2006) enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali non pericolosi diversi da quelli ex 184, comma 3, lettere c), d) e g), e non assimilabili agli urbani; enti/imprese produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che non hanno più di 10 dipendenti; imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi ex articolo 212, comma 8; (ex articoli 9 e 12, Dm 59/2023) produttori di rifiuti non organizzati in forma di enti/imprese; imprenditori agricoli ex articolo 2135 del Codice civile con volume annuo di affari non superiore ad 8mila euro oppure che, indifferentemente dal volume di affari, non producono rifiuti pericolosi; soggetti con particolari codici Ateco ammessi alla tenuta del registro di carico/scarico mediante altra documentazione; soggetti abilitati a raccolta/trasporto in forma ambulante dei rifiuti oggetto del proprio commercio ex articolo 266, comma 5, Dlgs 152/2006.
Anche se non si iscriveranno a titolo facoltativo, tali soggetti potranno comunque godere (come più avanti chiarito) di alcune utilità messe a disposizione del portale Rentri.
La geolocalizzazione del trasporto. I soggetti obbligati al Rentri che trasportano rifiuti speciali pericolosi per conto terzi dovranno dal 15 dicembre 2024 garantire la presenza sui mezzi di trasporto dei rifiuti di sistemi di geolocalizzazione basati sulle tecnologie disponibili sul mercato. In difetto, non potranno più mantenere (od ottenere in futuro) la necessaria iscrizione all'Albo gestori ambientali per l'esercizio della corrispondente attività.
La nuova modulistica per tutti. Per tutti i soggetti tenuti, in base a Dlgs 152/2006 e provvedimenti-satellite, a garantire la tracciabilità dei rifiuti (mediante Rentri o meno) cambierà dal 13.02.2025 la modulistica con la quale indicare i dati quali/quantitativi dei residui in entrata/uscita ed accompagnarne il trasporto. I nuovi due modelli da utilizzare (dentro e fuori ambiente Rentri) sono quelli recati dal Dm 59/2023, ossia: il "modello di registro cronologico di carico e scarico dei rifiuti" (che sostituirà il "modello dei registri di carico e scarico" previsto dal Dm 148/1998); il "formulario di identificazione del rifiuto" (in sostituzione del "formulario di accompagnamento dei rifiuti" ex Dm 145/1998).
Per i soggetti iscritti al Rentri, il passaggio dai vecchi ai nuovi modelli avverrà attraverso il portale. Tuttavia, come accennato, il portale Rentri erogherà servizi anche a favore degli operatori non iscritti. Servizi che in base al decreto direttoriale MinAmbiente 143/2023 riguarderanno pure i nuovi modelli di registro di carico/scarico e formulario di identificazione.
In relazione al primo, i non iscritti potranno: indicare l'intervallo di pagine da riprodurre e portare a vidimazione; inserire nel frontespizio i dati identificativi dell'Ente/impresa; ottenere un file “pdf” del registro conforme al modello legale, pronto per essere vidimato e compilato manualmente; in caso di utilizzo di strumenti informatici per la tenuta, potranno riprodurre il registro su fogli bianchi già vidimati dalla Ccia.
In relazione al formulario di identificazione, invece, i non iscritti al Rentri potranno: creare sul portale un proprio profilo mediante il recupero di informazioni da altre banche dati della P.a.; emettere il formulario vidimato digitalmente; inserire mediante applicazione web i dati di soggetti coinvolti e quantità rifiuti; produrre file “pdf” conformi e compilabili; scaricare i documenti nella versione finale, accedendo con strumenti digitali di autenticazione (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2024).

ENTI LOCALI: P.a., entro il 23/9 dichiarazione di accessibilità dei siti web. La comunicazione va inviata tramite l'applicazione on-line presente sul sito di Agid.
Entro il prossimo 23 settembre le pubbliche amministrazioni sono tenute ad inviare ad Agid (Agenzia per l'Italia digitale) la periodica “dichiarazione di accessibilità” attraverso cui gli enti rendono pubblico lo stato di accessibilità di ogni sito web e applicazione mobile di cui sono titolari.
L'accessibilità web rappresenta la possibilità, da parte dei sistemi informatici, di fornire i servizi anche a coloro che sono affetti da disabilità, temporanee e non, che, quindi, possono utilizzare tecnologie ausiliarie.

Come ricorda Agid, prima di compilare la dichiarazione, è necessario avere nominato il Responsabile della transizione digitale (Rtd), avere indicato su Indice P.a. (Ipa) la mail dell'Rtd della propria amministrazione (senza questa mail pubblicata non è possibile accedere all'applicazione e quindi non è possibile inviare la dichiarazione), effettuare le verifiche di accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili adottando le metodologie, i criteri di valutazione e le verifiche tecniche di conformità ai requisiti di accessibilità.
Rispetto a quest'ultimo adempimento, Agid, per agevolare il lavoro delle p.a., mette a disposizione delle amministrazioni uno strumento “Modello di autovalutazione di accessibilità”, allegato 2 delle Linee guida sull'accessibilità degli strumenti informatici, utile per determinare lo stato di conformità del sito web e/o applicazione mobile, il cui esito può essere conforme, parzialmente conforme o non conforme.
Inoltre, è necessario dotarsi e rendere disponibile un “meccanismo di feedback”, che la p.a. dovrà indicare all'interno della dichiarazione, per consentire agli utenti di segnalare eventuali casi di inaccessibilità. Dal punto di vista prettamente operativo, l'amministrazione deve procedere alla compilazione della dichiarazione su https://form.agid.gov.it, al primo accesso è necessario richiedere le credenziali che verranno inviate all'indirizzo mail del Rtd.
La dichiarazione si compone di due macro-sezioni. La prima sezione presenta i contenuti previsti dalla Decisione di esecuzione Ue 2018/1523, ossia stato di conformità, dichiarazione di contenuti, sezioni e funzioni non accessibili, in caso di non conformità parziale o totale, indicazione del meccanismo di feedback e recapiti dell'amministrazione, procedura di attuazione (Difensore civico digitale).
La seconda sezione, invece, è composta da informazioni sul sito o applicazione mobile e da informazioni sull'amministrazione. Completata la dichiarazione, la p.a riceve una e-mail con un link da esporre nel footer del sito web o nell'apposita sezione dello store relativamente alle app mobili.
Entro il 23 settembre di ogni anno la p.a. riesamina e, se necessario, procede all'aggiornamento dei contenuti della dichiarazione. Ogni dichiarazione ha validità annuale, dal 24 settembre dell'anno corrente al 23 settembre dell'anno successivo.
La mancata pubblicazione determina un inadempimento normativo, rilevante ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei dirigenti responsabili e comporta responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare, ferme restando le eventuali responsabilità penali e civili (articolo ItaliaOggi del 13.09.2024).

ENTI LOCALIPreventivi 2025-2027 ai nastri di partenza.
Preventivi 2025-2027 ai nastri di partenza. Scade il 15 settembre (che però cade di domenica) il primo termine previsto dalla nuova tabella di marcia che scandisce il percorso di predisposizione e approvazione dei bilanci di previsione degli enti locali relativi al prossimo triennio.

La disciplina di riferimento è quella prevista dai punti 9.3.1. e seguenti dell'allegato 4/1 al dlgs 118/2011, come modificato dal dm 25/07/2023. Tempi più lunghi (fino al 30 settembre) sono previsti per i mini enti e per quelli che hanno attribuito la gestione del servizio, compresa la predisposizione dei documenti contabili, ad una unione di comuni. Peraltro, si tratta di una scadenza non perentoria, come anche le successive, fatta eccezione per quella del 31 dicembre, entro la quale si deve approvare definitivamente il documento in consiglio.
L'obiettivo della riforma, in effetti, è stato proprio quello di aumentare il numero di amministrazioni che tagliano il traguardo nei tempi, riducendo il fenomeno (in passato endemico) del ricorso all'esercizio provvisorio. Stando ai dati relativi allo scorso anno, il target è stato centrato, considerato che il 54% degli enti ha approvato il bilancio di previsione 2024-2026 nei tempi: si tratta di oltre 4000 amministrazioni, a fronte delle circa 1600 dell'anno prima, anche se la compliance è decisamente sopra la media al nord e sotto al centro sud.
Ricordiamo che il bilancio tecnico è costituito da:
   a) i prospetti del bilancio riguardanti le previsioni delle entrate e delle spese riferiti almeno al triennio successivo, il prospetto degli equilibri e almeno gli allegati relativi al fondo pluriennale vincolato e al fondo crediti di dubbia esigibilità, per la cui definitiva elaborazione è richiesta la collaborazione dei responsabili dei servizi;
   b) l'elenco dei capitoli distinti per centri di responsabilità riferito ai medesimi esercizi considerati nel bilancio di previsione destinato ad essere successivamente inserito, con gli obiettivi generali di primo livello, nel piano esecutivo di gestione (PEG). Il responsabile del servizio finanziario valuta se articolare l'elenco dei capitoli anche per assessorati;
   c) (eventualmente) i dati contabili della nota di aggiornamento al Dup, se risulta la necessità di integrare o modificare il Dup.
Si tratta evidentemente del contenuto minimo, che può essere opportunamente integrato dal responsabile del servizio finanziario con tutti gli ulteriori dati ritenuti necessari, come ad esempio una previsione circa altri eventuali fondi da accantonare, come il fondo contenzioso o il fondo garanzia debiti commerciali.
Il bilancio tecnico deve essere corredato dalle necessarie informazioni contabili ovvero:
   a) le previsioni iniziali e definitive e i dati di consuntivo dei capitoli e degli articoli del primo esercizio del Peg dell'esercizio precedente (dati di competenza e di cassa);
   b) le previsioni iniziali e assestate, e i dati relativi agli accertamenti/impegni e incassi/pagamenti dei capitoli del primo esercizio del Peg in corso di gestione (riferiti alla data del 31 luglio);
   c) le previsioni assestate, accertamenti e impegni dei capitoli relativi agli esercizi del Peg successivi a quello corrente (riferiti almeno alla data del 31 luglio);
   d) gli impegni e gli accertamenti registrati nelle scritture contabili dell'ente relativi all'esercizio successivo al bilancio in corso di gestione. L'individuazione delle informazioni di natura contabile da trasmettere ai responsabili degli uffici con il bilancio tecnico costituisce una valutazione del responsabile del servizio finanziario (articolo ItaliaOggi del 13.09.2024).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAAmianto, non bonificare il capannone è reato.
Compie reato, anzi ne commette due, l’imprenditore che non bonifica dall’amianto il capannone industriale in disuso. Da una parte c’è l’inosservanza del provvedimento dell’autorità perché non risulta adempiuto nel termine l’ordine di provvedere impartito dal sindaco del Comune; dall’altra scatta il getto pericoloso di cose laddove dal tetto esposto alle intemperie le fibre si disperdono nell’aria con potenziali pericoli per la salute delle persone.
No alle attenuanti generiche, ma sì all’ammenda al posto della pena detentiva per l’amministratore della società che ha difficoltà a completare i lavori: il tutto sia per la pandemia da Covid-19 sia per l’ampia zona interessata dalla bonifica.

Così la Corte di Cassazione, Sez. I penale, nella sentenza 24.09.2024 n. 35801.
Colpa sufficiente
Diventa definitiva la condanna per i reati di cui agli articoli 650 e 674 Cp, riuniti dal vincolo della continuazione.
Una volta scaduto il termine perentorio indicato dall’ordine del sindaco, si configura la situazione antigiuridica punita dalla norma incriminatrice. E senza bonifica le coperture in eternit del capannone vanno in disfacimento con l’emissione in atmosfera delle fibre di asbesto.
L’elemento soggettivo dei reati sussiste nonostante le difficoltà operative create dall’emergenza Coronavirus e dalle dimensioni dell’area: nei reati contravvenzionali, infatti, non è necessario che la condotta omissiva sia motivata da una specifica volontà di sottrarsi agli adempimenti dovuti, ma è sufficiente un atteggiamento negativo dovuto a colpa.
È l’imputato della contravvenzione, poi, a dover dimostrare di aver fatto tutto il possibile per osservare la norma violata, senza che si configuri alcuna inversione dell’onere della prova: spetta a lui provare il contenuto dell’eccezione difensiva rispetto alla prova della colpa fornita dall’accusa.
Misura massima
Scatta la pena pecuniaria e non detentiva anche in considerazione delle ingenti spese necessarie per la bonifica: la misura, però, è determinata nel massimo perché l’imprenditore resta a lungo passivo senza intervenire nonostante le segnalazioni sulla necessità di bonificare il capannone.
No alla condanna alle spese del giudizio della parte civile una volta rigettata la domanda di condanna al risarcimento del danno (articolo ItaliaOggi del 25.09.2024).
---------------
SENTENZA
1. Ca.Ma. ricorre avverso la sentenza dei Tribunale di Pesaro del 07.12.2023, con la quale è stato condannato alla pena di euro 412,00 di ammenda, in ordine ai seguenti reati, commessi dal 26 gennaio al 18.03.2021 in Pesaro e riuniti tra loro dal vincolo della continuazione:
   a) inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità, ai sensi dell'art. 650 cod. pen., perché, in qualità di amministratore unico della Ca.Gi. s.r.L., non aveva osservato il provvedimento legalmente dato per ragioni di sicurezza pubblica e igiene dal sindaco del Comune di Pesaro con ordinanza dell'8 gennaio, notificatogli il 27.11.2020, con la quale gli era stato ingiunto di provvedere entro 60 giorni alla bonifica della copertura del capannone industriale contenente amianto e al relativo smaltimento tramite ditta specializzata;
   b) getto pericoloso di cose, ai sensi dell'art. 674 cod. pen., perché, avendo lasciato abbandonato agli agenti atmosferici il capannone industriale, senza provvedere alla sua bonifica, aveva contribuito a che le coperture in cemento amianto andassero in disfacimento, provocando emissioni nell'atmosfera di fibre di amianto, potenzialmente pericolose per la salute.
2. Il ricorrente articola quattro motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo, denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 650 cod. pen., 192 e 530 cod. proc. pen., e vizio di motivazione della sentenza impugnata, perché il Tribunale, pur avendo dato atto delle difficoltà riscontrate dall'imputato nell'adempimento dell'ordinanza (vista la pandemia da Covid-19 e l'ampia zona interessata dalla bonifica), non ha poi accertato la carenza dell'elemento soggettivo dei reati.
...
1. Il ricorso è fondato nei limiti che seguono.
1.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Il ricorrente, infatti, non si confronta con la sentenza impugnata, nella parte in cui il Tribunale, mostrando di confrontarsi con le deduzioni difensive, ed in particolare con la diversa ipotesi alternativa proposta, relativa alle difficoltà incontrate nell'esecuzione delle opere, dovute soprattutto ai problemi conseguenti alla pandemia, tali da non consentire di ultimare i lavori di bonifica, ha evidenziato come l'imputato aveva disatteso quanto ingiunto dall'ordinanza sindacale, lasciando il capannone esposto agli eventi atmosferici con conseguente disfacimento delle coperture in amianto dello stesso, così provocando emissioni nell'atmosfera di fibre di amianto, potenzialmente pericolose per la salute delle persone.
Pertanto, al di là della valutazione operata dal Tribunale delle dedotte difficoltà operative, risulta confermata la mancata esecuzione dei lavori rispetto ad un ordine legalmente dato dall'Autorità, in cui era fissato un termine perentorio per l'adempimento, scaduto il quale la situazione antigiuridica prevista dalla norma incriminatrice può ritenersi verificata.
Quanto al profilo soggettivo, per la configurabilità dei reati accertati, vertendosi in ipotesi contravvenzionale, non è necessario che la condotta omissiva sia motivata da una specifica volontà di sottrarsi ai dovuti adempimenti, essendo al contrario sufficiente all'uopo anche un atteggiamento negativo dovuto a colpa.
Nel reato contravvenzionale, infatti, l'imputato deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per osservare la norma violata, senza che ciò integri alcuna inversione dell'onere della prova, a lui spettando provare il contenuto dell'eccezione difensiva rispetto alla prova della colpa fornita dall'accusa (Sez. 1, n. 13365 del 19/02/2013, Rochira, Rv. 255178), circostanza non avvenuta nel caso in esame.

VARIUtente contesta la bolletta: il test sul contatore ricade sul fornitore.
Quando l’utente del servizio contesta la bolletta lamentando un addebito eccessivo, spetta al fornitore dell’energia elettrica dimostrare che il contatore funziona in modo corretto. Il cliente è tenuto a provare l’entità dei consumi effettuati nel periodo contestato, ma può farlo grazie al dato statistico di quanto normalmente rilevato nelle fatture precedenti per gli ordinari impieghi di energia.

La Corte di Cassazione, Sez. III civile, nell’ordinanza 24.09.2024 n. 25542 accoglie il ricorso proposto dalla srl utente: sbaglia la Corte d’appello a riformare la sentenza del tribunale condannando la società a restituire al fornitore gli oltre 2.100 euro ottenuti in esecuzione della pronuncia di primo grado, che aveva dichiarato insussistente il credito della compagnia elettrica e illegittimo il distacco della fornitura dopo il mancato pagamento.
Le bollette sono in linea di massima idonee a fornire la prova dei consumi esposti in fattura, salva l’ipotesi di contestazione dell’utente.
La rilevazione della somministrazione effettuata tramite il contatore, poi, risulta assistita da una mera presunzione semplice di veridicità: se dunque l’utente contesta il funzionamento, spetta al fornitore dimostrare che il rilevamento è avvenuto a regola d’arte. E ciò anche quando è convenuto in giudizio con l’azione di accertamento negativo del credito.
Il cliente, dal canto suo, deve provare che i consumi eccessivi sono imputabili a terzi o almeno che l’impiego abusivo dell’energia non è stato agevolato da sue condotte negligenti nei necessari controlli per impedire gli illeciti altrui.
La srl, nella specie, contesta la fattura che mostra consumi dieci volte superiori a quelli della lettura precedente, praticamente impossibili per un semplice ufficio: allega i documenti annunciando il contenzioso e chiede al fornitore il controllo del contatore. Pesa la media dei consumi dello storico delle fatturazioni, mentre anche l’altra sede vicina è su livelli molto più bassi rispetto alla bolletta “incriminata” (articolo ItaliaOggi del 26.09.2024).

PUBBLICO IMPIEGOI dirigenti pubblici non hanno diritto a conservare incarichi.
I dirigenti pubblici non hanno un diritto alla conservazione degli incarichi conferiti.

L’ordinanza 24.09.2024 n. 25517 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, torna a ribadire un punto sul quale la giurisprudenza degli Ermellini è costante (Cass., n. 5546 del 2020; Cass. 22.12.2004; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442): l’inapplicabilità dell’articolo 2013 del codice civile implica che l’acquisizione della qualifica dirigenziale attribuisca esclusivamente un diritto ad un incarico dirigenziale, ma non ad uno specifico e particolare incarico.
Spiega la Cassazione che “nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico”.
L’articolo 19, comma 1, ultimo periodo, del d.lgs 165/2001 è il fondamento sul quale poggia l’interpretazione della Corte, poiché dispone “Al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l'articolo 2103 del codice civile”.
Tale disposizione garantisce al lavoratore il diritto ad essere adibito alle mansioni connesse all’inquadramento professionale e a non perdere la professionalità acquisita nell’esercizio delle proprie funzioni: “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.
Nel caso della dirigenza pubblica, alla sottoscrizione del contratto di lavoro subordinato dal quale discende l’inserimento del dirigente nell’organico dell’ente, si accompagna un incarico di funzioni dirigenziali, atto di difficile configurazione (da tempo è discusso se di natura pubblicistica o privatistica) comunque latamente di organizzazione, col quale l’organo di governo definisce non “mansioni” ma finalità generali e specifici risultati connaturati allo svolgimento di tale incarico.
Infatti, sempre ai sensi dell’articolo 19, comma 1, del d.lgs. 165/2001, per conferire l’incarico dirigenziale “si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell'amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione eventualmente maturate all'estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento dell'incarico”.
La stretta connessione tra natura ed obiettivi dell’incarico dirigenziale e la competenza professionale, dimostrata in particolare dalla valutazione dei risultati, esclude di ragionare in termini di “mansioni”.
Per altro, acquisita la qualifica dirigenziale non è più nemmeno pensabile di riferirsi all’istituto delle “mansioni superiori”, utile eventualmente all’ascesa verso qualifiche più elevate. La dirigenza costituisce l’approdo finale e di vertice della carriera, sul piano dell’inquadramento.
Pertanto, non si discute più, appunto, di mansioni, ma di idoneità a ricoprire ogni possibile incarico dirigenziale evidentemente collegato, comunque, al bagaglio di ciascun dirigente.
Ecco perché la legge esclude l’applicazione della disciplina del codice civile finalizzata al consolidamento della “specifica” professionalità acquisita: la dirigenza pubblica deve poter garantire la capacità di esprimere competenza e professionalità non legate a particolari, individuate e ristrette funzioni e attività lavorative, ma riferibili ad una gamma ampia di obiettivi connessi ai possibili incarichi dirigenziali connessi all’organizzazione dell’ente.
Sulla base di queste considerazioni, la Cassazione con l’ordinanza in commento ha escluso il diritto di un dirigente, incaricato come direttore di un’agenzia di sanità pubblica, a transitare nei ruoli della regione mantenendo la “qualifica”, anche in considerazione della circostanza che l’incarico di direttore, nel caso di specie, non è stato oggetto di revoca o di singola soppressione: infatti è spirato a causa della soppressione dell’Asp, nell'ambito di una complessa riorganizzazione ritenuta dal legislatore regionale.    (articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Contratto d’opera, l’appaltatore deve provare di aver adempiuto l’obbligazione. Per la Corte di cassazione in caso di contestazione si tratta di un adempimento costitutivo del diritto di credito oggetto della pretesa.
“L’appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo pattuito ha l’onere di provare di avere esattamente adempiuto la propria obbligazione, cioè di avere eseguito l’opera conformemente al contratto ed alle regole dell’arte, integrando tale adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito oggetto della sua pretesa”
.
Lo ha affermato, con un principio di diritto, la II Sezione civile della Corte di Cassazione, ordinanza 23.09.2024 n. 25410, accogliendo parzialmente il ricorso del committente condannato dalla Corte d’appello a pagare il saldo dell’opera.
Il ricorrente inizialmente aveva proposto al Tribunale di Prato una domanda per chiedere la restituzione di quasi 55mila euro corrisposti al convenuto per la fornitura e messa in opera di piante ornamentali, lamentando che il lavoro non era stato completato e che alcune piante non erano attecchite.
A sua volta, l’appaltatore aveva chiesto e poi ottenuto un decreto ingiuntivo per il saldo. Dopo alterne vicende giudiziarie, la Corte d’appello di Firenze ha condannato il committente al pagamento di altri 17mila euro a titolo di saldo affermando che il contratto non era chiaro e che in difetto della prova di un comportamento colpevole dell’appaltatore, il committente era tenuto a corrispondere il compenso per le opere eseguite dall’appaltatore.
Per la Suprema corte però, per un verso, si tratta di conclusioni non coerenti con l’affermazione dell’assenza di chiarezza delle prestazioni “perché, solo dopo l’individuazione dell’obbligo contrattuale, è possibile accertare se sussista o meno inadempimento”. Per l’altro, in contrasto con il principio generale che governa il contratto con prestazioni corrispettive, secondo cui la parte che chiede in giudizio l’esecuzione della prestazione a lui dovuta non deve essere a sua volta inadempiente, ma deve offrire di eseguire la propria prestazione, se le prestazioni debbono essere eseguite contestualmente, ovvero deve dimostrare avere esattamente adempiuto la propria obbligazione, se essa, come avviene per l’appaltatore, precede l’adempimento di pagamento del corrispettivo cui la controparte è tenuta.
Dunque, nel contratto di appalto, l’appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto ha l’onere di provare di avere esattamente adempiuto la propria obbligazione, cioè di avere eseguito l’opera conformemente al contratto ed alle regole dell’arte, integrando tale adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito oggetto della sua pretesa. Con l’effetto che la sua domanda non può essere accolta nel caso in cui l’altra parte contesti il suo adempimento, come avvenuto nel caso di specie.
La Corte d’appello, prosegue l’ordinanza, avrebbe infatti dovuto accertare se la prestazione dell’appaltatore fosse stata “integralmente e correttamente eseguita” e, solo in caso positivo, “avrebbe potuto condannare il committente al pagamento del prezzo”. Invece, ha trascurato che il ricorrente aveva eccepito l’inadempimento dell’appaltatore per “inesattezza qualitativa e quantitativa della prestazione” e, ribaltando l’onere della prova, “ha erroneamente condannato il committente al pagamento del prezzo, senza accertare se la prestazione dell’appaltatore fosse stata adempiuta” (articolo NT+Diritto del 23.09.2024).
---------------
ORDINANZA
Il primo e terzo motivo, che per la loro connessione vanno esaminati congiuntamente, sono fondati.
La Corte d’appello, con motivazione intrinsecamente contraddittoria, pur avendo ritenuto che non fosse chiaro il contenuto delle obbligazioni contrattuali assunte dalle parti, ha apoditticamente affermato che non vi fosse la prova del comportamento colpevole dell’appaltatore, condannando il committente al pagamento delle prestazioni eseguite dall’appaltatore.
Le conclusioni della Corte d’appello non sono coerenti con l’affermazione dell’assenza di chiarezza delle prestazioni perché, solo dopo l’individuazione dell’obbligo contrattuale, è possibile accertare se sussista o meno inadempimento.
Dette conclusioni si pongono, inoltre, in contrasto con il
principio generale che governa il contratto con prestazioni corrispettive, secondo cui la parte che chiede in giudizio l'esecuzione della prestazione a lui dovuta non deve essere a sua volta inadempiente, ma deve offrire di eseguire la propria prestazione, se le prestazioni debbono essere eseguite contestualmente, ovvero deve dimostrare di avere esattamente adempiuto la propria obbligazione, se essa, come avviene per l'appaltatore, precede l'adempimento di pagamento del corrispettivo cui la controparte è tenuta.
Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite,
il creditore che agisce in giudizio, sia per l'adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto (ed eventualmente del termine di scadenza), limitandosi ad allegare l'inadempimento della controparte, su cui incombe l'onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall'adempimento (Cass., Sez. Un., 30/10/2001 n. 13533).
L'applicazione di tale principio al contratto di appalto -cui per giurisprudenza costante si estende la disciplina generale dell'inadempimento del contratto- comporta che
l'appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto ha l'onere di provare di avere esattamente adempiuto la propria obbligazione, cioè di avere eseguito l'opera conformemente al contratto ed alle regole dell'arte, integrando tale adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito oggetto della sua pretesa (Cass., Sez. II, 13/02/2008 n. 3472).
Con l'effetto che la sua domanda non può essere accolta nel caso in cui l'altra parte contesti il suo adempimento, come avvenuto nel caso di specie, in cui il committente ha contestato che la prestazione non era stata integralmente eseguita e che alcune piante non erano attecchite.
A fronte di tale contestazione, la Corte d’appello avrebbe dovuto accertare se la prestazione dell’appaltatore fosse stata integralmente e correttamente eseguita e, solo in caso positivo, avrebbe potuto condannare il committente al pagamento del prezzo.
La Corte d’appello ha omesso di considerare che Ro.Lu.Bo. aveva eccepito l’inadempimento dell’appaltatore per inesattezza qualitativa e quantitativa della prestazione e, ribaltando l’onere della prova, ha erroneamente condannato il committente al pagamento del prezzo, senza accertare se la prestazione dell’appaltatore fosse stata adempiuta.
Non è pertinente, ai fini dell’obbligo di pagamento del corrispettivo da parte del committente, il richiamo all’art. 1181 c.c., secondo cui il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile; nel caso di specie, nessuna delle parti ha chiesto la risoluzione del contratto, sicché non è applicabile il principio statuito da Cass., Sez. II, 17/02/2010 n. 3786, in forza del quale, nel contratto d'appalto, il committente può rifiutare l'adempimento parziale oppure accettarlo e, anche se la parziale esecuzione del contratto sia tale da giustificarne la risoluzione, può trattenere la parte di manufatto realizzata e provvedere direttamente al suo completamento, essendo, poi, legittimato a chiedere in via giudiziale che il prezzo sia proporzionalmente diminuito e, in caso di colpa dell'appaltatore, anche il risarcimento del danno.
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto con assorbimento dei restanti motivi.

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Criteri per il rilascio di concessioni temporanee di aree pubbliche e dichiarazione di ripudio del fascismo.
---------------
Comune e provincia – Giunta comunale – Atto di indirizzo – Occupazioni di spazi e aree pubbliche - Concessione temporanea – Ripudio del fascismo e del nazismo - Dichiarazione.
È legittima la delibera comunale di indirizzo per il rilascio di concessioni temporanee per occupazioni di aree pubbliche con cui si preveda l’obbligo per il richiedente di allegare una dichiarazione di impegno a riconoscersi nei principi della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo.
Difatti, nel definire le condizioni cui è subordinata la concessione di questi spazi, l’amministrazione ben può perseguire l’obiettivo di evitare che essi vengano utilizzati per il perseguimento di finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo –comprese le idee e i metodi razzisti– o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, ovvero di organizzazioni naziste, trattandosi di un obiettivo di interesse pubblico alla luce della ispirazione antifascista della nostra Costituzione. (1).
In motivazione la sezione ha rammentato che la matrice antifascista della Costituzione repubblicana emerge tanto dalla sua genesi, quanto dalla sua struttura e contenuto, come la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista e la legge 20.06.1952, n. 645 (“legge Scelba”) che, nel dare attuazione alla predetta norma costituzionale, ha fornito una tutela anticipata al bene giuridico definibile come “ordine pubblico democratico e costituzionale” in relazione a manifestazioni che, in connessione con la natura pubblica delle stesse, possono essere tali da indurre alla ricostituzione di un partito che, per la sua ideologia antidemocratica e per espressa previsione, è contrario all’assetto costituzionale.

---------------
Comune e provincia – Giunta comunale – Atto di indirizzo – Occupazioni di spazi e aree pubbliche - Concessione temporanea – Dichiarazione di ripudio del fascismo e del nazismo – Tutela preventiva - Libertà di manifestazione del pensiero - Libertà di associazione.
L’ente pubblico può legittimamente escludere in via preventiva dall’uso esclusivo dei beni pubblici i soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista che potrebbero avvalersi degli stessi beni sottratti all’uso della collettività per il perseguimento di finalità antidemocratiche.
Tale tutela preventiva si rende opportuna in quanto, in caso contrario, il pregiudizio potrebbe non essere necessariamente e interamente riparabile ex post mediante l’applicazione di sanzioni o la decadenza della concessione.
In tal caso non viene in rilievo una restrizione irragionevole delle libertà di manifestazione del pensiero e di associazione, bensì una misura preventiva volta a evitare che lo spazio pubblico di cui si chiede la concessione venga utilizzato con modalità e per finalità incompatibili con l’ordinamento costituzionale. (2).

---------------
   (1) Conformi: Tar per il Piemonte, sez. II, 18.04.2019, n. 447.
        Difformi: Tar per la Sicilia, sez. I, 15.04.2021, n. 1241; C.g.a., sez. giur., ordinanza 13.12.2019, n. 797 secondo cui è illegittimo imporre al richiedente la concessione di suolo pubblico l'obbligo di rendere dichiarazioni che appaiono, almeno in parte, lesive del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero sancita dall’articolo 21 della Costituzione, nella parte in cui tutela anche il diritto al silenzio, cioè a non manifestare le proprie convinzioni.
Secondo tale indirizzo, la previsione regolamentare che imponga tale dichiarazione si pone in contrasto con il principio di non aggravamento del procedimento amministrativo e con il principio di proporzionalità laddove conculca la libertà di pensiero in vista di obiettivi pubblici che, pur legittimi, possono essere perseguiti con più appropriati ed efficaci strumenti, tra cui la decadenza dalla concessione.
   (2) Conformi: Tar. per il Piemonte, sez. II, 18.04.2019, n. 447.
        Difformi: Tar per la Sicilia, sez. I, 15.04.2021, n. 1241; C.g.a., sez. giur., ordinanza 13.12.2019, n. 797
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 19.09.2024 n. 7687 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
... per la riforma della sentenza 26.02.2020 n. 166 del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, resa tra le parti;
...
10. L’appello è infondato.
10.1. In primo luogo, si deve ribadire il consolidato orientamento secondo cui la concessione di spazi pubblici, comportando un utilizzo a fini privati di aree o locali che vengono così sottratti all’uso comune, è espressione di una potestà ampiamente discrezionale, sia nell’an, sia nella definizione di tempi, modi e condizioni dell’occupazione (sul punto si v., tra le tante, Cons. St., sez. V, sentt. n. 4129 del 2024, n. 4660 del 2022, n. 5442 del 2015).
La definizione in via preventiva e generale di criteri e indirizzi per l’esame delle relative istanze da parte del Comune, proprietario e concedente, non è dunque illegittima, anzi, comportando un vincolo che la stessa Amministrazione pone rispetto all’esercizio dell’ampia discrezionalità che le è riconosciuta in materia, costituisce attuazione del principio d’imparzialità di cui all’art. 97 Cost..
10.2. Inoltre, la circostanza che il Comune possa approvare o abbia invero emanato un regolamento in materia non esclude l’adozione di atti d’indirizzo, con il solo limite che questi siano rispettosi del primo (e, ovviamente, delle altre fonti sovraordinate): da una lettura congiunta dell’art. 107 (secondo cui ai dirigenti spettano i compiti di gestione e agli organi di governo dell’Ente le funzioni d’indirizzo e controllo) e dell’art. 48 del TUEL (secondo cui la Giunta compie tutti gli atti rientranti nelle funzioni degli organi di governo che non siano riservati al Consiglio comunale o al Sindaco) emerge infatti una generale competenza della Giunta all’adozione di atti d’indirizzo rispetto alla concreta gestione amministrativa, finanziaria e tecnica demandata ai dirigenti.
Nello specifico caso del Comune di Brescia, poi, questa potestà è ribadita dall’art. 4, co. 5, del regolamento COSAP, secondo cui il rilascio delle concessioni compete ai singoli dirigenti «in osservanza degli eventuali indirizzi disposti dalla Giunta comunale», e dall’art. 26, co. 1, del regolamento di polizia urbana, secondo cui «l’occupazione di spazi ed aree pubbliche o di uso pubblico nonché degli spazi soprastanti o sottostanti è subordinata al preventivo rilascio di apposita concessione osservando gli indirizzi eventualmente disposti dalla giunta comunale e secondo le norme contenute nel regolamento per l’applicazione del canone occupazione spazi ed aree pubbliche».
Pertanto, non si può dubitare né del potere del Comune di stabilire criteri per l’occupazione di spazi pubblici, né della competenza della Giunta a emanare atti d’indirizzo in merito, con conseguente infondatezza del terzo e del quarto motivo di appello.
10.3. Nel definire le condizioni cui è subordinata la concessione di questi spazi, l’Amministrazione ben può perseguire l’obiettivo di evitare che essi vengano utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo –comprese le idee e i metodi razzisti– o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste.
Si tratta, infatti, di un obiettivo di sicuro interesse pubblico, alla luce di quella che la Corte costituzionale ha definito «l’ispirazione antifascista della nostra Costituzione» (sent. n. 254 del 1974).
Infatti, come pone in luce la dottrina costituzionalistica a larga maggioranza, la matrice antifascista della Costituzione repubblicana emerge tanto dalla sua genesi –in quanto essa è stata elaborata dalle forze che avevano partecipato alla Resistenza, conclusasi con quella “cesura ordinamentale” rappresentata dalla fondazione della Repubblica e dall’avvento del nuovo ordine democratico– quanto soprattutto dalla sua struttura e dal contenuto: le norme e i principi costituzionali –in particolare, il principio lavoristico, quelli di democrazia, solidarietà ed eguaglianza, il riconoscimento dei diritti dell’uomo (anteriori a ogni concessione da parte dello Stato) come singolo e nelle formazioni sociali nonché delle autonomie, pur nell’unità e indivisibilità della Repubblica, la pace e l’apertura alla Comunità internazionale– si pongono (consapevolmente, come emerge anche dai lavori preparatori della Costituente) in chiara discontinuità rispetto a quelli propri del regime precedente, riconoscendo espressamente diritti e libertà che dal fascismo erano stati violati e approntando gli istituti giuridici per garantire loro tutela –non ultimo, prevedendo un controllo di costituzionalità delle leggi.
In tale contesto, il primo comma della XII disposizione, che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», non può ritenersi meramente “transitoria”, ossia destinata a trovare applicazione per un periodo di tempo determinato (com’è, per esempio, il secondo comma), ma, come osservato anche in letteratura, è norma “finale”, in quanto, legandosi all’art. 54, co. 1, Cost. secondo cui «tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica» e all’art. 139 Cost., che sottrae alla revisione costituzionale «la forma repubblicana» (secondo Corte cost., sent. n. 1146 del 1988, da intendersi comprensiva di tutti quei principi che «appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione Italiana» e quindi innanzitutto dei “diritti inviolabili”, su cui si v., tra le più recenti, Corte cost., sent. n. 135 del 2024), rifinisce il disegno costituzionale ponendo una clausola di salvaguardia che –in deroga all’art. 49 Cost. che riconosce il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partiti, nonché agli artt. 17 e 21 che sanciscono le libertà di riunione e di manifestazione del pensiero (sul punto si v. Corte cost., sentt. n. 74 de 1958 e n. 15 del 1973)– è volta a scongiurare un ritorno “sotto qualsiasi forma” del fascismo, che segnerebbe la fine dell’esperienza democratica con essa iniziata e il disconoscimento dei diritti e delle libertà che le sono propri.
A tale disposizione ha dato attuazione legge 20.06.1952, n. 645 (c.d. “legge Scelba”), che fornisce a quel bene giuridico definibile come “ordine pubblico democratico e costituzionale” «una tutela anticipata in relazione a manifestazioni che, in connessione con la natura pubblica delle stesse, espressamente richiesta dalla norma, possano essere tali da indurre alla ricostituzione di un partito che, per la sua ideologia antidemocratica, e per espressa previsione appena sopra richiamata, contenuta nella stessa Carta del 1948 (XII, disp. trans. fin. Cost.), è contraria all’assetto costituzionale» (Cass. pen., ss. uu., sent. n. 16153 del 2024).
Inoltre, come il Consiglio di Stato ha già osservato, «detto precetto costituzionale, fissando un’impossibilità giuridica assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento politico formatosi e operante in violazione di tale divieto possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e condizionare le libere e democratiche dinamiche. Va soggiunto che l’attuazione di tale precetto, sul piano letterale come sul versante teleologico, non può essere limitata alla repressione penale delle condotte finalizzate alla ricostituzione di un’associazione vietata» –la quale, come puntualizzato nella giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sent. n. 15 del 1973) e in quella penale (Cass. pen., ss. uu., sent. n. 16153 del 2024) presuppone il “pericolo concreto” di ricostituzione del partito fascista– «ma deve essere estesa ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista» (sez. V, sent. n. 1354 del 2013, che ha ritenuto, anche richiamando il parere n. 173/1994 della sez. I, che dalla XII disposizione discende direttamente –dunque anche in assenza di un’espressa previsione di legge– il potere della commissione elettorale circondariale di ricusare ed estromettere dalla competizione liste o simboli che si richiamino esplicitamente al partito fascista «bandito irrevocabilmente dalla Costituzione»).
È dunque legittimo che il Comune, nel definire gli indirizzi per la concessione degli spazi pubblici, adotti delle cautele preventive volte a evitare che questi siano utilizzati per il compimento di atti o fatti che possano favorire la riorganizzazione “sotto qualsiasi forma” del partito fascista come definita dall’art. 1 della legge n. 645 del 1952 (secondo cui «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista»), comprese dunque quelle manifestazioni che siano tali da «provocare adesioni e consensi e concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste» (Corte cost., sent. n. 74 del 1958, la quale ha ritenuto legittimo punire le manifestazioni usuali del partito fascista che siano tenute “pubblicamente” e possano determinare tale pericolo).
10.4. Rispetto a tale finalità, l’obbligo posto dalla Giunta del Comune di Brescia non può dirsi sproporzionato, come conduce a ritenere una lettura integrale, e non parcellizzata, della dichiarazione richiesta dall’Amministrazione per la concessione di spazi pubblici, la quale comprende i seguenti impegni: «di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo; - di non professare e non fare propaganda di ideologie neofasciste e neonaziste, in contrasto con la Costituzione e la normativa nazionale di attuazione della stessa; - di non perseguire finalità antidemocratiche, esaltando, propagandando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la Costituzione e i suoi valori democratici fondanti; - di non compiere manifestazioni esteriori inneggianti le ideologie fascista e/o nazista».
La riproduzione quasi integrale dell’art. 1 della “legge Scelba”, il riferimento al “professare” e “fare propaganda” nonché a “manifestazioni esteriori” porta a ritenere che anche la parte di dichiarazione contestata dall’associazione appellante –lungi dal rappresentare una sorta di “professione di fede” o un giuramento di fedeltà fini a se stessi– debba intendersi come strettamente correlata all’uso dello spazio pubblico di cui si chiede la concessione, fondandosi sulla presunzione non irragionevole che chi si rifiuti di ripudiare il fascismo, e quindi mantenga un legame con quell’esperienza, possa poi utilizzare quello spazio per perseguire finalità antidemocratiche.
La sentenza impugnata è dunque condivisibile laddove considera che «se non può essere limitata la libertà di pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può limitarsi il potere dell’ente pubblico di perseguire l’interesse collettivo alla cui tutela è preposto escludendo da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua tutela e diffusione potrebbero avvalersi degli stessi beni sottratti all’uso della collettività».
10.5. Né si può ritenere che l’obbligo sia inefficace.
In primo luogo, come già osservato, la delibera implica che chi si rifiuti di ripudiare il fascismo, mantenendo un legame con un sistema di principi e valori rispetto al quale quello costituzionale si pone in antitesi, non possa ottenere in concessione spazi pubblici, in modo da evitare che questi siano usati per il perseguimento di finalità antidemocratiche, la cui concretizzazione potrebbe comportare un pregiudizio -in quanto «la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle» (Corte cost., sent. n. 74 del 1958, che ha ritenuto legittimo punire tali manifestazioni, una volta tenutesi, «in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione»)– non necessariamente e interamente riparabili mediante l’applicazione di sanzioni successive, compresa la decadenza dalla concessione.
Nella diversa ipotesi in cui la dichiarazione venga resa e poi lo spazio sia utilizzato con modalità incompatibili con l’impegno assunto con essa, l’effettività della previsione è comunque assicurata dal fatto che la sua violazione comporta l’applicazione delle sanzioni amministrative previste dal regolamento COSAP e dal regolamento della Polizia urbana, oltre alle altre conseguenze previste dalla legge (a tal proposito, non è superfluo ricordare che l’inosservanza di un precetto non lo priva di effettività se sono previste e applicate delle conseguenze a carico del trasgressore).
10.6. Non venendo dunque in rilievo una restrizione fine a se stessa e irragionevole delle libertà di manifestazione del pensiero e di associazione, quanto piuttosto una misura preventiva volta a evitare che lo spazio pubblico di cui si chiede la concessione venga utilizzato con modalità e per finalità incompatibili con l’ordinamento costituzionale, i primi due motivi di appello non meritano accoglimento.
10.7. Nemmeno è fondato il quinto motivo di appello, con cui si reiterano contestazioni relative alla decisione di dichiarare immediatamente esecutiva la delibera.
A prescindere dai seri dubbi sull’interesse a dedurre la censura, correlati al fatto che l’eventuale carenza dei presupposti per l’immediata esecutività non comporterebbe l’illegittimità dell’atto censurato, ma solo degli eventuali provvedimenti attuativi adottati prima del termine ordinario di dieci giorni di cui all’art. 134, co. 3, del TUEL (in questi termini si v. Cons. St., sez. V, sent. n. 1567 del 2019), la motivazione della decisione della Giunta sul punto emerge da una lettura complessiva della deliberazione: l’urgenza, in particolare, è stata correlata alla necessità di procedere celermente all’applicazione dei principi da essa stabiliti tenuto conto di «recenti episodi e manifestazioni che hanno inneggiato o propagandato ideologie naziste, fasciste e/o razziste».
Si tratta di una valutazione non irragionevole che rientra nel margine di discrezionalità da riconoscere all’Amministrazione in merito alla scelta di apporre la clausola d’immediata esecutività e che si sottrae alle censure dell’appellante.
11. L’appello è quindi meritevole di rigetto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 19.09.2024 n. 7687 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comunicazione antimafia e l'annullamento in autotutela del permesso di costruire.
---------------
L’annullamento in autotutela di un permesso a costruire, per intervenuta comunicazione antimafia, è un atto di ritiro vincolato ed accertativo della temporanea incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ampliativi, che prescinde, dunque, dall’operatività dei presupposti nonché dei limiti applicativi dell’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990.
A seguito della comunicazione antimafia, la pubblica amministrazione non può, pertanto, rilasciare alcun titolo legittimante lo svolgimento di una qualsiasi attività economica o commerciale e, allorché già emesso, è ineludibile il suo ritiro, stante la sua sostanziale incompatibilità con lo status di destinatario di una interdittiva antimafia.

---------------
SENTENZA
... per l'annullamento del provvedimento a firma del Responsabile del 6° Settore, Ufficio Tecnico, del Comune di Pomigliano d'Arco prot. n. 0029673 del 04.10.2022 con il quale si dispone l'annullamento d''ufficio del permesso di costruire n. 223/2017 e della SCIA alternativa al PdC n. 209/2021, con riserva di promuovere motivi aggiunti, nonché di qualsiasi atto e/o provvedimento allo stesso comunque connesso, presupposto e conseguenziale che incida negativamente sulla posizione giuridica della Società ricorrente.
...
La società ricorrente impugna, con il presente ricorso, il provvedimento prot. n. 0029673 del 04.10.2022 con cui il Comune di Pomigliano d’Arco ha annullato in autotutela il permesso di costruire n. 223/2017 e la SCIA alternativa al PdC n. 209/2021.
Per una migliore comprensione della vicenda occorre partire dalla esposizione dei fatti di causa, come ricostruiti dagli atti del presente giudizio.
I signori Ru.Gi., Ru.Al., Ru.Lu. e Ru.Vi., unitamente ad altro soggetto, in qualità di comproprietari di n. 7 unità immobiliari site in Pomigliano d'Arco, via A.F.T., presentavano nel luglio 2017 istanza di permesso di costruire per lavori di demolizione e ricostruzione, ai sensi del Piano casa, di un complesso immobiliare di natura residenziale.
Successivamente, i ricorrenti stipulavano con la ricorrente Pi. s.r.l. contratto preliminare di permuta con il quale promettevano la cessione degli immobili oggetto di intervento in cambio della cessione in loro favore di n. 8 abitazioni e di n. 8 box auto da realizzare.
A seguito del contatto preliminare, con istanza del 04.06.2020, la società Pi. s.r.l. chiedeva il subentro nella richiesta di permesso di costruire n. 223/2017 presentata dai sig.ri Ru..
In data 28.07.2020, il Comune di Pomigliano d'Arco rilasciava a favore di Pi. s.r.l. il permesso di costruire n. 223/2017 con il quale l'intervento progettato veniva integralmente assentito.
In virtù del permesso ottenuto, la società Pi. s.r.l. avviava i lavori e provvedeva così nei mesi successivi alla totale demolizione dei manufatti esistenti.
In data 16.01.2021, i ricorrenti e la società Pi. s.r.l. stipulavano un contratto di compravendita con il quale trasferivano la proprietà degli immobili in questione.
Con decreto del maggio 2021, la Procura della Repubblica del Tribunale di Nola ordinava il sequestro preventivo del cantiere. Il provvedimento veniva emesso a seguito di segnalazione del Comando di Polizia Municipale del Comune di Pomigliano d'Arco, il quale rappresentava l’illegittimità di numerosi titoli edilizi, tra cui quello emesso a favore della società Pi. s.r.l., per violazione della normativa del cd. Piano Casa della Regione Campania e della legislazione regionale e nazionale in generale.
La società Pi. s.r.l. in data 01.07.2021 presentava SCIA 2 n. 209/2021, contenente alcuni correttivi al progetto iniziale, che comprendevano la riduzione del numero degli appartamenti da costruire, che passavano dai 28 originari a 22.
Ciononostante, in data 27.10.2021 il Comune notificava l’avviso di avvio del procedimento volto all'annullamento in autotutela ai sensi degli artt. 7 e 21-nonies della L. 241/1990 del permesso di costruire n. 223/2017 e della variante SCIA 2 n. 209/2021, invitando gli interessati a presentare proprie osservazioni.
Sia i precedenti proprietari che la società Pi. s.r.l. presentavano le proprie deduzioni.
In data 19.10.2022, il Comune di Pomigliano d'Arco adottava il provvedimento di annullamento in autotutela del permesso e degli effetti della SCIA 2 n. 209/2021 con una serie di articolate motivazioni (lettere da A. a G.) di cui si riportano i paragrafi:
   “A. Violazione dell’art. 20 “Procedimento per il rilascio del permesso di costruire” del DPR n. 380/2001 e dell’art. 1 “Procedure per il rilascio del permesso di costruire” della L.R. n. 19/2001”.
   “B. Violazione dell’art. 3 “Casi di esclusione” della L.R. Campania 28/12/2009. Mancano i presupposti per l’applicazione dell’art. 5 perché l’immobile oggetto di intervento presenta una porzione illegittima e non è dimostrato l’intervento di ristrutturazione avvenuto negli ultimi 50 anni;”
   “C. Violazione delle NTA del PUA per il centro storico in merito all’intervento richiesto ed in merito al calcolo della volumetria assentibile;
   “D. Limite di densità edilizia massimo di cui all’art. 7 del D.M. n. 1444/1968 stabilito in 5 mc./mq.;
   “E. Violazione del punto 2.13 – Lotto d’intervento – dell’allegato D al Regolamento edilizio vigente;
   “F. Violazione della distanza dai confini”.
   “G. incapacità giuridica ex lege ad essere titolare di rapporti giuridici con la pubblica amministrazione della società Pi. per comunicazione di interdittiva antimafia”.
La ricorrente ha impugnato il provvedimento di annullamento, deducendo i vari motivi di illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere e ha depositato una relazione tecnica per illustrare le illegittimità del provvedimento impugnato.
Si è costituito il Comune di Pomigliano D’Arco, chiedendo il rigetto del ricorso.
Si è inoltre costituto Ru.Gi., chiamato in giudizio come controinteressato ma da qualificarsi come interventore ad adiuvandum, il quale ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Con ordinanza collegiale n. 1617 dell’11.03.2024, è stata disposta, a carico del Comune, l’acquisizione dell’informativa antimafia di conferma ostativa n. 60167 del 24.03.2017 e relativa nota di trasmissione della Prefettura di Napoli (nota prot. 19161 del 05/07/2022).
In data 08.07.2024, il Comune depositava la nota del 05.07.2022, con la quale la Prefettura di Napoli comunicava l’esistenza di un’informativa antimafia di conferma ostativa n. 60167 del 24.03.2017, emessa a carico della società Pi..
La ricorrente e l’interventore ad adiuvandum presentavano memorie per l’udienza, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
Ru. chiedeva, inoltre, con memoria non notificata, la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 30, comma 5, c.p.a. per tutti i danni subiti e subendi, come specificati nel corso del giudizio e che, comunque, ad oggi ammonterebbero ad oltre 1,6 milioni di Euro, così come dettagliato nella perizia di stima del valore immobiliare in atti, derivanti dalla demolizione degli immobili di loro proprietà e dal venir meno dei proventi derivanti dalla loro locazione.
...
Il ricorso non è fondato e va pertanto respinto, resistendo alle censure formulate da parte ricorrente la motivazione del provvedimento di annullamento fondata sulla sussistenza in capo alla società Pi. s.p.a., di un’informativa antimafia ostativa, che, come noto, integra una causa di incapacità giuridica del destinatario ad essere titolare di provvedimenti amministrativi ampliativi.
Tale ratio deliberandi è sufficiente a sostenere il provvedimento –avente natura plurimotivata– ed esonera il Collegio dall’esame delle ulteriori censure.
Per costante insegnamento giurisprudenziale, infatti, è sufficiente che anche soltanto una delle autonome ragioni poste a sostegno del provvedimento resista alle censure formulate, perché il provvedimento possa sostenersi e, dunque, restare insuscettibile di annullamento (“Nel caso in cui determinazioni amministrative negative siano impugnate davanti all'autorità giudiziaria e si basino su più motivi, ognuno dei quali potenzialmente valido per sostenere il dispositivo del provvedimento, è sufficiente che almeno uno di essi resista all'esame del giudice affinché il provvedimento nel suo insieme rimanga immune dalle censure proposte. In tale contesto, il ricorso può essere dichiarato infondato o addirittura inammissibile per mancanza di interesse a contestare ulteriori ragioni ostative, poiché l'esito di queste ultime è assorbito dalla pronuncia negativa riguardante la prima ragione.” Consiglio di Stato sez. VI, 02/07/2024, n. 5816).
Le censure contenute nel gravame avverso il suddetto profilo motivazionale, contenuto nella lettera G del provvedimento, si incentrano sui differenti effetti delle comunicazioni antimafia e delle informative antimafia. Infatti, secondo parte ricorrente, solo le prime potrebbero incidere su provvedimenti autorizzatori inerenti l’esercizio di attività economiche, mentre le informative antimafia riguarderebbero esclusivamente provvedimenti concessori, contratti e sovvenzioni.
Tale prospettazione non è condivisibile.
Secondo recente giurisprudenza di questo Tribunale (cfr. TAR Napoli, sez. I, 02.03.2021, n. 1355, TAR Napoli, sez. I, 13.07.2022, 13/07/2022, n. 4728), che il Collegio condivide: “Le conseguenze decadenziali sulle autorizzazioni dei provvedimenti interdittivi antimafia discendono dall'esigenza di elevare il livello della tutela dell'economia legale dall'aggressione criminale.
Ciò attraverso la sottoposizione a controllo non solo dei rapporti amministrativi che danno accesso a risorse pubbliche, ma anche di quelli che consentono l'esercizio di attività economiche, subordinandole al controllo preventivo della P.A. e stabilendo che anche in ipotesi di attività private soggette a mera autorizzazione l'esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l'economia legale e, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l'ordine e la sicurezza pubbliche.
Tale orientamento si è poi consolidato nella giurisprudenza successiva, secondo cui l'art. 89-bis, d.lgs. 06.09.2011 n. 159, si interpreta nel senso che l'informazione antimafia produce i medesimi effetti della comunicazione antimafia anche nelle ipotesi in cui manchi un rapporto contrattuale con la P.A.
Sotto questo profilo, quindi, la revoca delle autorizzazioni, anche se abilitanti l'esercizio dell'attività imprenditoriale nei confronti dei privati, discende direttamente, secondo il meccanismo vincolante di cui all'art. 67, dall'adozione dell'informazione interdittiva antimafia ed è legata alla perduranza di quest'ultima, non trovando applicazione quindi il meccanismo della riabilitazione, propriamente ricollegabile alle misure di prevenzione aventi natura e finalità eterogenea.
Inoltre, l'informativa antimafia ostativa, emessa ai sensi degli artt. 84 e 91 D.Lgs. 159/2011, ha effetto su tutte le richieste di certificazione antimafia provenienti dai soggetti di cui all'art. 83 D.Lgs. 159/2021.
A seguito dell'emanazione di una informativa antimafia, la pubblica amministrazione non può rilasciare alcun atto abilitativo per lo svolgimento di una qualsiasi attività economica o commerciale e, se è stato già emanato un atto abilitativo, deve esservi il suo ritiro, trattandosi di tipologie di atti i cui effetti sono radicalmente incompatibili con lo status di destinatario di una interdittiva antimafia. In sostanza, in presenza di una interdittiva antimafia, la revoca delle autorizzazioni commerciali di cui sia titolare il soggetto attinto dalla medesima costituisce per l'Amministrazione un atto dovuto (ex multis TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 04.06.2021, n. 510; 07.07.2021, n. 634)
.”.
Alla stregua di tali condivise argomentazioni, l’incontestata sussistenza a carico della società titolare del permesso di costruire di un’informativa di conferma ostativa, imponeva al Comune di privare di effetti il permesso di costruire e la successiva S.C.I.A., trattandosi di atti a contenuto abilitativo conseguiti dalla società nell’ambito dell’esercizio della propria attività imprenditoriale, atteso che, come gli stessi ricorrenti ammettono, essi sono stati rilasciati per la realizzazione di unità immobiliari da destinare alla vendita.
Va pertanto disattesa la tesi di parte ricorrente secondo la quale il mero rilascio del permesso di costruire non ricadrebbe in alcuna delle ipotesi per le quali sia richiesta la comunicazione antimafia.
Infatti, come si è detto sopra, l’attività edificatoria in esame attiene all’attività imprenditoriale della società ricorrente e non è riconducibile a mera attività privatistica rientrante nell’esercizio del diritto di proprietà.
In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato, da ultimo, in una fattispecie similare, con la sentenza della Terza Sezione, 15.04.2022, n. 2751/2022, nella quale si afferma: “nonostante il Tar Campania qualifichi l'attività dell'appellante come «commerciale», è tuttavia chiaro che il riferimento è, nei fatti, ad un'attività imprenditoriale (di realizzazione e vendita di ventitré unità immobiliari), sicché il provvedimento impugnato in primo grado si fonda sull'art. 92, comma 3, del codice antimafia, che impone il ritiro della autorizzazioni, delle concessioni e dei contratti di cui all'art. 67, tra cui qui rilevano le «altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati.”.
Infondato in fatto è il profilo di doglianza con cui la ricorrente sostiene che erroneamente sarebbe stata definita come “soggetto attuatore dell’intervento” essendo essa unicamente la promittente acquirente degli immobili dei sigri Ru. e Ma..
Risulta infatti che la ricorrente abbia realizzato i lavori di demolizione per la realizzazione dell’intervento in questione e può pertanto qualificarsi come “soggetto attuatore”.
Infine, la circostanza che il Comune non detenga copia del provvedimento di informativa richiesto dalla ricorrente non significa che detto provvedimento sia inesistente né disvela alcun intento persecutorio nei confronti della ricorrente.
3. Il provvedimento impugnato, dunque, nonostante il nomen iuris, in parte qua, va qualificato come “un atto di ritiro vincolato ed accertativo della temporanea incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ampliativi (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 06.04.2018, n. 3; Adunanza plenaria, 23.10.2020, n. 23; Adunanza plenaria, 06.08.2021, n. 14, Sezione III, 22.11.2021, n. 7810).” (così Consiglio di Stato, Sez. Terza, 15.04.2022, n. 2751/2022), che prescinde, dunque, dai presupposti e limiti applicativi dell’art. 21-nonies, L. 241/1990.
Per tale ragione, il rigetto delle censure rivolte al motivo di cui alla lettera G del provvedimento impugnato, trattandosi come detto di provvedimento plurimotivato, consente di pronunciare l’improcedibilità delle censure di cui al primo, secondo e terzo motivo di ricorso, volti a contestare la violazione dell’art. 21-nonies l. 241/1990, e il superamento del termine per l’esercizio dell’autotutela nonché la violazione del principio dell’affidamento e delle censure di cui al quinto motivo di ricorso volte a contestare analiticamente, punto per punto, le motivazioni poste a sostegno del provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 18.09.2024 n. 5036 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Secondo consolidato principio, l'onere di prendere in considerazioni le osservazioni dei privati dedotte nel procedimento amministrativo, ex art. 10-bis l. 241/1990, non comporta una confutazione analitica di ciascuna argomentazione, ben potendo essere adempiuto in modo unitario e sintetico in rapporto alle risultanze istruttorie complessivamente acquisite, purché sia consentito al destinatario del provvedimento di far valere le proprie ragione ed al giudice di svolgere il controllo giurisdizionale che ad esso è demandato
---------------

4. Il quarto motivo, concernente l’asserita violazione dell’art. 10-bis della l. 241/1990 per la mancata analitica confutazione delle osservazioni presentate da parte ricorrente, va invece respinto.
Il Comune ha dettagliatamente riscontrato le osservazioni della ricorrente, con un approfondimento compatibile con l’onere motivazionale richiesto a tale scopo.
Secondo consolidato principio, l'onere di prendere in considerazioni le osservazioni dei privati dedotte nel procedimento amministrativo non comporta una confutazione analitica di ciascuna argomentazione, ben potendo essere adempiuto in modo unitario e sintetico in rapporto alle risultanze istruttorie complessivamente acquisite, purché sia consentito al destinatario del provvedimento di far valere le proprie ragione ed al giudice di svolgere il controllo giurisdizionale che ad esso è demandato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 18.09.2024 n. 5036 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: L’esenzione Tari è condizionata. Diritto legato alla produzione di rifiuti speciali continuativa. L’orientamento dei giudici di legittimità e di merito: la prova resta a carico dei contribuenti.
 Per avere diritto all'esenzione Tari delle superfici occupate un'impresa deve provare che la produzione di rifiuti speciali sia continuativa. Inoltre, la produzione di rifiuti speciali in una parte delle superfici, seppur estesa, non esclude che nello stabilimento vengano prodotti rifiuti urbani ordinari. Prova che deve essere fornita dal contribuente e non dall'ente impositore, in quanto la presunzione di legge della produzione di rifiuti è legata alla mera detenzione dei locali.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 17.09.2024 n. 24896.
Per la Suprema corte, la società aveva provato in giudizio di produrre rifiuti speciali (imballaggi terziari), “senza specificare e accertare che la produzione fosse anche continuativa” e senza considerare che “la comprovata produzione di rifiuti speciali in una porzione (per quanto estesa) dell'insediamento produttivo non escludeva, né logicamente né giuridicamente, la produzione nello stabilimento anche di rifiuti urbani ordinari; produzione che non doveva essere dimostrata a onere dell'ente impositore, in quanto ex lege ricollegata al solo e obiettivo fatto materiale della detenzione dei locali”.
I limiti all'esenzione. Anche il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia Romagna, II sezione, con la sentenza 50/2024, ha chiarito che spetta al contribuente provare la produzione di rifiuti speciali e l'esistenza dei presupposti per beneficiare della detassazione degli imballaggi terziari.
La prova deve essere data dal contribuente con la presentazione di un'apposita dichiarazione e di idonea documentazione. Per avere diritto alla detassazione di parte delle superfici di vendita di un supermercato occorre determinare l'entità effettiva di quelle in cui vengono prodotti gli imballaggi terziari, trattandosi di rifiuti speciali esonerati dalla Tari.
Le superfici produttive di rifiuti speciali sono esonerate dal pagamento solo se l'impresa dimostra all'amministrazione comunale, con idonea documentazione, che li smaltisce autonomamente. La dichiarazione, per avere diritto al beneficio, va presentata ogni anno se nel regolamento comunale è richiesto espressamente questo adempimento. La norma del regolamento locale, infatti, può imporre all'interessato di inoltrare ogni anno la richiesta.
La Cassazione, con l'ordinanza n. 33863/2022, ha precisato che per beneficiare della riduzione della superficie tassabile o dell'esenzione occorre rispettare le previsioni di legge e dei regolamenti comunali.
Il regolamento, quindi, può imporre al contribuente di reiterare la richiesta di esenzione, corredata dai documenti analiticamente indicati, ogni anno, entro il 30 giugno dell'anno successivo a quello in cui l'azienda ha effettuato l'attività di smaltimento dei rifiuti. Va dimostrato che le superfici indicate nella dichiarazione producono in via continuativa e prevalente rifiuti speciali.
Inoltre, deve essere comprovato che sussiste un collegamento funzionale delle superfici con locali e aree produttive di rifiuti speciali per le quali possa essere riconosciuta la detassazione.
Sono escluse dall'esenzione solo le superfici funzionalmente collegate alle aree di produzione. Spetta all'impresa dimostrare anche il legame di funzionalità con le aree adibite a deposito e magazzino. Deve anche essere documentato che le aree sono utilizzate come deposito di materie prime e merci. Del resto, depositi e i magazzini sono sempre stati ritenuti assoggettabili al tributo, in quanto caratterizzati dalla presenza umana.
Tuttavia, per la Cassazione (sentenza 28017/2023), la quota fissa della Tari è sempre dovuta a prescindere dalla produzione di rifiuti urbani o speciali. Le imprese che producono rifiuti speciali sono tenute a pagare la quota fissa perché serve a finanziare i costi complessivi del servizio. L'esonero dal pagamento è limitato solo alla quota variabile.
Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza 28017/2023.
La tariffa è articolata tra parte fissa e parte variabile e quella fissa è riferita alle componenti essenziali del costo del servizio, nonché agli investimenti per le opere e ai relativi ammortamenti. Quindi, ha la funzione di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non solo interni, cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto che può avvalersi del servizio, ma anche esterni. In particolare, i rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade e aree pubbliche e soggette a uso pubblico.
La ratio è quella di coprire anche le spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e non riconducibile a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente. La quota fissa, infatti, prescinde dalla produzione di rifiuti urbani o speciali, assimilabili o meno. L'agevolazione per le superfici produttive di rifiuti speciali spetta solo per la quota variabile della tariffa. Mentre, gli altri utenti devono pagare la tassa nel suo intero ammontare.
La tariffa è composta da una parte fissa, fondata sulle componenti essenziali del costo del servizio, vale a dire sugli investimenti per le opere e sui relativi ammortamenti, e da una parte variabile, rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all'entità dei costi di gestione, attraverso sistemi di misurazione delle quantità di rifiuti effettivamente conferiti dalle singole utenze o facendo riferimento a un sistema presuntivo (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2024).

TRIBUTI: Delibere subito impugnabili. La determinazione delle tariffe è immediatamente lesiva. Il Consiglio di stato: decadenza di 60 giorni. Irricevibili i ricorsi proposti tardivamente.
La delibera Tari che fissa le tariffe è immediatamente lesiva degli interessi dei contribuenti e va impugnata entro il termine di decadenza di 60 giorni dalla pubblicazione. Il ricorso proposto tardivamente è irricevibile.

Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, V Sez., con la sentenza 16.09.2024 n. 7601.
Per i giudici di palazzo Spada, le delibere che annualmente fissano le tariffe sono immediatamente lesive degli interessi dei contribuenti “senza necessità di attendere alcun atto applicativo”. Il soggetto che si assume leso può contestare la delibera entro il termine di decadenza decorrente dalla sua pubblicazione. Pertanto, il ricorso tardivamente proposto è stato “correttamente dichiarato irricevibile”.
Gli atti generali emanati dagli enti locali, quali delibere e regolamenti, sono solo disapplicabili dai giudici tributari. Sono direttamente impugnabili davanti al giudice amministrativo. E’ competente il tribunale amministrativo regionale a giudicare sulla legittimità di delibere e regolamenti. Il giudice tributario è competente a giudicare solo quando vengono contestati specifici atti impositivi, applicativi delle regole stabilite negli atti generali. Regolamenti e delibere, con le quali vengono fissate anche le aliquote di imposte e tasse, sono immediatamente lesivi degli interessi legittimi dei cittadini e possono essere impugnati sin dal momento della loro emanazione.
In alternativa, gli interessati possono tutelare i loro diritti innanzi al giudice tributario nel momento in cui vengono emanati gli atti di accertamento e di riscossione. Anche se a questo giudice la legge processuale attribuisce soltanto il potere di disapplicazione degli atti amministrativi a contenuto generale.
E deve dichiarare il difetto di giurisdizione se il contribuente contesta, direttamente, le scelte dell’ente. Sempre il Consiglio di Stato, con la sentenza 5906/2024, ha chiarito che i contribuenti hanno un interesse attuale e concreto a impugnare la delibera con la quale l'amministrazione comunale aumenta le tariffe per la pubblicità, che incidono sul pagamento del canone.
L'atto generale è immediatamente lesivo degli interessi delle società che operano nel settore pubblicitario tramite numerosi impianti autorizzati. Quindi, può essere contestato ancor prima del ricorso contro gli atti applicativi. Le delibere hanno natura regolamentare, sono soggette a pubblicità legale e il termine per la loro impugnazione decorre dalla pubblicazione presso l'albo comunale.
L'interessato ha la facoltà di riservarsi di proporre ricorso in un momento successivo, ma non oltre il termine per opporsi all'atto applicativo della delibera. I giudici amministrativi, però, hanno sostenuto che i regolamenti locali e i provvedimenti amministrativi a carattere generale non devono essere impugnati quando non provocano una diretta e immediata lesione degli interessi dei destinatari. Se la lesione deriva dagli atti successivi esecutivi, che non costituiscono mera applicazione delle norme regolamentari, il ricorso non va proposto.
Occorre, invece, ricorrere contro le norme regolamentari se dopo la loro emanazione il funzionario non ha alcun potere discrezionale e non può che applicarle. Al riguardo la Cassazione (ordinanza 18151/2023) ha precisato che il giudice tributario ha il potere di disapplicare le delibere comunali che ritiene illegittime, anche nel caso in cui il contribuente non le abbia contestate, in presenza di un ricorso contro la pretesa fiscale.
Qualora l’interessato non abbia chiesto la disapplicazione della delibera, ma si sia limitato a chiedere l’annullamento dell’atto impositivo che si fonda su di essa, il giudice può esercitare il potere d’ufficio (articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).
---------------
SENTENZA
4.2. Col secondo motivo di appello la società Mi. S.G. ribadisce che il Piano finanziario relativo all’anno 2018 non sarebbe stato immediatamente lesivo nei suoi confronti perché indicava “le sole categorie generali di utenti ma non i possibili destinatari”.
Pertanto, secondo l’appellante, soltanto con l’avviso di pagamento si sarebbe potuto constatare che nei suoi confronti sarebbe stata applicata “una tariffa più alta di quanto dovuto per le utenze domestiche”.
4.3. Il motivo è infondato.
Il principio generale, affermato da costante giurisprudenza, da cui prendere le mosse, è quello secondo cui
i regolamenti e gli atti amministrativi generali sono impugnabili in via diretta solo ove contengano disposizioni in grado di ledere immediatamente le posizioni giuridiche soggettive dei destinatari; negli altri casi, divengono impugnabili solo quando sorge l’interesse a ricorrere, ovvero assieme all’atto applicativo che produca una lesione effettiva, e non solo ipotetica o futura (in tali termini, Cons. Stato, V, 07.10.2016, n. 4130 e 06.05.2015, n. 2260, nonché id., VI, 29.03.1996, n. 512, richiamate da Cons. Stato, IV, 13.02.2020, n. 1159).
Per le delibere che annualmente fissano le tariffe inerenti ai tributi locali, si è ritenuto inoltre che le stesse siano immediatamente lesive dei soggetti contribuenti per la modalità esecutiva della corrispondente imposizione, che comporta che, già con l’adozione delle tariffe nelle diverse misure in relazione alle diverse categorie di utenti, se ne possa constatare la lesività per gli appartenenti a tali categorie, senza necessità di attendere alcun atto applicativo (in tale senso, di recente Cons. Stato, V, 20.05.2024 n. 4478, in riferimento alla delibera di approvazione di tariffe TARI).
In particolare,
quando sia nota al contribuente la categoria di appartenenza, secondo il regolamento comunale, e venga contestata l’imposizione o la modifica tariffaria, pur generale ed astratta, ma riferita alla categoria alla quale il contribuente risulta appartenere, l’atto amministrativo generale che fissa le tariffe va considerato immediatamente lesivo nei suoi confronti, perciò impugnabile nel termine di decadenza decorrente dalla sua pubblicazione (cfr., per l’affermazione dello stesso principio per il servizio comunale cimiteriale, anche Cons. Stato, V, 19.09.2019, n. 6238).
Invero,
in tale situazione gli atti applicativi, di liquidazione o di accertamento dei tributi dovuti, hanno contenuto meramente esecutivo delle disposizioni generali (cfr. per l’approvazione del regolamento per l’applicazione della TARSU, già Cons. Stato, V, 27.04.1990, n. 379 e id., V, 12.07.1996, n. 854, nonché Cons. Stato, V, 17.03.2003, n. 1379 e, in tema di servizio idrico, Cons. Stato, VI, 06.04.2010, n. 1918, nonché più recentemente, in tema di delibere comunali riguardanti tariffe TARI nei confronti della categoria dei professionisti ricorrenti, Cons. Stato, I, parere n. 1945/2019, del 02.07.2019).
Giova precisare che trattasi di questione che va decisa caso per caso, dal momento che, al fine di valutare l’immediata lesività della delibera tariffaria, sono da ritenere decisivi: per un verso, il contenuto della delibera; per altro verso, il tenore delle censure. Queste ultime vanno reputate immediatamente dirette avverso la stessa delibera quando concernenti i criteri di quantificazione e gli importi delle tariffe per una determinata categoria di utenti; categoria, che la delibera medesima e gli atti preparatori (o connessi o allegati) -valutati anche in relazione alle delibere tariffarie riguardanti precedenti annualità- consente di individuare come quella di appartenenza del soggetto che si assume leso dalle tariffe di nuova introduzione (anche eventualmente contestando l’appartenenza alla categoria).
4.2. Nel caso di specie, è da ritenere che già al momento della pubblicazione della delibera impugnata il contenuto della stessa e degli allegati consentisse di percepirne la lesività nei confronti della società ricorrente, quanto meno con riferimento alle ragioni di doglianza dalla medesima poi formulate in giudizio (impregiudicata la loro fondatezza nel merito: cfr. Cons. Stato, V, n. 4478/2024 su citata).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La disciplina della Patente a crediti: le novità del decreto attuativo e le ulteriori istruzioni operative (ANCE, 24.09.2024).
---------------
In merito, si veda anche la registrazione del webinar ANCE del 24.09.2024.

SICUREZZA LAVORO D.lgs. 09.04.2008, n. 81 - Testo coordinato con il D.Lgs. 03.08.2009, n. 106 - TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO (settembre 2024 - tratto da www.ispettorato.gov.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 30.09.2024, "Aggiornamento della procedura per l’approvazione dei Piani Territoriali di Coordinamento (PTC) dei Parchi regionali e delle relative valutazioni ambientali (VAS e VIncA) in attuazione dell’art. 6 della legge regionale 23.07.2024, n. 12 (Legge di semplificazione 2024)" (deliberazione G.R. 23.09.2024 n. 3095).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 25.01.2023 n. 20 "Contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del comparto funzioni locali - Triennio 2019-2021" (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni, CCNL-CFL 16.11.2022).
---------------
Si legga anche il testo dell'ARAN coi link ai vari articoli.

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 25.02.2022, "Approvazione dell’aggiornamento dei contenuti della relazione di dettaglio relativa all’individuazione delle aree idonee e quelle non idonee alla localizzazione degli impianti di recupero e smaltimento di rifiuti urbani e speciali della provincia di Bergamo, approvata con d.g.r. 119/2018" (deliberazione G.R. 21.02.2022 n. 5992).

GIURISPRUDENZA

APPALTIAppalti, la p.a. deve agire con lealtà e correttezza.
In base al principio di buona fede e di tutela dell’affidamento la stazione appaltante deve rispettare anche le norme dell’ordinamento civile e quindi rispettare i principi di lealtà e correttezza la cui violazione può comportare responsabilità anche precontrattuale ai sensi dell’articolo 1337 del codice civile.

Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 13.09.2024 n. 7574 che innanzitutto ricorda che “che nei rapporti di diritto amministrativo è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo in relazione a comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi”.
Nella sentenza si collega questo principio a quello di buona fede e di tutela dell’affidamento di cui all’articolo 5 del dlgs n. 36 del 2023 per ricavarne che il comportamento della stazione appaltante non solo deve essere improntato al rispetto delle norme di diritto pubblico, la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da lesione dell’interesse legittimo, ma anche le norme generali dell’ordinamento civile ”che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può fare nascere una responsabilità da comportamento scorretto, incidente sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze derivanti dall’altrui scorrettezza”.
La pronuncia richiama la giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria in base alla quale la responsabilità precontrattuale richiede non solo la buona fede soggettiva del privato, ma anche gli ulteriori seguenti presupposti:
   "a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e lealtà;
   b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo;
   c) che il privato provi sia il danno-evento, sia il nesso eziologico tra il danno e il comportamento scorretto che si imputa all’amministrazione
” (articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).
---------------
SENTENZA
1.- L’assunto dell’appellante, svolto con il primo motivo di gravame, è concettualmente fondato, non apparendo condivisibile, nella sua assolutezza, la statuizione (di primo grado) di inammissibilità basata sul convincimento che la parte ricorrente sia incorsa in decadenza per omessa impugnazione dell’atto dedotto come lesivo (id est, la revoca dell’aggiudicazione in data 02.03.2018).
Tale tesi ha un senso con riguardo alla responsabilità civile da provvedimento amministrativo, a norma dell’art. 30, comma 3, cod. proc. amm., ma non anche con riguardo alla responsabilità precontrattuale, che, secondo il paradigma generale di cui all’art. 1337 cod. civ., impone alle parti di comportarsi, nella fase che precede la stipulazione del contratto, secondo buona fede in senso oggettivo.
La giurisprudenza ha posto in evidenza che nei rapporti di diritto amministrativo è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo in relazione a comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica suindicati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi (Cons. Stato, Ad. plen., 29.11.2021, n. 21).
Il principio di buona fede e di tutela dell’affidamento (da ultimo, recepito nell’art. 5 del nuovo codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. n. 36 del 2023), già secondo l’elaborazione compiuta da Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2018, n. 5, comporta che nello svolgimento dell’attività autoritativa l’amministrazione è tenuta a rispettare, oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da lesione dell’interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile, che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può fare nascere una responsabilità da comportamento scorretto, incidente sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze derivanti dall’altrui scorrettezza.
La sentenza dell’Adunanza plenaria ha altresì chiarito che la responsabilità precontrattuale richiede non solo la buona fede soggettiva del privato, ma anche gli ulteriori seguenti presupposti:
   a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e lealtà;
   b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo;
   c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (e cioè le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia il nesso eziologico tra il danno e il comportamento scorretto che si imputa all’amministrazione.
Emerge dunque da tale inquadramento generale che la responsabilità precontrattuale è in funzione del comportamento scorretto (Cons. Stato, V, 10.08.2018, n. 4912; IV, 20.02.2014, n. 790), e non già dell’illegittimità provvedimentale.
La statuizione di inammissibilità appare dunque non condivisibile con riguardo alla responsabilità precontrattuale, che prescinde dall’illegittimità provvedimentale e dunque dall’esigenza stessa di impugnare il provvedimento (nel caso di specie, di revoca dell’aggiudicazione).

APPALTIL’errore non è sanabile con un chiarimento.
Un errore materiale non può essere sanato dalla stazione appaltante con un chiarimento.

E' quanto ha affermato il TAR Basilicata con la sentenza 10.09.2024 n. 438.
I giudici hanno ricordato innanzitutto che il Consiglio di Stato ha affermato che "i chiarimenti della stazione appaltante sono ammissibili solo se contribuiscono, con un’operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato, ma non quando, proprio mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione della lex specialis, un significato e una portata diversa o maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis”.
Partendo da questo assunto il collegio lucano ha evidenziato come la stazione appaltante avesse sostituito tramite “chiarimenti” uno dei requisiti di partecipazione (facendo riferimento alle norme europee della serie Uni En 15358:2011 non citate inizialmente), pervenendo a un "risultato che è scevro da portata chiarificatrice di sorta", ma anzi ha determinato una modifica non consentita delle regole alla base della selezione pubblica anche perché in violazione della par condicio, dei principi di buona fede e di legittimo affidamento.
Né -si legge nella sentenza- si può invocare la natura di mero errore materiale perché "l’errore materiale non è emendabile con lo strumento dei chiarimenti, in quanto, secondo la giurisprudenza, l’errore materiale o l’omissione commessa nella lex specialis richiede un’apposita rettifica del bando e del disciplinare da parte della stazione appaltante fatta con le stesse forme di detti atti e non già con un semplice chiarimento del responsabile unico del procedimento".
La pretesa correzione dell’asserito errore materiale nell’indicazione della certificazione di qualità si sarebbe dovuta attuare tramite un’apposita rettifica del disciplinare di gara da parte della stazione appaltante, fatta con le stesse forme di adozione di tale atto, e non già mediante un mero “chiarimento”, come invece avvenuto in concreto. 
Pertanto non si può “disapplicare il regolamento imperativo della procedura di affidamento da essa stessa predisposto, e al quale la stessa deve comunque sottostare” (articolo ItaliaOggi del 20.09.2024).
---------------
SENTENZA
9.1. Coglie nel segno la censura di «violazione di legge (artt. 99, 100, 105 e 107 d.lgs. 36/2023 – punto 6.3. lett. h) del disciplinare di gara in relazione al punto 6)».
9.1.1. L’art. 6.3. del disciplinare di gara, rubricato requisiti di capacità tecnica e professionale, prescrive tra l’altro, alla lett. f), il: «possesso di certificazione del proprio sistema di gestione ambientale riferito all'oggetto della procedura conforme alle norme europee della serie UNI EN 15359:2011».
9.1.1.1. Tuttavia, la stazione appaltante, senza essere addivenuta ad alcuna modificazione di tale disposizione, rendendo dei meri chiarimenti, ha successivamente affermato che: «tra i requisiti di capacità tecnica e professionale indicate nel disciplinare di gara ci si riferisce alle norme europee della serie UNI EN 15358:2011 (Combustibili solidi secondari - Sistemi di gestione per la qualità - Requisiti particolari per la loro applicazione alla produzione di combustibili solidi secondari)».
9.1.1.2. In tal modo, quindi, l’intimata A. ha di fatto sostituito la prescrizione della legge di gara relativa al possesso di certificazione UNI EN 15359:2011 con altra concernente la diversa certificazione UNI EN 15358:2011. In altri termini, La A. s.r.l. ha in tal modo apportato una sostanziale e surrettizia modifica dei requisiti di partecipazione in fase di formulazione dei chiarimenti, dalla cui applicazione è derivato il provvedimento di ammissione alla procedura comparativa della controinteressata La.Ca. (in possesso, appunto, della sola certificazione UNI EN 15358:2011), poi risultata aggiudicataria.
9.1.2. Si tratta di attività illegittima, incidendo la stessa sull’individuazione di uno dei requisiti di capacità tecnica e professionale. Invero, i chiarimenti resi dalla stazione appaltante nel corso di una gara d'appalto non hanno contenuto provvedimentale, non potendo costituire, per giurisprudenza consolidata, integrazione o rettifica della lex specialis di gara.
Sul punto, in particolare, va richiamato quanto statuito da condivisibile giurisprudenza del Giudice d’appello, secondo cui «i chiarimenti della stazione appaltante, infatti, sono ammissibili solo se contribuiscono, con un'operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato, ma non quando, proprio mediante l'attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione della lex specialis, un significato e una portata diversa o maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis, posto a garanzia dei principi di cui all'art. 97 Cost. (in termini, Cons. Stato, sez. III, 07.01.2022, n. 64; id., sez. III, 15.12.2020, n. 8031)
».
9.1.2.1. Come si è già rilevato, la stazione appaltante ha sostituito tramite “chiarimenti” uno dei requisiti di partecipazione, pervenendo a un risultato che (anche avuto riguardo alla chiara portata letterale del disciplinare di gara) e diversamente da quanto pretenderebbero parte resistente e la controinteressata, è scevro da portata chiarificatrice di sorta.
Nel contempo, si è dato luogo a una modifica non consentita delle regole alla base della selezione pubblica, trattandosi di attività che si pone in contrasto con la par condicio. Tale risultato, peraltro, contrasta anche con i principi di buona fede e legittimo affidamento riposto dai concorrenti sulla lex specialis di gara, di cui all’art. 5, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 36 del 2023.
9.1.2.2. Nella relazione amministrativa resa a seguito del disposto incombente istruttorio, A. s.r.l. ha pure sostenuto che il disciplinare di gara recherebbe, per tale aspetto «un semplice refuso» in quanto per la partecipazione alla gara sarebbe «richiesto il possesso della certificazione serie UNI EN 15358:2011, attualmente in vigore», mentre «la certificazione serie UNI EN 15359:2011, (sistema di classificazione per i combustibili solidi secondari (CSS) ed uno schema per la definizione delle loro proprietà), è stata ritirata in data 01/07/2021».
Del pari, la controinteressata ha sostenuto che il disciplinare di gara sarebbe affetto, per tale aspetto, da un evidente refuso, non essendo più in vigore la normativa UNI EN 15359:2011. Tale «mero errore materiale, riconoscibile agli operatori perché conforme a legge», sarebbe stato «tempestivamente chiarito con FAQ del 15.11.2023».
In senso opposto, osserva il Collegio come l’errore materiale non sia emendabile con lo strumento dei chiarimenti, in quanto, secondo la giurisprudenza, l’errore materiale o l’omissione commessa nella lex specialis richieda un’apposita rettifica del bando e del disciplinare da parte della stazione appaltante fatta con le stesse forme di detti atti e non già con un semplice chiarimento del responsabile unico del procedimento (in termini, Cons. Stato, , sez. III, 07.01.2022, n. 64; TAR Lazio, sez. III-quater, 06.12.2018, n. 11828; Cons. Stato, sez. V, 08.11.2017, n. 5162).
La pretesa correzione dell'asserito errore materiale nell’indicazione della certificazione di qualità si sarebbe dovuta attuare tramite un'apposita rettifica del disciplinare di gara da parte della stazione appaltante, fatta con le stesse forme di adozione di tale atto, e non già mediante un mero “chiarimento”, come invece avvenuto in concreto.
In difetto di ciò non è consentito all'amministrazione aggiudicatrice di disapplicare il regolamento imperativo della procedura di affidamento da essa stessa predisposto, e al quale la stessa deve comunque sottostare (ex multis, Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: È legittimo il conferimento di funzioni in materia di verifica di assoggettabilità a V.I.A. dalle regioni ai comuni.
---------------
Ambiente – V.I.A. – Verifica di assoggettabilità – Competenza – Regioni – Conferimento enti locali – Legittimità
È legittimo il conferimento da parte delle regioni ai comuni di funzioni in materia di verifica di assoggettabilità a V.I.A. (c.d. screening), ai sensi dell’art. 7-bis, comma 8, del d.lgs. n. 152 del 03.04.2006 (codice dell’ambiente), che espressamente la prevede per le funzioni in materia di V.I.A., in quanto lo screening partecipa della medesima natura della V.I.A. ed è disciplinato nell’ambito del titolo III della parte I del codice dell’ambiente, complessivamente dedicato alla “valutazione di impatto ambientale”.
In motivazione, la Sezione ha altresì evidenziato che il principio di cui in massima è confermato, sul piano letterale, dal comma 5 dello stesso art. 7-bis del codice dell’ambiente (“In sede regionale, l'autorità competente è la pubblica amministrazione con compiti di tutela, protezione e valorizzazione ambientale individuata secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle Province autonome”), nonché dall’ultima parte del comma 8 (“In ogni caso non sono derogabili i termini procedimentali massimi di cui agli articoli 19 e 27-bis”), laddove l’art. 19 del codice dell’ambiente riguarda, appunto, la disciplina della fase di screening.
---------------
   (1) Non risultano precedenti negli esatti termini. Sulla natura e funzione dello screening cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.05.2021, n. 3597; Cons. Stato, sez. II, 07.09.2020, n. 5379
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.08.2024 n. 7314 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
8. Nell’ordine logico delle questioni viene in rilievo quella relativa alla qualificazione della delibera di Giunta dell’11.08.2021.
Le censure tese a contestare, sotto vari profili, la competenza della Giunta si fondano infatti sull’assunto che si tratti di un provvedimento di verifica di assoggettabilità a V.i.a. conclusosi con esito negativo.
Tuttavia tale provvedimento –come si evince dal dispositivo– si è limitato:
   - ad approvare il progetto “Revisione del Progetto Definitivo della Variante Alternativa al Centro Storico (VACS) Secondo Lotto (Viale Lavagnini – Piazza Libertà – Piazza San Marco)”:
   - a dichiarare la pubblica utilità dell’opera “al fine di intraprendere la procedura per la costituzione di servitù ai sensi del D.P.R. 327/2001”.
Al riguardo, va precisato che il progetto definitivo denominato “Variante alternativa al Centro storico – Lotto 2” (“VACS 2” o “VACS Lotto 2” nel prosieguo), è stato approvato con deliberazione della Giunta comunale 11.08.2017, n. 398, non impugnata.
Il provvedimento in esame, inoltre, fa propria la valutazione contenuta nella relazione del Rup nella parte in cui si dà atto (par. 7) che “relativamente alla procedura di Verifica di Assoggettabilità Ambientale di cui alla LR 10/2010 [...] con Delibera n. 488 del 8/11/2016 la Giunta in qualità di Autorità Competente, ha ritenuto le modifiche apportate dal PROGETTO DI REALIZZAZIONE DELLE LINEE TRANVIARIE 2 E 3 (I Lotto) “VARIANTE ALTERNATIVA AL CENTRO STORICO” non sostanziali e ha deciso di escludere il progetto in parola dalla procedura di verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale confermando le precedenti procedure effettuate”; ed inoltre che “le presenti modifiche non hanno rilevanza ai fini della Verifica di Assoggettabilità Ambientale [...]”.
In sostanza, la Giunta, con il provvedimento impugnato, si è limitata “ad un sintetico richiamo della precedente delib. 08.11.2016 n. 2016/G/00488 della Giunta comunale (doc. 6 e 22 del deposito dell’Amministrazione comunale) che ha già disposto l’esclusione dalla procedura di valutazione di impatto ambientale del progetto in discorso e che non risulta essere stata mai impugnata da parte ricorrente”.
La delibera in esame non è quindi espressiva di un giudizio ambientale ma di una valutazione preliminare circa la natura non sostanziale delle modifiche apportate in sede di revisione della variante.
In tale ottica è quindi del tutto conseguenziale l’ulteriore rilievo del Tar secondo cui “non avendo mai parte ricorrente impugnato la delib. G.C. 08.11.2016 n. 2016/G/00488 che ha definito il subprocedimento di esclusione dalla sottoposizione a V.I.A. del progetto, le censure proposte avverso l’approvazione del progetto revisionato costituiscono [...] un modo surrettizio per riaprire una questione ormai definita dall’omessa tempestiva impugnazione dell’atto conclusivo del procedimento” ambientale.
8.1. A fronte del descritto iter procedimentale, l’unica censura scrutinabile era quindi solo quella relativa alla correttezza della valutazione preliminare della Giunta circa la natura non sostanziale delle modifiche apportate in sede di revisione progettuale.
Il che spiega l’apparente contraddizione che gli appellanti hanno preteso di rilevare nel fatto che il Tar, abbia, da un lato, ritenuto inammissibili le censure con le quali veniva dedotta l’incompetenza della Giunta in materia di procedimento di screening, e, dall’altro, escluso che le variazioni progettuali approvate fossero di tale rilevanza ambientale tale da imporre, di per sé, l’instaurazione del procedimento di screening.
8.2. Ad ogni buon conto, la tesi secondo cui l’art. 45-bis della l.r. n. 10 del 2010 dovrebbe ritenersi tacitamente abrogato per effetto dell’art. 7-bis del Codice dell’ambiente (introdotto dalla d.lgs. n. 104 del 2017), è infondata.
8.2.1. Secondo gli appellanti, in base alla disposizione testé richiamata le Regioni potrebbero subdelegare agli enti territoriali le competenze in materia di VIA ma non quelle di verifica di assoggettabilità a VIA.
8.2.2. In contrario, le parti resistenti hanno fatto osservare che la competenza comunale relativamente alla procedura di VIA e di screening sui progetti elencati nel paragrafo 7 dell’allegato IV alla parte seconda del d.lgs. 152/2006 – lett. “l” (che contempla le tramvie urbane) è stata esplicitamente confermata, nel tenore attuale dell’art. 45-bis della l.reg. 10/2010, dall’art. 16 della legge regionale n. 25 del 2018, che è successiva al d.lgs. 104 del 2017 e reca appunto “Disposizioni in materia di valutazioni ambientali in attuazione del decreto legislativo 16.06.2017, n. 104. Modifiche alla l.r. 10/2010 e alla l.r. 46/2013”.
Pertanto nel caso in esame potrebbe solo porsi la questione di costituzionalità del cit. art. 45-bis, ma non sostenersi che esso sia stato tacitamente abrogato da tale decreto legislativo.
8.2.3. Ad ogni modo, sul piano logico–sistematico, non vi è alcun elemento idoneo a supportare la tesi secondo cui la Regione non potrebbe riallocare anche le competenze in materia di verifica di assoggettabilità a VIA come ritiene più opportuno, sia pure rispettando i criteri di cui al citato art. 7–bis, comma 8, del codice dell’ambiente (ovvero conformità alla legislazione europea e alle norme dettate in sede statale, fatto salvo il potere di stabilire regole particolari ed ulteriori per la semplificazione dei procedimenti, per le modalità della consultazione del pubblico e di tutti i soggetti pubblici potenzialmente interessati, per il coordinamento dei provvedimenti e delle autorizzazioni di competenza regionale e locale).
Le funzioni in materia sono infatti del tutto omogenee, inerenti alle medesime verifiche di compatibilità ambientale da effettuare con riguardo a determinati interventi, alcuni dei quali, in seguito all’esito dello screening, sottoposti ad entrambi i procedimenti.
8.2.4. Con specifico riguardo alla fase di screening è stato sottolineato (cfr. Cons. Stato, sez. II, 07.09.2020, n. 5379; cfr. anche sez. IV, 07.05.2021, n. 3597), che essa svolge “una funzione preliminare per così dire di "carotaggio", nel senso che "sonda" la progettualità e solo ove ravvisi effettivamente una significatività della stessa in termini di incidenza negativa sull'ambiente, impone il passaggio alla fase successiva della relativa procedura; diversamente, consente di pretermetterla, con conseguente intuibile risparmio, sia in termini di costi effettivi, che di tempi di attuazione”.
Lo screening è dunque esso stesso una procedura di valutazione di impatto ambientale, che viene realizzata preventivamente con riguardo a determinate tipologie di progetto rispetto alle quali alla valutazione vera e propria si arriva solo in via eventuale, in base all’esito della verifica di assoggettabilità.
In tal senso, l’art. 19, comma 7, del d.lgs. n. 152 del 2006, dispone che “Qualora l'autorità competente stabilisca di non assoggettare il progetto al procedimento di VIA, specifica i motivi principali alla base della mancata richiesta di tale valutazione in relazione ai criteri pertinenti elencati nell'allegato V alla parte seconda, e, ove richiesto dal proponente, tenendo conto delle eventuali osservazioni del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, per i profili di competenza, specifica le condizioni ambientali necessarie per evitare o prevenire quelli che potrebbero altrimenti rappresentare impatti ambientali significativi e negativi [...]”.
Pertanto, incombe sull’Amministrazione titolare del potere l’obbligo di adottare una deliberazione “adeguatamente motivata in relazione a fattori di oggettiva pericolosità rivenienti dagli indici di cui all’Allegato V al Codice ambientale, stante che ciò implica solo il rinvio ad un più approfondito scrutinio della progettualità proposta, che dalle ragioni dello stesso non risulta comunque in alcun modo condizionata” (cfr., Cons. Stato, Sez. II, sentenza n. 5379 del 2020).
Questo approccio è il diretto precipitato del principio di precauzione che “[…] presuppone l’esistenza di un rischio specifico all’esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura” (cfr., Cons. St., sez. III, sentenza n. 6655 del 2019).
8.2.5. Da quanto precede deriva che l’espressione contenta nel comma 8 dell’art. 7–bis secondo cui “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano disciplinano con proprie leggi o regolamenti l’organizzazione e le modalità di esercizio delle funzioni amministrative ad esse attribuite in materia di VIA, nonché l'eventuale conferimento di tali funzioni o di compiti specifici agli altri enti territoriali sub-regionali” non può che essere riferita anche alla verifica di assoggettabilità a VIA, la quale è peraltro disciplinata nell’ambito del titolo III della parte I del Codice dell’ambiente, complessivamente dedicato alla “valutazione di impatto ambientale”.
8.2.6. Nello stesso senso depongono sul piano letterale, il comma 5 dello stesso art. 7-bis (“In sede regionale, l'autorità competente è la pubblica amministrazione con compiti di tutela, protezione e valorizzazione ambientale individuata secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle Province autonome”) nonché l’ultima parte del comma 8 (“In ogni caso non sono derogabili i termini procedimentali massimi di cui agli articoli 19 e 27-bis”), laddove l’art. 19, come in precedenza evidenziato, riguarda appunto la disciplina della fase di screening (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.08.2024 n. 7314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: Incidenti stradali, filmati delle telecamere da far salvare subito.
Chi incorre in un sinistro in prossimità di una telecamera stradale deve richiedere al comune il salvataggio immediato del filmato esercitando il diritto d'accesso ai sensi della legge 241/1990. Non basta rivolgersi alla polizia locale chiedendo informazioni sull'incidente. E se il regolamento comunale limita arbitrariamente i diritti dell'autista la questione potrà essere regolata in giudizio perché un provvedimento comunale non può interferire con una norma primaria.

Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la sentenza 29.07.2024 n. 671.
Un cittadino incorso in un sinistro stradale senza feriti si è rivolto tempestivamente alla polizia locale per avere informazioni sulla circostanza dell'evento che era stato ripreso dalle telecamere di videosorveglianza urbana. Purtroppo però solo a distanza di qualche mese l'autista ha formalizzato, senza successo, la richiesta di accesso ai filmati ai sensi dell'art. 22 della legge 241/1990.
Il regolamento locale sulla videosorveglianza, infatti, prevede una conservazione limitata a cinque giorni dei filmati catturati dai sistemi di videosorveglianza comunale. Questa limitazione temporale a parere del collegio risulta corretta perché rispondente ai principi fondamentali sulla protezione dei dati personali.
Non risulta invece adeguata alla normativa la limitazione al diritto d'accesso introdotta nel medesimo regolamento comunale per i filmati che riprendono incidenti stradali. Non è possibile limitare un diritto riconosciuto da una legge dello Stato con un regolamento municipale, specifica il collegio. “La normativa locale, pertanto, non può costituire circostanza impeditiva alla piena operatività di previsioni normative primarie”.
Nel caso sottoposto all'esame del tribunale ormai le immagini erano state cancellate quindi l'automobilista non ha comunque beneficiato dalla censura del tribunale. La prima cosa da fare in caso di sinistro sotto alle telecamere comunali è quella di formalizzare una richiesta di accesso documentale al filmato della videosorveglianza.
Poi se il comune non ottempera alla richiesta accampando motivazioni creative ci si potrà rivolgere con successo ai giudici di merito per il ristoro (articolo ItaliaOggi del 04.09.2024).
---------------
SENTENZA
Pur essendo tempestivo, il ricorso è tuttavia infondato.
Va preliminarmente evidenziato che il Collegio ritiene che le immagini registrate e conservate in sistemi di videosorveglianza urbana rientrino nella nozione di documento amministrativo ai fini del diritto di accesso.
A sostegno di tale conclusione, si rileva che l’art. 22, comma 1, lett. d), fornisce una nozione di documento amministrativo molto ampia, prevedendo che: “d) per "documento amministrativo", ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale;”.
Sul punto, la più autorevole giurisprudenza amministrativa ha confermato che la nozione di documento amministrativo è molto “ampia e può riguardare ogni documento detenuto dalla pubblica amministrazione o da un soggetto, anche privato, alla stessa equiparato ai fini della specifica normativa dell’accesso agli atti, e formato non solo da una pubblica amministrazione, ma anche da soggetti privati, purché lo stesso concerna un’attività di pubblico interesse o sia utilizzato o sia detenuto o risulti significativamente collegato con lo svolgimento dell’attività amministrativa, nel perseguimento di finalità di interesse generale” (cfr. Cons. di Stato. Ad. Plen. n. 19 del 2020).
Con riferimento alla fattispecie concreta, va innanzitutto ribadito che questo Tribunale ritiene che la richiesta rivolta dalla ricorrente alla Polizia locale, il giorno successivo al sinistro (21/12/2021), non possa essere qualificata istanza di accesso, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 22 e ss. L. 241/1990. Difatti, nella “Relazione incidente stradale” così si legge: “Mi sono quindi rivolta alla Polizia Locale affinché acceda alle immagini della videosorveglianza al fine di accertare la responsabilità della controparte che negava di essere transitata sull’intersezione di L.go -OMISSIS B- malgrado il semaforo gli vietasse il passaggio”.
La richiesta non risulta formalizzata ed esorta, perlopiù, un intervento della Polizia Locale per ottenere l’accertamento della responsabilità del sinistro, previa ricostruzione dello stesso attraverso le videoregistrazioni. Rispetto ad un’istanza ostensiva mancherebbero i requisiti formali idonei a porre la pubblica amministrazione nella formale condizione di valutare la sussistenza dei presupposti di legge, con conseguente accertamento del relativo obbligo di provvedere.
Precisato quanto sopra, tuttavia, diversa configurazione assume l’istanza di accesso della ricorrente inoltrata in data 08 - 12/05/2022, quale fattispecie di accesso avente natura “difensiva”, in applicazione dell’art. 24, comma 7, L. 241/1990.
Rispetto a tale fattispecie ostensiva autonoma, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato così si esprime “l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare” (Cons. di Stato Adun. Plenaria n. 4/2021).
Le immagini oggetto dell’istanza di accesso consentirebbero, verosimilmente, di ricostruire la dinamica del sinistro ed incidere, per tale via, nel giudizio azionabile per l’accertamento della relativa responsabilità. Sussisterebbe, pertanto, il necessario nesso di strumentalità tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende tutelare, che avrebbe come fine ultimo quello di sottrarsi, nell’ipotesi esclusiva responsabilità del controinteressato, da ogni obbligo risarcitorio nei confronti del proprietario della vettura.
Rispetto a quanto appena rilevato, la richiamata autorevole giurisprudenza del Consiglio di Stato così prosegue: “la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adito nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono invece svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990”. (Cons. di Stato Adun. Plen. n. 4/2021).
Orbene, la circostanza che il Regolamento del Comune di Bergamo sul sistema di videosorveglianza per la sicurezza cittadina e per la disciplina dei dati personali, all’art. 4, non annoveri tra le finalità, alle quali rispondono le telecamere installate, quella di ricostruire gli incidenti stradali e le relative responsabilità (a parte le ipotesi fattispecie di reato e le richieste provenienti dalla Polizia Giudiziaria), non risulta dirimente.
Come già correttamente rilevato da precedenti statuizioni giurisprudenziali: “La fonte del diritto di accesso è, infatti, la legge dello Stato (art. 22 ss. l. n. 241/1990 e artt. 59 e 60 del d.lgs. n. 196 del 2003) da ritenersi prevalente sulla disciplina del regolamento locale. Il diritto di accesso agli atti costituisce, invero, “principio generale dell’attività amministrativa” ed attiene ai “livelli essenziali” delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, “di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione”, come disposto dall’art. 29, comma 2-bis, della legge n. 241/1990” (Tar Puglia, Lecce, sent. n. 1579/2021, Tar Campania, Napoli, Sent. 2608/2023).
La normativa locale, pertanto, non può costituire circostanza impeditiva alla piena operatività di previsioni normative primarie.
Sulla base di quanto sopra esposto, se da un lato sussisterebbe in capo alla ricorrente la pretesa ad ottenere le immagini della videosorveglianza a fini difensivi, dall’altro, tuttavia, dal provvedimento impugnato e dalle difese del Comune si evince che le stesse sono state cancellate in applicazione dell’art. 10, comma 5, del richiamato Regolamento comunale.
Tale previsione regolamentare, difatti, così prevede: “5. Le immagini videoregistrate sono conservate, per un tempo non superiore a cinque giorni successivi alla rilevazione, presso il server di sistema che consente di aderire alle finalità indicate all’art.4 del presente regolamento nonché a investigative dell’autorità giudiziaria o della polizia giudiziaria. Decorso il suddetto termine di cinque giorni le immagini riprese in tempo reale sovrascrivono quelle registrate”.
Il Collegio ritiene che sia legittima la previsione di un tempo limite alla conservazione delle immagini. Una tale previsione appare manifestamente diretta ad evitare che i dati personali siano conservati per un tempo eccessivamente lungo. Ciò attraverso l’adozione di sistemi di minimizzazione, cioè di conservazione non oltre il tempo necessario per il raggiungimento del risultato per cui il trattamento è stato predisposto ed atti a consentire la identificazione del dato non oltre quanto necessario per il raggiungimento della finalità stessa.
Difatti, dalle registrazioni tramite il sistema di videosorveglianza potrebbero venire in rilievo anche dati sensibili e comunque dati di soggetti “terzi”, estranei alla vicenda di volta in volta oggetto di contesa. La fattispecie, pertanto, va disciplinata alla luce del principio di temporaneità della conservazione dei dati sensibili, come desumibile dall’art. 5 del Regolamento Unione Europea 27.04.2016 n. 679/2016.
Pertanto, la pretesa all’acquisizione delle immagini pubbliche di video sorveglianza è senz’altro legittima e possibile quando essa avviene coordinando le esigenze difensive, poste a base di chi ne invochi l’ostensione, con la necessità di salvaguardare il vincolo di temporaneità che indefettibilmente dovrà connotare la conservazione dei dati personali. In tal senso, assumerà un valore fondamentale la tempestività dell’istanza formalmente diretta ad acquisire i filmati.
Nella fattispecie all’esame di questo Tribunale, l’istanza ostensiva risulta ritualmente proposta a più di quattro mesi di distanza dal sinistro, nonostante le divergenti ricostruzioni in merito alla dinamica quest’ultimo fossero evidenti già nell’immediatezza dell’evento.
L’eccessivo lasso temporale intercorrente tra il sinistro e la richiesta di accesso, pertanto, rende legittima la cancellazione delle immagini.
Ai sensi dell’art. 22, comma 6, L. 241/1990 “6. Il diritto di accesso è esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha l'obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere”.
Alla luce di quanto sopra richiamato, la condotta dell’amministrazione resistente non può essere qualificata illegittima.

EDILIZIA PRIVATA: Sul differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in caso di inerzia dell’amministrazione nell’esaminare gli atti del procedimento.
---------------
Edilizia e urbanistica – Dia – Scia – Atto amministrativo - Autotutela – Presupposti – Falsa rappresentazione dei fatti – Dichiarazioni sostitutive false – Decorrenza del termine per l’esercizio del potere di autotutela.
Il superamento del limite temporale per l’esercizio del potere di autotutela di una denuncia di inizio attività è consentito nei casi in cui il soggetto richiedente ha rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale, con conseguente impossibilità per la P.A. di conoscere fatti e circostanze rilevanti, imputabile al soggetto che ha beneficiato del rilascio del titolo, non potendo la negligenza dell’amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per la stessa. Il dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela deve essere quindi individuato nel momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro. (1).
---------------

Edilizia e urbanistica – Dia – Scia – Atto amministrativo - Autotutela – Presupposti – Inerzia dell’amministrazione - Decorrenza del termine per l’esercizio del potere di autotutela.
Il differimento del termine iniziale per l’esercizio del potere di autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 deve essere determinato dalla impossibilità per l’amministrazione, a causa del comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado.
Viceversa, allorquando l’amministrazione sia nelle condizioni di conoscere dello stato dei luoghi e della conformità o meno del corredo documentale, l’inerzia nell’esaminare gli atti, frutto di un atto privato come la d.i.a., si rivela del tutto ingiustificata. (2).
La fattispecie posta al vaglio della sezione ha riguardato l’esercizio del potere di autotutela dopo oltre sei anni dalla presentazione della denuncia di inizio attività. In motivazione, la sezione ha precisato che tale tempo si configura come non ragionevole rispetto ai limiti posti all’esercizio dello ius poenitendi tratteggiato dalla primigenia disciplina dell’autotutela contenuta nella legge 07.08.1990, n. 241 e rispetto alla posizione di affidamento del soggetto destinatario dell’atto di ritiro, in ragione del lungo tempo trascorso dall’adozione della d.i.a. annullata.
---------------
   (1) In senso conforme: Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2024, n. 1926 e 24.05.2024, n. 4665; sez. IV, 03.04.2024, n. 3064 e 14.08.2024, n. 7134; Tar per la Sicilia, Catania, sez. II, 09.03.2024, n. 1210.
   (2) In senso conforme: Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2024, n. 1926 e 24.05.2024, n. 4665; sez. IV, 14.08.2024, n. 7134
(ConsIglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.07.2024 n. 6636 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
9.- In via prioritaria devono esaminarsi le censure involgenti la dedotta incompatibilità del provvedimento di autotutela con i canoni delineati dall’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 vigente ratione temporis, in punto di congruità della motivazione sottesa all’atto di ritiro. Ciò in relazione al tempo nel quale esso è stato adottato rispetto al momento di presentazione della DIA e al legittimo affidamento che sarebbe stato ingenerato in capo al privato.
Tra i dedotti elementi deve, in via di ulteriore priorità, scrutinarsi quello che preclude il legittimo esercizio del potere di autotutela una volta superato il ‘termine ragionevole’ (il provvedimento nel caso di specie è stato adottato il 07.10.2013) rispetto alla data di adozione del provvedimento oggetto di ritiro (nel caso di specie, rispetto alla presentazione della denunzia di inizio attività, datata 28.06.2007).
9.1.- L’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, nel testo vigente ratione temporis, stabiliva, al comma 1, che «Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
A tale disposizione rinviava il testo dell’art. 19, comma 3, della l. n. 241 del 1990 vigente al tempo della presentazione della DIA, il quale stabiliva –per quanto qui di interesse– che «L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza delle condizioni, modalità e fatti legittimanti, nel termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 2, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei suoi effetti, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni. È fatto comunque salvo il potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies».
9.2.- Il testo di tale disposizione vigente al momento del successivo atto di autotutela era, nella sostanza, di analogo tenore, al netto di una diversa modulazione dei termini ivi contemplati («3. L'amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni. E' fatto comunque salvo il potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies. In caso di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci, l'amministrazione, ferma restando l'applicazione delle sanzioni penali di cui al comma 6, nonché di quelle di cui al capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, può sempre e in ogni tempo adottare i provvedimenti di cui al primo periodo»).
9.3.- L’art. 22 d.P.R. n. 380 del 2001, sempre nel testo vigente al momento della presentazione della DIA, ammetteva la realizzabilità «mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6».
Il seguente art. 23, comma 6, prevedeva che «Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento, e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza. È comunque salva la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio di attività, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia».
9.4.- L’evoluzione della disciplina –che ha visto, tra l’altro, la DIA trasformarsi in SCIA– ha previsto che «all’immediata intrapresa dell’attività oggetto di segnalazione si accompagnino successivi poteri di controllo dell’amministrazione, più volte rimodulati, da ultimo dall’art. 6 della legge 07.08.2015, n. 124 (recante «Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»)».
9.5.- Ora, Roma Capitale ha ritenuto di «annullare» (gli effetti del)la DIA trascorsi più di sei anni dalla presentazione della denuncia di inizio attività: tale tempo si configura come non ragionevole rispetto ai limiti posti all’esercizio dello ius poenitendi tratteggiato dalla primigenia disciplina dell’autotutela contenuta nella l. n. 241 del 1990 e rispetto alla posizione del soggetto societario destinatario dell’atto di ritiro.
9.6.- L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 8 del 2017), con riferimento alla questione dell’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria (le cui conclusioni valgono, in linea di principio, anche per l’esercizio dei poteri di autotutela a seguito di DIA o SCIA), ha chiarito che il relativo provvedimento «deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell'atto di ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole».
Ha evidenziato che,
   «ai fini dell’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e, in ogni caso, il termine “ragionevole” per la sua adozione decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro; l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulta attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati; la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione può dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte»;
   «nella vigenza dell’art. 21-nonies l. 241 del 1990 –per come introdotto dalla l. n. 15 del 2005– l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole; in tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in ogni caso, il termine «ragionevole» per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro;
ii) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi);
iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte
».
9.7.- Ciò premesso, nella specie, manca sia l’esternazione delle ragioni di interesse pubblico (al di là del mero ripristino della legalità violata) sia la valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del titolo edilizio.
Nel caso in esame tale affidamento era, peraltro, particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo trascorso dall'adozione della d.i.a. annullata, risultando decorsi oltre sei anni dal suo consolidamento, in presenza di obblighi (cessione dell’area destinata a parcheggio) a carico dell’appellante di non chiara evidenza.
9.8.- Va aggiunto sotto tale profilo che il d.l. n. 133 del 2014 («Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive»), convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, aveva posto uno sbarramento temporale all'esercizio del potere di autotutela, rappresentato da «diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di evidenziare, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 5625 del 2015).
9.9.- Ora, è nel principio di buon andamento espresso nell’art. 97 Cost. che «si radica il vincolo per il legislatore di tenere conto, nella disciplina dell’annullamento d’ufficio, anche dell’interesse pubblico alla stabilità dei rapporti giuridici già definiti dall’amministrazione» (Corte cost. n. 181 del 2017) con la conseguenza che, proprio nei casi in cui è mancato ab origine un provvedimento ampliativo in senso stretto (vertendosi nel caso di specie di un’attività posta in essere sulla base di DIA), l’adozione dell’atto di autotutela avrebbe dovuto avvenire, comunque, in un tempo accettabile –per l’appunto «ragionevole»– idoneo a non determinare la violazione di tale principio di rilevanza costituzionale e comunque tale da non ledere il legittimo affidamento che giocoforza si è determinato in capo al privato in mancanza di tempestivi provvedimenti.
9.10.- Né, nel caso di specie, può parlarsi di carenza di effetti ab origine della DIA poiché essa conteneva la documentazione minima necessaria; quanto alle difformità di ordine sostanziale –peraltro non del tutto nitide– evidenziate in sede di autotutela, la relativa rilevanza ai fini degli effetti dell’efficacia della DIA era esclusa dalla previsione del potere di cui all’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380 del 2001 e dal termine perentorio ivi contemplato, non rispettato dall’Amministrazione.
9.11.- Inoltre, nel provvedimento di autotutela, sul versante documentale, il Comune di Roma ha fatto riferimento alla mancata sottoscrizione dell’atto di cessione gratuita dell’area destinata a parcheggio –ciò che avrebbe privato di efficacia la DIA– e alla (asserita) carenza della documentazione grafica relativa allo stato «ante operam» dell’edificio e alla mancata corrispondenza tra piante, prospetti e sezioni del post operam.
Ove pure si volesse ragionare –con una evidente forzatura, anche in fatto– secondo il parametro di legittimità offerto dalla attuale formulazione dell’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990, il quale pure dà rilevanza alle carenze e difformità documentali, le evidenziate carenze non avrebbero consentito, comunque, di superare l’ulteriore (rispetto a quello ex d.l. n. 133 del 2014) termine di legge «secco» introdotto dal legislatore per l’esercizio del potere di autotutela.
È stato condivisibilmente evidenziato che l’articolo 21-nonies, in definitiva, contempla, oggi, «due categorie di provvedimenti –differenziabili in ragione dell'uso della disgiuntiva "o"– che consentono all'Amministrazione di esercitare il potere di annullamento d'ufficio oltre il termine di diciotto mesi dalla loro adozione, a seconda che siano, appunto, conseguenti a false rappresentazioni dei fatti o a dichiarazioni sostitutive false.
La ratio dell’illustrato comma 2-bis, infatti, risiede nell’esigenza che il dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela debba essere individuato nel momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro (cfr. Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, n. 8 del 17.10.2017, riferita peraltro al concetto di termine “ragionevole”, in quanto involgente una fattispecie concreta venuta in essere prima della riforma).
La “scoperta” sopravvenuta all’adozione del provvedimento di primo grado deve tradursi in una impossibilità di conoscere fatti e circostanze rilevanti imputabile al soggetto che ha beneficiato del rilascio del titolo edilizio, non potendo la negligenza dell’Amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per la stessa, che potrebbe continuamente differire il termine di decorrenza dell’esercizio del potere.
In sostanza, il differimento del termine iniziale per l’esercizio dell’autotutela deve essere determinato dall’impossibilità per l’Amministrazione, a causa del comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado
» (Cons. Stato, sez. VI, n. 1926 del 2024, cit.; più recentemente n. 4665 del 2024).
Ora, in una situazione quale quella per cui è causa, nella quale il Comune era perfettamente nelle condizioni di conoscere dello stato dei luoghi e della conformità o meno dell’integrale corredo documentale versato agli atti del procedimento dall’appellante, l’inerzia della civica Amministrazione nell’esaminare gli atti, frutto di un atto privato quale era la DIA, si rivelava del tutto ingiustificata.
In tal senso, il provvedimento di ritiro si mostra chiaramente lesivo del principio di affidamento del privato nella «sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto» (Corte cost. n. 216 del 2023), il quale non può essere leso da una decisione che trasmodi in un nuovo regolamento di una situazione sostanziale consolidata.
10.- Conclusivamente, previo assorbimento delle ulteriori doglianze, irrilevanti ai fini della presente decisione, l’appello va accolto nei sensi sopra specificati con conseguente accoglimento del secondo ricorso per motivi aggiunti, con riguardo al primo (e assorbente) motivo, e del quarto ricorso per motivi aggiunti, con riguardo al primo motivo in via derivata, e annullamento degli atti ivi impugnati.
In relazione al terzo ricorso per motivi aggiunti, il carattere non provvedimentale della relazione ivi impugnata ne determinava l’inammissibilità per carenza originaria di interesse (ConsIglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.07.2024 n. 6636 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Scale da utilizzare con diligenza. La condotta del danneggiato limita il diritto al risarcimento. La Cassazione: condominio tenuto alla manutenzione, sinistri da valutare caso per caso.
Il capitombolo sulle scale non sempre è responsabilità del condominio. Seppure quest’ultimo sia tenuto a fare in modo che le parti comuni siano conservate in un buono stato di manutenzione, la conoscenza dello stato dei luoghi e il mancato utilizzo dell’ordinaria diligenza da parte del danneggiato possono limitare o addirittura escludere il diritto al risarcimento del danno. Volta per volta occorre quindi valutare le modalità con le quali è avvenuto il sinistro e la condotta osservata dalla vittima dell’incidente.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la recente ordinanza 12.07.2024 n. 19204.
Il caso concreto.
Nel caso di specie la conduttrice di un appartamento sito in condominio era caduta mentre scendeva le scale e si era fratturata il
polso. La stessa aveva quindi agito in giudizio contro il condominio e la società proprietaria di uno degli appartamenti per il risarcimento del danno, affermando che causa della caduta era stata l’assenza del corrimano e la scivolosità dei gradini a causa della presenza di acqua e umidità dovute alle avverse condizioni metereologiche.
Sia in primo che in secondo grado la domanda era stata disattesa, sia perché era stata ravvisata una mancanza di prova in ordine al nesso di causalità tra la caduta e il bene comune sia perché era stato ritenuto che la danneggiata, abitando da molto tempo nell’edificio, ben avrebbe potuto e dovuto sapere che in quel tratto di scale non vi era un corrimano.
La Suprema corte, nel confermare a sua volta la decisione di merito, ha evidenziato che in materia di responsabilità civile per danni da cose in custodia, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più rilevante deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo, fino a rendere possibile che lo stesso interrompa il nesso di causalità tra il fatto e l’evento dannoso.
La condotta del danneggiato può quindi essere concausa o causa unica determinante del danno, richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione. Qualora il comportamento osservato dal danneggiato risulti essere stato oggettivamente in contrasto con una certa regola di condotta, stabilita da una norma o dettata dalla comune prudenza, lo stesso sarà quindi considerato corresponsabile o, addirittura, responsabile unico dell’evento lesivo.
La responsabilità da beni in custodia.
Con riguardo ai beni comuni (cortile, androne, scale, corsello dei box, ecc.) è il condominio, in persona del suo amministratore, a dover vigilare sul relativo stato di manutenzione, essendone custode. Per tale motivo l'amministratore è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché detti beni non rechino pregiudizio ai condòmini e ai terzi.
In caso contrario, il condominio risponde dei
danni che ne siano derivati. Il fondamento giuridico di tali conclusioni si rinviene nell'art. 2051 c.c., in base al quale ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.
Dunque l'origine di tale responsabilità è da individuarsi nel dovere di custodia che grava sul soggetto che, a qualsiasi titolo, abbia un effettivo e non occasionale potere fisico sulla cosa, in relazione all’obbligo di vigilare affinché la stessa non arrechi danni a terzi.
La giurisprudenza di merito e di legittimità ha avuto modo a più riprese di circoscrivere i contorni di tale forma di responsabilità. In primo luogo, essa ha natura extracontrattuale e incombe sull'intera compagine condominiale, anche se l’amministratore può incorrere a sua volta in responsabilità contrattuale nei confronti del condominio.
In base all'art. 20151 c.c. grava quindi sul custode del bene una presunzione di responsabilità che ammette una prova liberatoria limitata alla dimostrazione del caso fortuito. Ai fini del riconoscimento della responsabilità non è tuttavia necessario che il bene sia di per sé pericoloso, ma è sufficiente, perché possa essere riscontrato il rapporto di causalità fra la cosa e il danno, che esso abbia una concreta potenzialità dannosa per sua connaturale forza dinamica o statica, ovvero, per effetto di concause umane o naturali.
Vista la presunzione di responsabilità in capo al condominio prevista dall'art. 2051 c.c., in casi del genere il soggetto danneggiato può ottenere il risarcimento limitandosi a provare il pregiudizio subito, il nesso tra quest'ultimo e il bene che lo ha prodotto, nonché il rapporto di custodia tra detto bene e il condominio (ovvero la natura comune del bene).
La compagine condominiale, viceversa, andrà esente da responsabilità soltanto ove riesca a provare che il danno non è stato causato da un bene comune dell'edificio oppure che ricorra un caso fortuito, da individuarsi in un evento assolutamente imprevisto o imprevedibile, che sia stato di per sé idoneo a produrre l'evento lesivo. E' bene però evidenziare che tra i fattori aventi efficacia scriminante, in quanto fanno venire meno la responsabilità del condominio, rientrano anche il fatto del terzo o dello stesso danneggiato, qualora si tratti di condotte che abbiano causato direttamente l’evento dannoso.
La casistica.
In un altro caso recentemente portato alla sua attenzione la Cassazione ha stabilito che il condòmino che scivola sulle scale a causa di una macchia di olio non deve essere risarcito, trattandosi di un fatto che esula dalla responsabilità del condominio e non può essere né previsto né evitato (ordinanza 27.04.2018 n. 10154).
Nel caso di specie i giudici di merito avevano infatti ritenuto che non si potesse pretendere un differente comportamento da parte dell’amministratore condominiale, il quale altro non poteva fare che disporre un servizio continuativo di pulizia delle parti comuni, come di fatto avvenuto.
La Suprema corte, nel confermare la sentenza impugnata, aveva inoltre evidenziato che l'evento lesivo era da ascrivere interamente al fatto del terzo, ossia al soggetto che aveva fatto cadere la sostanza oleosa sui gradini, essendo questa l’unica causa della caduta del condòmino sulle scale.
La Cassazione aveva anche chiarito che in casi del genere non costituisce ostacolo all'accertamento del caso fortuito il fatto che il terzo responsabile non possa essere identificato, poiché la fattispecie rimane comunque di per sé connotata dai caratteri di imprevedibilità e inevitabilità che giustificano l'applicazione della scriminante in favore del condominio custode.
Ad analoghe conclusioni è pervenuta la Suprema corte nel caso di un condòmino che era caduto sulle scale per l’improvvisa interruzione del funzionamento dell’impianto di illuminazione. Infatti avrebbe dovuto essere la vittima dell’incidente a provare in giudizio sia il rapporto causale tra il bene comune e la caduta sia la negligenza del condominio nella custodia dell’impianto dal quale si sarebbe originato il danno (sentenza n. 22784 del 27.10.2014).
A questo proposito si evidenzia che nella giurisprudenza di legittimità si ritiene generalmente che in presenza di un bene comune di per sé statico e inerte e che richiede l’agire umano per la verificazione di un evento lesivo, spetta al danneggiato provare che lo stato dei luoghi presentasse peculiarità tali da renderne potenzialmente dannosa la normale utilizzazione.
In precedenza la Cassazione ha invece ritenuto sussistente la responsabilità del condominio nel caso in cui, per la scarsa illuminazione di una parte comune, il danneggiato non si era avveduto della presenza di un muretto e per questo motivo era precipitato lungo il vano scale.
Analoghe decisioni sono state assunte nel caso in cui la caduta era stata originata dall’esistenza di un gancio inserito in uno dei gradini della scala e relativo a un cancelletto normalmente chiuso o dalla presenza di nuovi manufatti collocati sul pavimento del cortile che, per la posizione e per la novità dell’installazione, presentavano i caratteri dell’insidia.
Anche in presenza di materiale distaccatosi dal soffitto o dalle pareti della scala condominiale è stata inoltre ritenuta legittima la richiesta di risarcimento dei danni da parte del condòmino infortunatosi, perché in casi del genere la causa del danno è da individuarsi presuntivamente proprio nella scarsa manutenzione delle parti comuni (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2024).
---------------
Il principio di diritto
La responsabilità ex art. 2051 c.c. può essere esclusa o dal caso fortuito o dalla prova della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo, caratterizzate, rispettivamente, la prima dalla colpa ex art. 1227 c.c. o, indefettibilmente, la seconda dalle oggettive imprevedibilità e non prevenibilità rispetto all’evento pregiudizievole.

VARIReati, l’accordo fa la differenza. Concorso di persone distinto da associazione a delinquere. La Suprema Corte: per inquadrare il delitto associativo non basta la semplice reiterazione.
Occorre fare distinzione tra il concorso di persone nel reato e l’associazione a delinquere.
Nel primo caso, l’accordo criminoso si presenta come occasionale e limitato, in quanto volto esclusivamente alla commissione di più reati ispirati a un analogo disegno criminoso.
La fattispecie di associazione a delinquere, invece, presuppone la sussistenza di un’organizzazione strutturale di uomini e mezzi che sia stabile e funzionalmente destinata alla realizzazione di un numero indeterminato di reati anche di natura eterogenea tra loro.
Il tutto deve essere accompagnato dalla consapevolezza, da parte dei singoli associati, di fare parte del durevole sodalizio e, di conseguenza, di essere disponibili nel tempo a operare per l’attuazione del programma criminoso che hanno scelto di condividere.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (VI Sez. penale), con la sentenza 03.07.2024 n. 26191, la quale, con riferimento a una contestazione di un'associazione a delinquere finalizzata alla commissione di plurimi delitti tributari (in particolare, di indebita compensazione in favore di persone fisiche e giuridiche in cambio di pagamenti illeciti, ex art. 10-quater, dlgs 74/2000), ha delineato, con particolare precisione, la differenza tra il concorso di persone (art. 110, cod. pen.) nel reato continuato e il reato associativo, ex art. 416 cod. pen..
E ha precisato che la mera reiterazione di uno stesso reato in via concorsuale non basta a integrare il delitto associativo, previsto e disciplinato all'articolo 416 del codice penale, anche se questo viene commesso secondo un preciso expertise.
Il caso. La vicenda giudiziaria trae origine dalla conferma, da parte del Tribunale del Riesame di Brescia, dell'ordinanza di applicazione della misura cautelare, in ordine alla contestazione, nei confronti dell'imputato, di aver partecipato insieme ad altri soggetti a un'associazione a delinquere finalizzata alla commissione di numerose indebite compensazioni a favore di persone fisiche e giuridiche.
In particolare, il Tribunale avrebbe individuato un “…modus agendi replicabile in favore di una serie indeterminata di soggetti”, precisando che gli imputati intrattenevano rapporti con i loro interlocutori economici, ai quali fornivano (dietro compenso) i loro servizi.
Per queste ragioni, il giudice del Riesame ha valorizzato, ai fini della sussistenza del reato associativo, l'esistenza e l'operatività di un “sistema organizzativo che, seppure di scarsa consistenza nella dimensione fisico-strutturale, può definirsi comunque tale, sommando e saldando esperienze, relazioni e competenze professionali dispiegate per la commissione del programma delittuoso”.
L'orientamento della Cassazione. L'imputato, con un unico motivo di ricorso, ha impugnato l'ordinanza avanti la Suprema Corte, contestando proprio l'effettiva sussistenza dei presupposti oggettivi del delitto di associazione a delinquere.
I giudici di legittimità, in accoglimento dell'impostazione difensiva offerta dal ricorrente, hanno evidenziato come il Tribunale del Riesame non aveva considerato, come avrebbe dovuto, il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità che richiede, proprio ai fini dell'accertamento della fattispecie associativa, “…che sia stata realizzata una struttura stabile, funzionalmente destinata alla commissione di una serie indeterminata di delitti (Sez. 6, n. 19783 del 16/04/2013, De Caro, Rv. 255471) e, dunque, vi sia un'organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, nella consapevolezza, da parte di singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili a operare nel tempo per l'attuazione del programma criminoso comune (Sez. 2, n. 20451 del 03/04/2013, Ciaramitaro e aa., Rv. 256054)".
Inoltre, la Cassazione ha aggiunto che “…la predisposizione di un programma criminoso ben può consistere nella commissione di una serie indeterminata di delitti identici o di analoga natura, non costituendo il carattere eterogeneo dei reati-fine un elemento strutturale della fattispecie (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816-01), potendo peraltro l'associazione essere progettata per operare per un tempo determinato (Sez. 6, n. 38524 dell'11/07/2018, P., Rv. 274099); neppure è di ostacolo alla configurabilità del reato la diversità o la contrapposizione degli scopi personali perseguiti dai componenti, i quali rilevano esclusivamente come motivi a delinquere (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816-02)”.
Le caratteristiche del reato associativo. La Cassazione ha così precisato che il delitto ex art. 416, cod. pen., presuppone il necessario accertamento di tre elementi:
   i) la sussistenza di un vincolo permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre l'effettiva realizzazione dei reati pianificati;
   ii) l'indeterminatezza del programma criminoso (elemento dirimente nella distinzione tra il reato associativo e il semplice accordo che sorregge il concorso di persone nel reato)
   iii) infine, l'esistenza di una struttura organizzativa adeguata a perseguire gli obiettivi criminosi.
La distinzione tra il delitto di associazione a delinquere e il concorso di persone nel reato continuato è data dal tipo di accordo criminoso. Nel concorso, infatti, l'accordo è occasionale e limitato, in quanto volto alla commissione di più reati ispirati da un medesimo disegno criminoso, commessi i quali viene meno anche l'accordo stesso; nell'associazione a delinquere, invece, questo è rivolto all'attuazione di un indeterminato programma illecito che prende vita grazie alla stabile struttura organizzativa posta in essere dagli associati.
Non può e non deve bastare, quindi, che un reato venga semplicemente reiterato affinché venga integrato il delitto di associazione a delinquere, neppure quando la reiterazione avviene, come nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, sfruttando un elaborato sistema di know-how e di competenze tecniche.
Sulla base di questi principi, la Cassazione ha così stigmatizzato la decisione del Tribunale del riesame di Brescia: “Nella valutazione del Tribunale, dunque, l'elemento dell'organizzazione dell'associazione a delinquere, deprivato di ogni connotazione materiale, si risolve nella mera reiterazione del medesimo reato commesso in via concorsuale, secondo un preciso expertise. Tale motivazione, tuttavia, viola il disposto dell'art. 416 cod. pen. in quanto, rendendo evanescente l'elemento dell'organizzazione, annulla ogni distinzione tra concorso di persone nel reato continuato e condotta di partecipazione e promozione dell'associazione per delinquere(articolo ItaliaOggi Sette del 16.09.2024).
---------------
SENTENZA
3. Il motivo è fondato.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità,
l'associazione per delinquere si caratterizza per tre fondamentali elementi, costituiti da un vincolo associativo tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati, dall'indeterminatezza del programma criminoso che distingue il reato associativo dall'accordo che sorregge il concorso di persone nel reato, e dall'esistenza di una struttura organizzativa, sia pur minima, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira (ex plurimis: Sez. 2, n. 16339 del 17/01/2013, Burgio, Rv. 255359 - 01).
La predisposizione di un programma criminoso ben può consistere nella commissione di una serie indeterminata di delitti identici o di analoga natura, non costituendo il carattere eterogeneo dei reati-fine un elemento strutturale della fattispecie (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816-01), potendo peraltro l'associazione essere progettata per operare per un tempo determinato (Sez. 6, n. 38524 del 11/07/2018, P., Rv. 274099); neppure è di ostacolo alla configurabilità del reato la diversità o la contrapposizione degli scopi personali perseguiti dai componenti, i quali rilevano esclusivamente come motivi a delinquere (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816-02).
Ciò che conta per l'integrazione della fattispecie associativa è, tuttavia, che sia stata realizzata una struttura stabile, funzionalmente destinata alla commissione di una serie indeterminata di delitti (Sez. 6, n. 19783 del 16/04/2013, De Caro, Rv. 255471) e, dunque, vi sia un'organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, nella consapevolezza, da parte di singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad operare nel tempo per l'attuazione del programma criminoso comune (Sez. 2, n. 20451 del 03/04/2013, Ciarannitaro e aa., Rv. 256054).
D'altra parte,
nel concorso di persone nel reato continuato l'accordo criminoso è occasionale e limitato, in quanto volto alla sola commissione di più reati ispirati da un medesimo disegno criminoso, mentre le condotte di partecipazione e promozione dell'associazione per delinquere presentano i requisiti della stabilità del vincolo associativo e dell'indeterminatezza del programma criminoso, elementi che possono essere provati anche attraverso la valutazione dei reati scopo, ove indicativi di un'organizzazione stabile e autonoma, nonché di una capacità progettuale che si aggiunge e persiste oltre la consumazione dei medesimi (Sez. 2, n. 22906 del 08/03/2023, Bronzellino, Rv. 284724 - 01, fattispecie relativa ad associazione per delinquere finalizzata alla commissione di rapine, in cui la Corte ha ritenuto carente la motivazione della decisione di condanna per non aver individuato, con specificità, né gli indicatori dell'autonomia dell'associazione rispetto al mero accordo criminoso funzionale alla consumazione delle azioni predatorie, né il ruolo dei singoli partecipi al sodalizio; Sez. 5, n. 1964 del 07/12/2018 (dep. 2019), Magnani, Rv. 274442 - 01; Sez. 6, n. 15573 del 28/02/2017, Di Guardo, Rv. 269952 - 01).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAPorte aperte ai condizionatori. Resta però il limite dell'immutabilità della parte in comune. La Corte di Cassazioni stabilisce i requisiti per l'installazione degli impianti nei condomini.
Il singolo condòmino può installare i condizionatori sulle parti comuni per conto proprio e senza chiedere l'autorizzazione all'assemblea. Ciò purché l'intervento non modifichi la destinazione di dette parti comuni o impedisca agli altri proprietari di fare essi stessi un uso simile della zona interessata.

A disporlo è la Corte di Cassazione, Sez. II civile, che con la sentenza 01.07.2024 n. 17975 ha accolto il ricorso di un condòmino negoziante avverso la deliberazione con cui l'assemblea gli imponeva di rimuovere i 4 condizionatori installati nel cortile comune a servizio del proprio immobile.
La compagine condominiale, nel dettaglio, aveva deciso di disporre l'obbligo di richiedere un'autorizzazione in caso di installazione di condizionatori al servizio dei locali commerciali interni allo stabile, e sulla base di tale regola intimava al proprietario del negozio di rimuovere i propri sistemi di climatizzazione dal cortile, nonostante egli li avesse installati prima dell'esistenza di detto obbligo.
I motivi di tale intimazione, da parte del condominio, si basavano sul fatto che la presenza dei condizionatori avrebbe alterato la destinazione di una parte comune dello stabile, limitando il diritto d'uso del cortile degli altri condòmini.
Il caso, cioè, ricadrebbe sotto l'ombrello normativo dell'art. 1120 cc., in base al quale “sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino”.
Tuttavia, secondo la Corte l'installazione di condizionatori non rende di per sé inservibile la parte comune per gli altri membri della compagine, o comunque una tale conseguenza andrebbe provata con dettagli tecnici. Infatti, spiegano gli Ermellini richiamando un precedente, “nell'identificazione del limite all'immutazione della cosa comune, disciplinato dall'art. 1120, co. 2 c.c., il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione […] ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità”.
In sostanza, la Corte di grado inferiore che aveva rigettato l'impugnazione del negoziante avente ad oggetto la delibera condominiale “non è scesa all'analisi degli aspetti tecnici della installazione, quali un apprezzabile deterioramento del decoro architettonico ovvero una significativa menomazione del godimento e dell'uso del bene comune”.
Non si tratta, dunque, di un “liberi tutti”, e il limite dell'immutabilità della cosa comune resta in piedi, in generale, quando si realizzano innovazioni su tali aree di uno stabile condominiale. Tuttavia, il verificarsi di un mutamento tale da rendere l'intervento realizzato illegittimo deve essere verificato in concreto. Un simile pronunciamento da parte della Cassazione, peraltro, aiuta a comprendere i possibili rischi dell'installazione di impianti di climatizzazione per coloro che hanno fruito delle relative detrazioni edilizie, in particolare l'Ecobonus.
Un condòmino che autonomamente proceda a simili interventi fruendo del bonus, cioè, dovrà verificare prima dell'installazione che non vengano nei fatti intaccati i diritti della compagine sulle parti comuni, ad esempio perché (come nel caso risolto dalla Cassazione) i lavori non impediscono agli altri di installare propri condizionatori nella parte comune. Altrimenti i membri del condominio potrebbero opporsi ai lavori, potendosi venire a generare una irregolarità che potrebbe persino sfociare nel recupero della detrazione fiscale fruita (articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).
---------------
SENTENZA
2. – L’esame delle questioni, così frammentate in undici motivi, è da raggruppare e riordinare secondo un ordine logico ispirato da economia processuale.
La questione centrale concerne la violazione del diritto di ciascun condomino di utilizzare la cosa comune. La Corte di appello rigetta la censura, poiché la condòmina non ha impugnato la delibera che prevede l'autorizzazione assembleare per l'installazione di condizionatori da parte degli esercizi commerciali.
Inoltre, la Corte ritiene irrilevante l’installazione precedente di condizionatori da parte della banca, poiché essa è avvenuta prima della delibera menzionata.
In via subordinata si collocano le censure relative all’attività istruttoria relativa agli accadimenti in assemblea, ove la Corte di appello accerta che al contrario di quanto mostra di ritenere la condòmina, alcuni condomini non si sono allontanati, così come è infatti attestato nel verbale, per cui il primo giudice non ha ritenuto di ammettere i mezzi istruttori dedotti. In via ulteriormente subordinata si collocano le questioni relative alle spese processuali.
Sono fondati il primo, il terzo, il quinto e il sesto motivo, nei termini delineati complessivamente nel capoverso successivo.
E’ pregiudiziale l’esame del quinto mezzo con il quale è denunciata la mancanza di prova dell’esistenza di una delibera precedente a quella del 20.09.2000 di previsione della obbligatorietà di preventiva autorizzazione dell’assemblea condominiale per l’installazione dei condizionatori d’aria, peraltro necessaria per il solo titolare dei locali commerciali: la circostanza dedotta trova riscontro nelle stesse difese del Condominio da cui emerge palese che il vincolo era stato posto proprio dalla delibera qui impugnata, in particolare a seguito di approvazione dei punti 1 e 3 dell’ordine del giorno (v. pp. 8 e 9 del controricorso), per cui se ne deve dedurre che la stessa al più trova applicazione per le installazioni realizzate in epoca successiva.
Nel merito, questa Corte ha più volte affermato che la naturale destinazione all'uso della cosa comune, può tener conto di specificità -che possono costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo condomino- solo se queste, costituiscano una inevitabile e costante caratteristica di utilizzo (cfr. Cass. n. 15319 del 2011).
Ed è stato affermato il principio secondo il quale «nell'identificazione del limite all'immutazione della cosa comune, disciplinato dall'art. 1120, co. 2 c.c., il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione -coessenziale al concetto di innovazione- ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità, per cui si può tener conto di specificità -che possono costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo condomino- solo se queste costituiscano una inevitabile e costante caratteristica di utilizzo» (Cass. n. 24960 del 2016).
Nella fattispecie la Corte distrettuale non è scesa all'analisi degli aspetti tecnici della installazione, quali un apprezzabile deterioramento del decoro architettonico ovvero una significativa menomazione del godimento e dell'uso del bene comune, omettendo anche di valutare che si tratta di obbligo introdotto solo successivamente alla installazione di cui si discute.
La delibazione dei dati istruttori da parte del giudice del gravame, a ben vedere, parte da una non condivisibile interpretazione del limite alle innovazioni consentite della cosa comune, là dove lo pone nella trascurabilità del pregiudizio del singolo condomino o nella «corrispettività» di un qualche vantaggio per lo stesso, non meglio definito.
In altri termini, ai sensi dell’art. 1120 c.c., l’installazione, sulle parti comuni, di un impianto per il condizionamento d’aria a servizio di una unità immobiliare, che non presupponga la modificazione di tali parti, può essere compiuta dal singolo condòmino per conto proprio, in via di principio senza richiedere al Condominio alcuna autorizzazione. Il rilascio o il diniego di una siffatta autorizzazione può tutt’al più significare l’inesistenza o l’esistenza di un interesse di altri condomini a fare uso delle cose comuni in modo pari a quello del condomino determinatosi all’installazione.
Nel caso di specie non emerge dagli atti che sia stato accertato che l’installazione su parti comuni di condizionatori al servizio di un’unità immobiliare determini alterazione della destinazione delle cose comuni, né impedisca ad altri condomini di farne parimenti uso (anzi ciò è anche avvenuto, in precedenza).

CONDOMINIOAssemblee, bandito il fai-da-te. Invio della convocazione secondo quanto prevede la legge. Il Tribunale di Monza indica i modi consentiti: raccomandata, Pec, fax, consegna a mani
Per l’invio dell’avviso di convocazione assembleare, attenzione alle soluzioni fai-da-te. L’amministratore è tenuto a utilizzare le modalità previste dalla legge: raccomandata, Pec, fax e consegna a mani. Non sono consentite alternative, anche se richieste a gran voce dai condòmini. Quindi al bando le e-mail, l’immissione nelle cassette postali, l’sms, il messaggio whatsapp e così via. La conseguenza del mancato rispetto di quanto previsto dall’art. 66 disp. att. c.c. è infatti l’annullabilità della deliberazione assembleare.

Lo ha ribadito il TRIBUNALE di Monza nella sentenza 12.06.2024 n. 1734.
A chi e come spetta dimostrare il corretto recapito
Nella specie un condòmino aveva impugnato una deliberazione assembleare, tra le altre cose, per l’omesso invio dell’avviso di convocazione. L’amministratore, costituitosi in giudizio in rappresentanza del condominio, si era difeso sostenendo di avere inviato il documento via e-mail e di averlo anche inserito nella cassetta postale del condòmino impugnante.
Il Tribunale di Monza ha però accolto l’impugnazione e ha proceduto all’annullamento della deliberazione assembleare.
Il giudice brianzolo, premesso che il vizio di omessa convocazione o convocazione fuori termine integra pacificamente un vizio di annullabilità (e richiamando a tal fine il contenuto della nota sentenza delle sezioni unite della Cassazione n. 4806/2005), ha evidenziato che, nel caso in cui un condòmino eccepisca la mancata convocazione, spetta al condominio provare di aver assolto al relativo obbligo nel rispetto dei tempi e modi previsti dalla legge, non potendosi addossare al condòmino che deduca l’invalidità dell’assemblea la prova negativa di tale obbligo (si vedano a tal proposito Cass. civ., n. 5254/2011 e n. 10875/1998). L’avviso di convocazione, infatti, costituisce un elemento costitutivo della validità della delibera (si veda Cass. civ., n. 22685/2014).
Con una serie di considerazione generali in merito all’onere della prova, il Tribunale di Monza ha quindi ricordato che la presunzione di conoscenza degli atti recettizi in forma scritta giunti all’indirizzo del destinatario (art. 1335 c.c.) opera per il solo fatto oggettivo dell’arrivo dell’atto nel luogo indicato.
L’onere di provare l’avvenuto recapito all’indirizzo del destinatario spetta al mittente, salva la prova del destinatario medesimo dell’impossibilità di acquisire in concreto l’anzidetta conoscenza per un evento estraneo alla sua volontà. La raccomandata con avviso di ricevimento, invece, costituisce prova certa della trasmissione del plico, fondata sull’attestazione dell’ufficio postale di spedizione e di arrivo al destinatario e, dunque, di conoscenza del medesimo sempre ex art. 1335 c.c..
Premesso ciò, è vero che, relativamente all’invio dell’avviso di convocazione assembleare, come evidenziato dal giudice, l’originario testo dell’art. 66 disp. att. c.c. non prescriveva particolari modalità per la convocazione dei condòmini alla assemblea. La convocazione, pertanto, poteva essere compiuta in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo (affissione di avviso nell’atrio, inserimento nella cassetta postale dell’avviso, avviso orale, ecc.): la prova che l’avviso di convocazione fosse stato consegnato nei termini di legge poteva essere acquisito anche tramite presunzioni.
La riforma del 2012, invece, ha modificato la disposizione normativa, la quale richiede ora la comunicazione di detto avviso a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, prediligendo quindi la forma scritta. Ma, come pure sottolineato dal Tribunale, con tale norma il legislatore ha inteso anche tipizzare le forme della comunicazione dell’avviso, limitandole a quelle che garantiscono l’effettiva conoscibilità della convocazione stessa, con la conseguenza che l’amministratore di condominio deve utilizzare esclusivamente le forme scritte imposte dalla disposizione già menzionata.
Nel caso di specie il condominio aveva allegato che il condòmino era stato tempestivamente convocato tramite invio della convocazione a mezzo di posta elettronica e con consegna della stessa nella sua cassetta postale. La ricezione di tali comunicazioni era stata però negata dal condòmino impugnante e ciò, secondo il giudice, escludeva qualsiasi valore del presunto invio mediante e-mail, così come dell’immissione del documento nella cassetta della posta.
La semplice e-mail, difatti, così come l’immissione nella cassetta della posta, non fornisce le medesime garanzie di sicurezza, in ordine alla ricezione della comunicazione, che vengono garantite dagli altri mezzi indicati dall’art. 66 disp. att. c.c.. Inoltre, sempre secondo il giudice, in casi siffatti non può prospettarsi neppure una presunzione di conoscenza correlata al fatto che il messaggio sia giunto all’indirizzo del destinatario. Infatti, a differenza del possessore di un indirizzo Pec, il titolare di un indirizzo e-mail non ha alcun onere di consultare la posta elettronica in arrivo (sempre ammesso che la stessa giunga nella relativa cartella) e neanche l’avviso di avvenuta lettura conferisce alla e-mail il valore legale preteso dalla disposizione di legge.
Analogamente, non può presumersi che il condòmino abbia tempestiva conoscenza della data di convocazione dell’assemblea con l’immissione dell’avviso nella cassetta postale, non avendo quest’ultimo alcun onere di controllare quotidianamente la cassetta della posta. Nel caso in esame, l’amministratore aveva inviato il messaggio a un indirizzo e-mail ordinario attribuito al condòmino e aveva consegnato la convocazione nella sua cassetta postale.
Di conseguenza, secondo il Tribunale di Monza, la convocazione non poteva ritenersi valida a norma dell’art. 66 disp. att. c.c., con conseguente inefficacia delle comunicazioni inviate al condòmino nelle predette forme alternative al disposto di legge. La delibera impugnata è stata quindi annullata in conseguenza della mancata convocazione del condòmino impugnante per mancato rispetto delle formalità prescritte per legge.
Che scopo ha l’avviso di convocazione?
L’avviso di convocazione, che deve essere predisposto dall’amministratore e inviato per tempo a tutti i condomini presso la propria residenza o il proprio domicilio, come risultante dall’anagrafe condominiale, è quindi finalizzato a consentire la partecipazione dei medesimi all’assemblea.
Fino alla modifica della normativa condominiale nel 2012, come detto, la legge non prevedeva forme specifiche per l’invio di detto avviso. L’amministratore poteva quindi scegliere liberamente le modalità di inoltro della convocazione assembleare, con il solo limite del raggiungimento dello scopo (dovendo quindi provare, in caso di contestazione, che il condomino fosse stato informato per tempo della data e del luogo della riunione, nonché degli argomenti da discutere).
Con la riforma il legislatore è quindi intervenuto sull’art. 66 disp. att. c.c., prevedendo in modo specifico le modalità per l’inoltro dell’avviso di convocazione e richiedendo, alternativamente, l’utilizzo della posta raccomandata, della posta elettronica certificata, del fax oppure la consegna a mani (con consigliabile sottoscrizione per ricevuta da parte del condomino).
La medesima disposizione ha inoltre chiarito come qualsivoglia vizio relativo all’omissione, alla tardività o all’incompletezza della convocazione legittimi il condomino a ottenere l’annullamento giudiziale delle conseguenti delibere assembleari (da impugnare nei successivi 30 giorni decorrenti dalla riunione, per i presenti, e dal ricevimento del verbale, per gli assenti).
A seguito della modifica dell’art. 66 disp. att. c.c. e della sempre maggiore diffusione degli strumenti informatici, dopo la pandemia si arrivati addirittura al battesimo per via legislativa dell’assemblea telematica, ci si è chiesti ripetutamente se l’elencazione degli strumenti con i quali inviare l’avviso di convocazione sia o meno tassativa, vietando quindi il ricorso ad altri mezzi di spedizione.
Una soluzione molto richiesta dai condomini è infatti quella dell’invio dell’avviso di convocazione tramite e-mail, che abbina il vantaggio della tempestività della ricezione a quello della tendenziale gratuità dello strumento, soprattutto se confrontato con i costi della posta raccomandata.
Dal punto di vista degli amministratori, tuttavia, la scelta di venire incontro alle richieste dei condomini deve essere attentamente soppesata, poiché, come visto, il rischio è quello di invalidare il deliberato assembleare
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.09.2024).
---------------
Il principio
L’art. 66 disp. att. c.c. richiede la comunicazione dell’avviso di convocazione a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certifi cata, fax o tramite consegna a mano. Con tale disposizione il legislatore ha inteso tipizzare le forme della comunicazione dell’avviso, limitandole a quelle che garantiscono l’effettiva conoscibilità della convocazione stessa, con la conseguenza che l’amministratore di condominio deve utilizzare esclusivamente le forme scritte imposte dalla norma, pena l’annullabilità delle conseguenti deliberazioni assembleari.

EDILIZIA PRIVATAVolumetria, contratto blindato. Ininfluente il mancato utilizzo per cambio di pianificazione. Una sentenza della Corte di cassazione sulla cessione di cubatura tra soggetti privati.
Il contratto di compravendita della volumetria rimane valido anche nei casi in cui, a seguito della modifica dello strumento urbanistico locale, l'acquirente non possa in concreto utilizzarla a causa del mancato rilascio del titolo abilitativo. Ciò in quanto il contratto di cessione di cubatura tra privati è un atto immediatamente traslativo del diritto edificatorio di natura non reale a contenuto patrimoniale.

Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con sentenza 10.05.2024 n. 12881, che richiama altre pronunce in materia (Cass. Civ., Sez. II, 06.06.2022, n. 18044; Cass. Civ., 18.01.2022, n. 1476; Cass. Civ., Sezz. UU., 09.06.2021, n. 16080),
Per comprendere correttamente il contenuto della sentenza occorre richiamare alla mente la figura dei c.d. diritti edificatori.
Essi non sono in realtà dei veri e propri diritti soggettivi ma degli interessi legittimi pretensivi, sono cioè una chance edificatoria, un bene immateriale ulteriore rispetto al diritto di proprietà ed il cui concreto utilizzo dipende delle amministrazioni locali.
Occorre precisare che la circolazione dei diritti edificatori, oltre che sotto forma di cessione di cubatura tra privati (ipotesi esaminata dalla sentenza in commento) può avvenire anche nelle forme della perequazione, della compensazione e delle premialità.
Nei casi di cessione di cubatura tra privati, come riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa più recente (Cons. giust. amm. Sicilia, 24.04.2024, n. 319; Cons. di Stato, Sez. IV, 31.05.2022, n. 4417; Cons. di Stato, Sez. VI, 23.11.2022, n. 10338), per ritenerla legittima, in assenza di apposito divieto, è sufficiente che: (i) le aree su cui si trovano i terreni di decollo e di atterraggio siano omogenee; (ii) i fondi di decollo e di atterraggio siano contigui; (iii) non si alteri il carico urbanistico della zona e (iv) si mantenga immutata la densità territoriale complessiva.
Tuttavia, come è avvenuto nella vicenda esaminata dalla Suprema Corte, può accadere che una volta concluso il negozio della cessione di cubatura –nel rispetto dei requisiti sopra indicati– sopravvenute scelte pianificatorie, assunte discrezionalmente dalla pubblica amministrazione, rendano in concreto inutilizzabili i diritti edificatori.
Ritornando pertanto al caso preso in esame dalla sentenza in commento, come accertato anche nel corso dell'attività istruttoria mediante CTU, il venditore non può di certo ritenersi inadempiente in quanto la volumetria da lui ceduta –avuto riguardo al fondo di decollo e al momento della conclusione del contratto– era legittimamente nella disponibilità dell'alienante e dunque trasferibile.
La sopravvenuta inutilizzabilità della volumetria sul terreno di atterraggio, specie se a distanza di molti anni rispetto all'acquisto (come nel caso in esame) e in assenza di specifiche previsioni delle parti all'interno dell'atto di trasferimento, non inficia la validità e l'efficacia del contratto di compravendita, il cui effetto traslativo si produce nell'ambito dell'autonomia negoziale delle parti e non già in seno al procedimento amministrativo di rilascio del titolo edilizio.
Ecco perché la domanda di risoluzione per inadempimento colposo proposta dall'acquirente è stata rigettata dai giudici, così come quella volta ad ottenere la restituzione del prezzo corrisposto ed il risarcimento del danno (articolo ItaliaOggi del 28.09.2024).
---------------
SENTENZA
1.– Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la falsa applicazione degli artt. 1470 e 1453 c.c. nell’individuazione dell’oggetto del contratto di compravendita del 26 marzo 2007, avente ad oggetto anche la cessione di volumetria di mc. 2.304, con la corrispondente costituzione di servitus non aedificandi a carico del fondo rimasto in proprietà del venditore, quanto alla stessa nozione di contratto di compravendita e alla integrazione dell’inadempimento del venditore nella cessione della volumetria.
Obietta l’istante che, all’esito della qualificazione della cessione di cubatura quale contratto ad efficacia meramente obbligatoria, e non già traslativo o costitutivo di un diritto reale opponibile ai terzi, la mancata approvazione, da parte del Comune, del progetto di costruzione, nonostante il passaggio della volumetria del fondo rimasto in proprietà del Si. in favore del fondo trasferito alla Ef., avrebbe dovuto indurre ad accogliere la domanda di risoluzione per inadempimento del venditore.
E tanto perché avrebbe dovuto farsi riferimento non già all’effettiva sussistenza della volumetria di mc. 2.304 nel fondo dell’alienante, bensì alla trasferibilità di detta volumetria dal venditore all’acquirente.
1.1.– Il motivo è infondato.
E ciò, a monte, perché non può aderirsi alla ricostruzione della ricorrente, secondo cui il trasferimento di cubatura –non soltanto nei confronti dei terzi, ma anche tra le stesse parti– sarebbe determinato esclusivamente dal provvedimento concessorio rilasciato dall’amministrazione comunale a favore del cessionario e sulla base del programma edificatorio da questi proposto.
Peraltro, già secondo questa ormai superata ricostruzione, il mancato rilascio del permesso di costruire, nonostante la conforme attivazione del cedente presso la P.A., avrebbe determinato l’inefficacia del negozio e non già la sua risoluzione per inadempimento del venditore (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20623 del 24/09/2009).
Per contro,
il negozio di cessione di cubatura tra privati, con cui il proprietario di un fondo distacca, in tutto o in parte, la facoltà inerente al suo diritto dominicale di costruire nei limiti della cubatura assentita dal piano regolatore e, formandone un diritto a sé stante, lo trasferisce a titolo oneroso al proprietario di altro fondo urbanisticamente omogeneo, è atto immediatamente traslativo di un diritto edificatorio di natura non reale a contenuto patrimoniale, non richiedente la forma scritta ad substantiam e trascrivibile ex art. 2643, n. 2-bis, c.c. (Cass. Sez. 2, sentenza 06.06.2022 n. 18044; Sez. 2, sentenza 18.01.2022 n. 1476; Sez. U, sentenza 09.06.2021 n. 16080).
Detti diritti, proprio in ragione della loro origine, non hanno alcuna inerenza con il fondo, sicché la realità fa certamente difetto, trattandosi di diritti edificatori di origine compensativa, intrinsecamente caratterizzati dal loro totale distacco dal fondo di origine e dalla conseguente perfetta ed autonoma ambulatorietà.
Il che comporta la netta rivalutazione del sostrato privatistico della cessione di cubatura, ricollocando l’effetto traslativo suo proprio nell’ambito dell’autonomia negoziale delle parti, non già del procedimento amministrativo.
Resta naturalmente, una volta che alla cessione di cubatura consegua la presentazione da parte del cessionario di un progetto edificatorio su di essa basato, il ruolo autorizzativo e regolatorio del permesso di costruire, per il cui rilascio il cedente è tenuto ad operare secondo il dovere generale di solidarietà, cooperazione, correttezza e buona fede. Si tratta appunto di un elemento che concorre non al trasferimento in sé tra i privati della cubatura, quanto alla sua fruibilità in conformità alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, alle quali il cessionario dovrà ispirarsi mediante la presentazione di un progetto edificatorio suscettibile di assenso perché ad esse rispondente.
Ne discende che, in quanto elemento esterno di regolazione pubblicistica di un diritto di origine privatistica, il permesso di costruire –seppure per certi versi anomalo perché chiesto e rilasciato per una volumetria aumentata– continua ad operare su un piano non dissimile da quello “normale” dei provvedimenti genericamente ampliativi della sfera giuridica del privato e, segnatamente, da quello che regola ordinariamente l’esercizio diretto dello jus aedificandi da parte del proprietario.
1.2.– Nella fattispecie, la sentenza impugnata ha escluso che il diniego del permesso di costruire fosse dipeso dalla mancanza di volumetria utilizzabile e, quindi, da un inadempimento imputabile al cedente, individuando, per contro, la causa di tale diniego nella rilevata sopravvenuta mancata rispondenza del progetto all’indice di utilizzazione fondiaria.
E ciò non già rispetto al momento in cui il contratto di vendita è stato concluso (recte il 26.03.2007), bensì al momento in cui l’istanza di rilascio del permesso è stata presentata (recte il 10.02.2011, con diniego del 16.09.2011).
Senza che questa sopravvenienza fosse in alcun modo ascrivibile al venditore.
Orbene, il factum principis, idoneo ad escludere l’imputabilità dell’inadempimento, può individuarsi appunto in un provvedimento legislativo od amministrativo, dettato da interessi generali, che renda in via sopravvenuta impossibile la prestazione, indipendentemente dal comportamento dell’obbligato (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 10683 del 20/04/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 32539 del 04/11/2022; Sez. 3, Sentenza n. 14915 del 08/06/2018; Sez. 3, Sentenza n. 13142 del 25/05/2017; Sez. 2, Sentenza n. 6594 del 30/04/2012; Sez. 2, Sentenza n. 119 del 11/01/1982; Sez. 3, Sentenza n. 2688 del 22/10/1973), come acclarato nel caso di specie.
2.– Con il secondo motivo la ricorrente prospetta, in via subordinata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione di norme di diritto, per avere la Corte territoriale affermato la libera disponibilità della cessione della volumetria da un fondo all’altro, così da configurare il rifiuto del rilascio del permesso di costruire, da parte del Comune, come una sua libera scelta nella regolamentazione e gestione della materia urbanistica, tale da escludere ogni addebito di responsabilità al cedente.
Osserva l’istante che la circostanza dedotta dal consulente tecnico d’ufficio –secondo cui la volumetria sarebbe stata utilizzabile all’epoca della stipula del contratto e, per le norme allora vigenti (legislazione e strumento urbanistico locale), nulla avrebbe ostacolato il passaggio di volumetria da un lotto all’altro– non avrebbe considerato che sarebbe stato onere del venditore assicurare che, in base agli strumenti di pianificazione territoriale, fosse stato rilasciato il permesso di costruire e, dunque, il cedente avrebbe dovuto rispondere della limitazione dell’indice di densità fondiaria di cui all’art. 18 delle N.T.A. del P.R.G.
2.1.– Il motivo è inammissibile.
Infatti, a fronte della ricostruzione della vicenda (e delle correlate argomentazioni esposte sulla carenza di alcun inadempimento imputabile al cedente), la censura, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge (peraltro, con riferimento a norme non meglio precisate), mira, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito, rivalutazione preclusa in questa sede (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 8773 del 03/04/2024; Sez. 5, Ordinanza n. 32505 del 22/11/2023; Sez. 1, Ordinanza n. 5987 del 04/03/2021; Sez. U, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
La sentenza impugnata ha adeguatamente argomentato in ordine alla non imputabilità dell’inadempimento, sostenendo che, pur ricorrendo tutti i presupposti richiesti per il passaggio di cubatura da un lotto all’altro, per effetto dell’approvazione del P.G.T. (adottato il 21.10.2011 e approvato l’11.04.2012), l’utilizzazione nel progetto della volumetria ceduta era risultata impossibile, a causa dell’assenza nello strumento urbanistico della previsione di concentrazioni planivolumetriche, sicché il mancato rilascio del permesso di costruire era dipeso dalla scelta del Comune nella regolamentazione e gestione della materia urbanistica.
3.– Con il terzo motivo –formulato in via ulteriormente subordinata– la ricorrente contesta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, secondo comma, e 1325 c.c., per avere la Corte distrettuale escluso la nullità del contratto di cessione di cubatura per mancanza della sua causa tipica o dell’oggetto, in ragione del mancato trasferimento del diritto all’edificazione e del mancato conseguimento dell’utilitas.
3.1.– Il motivo è infondato.
Infatti, il distacco, in parte, della facoltà inerente al diritto dominicale del cedente di costruire nei limiti della cubatura assentita dal piano regolatore è debitamente avvenuto con il trasferimento a titolo oneroso al cessionario, in forza di un atto immediatamente traslativo di un diritto edificatorio di natura non reale a contenuto patrimoniale.
Sicché il contratto ha determinato l’effettivo trasferimento della volumetria secondo le prescrizioni ivi stabilite.
Solo in esito ad una previsione delle N.T.A. sopravvenuta l’asservimento volumetrico è stato limitato e non già per ragioni intrinseche al programma negoziale.
Orbene, nell’ordinamento giuridico positivo, il rilievo della causa, la cui mancanza produce la nullità dell’atto di autonomia privata, a norma dell’art. 1418, secondo comma, c.c., si manifesta esclusivamente nel momento della nascita del negozio e non accompagna il suo successivo svolgimento. La causa va infatti ricollegata allo scambio delle obbligazioni e non anche a quello delle prestazioni che ne derivano.
Pertanto, l’esigenza causale deve ritenersi soddisfatta con lo scambio delle obbligazioni. Il successivo inadempimento o la sopravvenuta impossibilità di una delle prestazioni determinano l’estinzione del rapporto obbligatorio alla stregua di principi diversi da quelli che disciplinano l’elemento causale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 53 del 10/01/1964).
Al sinallagma genetico, che si ricollega all’elemento della causa, si contrappone un sinallagma funzionale, con riguardo al legame di reciproca dipendenza esistente tra le prestazioni del rapporto giuridico creato con il contratto, il quale trova fondamento nel generale principio della commutatività, inteso ad evitare un arricchimento senza contropartita.
Le due situazioni solo apparentemente si presentano simili, giacché mentre la mancanza della causa concerne la creazione del vinculum iuris, le successive vicende relative alla prestazione riguardano invece l’esecuzione dell’obbligo, già sorto e operativo inter partes, con la conseguente applicazione dei mezzi giuridici che l’ordinamento appresta per assicurare obbedienza ai propri comandi, quali, ad esempio, la risoluzione per inadempimento (art. 1453 c.c.) o per impossibilità sopravvenuta (artt. 1256 e 1463 c.c.).
In entrambe le ipotesi presenta decisiva importanza l’indagine sulla imputabilità della mancata esecuzione del rapporto, in quanto, da un lato, la risoluzione, per il suo carattere sanzionatorio, presuppone la colpa dell’inadempimento e, dall’altro, l’impossibilità sopravvenuta deve rispondere ai requisiti della obiettività e della assolutezza (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.05.2024 n. 12881).

CONDOMINIO: Intrusi in assemblea? Sì limitato. Valida la delibera se il voto del non condòmino è irrilevante. Il Tribunale di Napoli: c’è vizio se il soggetto non legittimato è determinante per il quorum.
La delibera è valida anche se alla votazione ha partecipato un soggetto che non riveste la qualità di condòmino. Se, infatti, il voto in questione non è risultato determinante ai fini della sua adozione, la decisione assembleare non può essere annullata.

Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Napoli, Sez. VI civile, con la recente sentenza (udienza) 19.03.2024 n. 3153.
Decisioni assembleari: vince la maggioranza
In ambito condominiale opera il metodo collegiale e vige il principio maggioritario, la cui applicazione si rende necessaria per consentire al condominio di funzionare correttamente. La realtà di tutti i giorni insegna quanto sia difficile che una collettività, per quanto piccola, si trovi interamente d’accordo su una determinata decisione.
Ancorare il funzionamento dell’assemblea al consenso unanime di tutti i condòmini significherebbe infatti esporre a serio rischio di paralisi la gestione dei beni e dei servizi comuni.
Nell’assemblea condominiale il sistema di calcolo dei voti procede inoltre su una sorta di doppio binario. Infatti il legislatore, per evitare situazioni di squilibrio nel governo dei beni comuni, ha inteso introdurre, accanto al criterio della votazione per teste (per il quale ogni votante più esprimere un solo voto) un secondo meccanismo legato al valore delle singole unità immobiliari site nell’edificio condominiale, valore espresso in millesimi. Ciascun voto corrisponde quindi a un determinato numero di millesimi.
Il soggetto che sia proprietario e/o titolare di altro diritto reale su più unità immobiliari avrà diritto a un solo voto, ma vanterà un numero di millesimi pari al valore di tutti gli immobili che si trovano nella sua disponibilità. Pertanto il proprietario dell’attico e il condomino che abbia solo un piccolo box avranno entrambi diritto a un voto, ma la caratura millesimale di essi avrà naturalmente un peso molto diverso.
Il sistema misto previsto dal legislatore per il conteggio dei voti si può vedere all’opera in sede di determinazione delle maggioranze necessarie all’adozione delle deliberazioni assembleari, che variano da materia a materia e sono naturalmente fissate dalla legge. È possibile che nell’ambito della stessa assemblea siano posti in discussione argomenti che necessitano di quorum deliberativi diversi.
Per decidere validamente su ogni questione posta all’ordine del giorno sarà quindi necessario raggiungere quel minimo di voti volta per volta indicato dalla legge in considerazione sia del numero di condomini favorevoli sia del prescritto valore millesimale. La sola maggioranza per teste non sarà sufficiente ove la stessa non corrisponda anche alla maggioranza millesimale (e viceversa). Tutto ciò, come evidenziato, al fine di trovare un giusto equilibrio fra le diverse esigenze dei condomini. È quindi chiaro come la gestione del condominio si fondi su un complesso sistema di pesi e contrappesi.
Il diritto di voto spetta ovviamente soltanto ai condòmini, ovvero ai proprietari e/o titolati di diritti reali sui beni e servizi in comunione. Ma cosa succede se alla votazione partecipa anche un soggetto che non è condòmino? 
Cosa ha chiarito il Tribunale di Napoli
Il proprietario di alcune unità immobiliari site in condominio aveva impugnato le delibere adottate dall’assemblea per la revoca dell’amministratore in carica e la nomina di uno nuovo. Con l’unico motivo di opposizione era stato contestato il fatto che alla riunione condominiale aveva partecipato ed espresso il proprio voto un soggetto che non rivestiva la qualità di condòmino.
A quanto pare l’amministratore non aveva informazioni aggiornate sull’effettiva composizione della compagine condominiale e quindi aveva invitato all’assemblea un soggetto che non rivestiva la qualità di condòmino. Quest’ultimo aveva votato per entrambe le delibere impugnate, pur non essendo più legittimato, proprio in virtù del fatto di non essere proprietario e/o titolare di diritti reali su alcuna delle unità immobiliari che costituivano l’edificio condominiale. Il Tribunale di Napoli, come detto, ha tuttavia respinto l’impugnazione della delibera.
Vale il voto di chi non è condòmino?
Può sembrare paradossale che possa considerarsi valida la decisione relativa alla gestione di un bene comune che sia assunta anche sulla base del voto di un soggetto che non fa parte della comunione. E su questo aspetto dovrebbero ovviamente sorvegliare l’amministratore, in sede di invio degli avvisi di convocazione, e il presidente dell’assemblea, al momento della verifica dei presenti alla riunione.
Tuttavia, la questione del pur evidente difetto di legittimazione attiva del soggetto che non riveste la qualità di condòmino deve essere letta alla luce del più complesso sistema di regole che disciplina il funzionamento dell’assemblea e il procedimento giudiziale volto ad accertare la validità delle decisioni assunte in quella sede e a disporne l’annullamento.
Il Tribunale di Napoli, premessa la nota distinzione tra vizi e di nullità e annullabilità delle deliberazioni assembleari, ha rimarcato il fatto che l’amministratore non è mai esonerato dalla verifica dell’avvenuta convocazione di coloro i quali rivestano effettivamente la qualità di condòmini.
Quindi, indipendentemente dall’obbligo di tenuta dell’anagrafe condominiale sulla base dei dati forniti dai condòmini ai sensi dell’art. 1130, n. 6), c.c., poiché nei rapporti interni alla compagine condominiale non può mai essere data rilevanza a una situazione di apparenza del diritto, l’amministratore al fine di assicurare una regolare convocazione dell’assemblea è comunque tenuto a svolgere tutte le indagini suggerite dalla diligenza dovuta per la natura dell’attività esercitata, onde poter comunicare a tutti gli aventi diritto l’avviso della riunione.
Ciò posto, secondo il giudice partenopeo, i vizi di irregolare convocazione dell’assemblea condominiale e di formazione della volontà assembleare possono essere fatti valere e possono determinare l’annullabilità del delibera in quanto il vizio di convocazione abbia inciso in concreto sulla possibilità per il condòmino impugnante di partecipare al processo deliberativo, comprimendo o impedendo la sua partecipazione e il suo concorso alla formazione della decisione.
Così inteso il vizio di annullamento della deliberazione, il condòmino non può dolersi della partecipazione e del voto in assemblea di un soggetto non legittimato nel caso in cui la stessa non abbia influito in concreto sul quorum costitutivo e deliberativo dell’assemblea. Infatti se il portato della deliberazione assembleare fosse rimasto lo stesso anche se non vi avesse preso parte il soggetto non legittimato, ciò vuol dire che la decisione in questione sarebbe stata in ogni caso adottata dalla maggioranza della compagine condominiale.
Di qui l’irrilevanza del voto espresso da chi non è condòmino, analogamente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza nel caso in cui il diritto di voto sia esercitato dal condòmino in conflitto di interessi rispetto alla questione oggetto di delibera.
Anche in quel caso, infatti, la giurisprudenza fa riferimento alla cosiddetta prova di resistenza, secondo cui la validità della delibera può essere conservata eliminando dal computo delle maggioranze i voti non validi e verificando quindi se la stessa resiste alla sottrazione del voto illegittimo.
Di conseguenza, come affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, la partecipazione a un’assemblea di un soggetto estraneo ovvero privo di legittimazione non si riflette sulla validità della costituzione dell’assemblea e delle decisioni in tale sede assunte, qualora risulti che quella partecipazione non ha influito sulla maggioranza richiesta e sul quorum prescritto, né sullo svolgimento della discussione e sull’esito della votazione (si veda, per esempio, Cass. civ., sentenza n. 11943 dell’08.08.2003). 
A tal proposito il Tribunale di Napoli ha anche evidenziato come la Suprema corte, con ordinanza n. 28763 del 30.11.2017, abbia deciso in modo analogo anche un caso in cui il condòmino aveva dedotto che la partecipazione del soggetto non legittimato, indipendentemente dall’avvenuto superamento della cosiddetta prova di resistenza, non poteva ritenersi neutro, avendo costui attivamente partecipato alla discussione e alla votazione (articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2024).
---------------
Il principio
La partecipazione all’assemblea condominiale di un soggetto estraneo, ovvero privo di legittimazione, sulla validità della costituzione della stessa e delle decisioni in tale sede assunte, qualora risulti che quella partecipazione non ha infl uito sulla maggioranza richiesta e sul quorum prescritto, né sullo svolgimento della discussione e sull’esito della votazione.

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza granitica ha statuito che: “... la questione della titolarità del bene in ordine al quale viene chiesto un titolo abilitativo al Comune, è questione incidentale che non può farsi coincidere con l’accertamento della titolarità reale, la quale non compete funditus, né alla amministrazione competente in materia edilizia, né al giudice amministrativo in sede di controllo di legittimità, ma al giudice ordinario.
Come evidenziato dalla giurisprudenza consolidata, ai fini del rilascio del titolo, l’amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo alla disponibilità dell’area oggetto dell’intervento edilizio, desunta dagli atti pubblici prodotti ed, in via residuale, dalle risultanze catastali.
L’attività istruttoria che l’amministrazione deve svolgere, essendo finalizzata alla verifica dell’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, non è diretta a risolvere i conflitti di interesse tra le parti in ordine all’assetto proprietario degli immobili interessati e, pertanto, non deve effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà.
In definitiva, se il Comune, e poi il giudice in sede di controllo di legittimità, non può esimersi dal verificare il rispetto dei limiti privatistici sull’intervento proposto, condizione è che questi siano realmente conosciuti o immediatamente conoscibili e non contestati, così che il controllo da parte del Comune (e del giudice amministrativo) si traduce in una mera presa d’atto, senza necessità di procedere a un’accurata e approfondita disamina dei rapporti tra privati.
D’altra parte, gli effetti dei titoli edilizi sono confinati sul solo versante pubblicistico, non interferendo sui rapporti di natura privata connessi o implicati nelle vicende immobiliari che riguardano l’attività urbanistico–edilizia, come è stabilito in modo chiaro, dall’art. 11, comma 3, del testo un. edil., in riferimento al permesso di costruire”.
Questo Tribunale ha altresì precisato che “
...la disposizione dell’art. 81, comma 1, della l.p. n. 15/2015 vada interpretata (al pari dell’analoga disposizione dell’art. 11, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001) alla luce dei generali principi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa e, soprattutto, di funzionalizzazione dell’esercizio del potere pubblicistico al perseguimento dello specifico interesse pubblico predeterminato dalla legge.
In particolare la disposizione dell’art. 81, comma 1, della l.p. n. 15/2015 (come quella dell’art. 11, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001) impone al Comune soltanto di accertare che il richiedente sia in possesso di un titolo civilistico astrattamente idoneo in relazione alla tipologia dell’intervento proposto. Invece, diversamente opinando, si finirebbe per ammettere che il potere pubblicistico sia stato attribuito anche al fine di dirimere questioni di natura esclusivamente privatistica
”.
Ne consegue che, in applicazione dei limiti di indagine posti all’Amministrazione medesima in sede di rilascio del titolo edilizio, come sopra evidenziati, ed anche a fronte di eventuali contestazioni dei controinteressati, il Comune deve limitarsi a “compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi  prima facie  attendibili”.
...
Assodato che non spetta al Comune, e neppure a questo Giudice, dirimere le controversie civili tra i vicini, deve poi rilevarsi che tutti i titoli edilizi sono emessi “fatti salvi i diritti dei terzi” -clausola a sua volta applicativa del principio espressamente previsto dall’art. 11, comma 3, del T.U. approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380- e tanto assolve ulteriormente il Comune da ogni aggiuntivo approfondimento circa gli aspetti civilistici del rapporto, che spetta all’Autorità giudiziaria ordinaria dirimere.
Si tratta di clausola imposta ex lege che esplicitamente salvaguarda la concorrente sussistenza degli eventuali diritti di terzi, e circoscrive l’ambito di efficacia del provvedimento medesimo al rapporto pubblicistico instauratosi tra il richiedente e l’Amministrazione comunale senza incidere sui distinti rapporti giuridici che contemporaneamente insistono tra privati e che dal rapporto anzidetto non possono pertanto ricevere pregiudizio.
---------------

XII. Il ricorrente riconduce il proprio interesse anche sotto un altro profilo, ancorandolo alla dedotta, presunta invasione della p.ed. 330 da parte della p.ed. 500, integrante la volumetria regolarizzata: circostanza -questa- che escluderebbe la sussistenza del pieno titolo di proprietà della particella edificiale di cui si discorre in capo alla controinteressata.
XIII. Neppure tale argomento può essere condiviso.
Invero, in disparte la circostanza che all’atto della presentazione dell’istanza di sanatoria/regolarizzazione il Comune non era a conoscenza della sussistenza di tale possibile contestazione del confine tra le due predette porzioni edificiali, rappresentata solo in un secondo momento da parte del ricorrente, tale situazione parimenti costituisce una questione che -a ben vedere- si scontra con i limiti in cui incorre l’Amministrazione nell’approfondimento del titolo di legittimazione, ex art. 81, comma 1, della l.p. 04.08.2015, n. 15 -il quale dispone espressamente “Possono chiedere il permesso di costruire i proprietari dell’immobile e i soggetti in possesso di un altro titolo idoneo” in senso omologo all’articolo 11 del T.U. dell’edilizia n. 380 del 2001- e comunque contemplandosi una legittimazione ampliata in caso di sanatoria fino ad includere il responsabile dell’abuso ex art. 135 della l.p. n. 1 del 2008.
La giurisprudenza granitica anche di questo Tribunale (ex multis sentenze TRGA Trento 19.02.2020, n. 29 e 13.08.2020, n. 138) e che si rinviene, tra molte, anche nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV 28.05.2019, n. 3522, ha statuito che: “... la questione della titolarità del bene in ordine al quale viene chiesto un titolo abilitativo al Comune, è questione incidentale che non può farsi coincidere con l’accertamento della titolarità reale, la quale non compete funditus, né alla amministrazione competente in materia edilizia, né al giudice amministrativo in sede di controllo di legittimità, ma al giudice ordinario.
Come evidenziato dalla giurisprudenza consolidata (ex multis Cons. Stato, sez. IV, n. 2397 del 2018 e n. 2116 del 2016; sez. V, n. 1990 del 2012), ai fini del rilascio del titolo, l’amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo alla disponibilità dell’area oggetto dell’intervento edilizio, desunta dagli atti pubblici prodotti ed, in via residuale, dalle risultanze catastali.
L’attività istruttoria che l’amministrazione deve svolgere, essendo finalizzata alla verifica dell’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, non è diretta a risolvere i conflitti di interesse tra le parti in ordine all’assetto proprietario degli immobili interessati e, pertanto, non deve effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà.
In definitiva, se il Comune, e poi il giudice in sede di controllo di legittimità, non può esimersi dal verificare il rispetto dei limiti privatistici sull’intervento proposto, condizione è che questi siano realmente conosciuti o immediatamente conoscibili e non contestati, così che il controllo da parte del Comune (e del giudice amministrativo) si traduce in una mera presa d’atto, senza necessità di procedere a un’accurata e approfondita disamina dei rapporti tra privati.
D’altra parte, gli effetti dei titoli edilizi sono confinati sul solo versante pubblicistico, non interferendo sui rapporti di natura privata connessi o implicati nelle vicende immobiliari che riguardano l’attività urbanistico–edilizia, come è stabilito in modo chiaro, dall’art. 11, comma 3, del testo un. edil., in riferimento al permesso di costruire
”.
Questo Tribunale nelle sentenze già richiamate ha altresì precisato che “
...la disposizione dell’art. 81, comma 1, della legge provinciale n. 15/2015 vada interpretata (al pari dell’analoga disposizione dell’art. 11, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001) alla luce dei generali principi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa e, soprattutto, di funzionalizzazione dell’esercizio del potere pubblicistico al perseguimento dello specifico interesse pubblico predeterminato dalla legge.
In particolare la disposizione dell’art. 81, comma 1, della legge provinciale n. 15/2015 (come quella dell’art. 11, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001) impone al Comune soltanto di accertare che il richiedente sia in possesso di un titolo civilistico astrattamente idoneo in relazione alla tipologia dell’intervento proposto. Invece, diversamente opinando, si finirebbe per ammettere che il potere pubblicistico sia stato attribuito anche al fine di dirimere questioni di natura esclusivamente privatistica
”.
Ne consegue che, in applicazione dei limiti di indagine posti all’Amministrazione medesima in sede di rilascio del titolo edilizio, come sopra evidenziati, ed anche a fronte di eventuali contestazioni dei controinteressati, il Comune deve limitarsi a “compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi  prima facie  attendibili” (ex multis  Cons. Stato, sez. IV - 20/04/2018 n. 2397)”.
XIV. Assodato che non spetta al Comune, e neppure a questo Giudice, dirimere le controversie civili tra i vicini, deve poi rilevarsi che tutti i titoli edilizi sono emessi “fatti salvi i diritti dei terzi” -clausola a sua volta applicativa del principio espressamente previsto dall’art. 11, comma 3, del T.U. approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380- e tanto assolve ulteriormente il Comune da ogni aggiuntivo approfondimento circa gli aspetti civilistici del rapporto, che spetta all’Autorità giudiziaria ordinaria dirimere.
Si tratta di clausola imposta ex lege che esplicitamente salvaguarda la concorrente sussistenza degli eventuali diritti di terzi, e circoscrive l’ambito di efficacia del provvedimento medesimo al rapporto pubblicistico instauratosi tra il richiedente e l’Amministrazione comunale senza incidere sui distinti rapporti giuridici che contemporaneamente insistono tra privati e che dal rapporto anzidetto non possono pertanto ricevere pregiudizio.
XV. Nel caso di specie, all’evidenza la problematica avanzata dalla parte ricorrente trascende i limiti della necessaria verifica posta in capo al Comune.
Si tratta infatti di problematica che non è idonea a inficiare il “titolo astrattamente idoneo” di cui in parola nella sopra illustrata giurisprudenza, ma concerne una difformità di mappale che non trova riscontro nella configurazione catastale della p.ed. 500: discordanza che è per certo sussistente da moltissimo tempo e in ordine alla quale la medesima parte ricorrente non ha radicato alcun giudizio in sede civile essendosi semplicemente sottratta ad una mediazione della controparte.
Deve pertanto concludersi che in tale situazione non è affatto illegittimo il comportamento del Comune che non ha esteso le verifiche oltre il rilievo tavolare dell’intestata proprietà della p.ed. 500 in capo al soggetto richiedente, restringendosi la questione, dal punto di vista dell’Amministrazione, ad una diversa prospettazione delle parti circa la discordanza nel mappale, questione che non può costituire ragione di paralisi dell’attività pubblicistica, ferma restando l’impregiudicata possibilità per il signor Bi. di conseguire il dedotto approfondimento presso l’Autorità giudiziaria ordinaria avente piena giurisdizione in materia, con esiti anche ripristinatori in caso di accertamento della fondatezza della pretesa.
In conclusione, se quanto sopra esposto non vale a giustificare a priori la necessità di un approfondimento di merito ulteriore da parte del Comune, neppure può, in maniera evidente ad avviso del Collegio, qualificare l’attualità dell’interesse come condizione dell’azione in argomento.
XVI. Per tutte le ragioni sopra esposte, il ricorso in definitiva deve essere dichiarato inammissibile e tale pronuncia per ragioni di rito determina l’assorbimento dei motivi di merito esposti nel ricorso (cfr. Ad. Pl. Cons. Stato 27.04.2015, n. 5) (TRGA Trentno Alto Adige-Trento, sentenza 31.10.2023 n. 169 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla inconciliabilità, o meno, tra le funzioni del r.u.p. e l'incarico di componente o di presidente della commissione.
L’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016 dispone che “I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”. Il precetto è stato poi integrato in sede di correttivo dall'art. 46, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 56/2017, secondo cui la “la nomina del rup a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento alla singola procedura”.
In argomento, condivisibile giurisprudenza sostiene -in contrapposizione all’orientamento teso a configurare una secca inconciliabilità tra le funzioni del r.u.p. e l'incarico di componente o di presidente della commissione- che l’incompatibilità prevista dall’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016, finalizzata ad evitare commistioni tra la fase di predisposizione degli atti di gara e la fase di valutazione delle offerte, debba sussistere in concreto, mediante la definizione delle regole applicabili per la selezione del contraente e delle attività di valutazione delle offerte.
---------------
La verifica di anomalia dell’offerta eseguita dal r.u.p., con l’ausilio di un distinto organo collegiale nominato ad hoc, postula un apprezzamento di diverso contenuto rispetto alla valutazione delle offerte, cosicché in concreto non è ravvisabile il prospettato conflitto di interessi.
In linea con il richiamato orientamento, l’art. 51 D.Lgs. n. 36/2023, contenente il nuovo codice degli appalti, prevede -per l’ipotesi di aggiudicazione di appalti con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per contratti sottosoglia- che alla commissione giudicatrice possa partecipare il r.u.p., anche in qualità di presidente.
---------------

5. Ciò chiarito, con il primo motivo di gravame At. denuncia la violazione dell’art. 77, comma 4, D.Lgs. 50/2016, integratasi dopo la sopravvenuta nomina a r.u.p., a seguito delle dimissioni del precedente r.u.p. d.ssa Do., del presidente della commissione giudicatrice ing. Gi.Vi., stante l’incompatibilità tra i due ruoli e il potenziale conflitto derivante dal vaglio eseguito dal nuovo r.u.p., ex art. 97 D.Lgs. n. 50/2016, sulla congruità dell’offerta economica della prima graduata, già esaminata positivamente dallo stesso ing. Vi. in qualità di presidente dell’organo tecnico.
Con motivo suscettibile di trattazione congiunta, la deducente lamenta inoltre che il r.u.p., in contrasto con le relative competenze, avrebbe omesso di fare proprie le conclusioni di congruità dell’offerta cui è pervenuta l’apposita commissione.
I rilievi vanno disattesi.
L’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016 dispone che “I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”. Il precetto è stato poi integrato in sede di correttivo dall'art. 46, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 56/2017, secondo cui la “la nomina del rup a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento alla singola procedura”.
In argomento, condivisibile giurisprudenza sostiene -in contrapposizione all’orientamento teso a configurare una secca inconciliabilità tra le funzioni del r.u.p. e l'incarico di componente o di presidente della commissione (TAR Roma, Latina, Sez. I, 23.05.2017, n. 325)- che l’incompatibilità prevista dall’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016, finalizzata ad evitare commistioni tra la fase di predisposizione degli atti di gara e la fase di valutazione delle offerte, debba sussistere in concreto, mediante la definizione delle regole applicabili per la selezione del contraente e delle attività di valutazione delle offerte (Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.11.2021, n. 7419).
Trasponendo le richiamate coordinate ermeneutiche al caso di specie, dalle emergenze documentali, per un verso, non risulta che l’ing. Vi. abbia partecipato alla predisposizione degli atti della gara in esame, attività riconducibile invece al precedente r.u.p. d.ssa Do.. Sotto concorrente profilo inoltre, in disparte il rilievo di inammissibilità eccepito della controinteressata, la verifica di anomalia dell’offerta eseguita dal r.u.p., con l’ausilio di un distinto organo collegiale nominato ad hoc, postula un apprezzamento di diverso contenuto rispetto alla valutazione delle offerte, cosicché in concreto non è ravvisabile il prospettato conflitto di interessi (Consiglio di Stato, Sez. V, 10.01.2022, n. 167).
In linea con il richiamato orientamento, l’art. 51 D.Lgs. n. 36/2023, contenente il nuovo codice degli appalti, prevede -per l’ipotesi di aggiudicazione di appalti con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per contratti sottosoglia- che alla commissione giudicatrice possa partecipare il r.u.p., anche in qualità di presidente.
In riferimento, poi, alla deduzione difensiva secondo cui il r.u.p. non avrebbe avallato le conclusioni di congruità dell’offerta alle quali è pervenuta la commissione in sede di verifica dell’anomalia, essa risulta superabile, poiché l’ing. Vi., in qualità di r.u.p., in esito allo svolgimento delle attività di propria competenza, tra cui appunto quelle inerenti all’anomalia dell’offerta, con nota protocollo n. 4067 del 14.11.2022 ha operato, per come evincibile dal provvedimento di aggiudicazione, una ratifica dell’intera attività al medesimo ascrivibile (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 30.10.2023 n. 1353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla illegittimità, o meno, della nomina della commissione incaricata per la verifica dell’anomalia dell’offerta, poiché i professionisti componenti della stessa sarebbero risultati sprovvisti di un’esperienza specifica sui profili oggetto della gara.
La giurisprudenza ha precisato che l’art. 77, comma 1, D.Lgs. n. 50/2016, inerente alla commissione giudicatrice, “non richiede una perfetta corrispondenza tra la competenza dei membri della commissione, anche cumulativamente considerata, ed i diversi ambiti materiali che concorrono alla integrazione del complessivo oggetto del contratto; ciò anche sul presupposto che all'esperienza nel settore primario, cui si riferisce l'oggetto del contratto, si accompagna una analoga esperienza nei settori secondari, che con quell'oggetto interferiscono o si intersecano”.
Nella fattispecie la scelta dei componenti della commissione di verifica di anomalia dell’offerta è ricaduta su professionisti iscritti nell’ordine degli ingegneri, muniti pertanto di adeguata competenza tecnica, posto che lo “specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto” -richiamato dal comma 1 dell’art. 77 in riferimento alla competenza dei commissari- dev’essere riferito ad aree tematiche omogenee, e non anche alle singole e specifiche attività oggetto dell'appalto.
---------------

5.1. Con la seconda censura l’esponente si duole dell’illegittimità della nomina della commissione incaricata per la verifica dell’anomalia dell’offerta, poiché i professionisti componenti della stessa sarebbero risultati sprovvisti di un’esperienza specifica sui profili oggetto della gara, in quanto individuati tramite sorteggio tra gli ingegneri dell’ordine di Cosenza in assenza di adeguata motivazione.
L’assunto è infondato, potendosi prescindere dal vaglio di inammissibilità della censura.
Invero, ha precisato la giurisprudenza che l’art. 77, comma 1, D.Lgs. n. 50/2016, inerente alla commissione giudicatrice, “non richiede una perfetta corrispondenza tra la competenza dei membri della commissione, anche cumulativamente considerata, ed i diversi ambiti materiali che concorrono alla integrazione del complessivo oggetto del contratto; ciò anche sul presupposto che all'esperienza nel settore primario, cui si riferisce l'oggetto del contratto, si accompagna una analoga esperienza nei settori secondari, che con quell'oggetto interferiscono o si intersecano” (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 09.12.2020, n. 7832).
Nella fattispecie la scelta dei componenti della commissione di verifica di anomalia dell’offerta è ricaduta su professionisti iscritti nell’ordine degli ingegneri di Cosenza, muniti pertanto di adeguata competenza tecnica, posto che lo “specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto” -richiamato dal comma 1 dell’art. 77 in riferimento alla competenza dei commissari- dev’essere riferito ad aree tematiche omogenee, e non anche alle singole e specifiche attività oggetto dell'appalto (Consiglio di Stato, Sez. V, 01.10.2018, n. 5603).
In particolare, dall’esame dei curricula dei componenti la commissione risulta infatti che l’ing. An.Ga. è stato “consulente per servizi di supporto ed assistenza ad enti pubblici relativamente a bandi di gara, supporto tecnico amministrativo RUP, commissione gara, perizie tecniche…”, mentre l’ing. Ra.Ru.Ra. è stato componente in precedenti di appalti pubblici e ciò al pari dell’ing. Sa.Ri. (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 30.10.2023 n. 1353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull’attività della commissione di gara per la verifica d’anomalia dell’offerta economica.
Secondo costante giurisprudenza “il giudizio di anomalia dell'offerta è connotato da ampi margini di discrezionalità e costituisce espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, di esclusiva pertinenza dell'amministrazione, esulando dalla competenza del giudice amministrativo, il cui sindacato è limitato solo al caso in cui le valutazioni della pubblica amministrazione siano inficiate da macroscopiche illegittimità, quali gravi e plateali errori di valutazione”.
---------------

5.2. Con la terza, la quarta e la quinta censura, suscettibili di trattazione congiunta poiché connesse, la deducente lamenta che l’attività della commissione per la verifica d’anomalia dell’offerta economica della prima classificata risulterebbe, in base al contenuto del verbale del 19.09.2022, lacunosa, illogica ed erronea, essendo stati accolti in modo acritico gli assunti, anche privi di idoneo supporto probatorio, espressi da La. nelle giustificazioni, avuto riguardo al costo e alla qualificazione della manodopera, alla disponibilità dei macchinari, alla impropria sovrapposizione operata dall’organo collegiale tra costi di manodopera e costi di sicurezza aziendali, alle spese generali quantificate dalla controinteressata nella misura del 6% e, da ultimo, all’omessa indicazione della controinteressata di ricorrere al subappalto.
L’erroneità della valutazione della commissione risulterebbe inoltre evincibile dall’esiguo tempo di esame -pari ad appena un’ora e trenta minuti- dell’offerta anomala.
Le deduzioni difensive vanno respinte.
Giova premettere che secondo costante giurisprudenza “il giudizio di anomalia dell'offerta è connotato da ampi margini di discrezionalità e costituisce espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, di esclusiva pertinenza dell'amministrazione, esulando dalla competenza del giudice amministrativo, il cui sindacato è limitato solo al caso in cui le valutazioni della pubblica amministrazione siano inficiate da macroscopiche illegittimità, quali gravi e plateali errori di valutazione” (ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. V, 02.10.2020, n. 5777).
Applicando le richiamate coordinate ermeneutiche alla fattispecie -in assenza di palese inattendibilità delle valutazioni della competente commissione- vanno disattese, poiché inammissibili:
   - le censure inerenti agli apprezzamenti dell’organo collegiale riguardanti la manodopera della prima graduata in riferimento all’inidoneità e mancata formazione del personale a svolgere tali prestazioni e a rispettare le relative norme di sicurezza, al sottostimato costo e numero di ore ipotizzato dall’aggiudicataria per il compimento di tali attività, nonché all’omessa indicazione dei costi relativi alle attività di manutenzione e di ripristino da remoto;
   - l’insieme di rilievi, contenuto nel quinto motivo di gravame, teso a confutare con unilaterali stime economiche le singole voci dei costi indicati da La..
Tali censure, invero, impingono nel merito delle scelte operate dall’organo di valutazione, risolvendosi, in sostanza, in una sovrapposizione del giudizio tecnico dell’esponente rispetto a quello eseguito dal collegio di gara.
In ogni caso, il primo dei due gruppi di censure appena descritti e le ulteriori deduzioni difensive sono infondati poiché:
   - la controinteressata ha dato conto in sede di offerta della comprovata esperienza del proprio personale; gli oneri per le opere civili e impiantistiche sono stati quantificati nelle giustificazioni sotto la voce “Costi di installazione”; la proposta migliorativa di adeguare il monte orario del personale distaccato integra un costo solo eventuale;
   - il costo della manodopera è stato calcolato in conformità alle tabelle ministeriali di determinazione del costo medio orario del lavoro per il contratto di categoria di riferimento -c.c.n.l. dipendenti da aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi- attualizzato ai valori della retribuzione corrente per livello di inquadramento;
   - la congruità dei costi di sicurezza aziendale, indicati in euro 3.335,00 e rimessi all’esclusiva sfera di valutazione del singolo partecipante (Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.04.2022, n. 3169), non si palesa irragionevole, avuto riguardo alla giustificazione, ritenuta coerente dalla commissione, della natura prettamente intellettuale dei servizi prestati ed al rilievo secondario dell’attività di installazione su strada delle apparecchiature di rilevazione della velocità, poiché strumentale allo svolgimento del servizio primario e prevalente di gestione del ciclo sanzionatorio;
   - l’asserita carenza di supporto documentale delle giustificazioni dell’anomalia dell’offerta fornite da La. è smentita dalla circostanza che la prima graduata ha prodotto a sostegno dei propri chiarimenti una relazione dettagliata, per come richiesto dal r.u.p. con p.e.c. del 30.06.2023, non prescrivendo sul punto né la lex specialis né l’art. 97, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016, in tema di anomalia dell’offerta, la necessità di specifici documenti, ferma comunque la produzione in giudizio di pertinente documentazione;
   - la ritenuta esiguità del tempo impiegato dalla commissione in sede vaglio dell’anomalia dell’offerta, pari ad un’ora e mezza, non è di per sé sola indicativa dell’erroneità della valutazione operata dall’organo collegiale (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 21.02.2020, n. 1323);
   - il mancato ricorso al subappalto, in ragione dell’asserita impossibilità di La. di eseguire in proprio la “componente dei lavori” e le “attività relative al contenzioso”, non assume rilievo, avendo dedotto la controinteressata, per un verso, di possedere i requisiti richiesti dal bando e le attrezzature necessarie per eseguire in proprio i lavori per l’installazione dei dispositivi offerti, per come evincibile dai costi di installazione dei dispositivi di rilevazione specificati in sede di giustificativi e, sotto il distinto e concorrente profilo, di avere affidato a terzi le attività relative al contenzioso in base ad un precedente contratto continuativo di cooperazione ex art. 105, comma 3, lett. c-bis), del D.lgs. 50/2016;
   - la licenza ai sensi del R.D. n. 773/1931 per lo svolgimento delle attività extragiudiziali non è prescritta dalla lex specialis e comunque la controinteressata risulta iscritta all’albo dei gestori dell’accertamento e della riscossione dei tributi locali istituito ex art. 53, comma 1, D.Lgs. 446/1997 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 30.10.2023 n. 1353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' costante la giurisprudenza nello statuire che “il sindacato del giudice amministrativo sull'esercizio della propria attività valutativa da parte della Commissione giudicatrice di gara non può sostituirsi a quello della pubblica amministrazione, in quanto la valutazione delle offerte nonché l'attribuzione dei punteggi da parte della Commissione giudicatrice rientrano nell'ampia discrezionalità tecnica riconosciuta a tale organo. ...
Le censure che attingono il merito di tale valutazione (opinabile) sono inammissibili, perché sollecitano il giudice amministrativo ad esercitare un sindacato sostitutivo, al di fuori dei tassativi casi sanciti dall'art. 134 c.p.a., fatto salvo il limite della abnormità della scelta tecnica ...
Ne deriva che, come da consolidato indirizzo giurisprudenziale, per sconfessare il giudizio della Commissione giudicatrice non è sufficiente evidenziarne la mera non condivisibilità, dovendosi piuttosto dimostrare la palese inattendibilità e l'evidente insostenibilità del giudizio tecnico compiuto”.
---------------

5.3. Con la sesta censura è denunciata l’illegittimità dell’offerta tecnica della prima graduata con riferimento alle caratteristiche del sistema di rilevazione della velocità media da essa proposto, T-Exspeed V. 2.0, di cui, invece, il sistema stesso risulterebbe privo e che non può compiere a causa dei limiti stabiliti dal decreto ministeriale di approvazione.
La doglianza non coglie nel segno.
Giova premettere che è costante la giurisprudenza nello statuire che “il sindacato del giudice amministrativo sull'esercizio della propria attività valutativa da parte della Commissione giudicatrice di gara non può sostituirsi a quello della pubblica amministrazione, in quanto la valutazione delle offerte nonché l'attribuzione dei punteggi da parte della Commissione giudicatrice rientrano nell'ampia discrezionalità tecnica riconosciuta a tale organo. ... Le censure che attingono il merito di tale valutazione (opinabile) sono inammissibili, perché sollecitano il giudice amministrativo ad esercitare un sindacato sostitutivo, al di fuori dei tassativi casi sanciti dall'art. 134 c.p.a., fatto salvo il limite della abnormità della scelta tecnica ... Ne deriva che, come da consolidato indirizzo giurisprudenziale, per sconfessare il giudizio della Commissione giudicatrice non è sufficiente evidenziarne la mera non condivisibilità, dovendosi piuttosto dimostrare la palese inattendibilità e l'evidente insostenibilità del giudizio tecnico compiuto” (ex plurimis, Consiglio di Stato, III, 02.09.2019, n. 6058).
In assenza di palese inattendibilità delle valutazioni del seggio di gara vanno pertanto disattese, poiché inammissibili, le censure inerenti agli apprezzamenti della commissione riguardanti l’offerta tecnica della controinteressata.
L’assunto è comunque infondato.
Le contestazioni della ricorrente investono, in particolare, le funzionalità accessorie del sistema T-Exspeed V. 2.0, cioè di verifica della regolarità degli adempimenti assicurativi e di revisione dei veicoli, di lettura dei codici per la rilevazione delle merci pericolose e delle targhe straniere, di classificazione dei veicoli, di rilevazione dei veicoli che appaiono adiacenti e su un’unica corsia, di certificazione della velocità in ogni direzione e fino a 600 km/h.
Tali funzionalità secondarie sono presenti nel dispositivo in base alle attestazioni della casa costruttrice Kr. e, sebbene non autorizzate, non ostano all’impiego dello strumento per la funzione principale del rilevamento della velocità media dei veicoli in transito, necessitante invece dell’approvazione ministeriale.
Parimenti, sotto distinto profilo, l’asserita carenza di linea di connessione internet nell’area interessata dal servizio è meramente prospettata dall’esponente e comunque superata dalla prassi operativa del settore con l’ausilio di sistemi integrativi di connessione.
Con riguardo, poi, alla funzionalità delle telecamere aggiuntive per effettuare il riconoscimento ottico dei caratteri, essa è da intendersi, secondo un’interpretazione ragionevole dell’offerta tecnica, come funzionalità aggiuntiva rispetto alle attività necessarie prescritte dal capitolato e cioè la rilevazione automatica delle infrazioni ai limiti massimi di velocità media di percorrenza, fermo restando che l’ipotetica inidoneità della miglioria indicata dalla controinteressata non determinerebbe l’esclusione dalla procedura selettiva ma al più impedirebbe una valutazione della medesima miglioria da parte del collegio esaminatore (Consiglio di Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1923) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 30.10.2023 n. 1353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Incidente stradale e diritto di accesso agli atti e registrazioni di telefonate all'uopo intercorse.
Sussiste la legittimazione della società ricorrente ad accedere alla documentazione richiesta essendo la stessa correlata all’interesse concreto e attuale della compagnia assicurativa a ricostruire l’esatta dinamica del sinistro denunciato dal proprio assicurato al fine di valutare la sussistenza dei presupposti per l’operatività della copertura assicurativa e la liquidazione del danno al terzo danneggiato, fermo restando che, in un'ottica di equo contemperamento dei contrapposti interessi, in ossequio al principio di proporzionalità e di minimizzazione, la situazione giuridica cui l'accesso è funzionale deve essere soddisfatta con l'esibizione dei documenti contenenti la ricostruzione dei fatti, mentre detta strumentalità è da escludere per quanto attiene a quelle parti della documentazione richiesta contenenti dati sensibili o elementi estranei ai fatti in questione e non necessari alla ricostruzione della dinamica del sinistro.
La documentazione richiesta dalla ricorrente, certamente detenuta dall’Azienda intimata, rientra tra quella suscettibile di accesso di cui all’art. 22, comma 1, lett. d), della L. 241 del 1990, secondo cui costituisce "documento amministrativo" ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale.
---------------

... per l'annullamento
   - del silenzio serbato dall'A.S.S.T. -OMISSIS 2- in ordine all'istanza di accesso inoltrata a mezzo PEC da essa ricorrente in data 23.06.2022 avente ad oggetto “incidente datato 03/05/2022, alle ore 18,30 circa, nel tenimento del Comune di -OMISSIS 4- alla Via -OMISSIS- – Istanza accesso agli atti ex artt. 22 e ss. L. 241/1990 s.m.i.”, nonché l'acquisizione di “copia della trascrizione delle telefonate effettuate a codesta centrale operativa in data 03.05.2022 dalle ore 18:00 alle ore 19:00, con richiesta di intervento e copia del file audio relativo alle stesse telefonate, nonché copie delle schede di intervento del Servizio 118”;
   - del conseguente provvedimento implicito di rigetto, totale o parziale, dell'istanza;
   - nonché per la declaratoria del diritto della ricorrente ad ottenere copia degli atti richiesti con la detta istanza e per la conseguente condanna della resistente al rilascio delle dette copie ovvero del file informatico.
...
7. Il ricorso è fondato.
7.1. Sussiste la legittimazione della società ricorrente ad accedere alla documentazione richiesta all’A.S.S.T. del -OMISSIS 2-, essendo la stessa correlata all’interesse concreto e attuale della compagnia assicurativa a ricostruire l’esatta dinamica del sinistro denunciato dal proprio assicurato al fine di valutare la sussistenza dei presupposti per l’operatività della copertura assicurativa e la liquidazione del danno al terzo danneggiato, fermo restando che, in un'ottica di equo contemperamento dei contrapposti interessi, in ossequio al principio di proporzionalità e di minimizzazione, la situazione giuridica cui l'accesso è funzionale deve essere soddisfatta con l'esibizione dei documenti contenenti la ricostruzione dei fatti, mentre detta strumentalità è da escludere per quanto attiene a quelle parti della documentazione richiesta contenenti dati sensibili o elementi estranei ai fatti in questione e non necessari alla ricostruzione della dinamica del sinistro.
7.2. La documentazione richiesta dalla ricorrente, certamente detenuta dall’Azienda intimata, rientra tra quella suscettibile di accesso di cui all’art. 22, comma 1, lett. d), della L. 241 del 1990, secondo cui costituisce "documento amministrativo" ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale.
7.3. In senso conforme, in relazione a fattispecie analoghe, cfr. TAR Napoli, sez. VI, 14/05/2021, n. 3219; TAR Milano, sez. III, 06/03/2020, n. 446; TAR Cagliari, I, 16.7.2021 n. 545; TAR Bari I, 13.11.2020 n. 1442.
7.4. Il ricorso va pertanto accolto, con la conseguente condanna dell’A.S.S.T. del -OMISSIS 2- a consegnare o a trasmettere via pec alla parte ricorrente, entro giorni trenta dalla comunicazione della presente sentenza, copia della documentazione richiesta con l’istanza di accesso del 23.06.2022, con facoltà peraltro di procedere, con adeguata motivazione, all’oscuramento mediante appositi “omissis” di parti specifiche della documentazione ostesa non direttamente pertinenti alla ricostruzione del sinistro o contenenti dati identificativi o sensibili non pertinenti, ovvero afferenti a soggetti estranei alla vicenda (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 30.10.2023 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Accettazione della proposta di acquisto di un immobile tramite PEC e sorti del contratto.
E’ da considerarsi nulla la conferma di accettazione della proposta via PEC che non contiene -in allegato- il contratto in formato .pdf sottoscritto con firma qualificata o digitale.
Con l’ordinanza 24.07.2023 n. 22012, la Corte di Cassazione, Sez. II civile, si è occupata di firme elettroniche nell’ambito della conclusione di contratti aventi ad oggetto diritti reali immobiliari.
Nel caso di specie, una persona aveva concluso una proposta irrevocabile d’acquisto relativa ad un immobile, tramite agenzia immobiliare.
Il termine di efficacia della proposta irrevocabile era fissato al 27 aprile successivo.
In data 22 aprile, il venditore destinatario della proposta inviava sia una e-mail sia un telegramma al potenziale acquirente, comunicando che la proposta di acquisto era stata accettata, senza tuttavia inviare il testo del contratto debitamente sottoscritto.
Scaduto il termine del 27 aprile senza aver ricevuto il contratto controfirmato, il proponente acquirente si riteneva libero e svincolato dalla proposta, e rifiutava di corrispondere la provvigione al mediatore immobiliare, ritenendo che nessun affare potesse dirsi concluso.
L’agenzia immobiliare agiva allora per il pagamento della propria provvigione, e su tale domanda si innesta la valutazione dei giudici circa il perfezionamento del contratto.
L’agenzia immobiliare sosteneva che il contratto dovesse dirsi regolarmente perfezionato con l’invio della e-mail e del telegramma comunicanti l’accettazione, sebbene la firma sul contratto fosse stata apposta per accettazione dal venditore dopo la scadenza del convenuto termine di efficacia della proposta.
Nel dichiarare inammissibile il ricorso, la Cassazione ha comprensibilmente confermato la sentenza della Corte di Appello, e cioè che, avendo ad oggetto diritti reali immobiliari, il contratto avrebbe dovuto avere la forma scritta a pena di nullità ai sensi dell’art. 1350 del Codice Civile.
Nel caso di specie, l’accettazione (o la conferma dell’accettazione) trasmessa via e-mail o via telegramma non hanno integrato il requisito della forma scritta.
L’e-mail di posta elettronica certificata, infatti, non conteneva in allegato il contratto in formato .pdf sottoscritto con firma qualificata o digitale, sottoscrizione richiesta dall’art. 20 del Codice dell’Amministrazione Digitale ai fini della validità dei contratti aventi ad oggetto diritti reali immobiliari.
Il semplice testo contenuto nel messaggio di PEC, infatti, non può dirsi sottoscritto con firma digitale o qualificata.
Anche il telegramma, pur costituendo un documento scritto, è privo della sottoscrizione del mittente, e dunque è inidoneo a integrare una valida accettazione di un contratto avente ad oggetto un bene immobile.
Di conseguenza, le accettazioni trasmesse via e-mail e telegramma devono considerarsi nulle, mentre l’eventuale accettazione intervenuta dopo la scadenza del termine di efficacia della proposta dovrà considerarsi inefficace.
L’inefficacia dell’accettazione si ripercuote sul diritto dell’agente immobiliare di ottenere la provvigione per l’intermediazione svolta.
Secondo la Cassazione richiamata, quindi, in mancanza di valido contratto concluso tra le parti intermediate, l’affare non può dirsi concluso, e nessuna provvigione sarà dovuta al mediatore (articolo NT+Diritto del 20.09.2024).
---------------
ORDINANZA
4. Il primo motivo del ricorso di Ma.Ga. deduce la “violazione – falsa applicazione dell’art. 21, comma 1, d.lgs. n. 82/2005, dell’art. 1, comma 1-bis, del d.lgs. n. 82/2005, con l’art. 3, numero 10), dell’art. 20, comma 1-bis, d.lgs. n. 82/2005 così come introdotto dal d.lgs. n. 217/2017, dell’art. 3, n. 10, regolamento UE n. 910/2014, dell’art. 2702 c.c., dell’art. 1351 c.c. in relazione all’art. 1350 c.c.”.
Si critica nella censura il ragionamento compiuto dalla Corte d’appello di Genova quanto al valore attribuibile al messaggio di posta elettronica inviato da Al.Gi. all’indirizzo di posta elettronica ...@fiaip.it il 22.04.2008, alle ore 15.53.
La ricorrente principale espone che:
   a) “l’accettazione della proposta contrattuale formulata tramite messaggio di posta elettronica privo di firma qualificata assolve il requisito della forma scritta, deve essere riconosciuto come scrittura privata ai sensi dell’art. 2702 c.c. ed è quindi idoneo a determinare la valida conclusione del contratto”;
   b) “l’e-mail è da considerare, a tutti gli effetti, un documento informatico sottoscritto con firma elettronica semplice, soddisfa la forma scritta, ed è liberamente valutabile dal giudice per ciò che concerne il suo valore probatorio, ai sensi degli artt. 20, comma 1-bis e 21, comma 1, d.lgs. 82/2005”;
   c) “dell’intervenuta accettazione Ma.Ga. diede notizia al proponente Ro.Co. con telegramma del 23.04.2008 … il profilo relativo alla sufficienza della comunicazione dell’accettazione della proposta da parte del nuncius non è stato neppure esaminato dalla Corte d’Appello in quanto ritenuto assorbito dal profilo presupposto dell’invalidità dell’accettazione della proposta”;
   d) “dunque, poiché, per le ragioni sopra esposte, l’accettazione formulata con il messaggio di posta elettronica del 22.04.2008 soddisfa il requisito della forma scritta ed è da considerare quale scrittura privata ai sensi dell’art. 2702 c.c. e la conoscenza dell’accettazione da parte del proponente è stata acquisita il 23.04.2008 in virtù del telegramma inviato da Ma.Ga. a Ro.Co. in tale data, pacificamente l’affare (idoneo a determinare il sorgere del diritto alla provvigione di mediazione ex artt. 1754 e 1755 c.c.) si è tempestivamente concluso”.
...
5.1. Il primo motivo, in particolare, è complessivamente carente di specifica riferibilità alla integrale ratio decidendi della sentenza impugnata e perciò risulta inidoneo a poterne giustificare la cassazione, agli effetti dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c.
Ciò assorbe l’eccezione dei controricorrenti di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., con riguardo, cioè, alla specifica indicazione degli atti e dei documenti su cui si fondano le censure della ricorrente principale.
5.2. Deve aversi riguardo alla parte della sentenza d’appello che ha statuito: “il messaggio di posta elettronica (nel caso concreto inviato da Gi.Al. il 22.04.2008, alle ore 15.53, all'indirizzo di posta elettronica dell'Agenzia Immobiliare ... [...@fiaip.it], recante il seguente testo: Gent.ma Sig.ra Ma., accettiamo la proposta del sig. Co.. Resto in attesa di un suo cenno. Cordiali saluti. Al.Gi.), non costituisce valida manifestazione di accettazione della proposta d'acquisto formulata da Ro.Co., datata 19.04.2008”.
La ricorrente principale si sofferma esclusivamente sulla idoneità dell’accettazione della proposta contrattuale formulata tramite messaggio di posta elettronica privo di firma qualificata ad assolvere il requisito della forma scritta, ex artt. 1350 e 1351 c.c.
Già questa conclusione è resistita dalla considerazione che, a norma dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale), vigente all’epoca dei fatti di causa, “[i]l documento informatico sottoscritto con firma elettronica qualificata o con firma digitale, formato nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi dell'articolo 71, che garantiscano l'identificabilità dell'autore, l'integrità e l'immodificabilità del documento, si presume riconducibile al titolare del dispositivo di firma ai sensi dell'articolo 21, comma 2, e soddisfa comunque il requisito della forma scritta, anche nei casi previsti, sotto pena di nullità, dall'articolo 1350, primo comma, numeri da 1 a 12 del codice civile”; mentre poi l’art. 21, comma 2-bis (come sostituito dal d.lgs. n. 235 del 2010, e successivamente modificato dal d.l. n. 179 del 2012, dal d.lgs. n. 179 del 2016 e dal d.lgs. n. 217 del 2017) ha disposto che “[s]alvo il caso di sottoscrizione autenticata, le scritture private di cui all'articolo 1350, primo comma, numeri da 1 a 12, del codice civile, se fatte con documento informatico, sono sottoscritte, a pena di nullità, con firma elettronica qualificata o con firma digitale. Gli atti di cui all’articolo 1350, numero 13) del codice civile redatti su documento informatico o formati attraverso procedimenti informatici sono sottoscritti, a pena di nullità, con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale ovvero sono formati con le ulteriori modalità di cui all'articolo 20, comma 1-bis, primo periodo”.
Viceversa, il messaggio di posta elettronica (cd. e-mail) privo di firma elettronica non ha l'efficacia della scrittura privata prevista dall'art. 2702 c.c. quanto alla riferibilità al suo autore apparente, attribuita dal Codice dell'amministrazione digitale solo al documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale (Cass. Sez. 6 - 2, n. 11606 del 2018; Sez. lav., n. 5523 del 2018).
E la sottoscrizione costituita dalla firma del dichiarante, cioè dal nome e cognome scritti di suo pugno o quantomeno da una sigla caratteristica ed identificabile, ovvero, in caso di documento informatico, dalla firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, rappresenta l'espressione grafica della paternità ed impegnatività della dichiarazione che la precede, la quale in mancanza non comporta la conclusione definitiva di un negozio giuridico allorché la forma scritta sia richiesta ad substantiam.
Pertanto, una e-mail che contenga espressioni generiche di consenso (nella specie: accettiamo la proposta del sig. Co.. Resto in attesa di un suo cenno), ma sia priva della firma elettronica avanzata, qualificata o digitale dei promittenti, non integra l'atto scritto richiesto dagli artt. 1350 e 1351 c.c.
5.3. Ciò detto sulla forma del contratto, i rilievi della ricorrente principale neppure affrontano i problemi di contenuto essenziale dello stesso.
5.3.1. E’ infatti noto che il diritto del mediatore alla provvigione sorge allorché la conclusione dell'affare abbia avuto luogo per effetto dell'intervento del mediatore stesso, e cioè quando tale conclusione possa comunque ricollegarsi con rapporto di causalità adeguata all'attività mediatrice.
A tal fine, non basta allegare per prospettare la conclusione dell’affare tra Ro.Co. e i promittenti l’accettazione da parte di questi ultimi della proposta di acquisto sottoscritta dal promissario compratore.
Infatti, per poter ravvisare la conclusione dell'affare, quale fonte del diritto della mediatrice alla provvigione, non basta accertare la sottoscrizione della proposta irrevocabile d’acquisto da parte dell'aspirante acquirente, che offre un certo corrispettivo per l'acquisto del bene, e nemmeno riscontrare che vi sia stata la conforme accettazione del proprietario, che pur abbia dato luogo ad una puntuazione vincolante sui profili in ordine ai quali l'accordo è irrevocabilmente raggiunto, e valga perciò a configurare un “preliminare di preliminare”, secondo quanto spiegato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 4628 del 2015.
Questa Corte ha piuttosto già chiarito che, al fine di riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione, l'affare può ritenersi concluso soltanto quando tra le parti poste in relazione dal mediatore medesimo si sia costituito un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire per l’esecuzione specifica del negozio, nelle forme di cui all'art. 2932 c.c., ovvero per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del risultato utile del negozio programmato (Cass. Sez. 2, n. 30083 del 2019; Sez. 2, n. 39377 del 2021; Sez. 2, n. 15559 del 2022; Sez. 2, n. 15577 del 2022; Sez. 2, n. 17396 del 2022; Sez. 2, n. 20132 del 2022; Sez. 2, n. 24533 del 2022; Sez. 6-2, n. 28879 del 2022; Sez. 2, n. 7628 del 2023).
Non risulta quindi nemmeno prospettata dalla ricorrente principale una “conclusione dell’affare” agli effetti dell’art. 1755 c.c., ovvero l'incontro della volontà delle parti diretto a creare il vincolo giuridico costituito dall'assunzione dell'impegno alla futura stipula del contratto definitivo in base agli elementi essenziali individuati.

AGGIORNAMENTO AL 26.09.2024

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: La vicinitas inerisce alla legittimazione a ricorrere e non può assorbire l’interesse a ricorrere.
---------------
Come chiarito dall’Adunanza plenaria del 09.12.2021, n. 22 (oggetto della News UM n. 94 del 23.12.2021), la vicinitas non assorbe l'interesse a ricorrere; per tale ragione, in assenza di un tale interesse, la domanda proposta sulla base della mera vicinitas va dichiarata inammissibile.
La rilevanza processuale della vicinitas va, infatti, sotto il profilo sistematico, ricondotta alla legittimazione a ricorrere che, in quanto tale, non può assorbire l’ulteriore condizione dell’azione costituita dall'interesse a ricorrere.
In proposito, l’Adunanza plenaria ha chiarito che la vicinitas comporta una sorta di presunzione dell'interesse a ricorrere e di conseguenza la necessità di allegazioni ulteriori o di prova in merito a tale interesse si configureranno soltanto in presenza di contestazioni delle parti o di richieste di chiarimenti del giudice.
Ne discende che allorquando ricorre la fattispecie della c.d. vicinitas, la verifica dell'interesse a ricorrere assume normalmente una rilevanza in termini negativi: di interesse a ricorrere si tratta essenzialmente quando ne sia esclusa o contestata la sussistenza
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.09.2024 n. 7371 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
2. Il motivo non è fondato.
2.1. Reputa il Collegio che la sentenza di inammissibilità emessa dal giudice di primo grado meriti di essere integralmente confermata sulla base dell’applicazione al caso di specie delle coordinate poste dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 09.12.2021, n. 22.
Nella decisione in esame, l’Adunanza Plenaria ha chiarito che la vicinitas non assorbe l'interesse a ricorrere e che, per tale ragione, in assenza di un tale interesse, la domanda proposta sulla base della mera vicinitas va dichiarata inammissibile.
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, in particolare, la rilevanza processuale della vicinitas va, infatti, sotto il profilo sistematico, ricondotta alla legittimazione a ricorrere. Una volta chiarito che la vicinitas inerisce alla legittimazione a ricorrere e, in quanto tale, non può assorbire l’ulteriore condizione dell’azione costituita dall'interesse a ricorrere.
In proposito, l'Adunanza Plenaria, nella sentenza in esame, ha chiarito che la vicinitas comporta una sorta di presunzione dell'interesse a ricorrere e di conseguenza la necessità di allegazioni ulteriori o di prova in merito a tale interesse si configureranno soltanto in presenza di contestazioni delle parti o di richieste di chiarimenti del giudice, Ne discende che allorquando ricorre la fattispecie della c.d. vicinitas, la verifica dell'interesse a ricorrere assume normalmente una rilevanza in termini negativi: di interesse a ricorrere si tratta essenzialmente quando ne sia esclusa o contestata la sussistenza.
2.2. Ciò posto, reputa il Collegio che la sentenza impugnata ha fatto, in relazione al caso sottoposto al suo esame, un buon governo dei suesposti principi.
Al riguardo, occorre sottolineare la circostanza per cui, nel corso del giudizio di primo grado, l’interesse al ricorso di Ir. era stato formalmente contestato dal Comune resistente.
L’esaminata decisione dell’Adunanza Plenaria ha chiarito che, in caso di contestazione dell’interesse al ricorso, che la verifica in ordine alla sussistenza dell’interesse al ricorso va condotta “pur sempre sulla base degli elementi desumibili dal ricorso, e al lume delle eventuali eccezioni di controparte o dei rilievi ex officio”.
2.3. Alla luce di tali coordinate, occorre rilevare che nel ricorso introduttivo la Ir. si è limitata a richiamare, a sostegno del proprio interesse ad agire, il fatto di essere proprietaria dei mappali n. 439 e 440 posti all’interno del perimetro della UA1.1 interessata dell’intervento contestato, ma tale profilo attiene esclusivamente alla condizione della legittimazione a ricorrere (c.d. vicinitas) e non dimostra, di per sé, l’esistenza anche dell’interesse concreto ad agire, da intendersi quale utilità concreta che la società potrebbe trarre dalla caducazione del titolo impugnato.
2.4. Né, sotto questo profilo, può rilevare, per giungere a diverse conclusioni, la circostanza, evidenziata dalla parte appellante al precedente punto 1.1., secondo cui il concetto di vicinitas dovrebbe rilevare solo allorquando l'immobile di proprietà della parte ricorrente, contrariamente al caso di che trattasi, sia esterno all'area del contestato intervento, posto che tale rilievo, anche a volere prescindere dalla sua fondatezza, non appare conducente, avendo la sentenza di primo grado argomentato la pronuncia di inammissibilità non in base all’assenza della condizione dell’azione costituita dalla legittimazione ad agire, ma di quella inerente all’interesse concreto ad agire, la quale, in ogni caso, non può ritenersi sussistente in re ipsa.
2.5. Tanto premesso, rileva il Collegio che, sul piano della dimostrazione dell’interesse concreto a ricorrere, la Ir. si è limitata a dedurre, sulla base delle risultanze della menzionata relazione tecnica del 31.05.2022 (come successivamente aggiornata in data 24.08.2022) che il livello del fabbricato della società controinteressata, le scelte costruttive relative agli invasi di laminazione per la raccolta delle acque meteoriche e il posizionamento della riserva di acqua destinata all’impianto antincendio, sarebbero tali da comportare il rischio di un allagamento delle aree circostanti poste ad un livello inferiore, come quella di Ir..
Ebbene, reputa il Collegio, conformemente a quanto puntualmente rilevato dal giudice di prime cure, che il danno prospettato dalla parte appellante a sostegno del suo concreto interesse al ricorso non appare riconducibile con sufficiente grado di probabilità ai manufatti contestati.
2.6. Contrariamente a quanto assume la società appellante, in relazione alla condizione dell’azione costituita dall’interesse al ricorso, non può reputarsi sufficiente articolare, come ha fatto l’odierno appellante, puntuali contestazioni in relazione all’edificio contestato, laddove non accompagnate dall’allegazione di puntuali pregiudizi connessi all’intervento autorizzato.
In particolare, in una fattispecie almeno in parte sovrapponibile a quella in esame, con la decisione 14.09.2023, n. 8327, la Sezione ha già avuto modo di chiarire che non è sufficiente, ai fini della dimostrazione dell’interesse al ricorso, l’articolazione di puntuali contestazioni in relazione all’edificio contestato, laddove non accompagnata, proprio come nella fattispecie di che trattasi, dalla dimostrazione di un pregiudizio concreto e soprattutto causalmente riconducibile all’intervento edilizio contestato.
2.7. Nemmeno coglie nel segno l’ulteriore sub motivo con il quale la società appellante lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ulteriormente escluso la sussistenza dell’interesse ad agire in capo in base al rilievo della mancata dimostrazione della concreta possibilità di ottenere il risultato sperato attraverso l'annullamento del titolo impugnato, per la sussistenza di violazioni non sanabili.
In senso contrario occorre, infatti, considerare che la sentenza impugnata si fonda su due autonome rationes decidendi poste a fondamento della rilevata inammissibilità: la prima, già analizzata e ritenuta corretta, argomenta la decisione di inammissibilità del ricorso in base all’assunto della mancata allegazione, da parte della società ricorrente, di un pregiudizio concreto discendente dall’intervento edilizio della società controinteressata; la seconda, invece, trae argomento dalla mancata dimostrazione, da parte della società ricorrente, della concreta possibilità di ottenere il risultato sperato attraverso l'annullamento del titolo impugnato, per la sussistenza di violazioni non sanabili.
Ne discende che, anche a prescindere dalla fondatezza della questione relativa all’applicazione dell’istituto di cui all’art. 21-octies, comma 2, legge 241/1990, ai vizi infaprocedimentali e non anche ai rapporti tra provvedimenti connessi, resterebbe comunque l’onere a carico della parte appellante di superare anche l’ulteriore ratio decidendi della sentenza, che è invece, per le ragioni esposte, è certamente conforme al consolidato orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.09.2024 n. 7371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La vicinitas non è sufficiente a dimostrare l’interesse a ricorrere, per il quale è necessaria l’allegazione di pregiudizi derivanti dall’atto impugnato.
---------------
Il criterio della vicinitas (nella sua duplice, ancorché in parte differente, declinazione di “vicinitas edilizia” e “vicinitas commerciale”) è idoneo al più a radicare la legittimazione attiva, ma non anche l’interesse a ricorrere, per cui è necessaria l’allegazione, quantomeno in astratto, di pregiudizi causalmente riconducibili al provvedimento impugnato.
In motivazione, la sezione ha rilevato che il principio in questione, affermato dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 22 del 2021 (oggetto della News UM n. 94 del 23.12.2021), risulta confermato anche ad una compiuta disamina della più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale ribadisce l’autonomia tra la legittimazione ad agire e l’interesse a ricorrere, per la cui prova è necessario ancorché sufficiente l’allegazione in astratto di pregiudizi connessi al provvedimento impugnato
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.08.2024 n. 7146 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
8. Relativamente a ciascuna di queste circostanza che secondo l’appellante dovrebbe comprovare la sussistenza della legittimazione e dell’interesse a ricorrere il Collegio osserva quanto segue.
8.1. Quanto al criterio della mera vicinitas (nella sua duplice, ancorché in parte differente, declinazione di “vicinitas edilizia” e “vicinitas commerciale”), va puntualizzato che mentre esso sarebbe teoricamente idoneo a comprovare la sussistenza della legittimazione a ricorrere non può di certo affermarsi altrettanto con riferimento all’interesse a ricorrere.
Contrariamente a quanto affermato, la vicinitas non costituisce, infatti, in ogni caso un criterio sufficiente a integrare l’interesse ad agire.
I principi espressi dall’Adunanza plenaria hanno infatti chiarito che il criterio della vicinitas è idoneo al più a radicare la legittimazione attiva, ma non anche l’interesse a ricorrere (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 09.12.2021, n. 22).
8.1.1. A tale riguardo il Collegio non ritiene persuasive le allegazioni di parte appellante, che deduce che nella giurisprudenza della Corte di cassazione il criterio della vicinitas costituirebbe un elemento idoneo ad integrare sia la legittimazione che l’interesse a ricorrere.
8.1.2. Anche di recente, infatti, la Corte di cassazione ha adoperato il criterio in questione, mera “formula riassuntiva” (così Cons. Stato, sez. IV, 29.12.2023 n. 11367, §. 27.2, pronunzia della Sezione che ha affrontato un delicato caso di vicinitas commerciale, raffrontata alla tutela della concorrenza e alla salvaguardia dei c.d. bacini di mercato) di individuazione della sussistenza di una posizione legittimante, distinguendolo dalla differente condizione dell’azione costituita dall’interesse a ricorrere, anche nel solco di quanto indicato dalla citata pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 21/2022.
Difatti, secondo la Corte di cassazione “Riallacciandosi all'arresto di Cass. Sezz. U. civili 27.08.2019 n. 21740, reso proprio sul ricorso degli odierni ricorrenti avverso la precedente decisione del Tribunale Superiore delle Acque, queste Sezioni Unite hanno di recente rilevato che la legittimazione dei proprietari di immobili o dei residenti in un'area interessata da un intervento idraulico ad impugnare atti amministrativi incidenti sull'ambiente (in quanto opere riguardanti acque pubbliche) può fondarsi anche sul solo requisito della vicinitas, il quale costituisce elemento di differenziazione di interessi qualificati, appartenenti ad una pluralità di soggetti facenti parte di una comunità identificata in base ad un prevalente criterio territoriale che evolvono in situazioni giuridiche tutelabili in giudizio, allorché l'attività conformativa dell'Amministrazione incida in un determinato ambito geografico, modificandone l'assetto nelle sue caratteristiche non soltanto urbanistiche, ma anche paesaggistiche, ecologiche e di salubrità; si è tuttavia rimarcata la necessità che detta attività venga nel contempo denunciata come foriera di rischi per la salute, senza che occorra la prova puntuale della concreta pericolosità dell'opera, né la ricerca di un soggetto collettivo che assuma la titolarità della corrispondente situazione giuridica (Cass. Sezz. U. civili 30.06.2021 n. 18493).
Ciò consente di individuare due distinti profili di ammissibilità dell'impugnazione, che costituiscono il riflesso di differenti condizioni dell'azione: quello della legittimazione e quello dell'interesse ad agire.
La distinzione e l'autonomia tra la legittimazione e l'interesse al ricorso quali condizioni dell'azione è stata riaffermata pochi mesi or sono dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con riferimento al caso dell'impugnazione del titolo autorizzatorio edilizio. Nell'occasione si è detto esser necessario che il giudice accerti, anche d'ufficio, la sussistenza di entrambi e non potersi affermare che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo e in automatico a dimostrare la sussistenza dell'interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall'atto impugnato (Cons. St. Ad. Plen. 09.12.2021, n. 22)
” (Cass. civ., Sez. unite, ord. 30.06.2022 n. 20869; cfr. anche Cass. civ., Sez. Unite, ord. 19.03.2024 n. 7326).
8.1.3. L’appellante, invero, evidenzia l’esistenza di un orientamento della Corte di cassazione che accoglie una nozione più ampia di “vicinitas”, in ragione del quale tale “formula riassuntiva” “è, invero, sufficiente al fine di radicare la legittimazione attiva e l'interesse a ricorrere avverso la realizzazione di un'opera, senza che occorra la prova puntuale della concreta pericolosità della stessa” (Cass. civ., ord. 30.06.2021 n. 18493).
Questo principio di diritto risulta rimarcato anche in altre pronunce (Cass. civ., ord. 18.01.2024 n. 2000; ord. 19.03.2024 n. 7326).
In verità tutte queste pronunzie, ad avviso del Collegio, non risultano difformi, nella sostanza, dall’orientamento della citata sentenza n. 22/2021 dell’Adunanza plenaria, che ha affermato come “nella realtà dei fatti e nella dinamica dei giudizi la riflessione sulla legittimazione proceda non disgiunta da quella dell'interesse e siano entrambe fortemente condizionate dalla situazione concreta allegata dalle parti e ricavabile dagli atti di causa” (sentenza, quella della Plenaria, espressamente richiamata dall’ordinanza della Cassazione n. 7326/2024).
Inoltre, nelle pronunce messe in evidenza, all’affermazione “in astratto” del principio, si accompagna anche l’affermazione che la prova del pregiudizio (che, dunque, deve sussistere) non debba essere fornita “in concreto” (ma, evidentemente, rimanere in punto di allegazione) e l’ulteriore puntualizzazione che, nel caso oggetto dello scrutinio di legittimità, gli interessati avessero allegato, nei precedenti gradi di merito, un pregiudizio riconnesso alle opere oggetto dei provvedimenti impugnati (in Cass. civ., n. 2000/2024, cit., si evidenzia che “la società V.C. aveva indicato in modo chiaro quale fosse il proprio diretto interesse (oppositivo) rispetto alla realizzazione dell'opera in questione, collegato alla circostanza, del tutto pacifica, per cui essa svolge un'attività commerciale e turistica di navigazione lagunare che, almeno potenzialmente, potrebbe subire un negativo contraccolpo dall'esecuzione dell'opera stessa”;
   in Cass. civ., n. 7326/2024, cit., si evidenzia che i ricorrenti sono titolari di un ristorante “sito "nei pressi immediati (appena una decina di metri!) dell'area di localizzazione della nuova centrale idroelettrica su torrente Sorba", [e] assumono che proprio tale situazione fattuale concreterebbe, ai fini della impugnazione, una relazione qualificata con un territorio fluviale "di singolare e delimitata amenità ambientale.”;
   in Cass. civ., n. 18493/2021, cit., si evidenzia che “…i ricorrenti [hanno] altresì allegato le paventate conseguenze dannose scaturenti, sotto il profilo della salute e dell'ambiente, dall'attuazione degli impugnati provvedimenti.”; quest’ultima pronuncia rinvia, inoltre, al precedente costituito da Cass. civ., Sez. unite, 27.08.2019 n. 21740, evidenziando che in questo pronuncia la vicinitas viene considerata “sufficiente al fine di radicare la legittimazione attiva e l'interesse a ricorrere avverso la realizzazione di un'opera, senza che occorra la prova puntuale della concreta pericolosità della stessa…”, ma va evidenziato, però, che, nella medesima pronuncia, si afferma altresì che: “è sufficiente osservare che nella fattispecie i ricorrenti avevano specificamente contestato, per quel che concerneva il profilo della salute e dell'ambiente, che nella parte del S.I.A. dedicata ai rischi per la salute il problema non era stato minimamente preso in considerazione, così come nella relazione alla V.I.A., indicando nel dettaglio le conseguenze dannose derivanti da tale situazione, con ampio richiamo alla documentazione tecnica versata in atti a sostegno del loro assunto difensivo”).
Dunque, ricapitolando, dal richiamato orientamento si trae che, almeno in astratto, a livello di mere allegazioni risulta sufficiente ad integrare l’interesse ad agire l’affermazione di pregiudizi causalmente riconducibili al provvedimento impugnato.
8.1.4. Nel caso in esame, invece, preme evidenziare che gli effetti pregiudizievoli allegati dalla società appellante, in base alle allegazioni di parte, non discendono né dal provvedimento impugnato (un atto di indirizzo a stipulare un accordo ex art. 11 legge n. 241/1990) né dalla conseguente convenzione (che prevede, in esecuzione della delibera comunale, la previsione di nuovi parcheggi, la rimodulazione della gestione delle modalità di esercizio delle attrezzature sportive presenti nella proprietà La Co. e la sostanziale riallocazione delle aree asservite che non sarebbero più quelle che riguardano la “Club house”), mentre paiono riconnettersi all’attività commerciale già svolta dalla società “La Co.” e ai precedenti provvedimenti che hanno autorizzato la realizzazione degli impianti sportivi nell’area, così come statuito dal Tar, con motivazione che si configura immune da vizi logici e giuridici.
Conseguentemente, dalle allegazioni di parte non emerge alcuna lesione dell’interesse legittimo di parte appellante inferto dai provvedimenti impugnati, tale da configurare la sussistenza del necessario interesse a ricorrere.
8.2. Nello specifico, quanto ai profili collegati alla concorrenza, argomentata dall’appellante in ragione dell’offerta di analoghi servizi nelle due strutture, non risulta comprensibile come una deliberazione consiliare che ha ad oggetto l’aumento dei parcheggi in uso alle due strutture, la rimodulazione dei servizi gratuiti offerti dalla società “La Co.” e la diversa allocazione delle aree asservite ad uso pubblico all’interno dell’area di proprietà di quest’ultima possano incidere in senso pregiudizievole sulla posizione imprenditoriale ed economica della società appellante, la quale non spiega con la dovuta specificità in che modo gli effetti dell’atto amministrativo e della convenzione stipulata saranno illegittimamente pregiudizievoli rispetto alla sua attività.
In punto di diritto, va ribadito che “la legittimazione al ricorso non può di certo configurarsi allorquando l'instaurazione del giudizio appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi, di mero fatto o contra ius, siccome volti nella sostanza a contrastare la libera concorrenza e la libertà di stabilimento” (Cons. Stato, sez. IV 29.03.2018 n. 1977, ripresa da Cons. Stato, sez. IV, n. 11367 del 2023, cit.).
Inoltre, “la prova del pregiudizio derivante dall’insediamento della nuova impresa che si vuol contestare debba esser data in modo rigoroso, senza che esso si possa presumere, e che si debba trattare di un pregiudizio significativo” (Cons. Stato, sez. IV, 05.09.2022 n. 7704).
In applicazione di questi principi, muovendo dall’assunto di parte secondo cui il pregiudizio per la società So. deriverebbe dalla gestione di impianti sportivi comuni da parte delle due società, il Collegio rileva che i suddetti “impianti comuni” preesistono agli atti impugnati in quanto, come affermato nell’appello, la società “La Co.” ha realizzato nell’anno 2006 la piscina scoperta e nell’anno 2009 i campi da beach soccer e beach volley.
La concorrenza subita dall’appellante ad opera dalla confinante società “La Co.” scaturisce, dunque, dalla realizzazione di questi impianti che l’appellante assume essere avvenuta “pur in carenza di qualsivoglia previsione contenuta nella menzionata Convenzione 2001 o sue varianti”, mentre non viene chiarito in che modo la convenzione e l’atto che ne autorizza la stipulazione influenzerebbero, in maniera pregiudizievole ed illegittima, la concorrenza fra le due società.
Conseguentemente, la pronuncia di primo grado è corretta quando assume che non è stata fornita alcuna “dimostrazione” e, in verità, prima ancora alcuna allegazione, anche “in astratto” e “meramente potenziale”, su quali effetti pregiudizievoli dispiegherebbero gli atti impugnati nei confronti della società che li impugna (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.08.2024 n. 7146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Chi impugna un titolo autorizzatorio deve provare che l'intervento assentito gli arreca un pregiudizio diretto, concreto e attuale, non essendo sufficiente la sola vicinitas.
Per pacifica giurisprudenza, in materia di impugnazione di titoli edilizi, ai fini della legittimatio ad causam non è sufficiente il criterio della vicinitas, dovendo esso essere corroborato dalla prova del danno che la parte ricorrente assume derivi dagli atti impugnati.
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, chiamata a pronunciarsi sulla sufficienza del criterio della vicinitas per l’impugnazione dei titoli edilizi, ha formulato i seguenti principi di diritto:
   a) Nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione ad agire e l’interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo e in automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall’atto impugnato;
   b) L’interesse al ricorso correlato allo specifico pregiudizio derivante dall’intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo può comunque ricavarsi dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso;
   c) L’interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d'ufficio dal giudicante.
Come evidenziato dalla Adunanza Plenaria, ai fini della domanda di annullamento dei titoli edilizi, debbono ricorrere contestualmente, quali condizioni dell’azione, sia la legittimazione ad agire, che l’interesse a ricorrere.
Se il criterio della vicinitas rileva quale elemento di individuazione della legittimazione ad agire, in quanto consente di individuare il titolare di una posizione giuridica soggettiva qualificata e differenziata, con esso deve concorrere, ai fini della ammissibilità della domanda, l’interesse ad agire, inteso quale pregiudizio diretto, concreto e attuale derivante dalla adozione dei titoli edilizi contestati.
Questa Sezione ha avuto modo di precisare che, una volta affermata la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione ad agire e l’interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, costituente elemento fisico-spaziale quale stabile collegamento tra un determinato soggetto e il territorio o l’area sul quale sono destinati a prodursi gli effetti dell’atto contestato, valga da solo e in automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall'atto impugnato.
Anche in termini solamente eventuali o potenziali l’interesse postula che il pregiudizio arrecato dal provvedimento gravato sia effettivo, nel senso che dall’esecuzione dello stesso deve discendere in via immediata e personale un danno certo alla sfera giuridica del ricorrente, ovvero potenziale, nel senso, però, che la lesione si verificherà in futuro con un elevato grado di certezza.
---------------

7. Passando all’esame del primo motivo del ricorso in appello, concernente il capo di sentenza che ha dichiarato l’inammissibilità della domanda di annullamento degli atti impugnati, per difetto di interesse, il Collegio ritiene che le conclusioni del giudice di primo grado debbano essere confermate.
7.1. Per pacifica giurisprudenza, in materia di impugnazione di titoli edilizi, ai fini della legittimatio ad causam non è sufficiente il criterio della vicinitas, dovendo esso essere corroborato dalla prova del danno che la parte ricorrente assume derivi dagli atti impugnati.
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 09.12.2021 n. 22), chiamata a pronunciarsi sulla sufficienza del criterio della vicinitas per l’impugnazione dei titoli edilizi, ha formulato i seguenti principi di diritto:
   a) Nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione ad agire e l’interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo e in automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall’atto impugnato;
   b) L’interesse al ricorso correlato allo specifico pregiudizio derivante dall’intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo può comunque ricavarsi dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso;
   c) L’interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d'ufficio dal giudicante.
7.2. Tanto premesso, non può essere condivisa la tesi della parte appellante, secondo la quale “la vicinitas assorba in sé anche il profilo dell’interesse…. richiedendo la prova in concreto di un danno patrimoniale effettivo, da un lato si addossa al ricorrente un onere probatorio che spesso può rivelarsi “diabolico”, dall’altro si confonde la prova in concreto del danno, che consente l’azione risarcitoria, con la prospettazione che sorregge la condizione dell’azione” (pag. 12 dell’atto di appello).
7.3. Come evidenziato dalla Adunanza Plenaria, ai fini della domanda di annullamento dei titoli edilizi, debbono ricorrere contestualmente, quali condizioni dell’azione, sia la legittimazione ad agire, che l’interesse a ricorrere.
Se il criterio della vicinitas rileva quale elemento di individuazione della legittimazione ad agire, in quanto consente di individuare il titolare di una posizione giuridica soggettiva qualificata e differenziata, con esso deve concorrere, ai fini della ammissibilità della domanda, l’interesse ad agire, inteso quale pregiudizio diretto, concreto e attuale derivante dalla adozione dei titoli edilizi contestati.
7.4. Questa Sezione ha avuto modo di precisare che, una volta affermata la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione ad agire e l’interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, costituente elemento fisico-spaziale quale stabile collegamento tra un determinato soggetto e il territorio o l’area sul quale sono destinati a prodursi gli effetti dell’atto contestato, valga da solo e in automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall'atto impugnato (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 5916/2022).
Anche in termini solamente eventuali o potenziali l’interesse postula che il pregiudizio arrecato dal provvedimento gravato sia effettivo, nel senso che dall’esecuzione dello stesso deve discendere in via immediata e personale un danno certo alla sfera giuridica del ricorrente, ovvero potenziale, nel senso, però, che la lesione si verificherà in futuro con un elevato grado di certezza (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.06.2006, n. 3947) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.04.2024 n. 3931  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: articolo 27 del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81, recante “Sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi tramite crediti” – D.M. 18.09.2024 n. 132 – prime indicazioni (Ispettorato Nazionale del Lavoro, circolare 23.09.2024 n. 4 nonché relativo allegato).
---------------
Il decreto-legge 02.03.2024, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.04.2024, n. 56 ha, tra l’altro, modificato l’art. 27 del D.lgs. n. 81/2008 introducendo la c.d. patente a crediti nei cantieri temporanei o mobili.
La relativa disciplina è oggi contenuta, oltre che nella citata disposizione, anche nel D.M. recentemente pubblicato nella G.U. n. del 20.09.2024, il quale demanda a questo Ispettorato la definizione di diversi profili applicativi concernenti il rilascio e la gestione della patente.
Al riguardo, acquisito il parere dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che si è espresso con nota prot. n. 8642 del 20.09.2024, si forniscono le prime indicazioni. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Oggetto: vigilanza imprese agrituristiche – corretto inquadramento (Ispettorato Nazionale del Lavoro, nota 16.07.2024 n. 5486 di prot.).
---------------
D’intesa con la Direzione centrale coordinamento giuridico, nonché con INPS e INAIL, si pone all’attenzione di codesti Uffici la necessità, nell’ambito degli accertamenti nei confronti delle imprese agrituristiche e del relativo inquadramento, di tenere conto delle diverse fonti normative che insistono in materia, al fine di una maggiore completezza istruttoria e, conseguentemente, al fine di evitare possibili contenziosi.
In materia di inquadramento delle imprese agrituristiche questo Ispettorato, con circ. n. 1 dell’11.03.2020, ha ricordato gli orientamenti della Corte di Cassazione (tra le altre, Cass. sent. n. 11076/2006, n. 10905/2011 e n. 16685/2015), secondo i quali le attività di coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento di bestiame devono comunque rimanere principali rispetto a quelle ricettive e di ospitalità che si pongono in rapporto di “connessione e complementarietà” con esse.
La medesima circolare ha altresì chiarito che “laddove si riscontra una notevole consistenza dei redditi ricavati dall’attività di ristorazione, grande sproporzione del tempo dedicato all’attività di ristorazione rispetto a quello dedicato all’attività agricola, con prevalenza del primo e utilizzo di prodotti acquistati sul mercato in misura maggiore rispetto a quelli provenienti dall’attività agricola principale, non può legittimamente permanere una classificazione nel settore agricoltura di tali aziende”. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: art. 29, comma 4, D.L. n. 19/2024 (conv. da L. n. 56/2024) – regime intertemporale delle sanzioni in materia di esercizio non autorizzato della somministrazione, appalto e distacco illeciti – indicazioni operative (Ispettorato Nazionale del Lavoro, nota 24.06.2024 n. 1133 di prot.).
---------------
Facendo seguito alla nota prot. n. 1091/2024 ed acquisito il parere dell’Ufficio Legislativo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che si è espresso con nota prot. n. 6050 del 20 giugno u.s., si forniscono indicazioni in merito al regime intertemporale relativo alle nuove sanzioni in materia di esercizio non autorizzato della somministrazione, appalto e distacco illeciti, alla luce delle modifiche introdotte dall’art. 29, comma 4, del D.L. n. 19/2024 (conv. da L. n. 56/2024) all’art. 18 del D.Lgs. n. 276/2003.
Innanzitutto, le nuove sanzioni penali, così come novellate dal D.L. n. 19/2024, trovano applicazione in relazione alle condotte poste in essere a decorrere dalla entrata in vigore del medesimo decreto-legge e cioè dal 02.03.2024. (...continua).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: servizio on-line “Simulazione Regolarità Contributiva Inail” (INAIL, nota 06.06.2024 n. 5544 di prot..).
---------------
L’articolo 4 del decreto-legge 20.03.2014, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 16.05.2014, n. 78 e recante “Semplificazioni in materia di documento unico di regolarità contributiva”, al comma 1 dispone che “chiunque vi abbia interesse, compresa la medesima impresa, verifica con modalità esclusivamente telematiche ed in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell’Inps, dell’Inail e, per le imprese tenute ad applicare i contratti del settore dell’edilizia, nei confronti delle Casse edili”.  (...continua).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIPunti patente, stop a discrezione. In caso di infortunio sulla sospensione decide l’ispettore. Pubblicati il decreto e le istruzioni Inl. Modello provvisoria via Pec in attesa del portale.
Stop della patente a discrezione dell’ispettore. Infatti, in ogni caso d’infortunio, mortali o meno dei lavoratori, decide sempre l’ispettorato territoriale competente se sospendere la patente a crediti del datore di lavoro, che sia ritenuto responsabile almeno di colpa grave dell’infortunio (o al delegato dal datore di lavoro o al dirigente).

Lo precisa l’Inl nella circolare 23.09.2024 n. 4, che illustra il dm n. 132/2024, in GU n. 221/2024, con il regolamento della patente a crediti nei cantieri temporanei o mobili dell’edilizia, al via dal prossimo 1° ottobre. In attesa del portale, già da ieri si può inviare un modello, via pec, che permettere di lavorare nei cantieri fino al 31 ottobre, con obbligo di presentare la domanda vera e propria per poter lavorare dal 1° novembre.
Più sicurezza sul lavoro.
Tutto pronto (o quasi) per la messa in opera della c.d. patente a crediti, al fine di rafforzare il contrasto del lavoro nero e incrementare la sicurezza sul lavoro (da gennaio a luglio sono decedute nei cantieri 577 persone, 18 in più rispetto allo stesso periodo del 2023).
Dal 1° ottobre, imprese e lavoratori autonomi dovranno possedere il nuovo documento per poter lavorare nei cantieri edili, a eccezione di quanti effettuano forniture o prestazioni di natura intellettuale. Secondo la Cgia di Mestre sono 832.500 le imprese edili interessate, il 54,9% (457mila) costituite da imprese individuali, il 32,9% da società di capitali (274mila) e il 9,3% da società di persone (77.300).
È sufficiente la domanda
La patente, in formato digitale, viene rilasciata a domanda, in presenza di determinati requisiti da autocertificare (art. 46 del dpr n. 445/2000) e attestare mediante dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà (art. 47 del dpr n. 445/2000). La domanda si presenta sul portale dell’Inl, con modalità in parte differenti a seconda che si tratti di soggetti italiani, europei o extraue.
Il regolamento precisa che, in attesa del rilascio della patente (dunque a domanda presentata), si può svolgere attività nei cantieri, salvo diversa comunicazione notificata dall’Inl. In questa prima fase, l’Inl stabilisce che non occorre presentare domanda, ma un modello (allegato alla circolare), via pec, che consentirà di operare fino al 31 ottobre e che vincola a presentare la domanda vera e propria una volta attivo il portale. Dal 1° novembre, non sarà più possibile lavorare in forza del solo invio per pec del modello Inl, ma solo se risulterà presentata la domanda on-line.
La sospensione a tre condizioni
Nella versione finale, il regolamento disciplina due ipotesi di stop cautelare della patente come nelle precedenti versioni. Tuttavia, c’è una novità: in entrambe le ipotesi è necessario il placet dell’ispettorato territoriale del lavoro, autorizzato all’adozione del relativo provvedimento.
La prima ipotesi disciplina lo stop obbligatorio: quando nei cantieri si verificano infortuni da cui derivi la morte di uno o più lavoratori imputabile al datore di lavoro, al delegato o al dirigente, almeno a titolo di colpa grave. Il regolamento precisa che la sospensione è obbligatoria “salva diversa valutazione dell’ispettorato adeguamento motivata” che, precisa l’Inl, può verificarsi nel caso in cui, dalla cessazione dell’attività in corso, derivino situazioni di grave rischio per lavoratori o terzi; in tal caso, pertanto, l’ispettorato ha facoltà di non adottare la sospensione.
La seconda ipotesi riguarda i casi di infortuni da cui derivi l’inabilità permanente di uno o più lavoratori o un’irreversibile menomazione suscettibile di essere accertata immediatamente, imputabile sempre al datore di lavoro, al suo delegato o al dirigente e sempre a titolo di colpa grave. In questi casi il provvedimento di stop può essere adottato se le esigenze cautelari non sono soddisfatte tramite altre soluzioni (tra cui l’analogo provvedimento di sospensione dell’attività d’impresa) (articolo ItaliaOggi del 24.09.2024).

TRIBUTI: Cumulo giuridico al capolinea nei tributi locali.
A partire dalle violazioni commesse dallo scorso 1° settembre trovano applicazione le nuove disposizioni in materia di sanzioni introdotte dal Dlgs 87/2024, attuativo dell’articolo 20 della legge delega fiscale (legge 111/2023).

Ciò è previsto dall’articolo 4 del citato decreto legislativo, evidenziando la deroga che il legislatore ha voluto operare al principio del “favor rei”, ossia l’applicazione retroattiva del regime sanzionatorio più favorevole introdotto da norme di legge successive alla commissione della violazione, disciplinato dall’articolo 3 del Dlgs 472/1997.
Deroga che viene confermata, per motivi prevalentemente di copertura finanziaria (e quindi in ossequio al principio costituzionale del “pareggio di bilancio”), anche dalla relazione illustrativa al decreto. La relazione precisa altresì che il principio della retroattività della legge successiva più favorevole trova tutela costituzionale solo in materia penale. In questo contesto, per le sanzioni amministrative non è prevista analoga tutela, a meno che non si vogliano considerare le stesse “sostanzialmente penali” (vedasi Corte costituzionale, sentenza n. 193/2016).
La peculiarità nella materia tributaria riposa sul fatto che l’articolo 3 del Dlgs 472/1997 prevede l’applicazione, in via generale, del principio della lex mitior. Tuttavia, lo stesso comma 2 dell’articolo 3 del Dlgs 472/1997, ammette la possibilità che vi sia una diversa previsione di legge che escluda l’applicazione del principio del “favor rei”. Norma della cui costituzionalità non si dubita.
La mancata applicazione del principio del favor rei ha degli effetti immediati specie sull’applicazione di alcune novità introdotte dal decreto n. 87.
In primo luogo, il decreto riduce la misura dalla sanzione per l’omesso o l’insufficiente versamento dei tributi (articolo 13 Dlgs 471/1997) dal 30% al 25%. Tale riduzione vale però solo per le violazioni commesse dal 1° settembre scorso; ne consegue che per le violazioni commesse prima di tale data deve continuarsi ad applicare la precedente misura sanzionatoria, anche negli avvisi di accertamento emessi dopo il 1° settembre.
Così, ad esempio, l’omesso versamento dell’Imu 2021 dovrà essere sanzionato con la misura del 30%, anche se l’avviso di accertamento è emesso dopo il 1° settembre; la nuova misura del 25% si applica invece all’omesso versamento del saldo Imu 2024 (scadente il 16 dicembre prossimo).
La riduzione incide anche sulla sanzione per tardivo versamento che, sempre dai ritardi commessi dal 1° settembre, si riduce dal 15% al 12,5% (ritardo da 16 a 90 giorni) e dall’1% allo 0,833% giornaliero (per i ritardi fino a 15 gg.).
In secondo luogo, il decreto n. 87 di fatto rende non più applicabile ai tributi locali l’istituto del cumulo giuridico (articolo 12 Dlgs 472/1997). Ciò in quanto viene specificato che l’ipotesi di commissione di violazioni della stessa indole per più annualità (comma 5 dell’articolo 12) non è una fattispecie autonoma di cumulo, come sostenuto in passato dalla Corte di cassazione (ma non dal Ministero delle finanze - circolare 138/2000).
La norma chiarisce che l’ipotesi prevista dal comma 5 dell’articolo 12 non è altro che un aggravante delle fattispecie previste dai commi 1 e 2 dell’articolo 12 (concorso materiale formale, concorso formale, progressione). Tuttavia, poiché queste ultime fattispecie difficilmente riguardano i tributi locali, ne deriva che non potrà applicarsi agli stessi neppure l’ipotesi di cui al comma 5. La norma inoltre espressamente chiarisce che il cumulo giuridico non riguarda gli omessi versamenti. Ne consegue che tale istituto non è più applicabile ai tributi locali (Ifel nota 02/09/2024). Ma da quando?
Secondo l’Ifel parrebbe sostenibile l’ipotesi che la disposizione abbia in qualche modo una valenza interpretativa (in base a quanto sarebbe evincibile dalla relazione illustrativa del decreto). In tale modo si potrebbe concludere che già negli avvisi di accertamento emessi dopo il 1° settembre non debba più applicarsi il cumulo giuridico, anche con riferimento a periodi d’imposta pregressi.
Tuttavia, questa tesi convince fino a un certo punto, considerati i precedenti arresti in materia della Corte di cassazione (ad esempio n. 3884/2024), la mancanza di una espressa previsione della natura interpretativa della norma e il fatto che l’articolo 4 specifica che le novità del decreto si applicano alle violazioni commesse dal 1° settembre.
Se riteniamo invece che la norma non sia interpretativa, negli avvisi di accertamento e contestuali atti di irrogazione della sanzione emessi dopo il 1° settembre, ma relativi a violazioni commesse prima di questa data, deve continuare ad applicarsi, ricorrendone i presupposti come richiede la Cassazione, il cumulo giuridico (tipicamente per le ipotesi di omessa, infedele dichiarazione)
In terzo luogo, viene modificato l’istituto del ravvedimento, riducendo la misura della sanzione nel caso di regolarizzazione delle violazioni commesse oltre il termine per la presentazione della dichiarazione dell’anno in cui è stata commessa la violazione (ovvero in mancanza di obbligo dichiarativo, di un anno dalla sua commissione).
Ma soprattutto introducendo una nuova misura di ravvedimento specifica per gli atti soggetti al contraddittorio preventivo (articolo 6-bis legge 212/2000), consentendo la regolarizzazione delle violazioni commesse riportate nello schema di atto inviato al contribuente. Va tuttavia ricordato che, in base al comma 1 dell’articolo 13 del Dlgs 472/1997, il ravvedimento non è ammesso se sono iniziati accessi, ispezioni o altre attività amministrative di accertamento delle quali l’autore della violazione abbia avuto formale conoscenza.
Preclusione che continua a valere per i tributi comunali, a differenza di quanto accade per i tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate, ai sensi dell’articolo 13, comma 1-ter, del Dlgs 472/1997. Ciò di fatto impedisce l’applicazione ai tributi locali della nuova ipotesi di ravvedimento dopo il ricevimento dello schema di atto, proprio perché, con la ricezione dello stesso, il contribuente è stato posto formalmente a conoscenza dell’attività di accertamento.
Ciò almeno fino a quando non verrà eliminata la norma che prevede la sopra citata preclusione del ravvedimento nei tributi locali, modifica che, come, annuncia Ifel, dovrebbe essere prevista nelle “bozze” del decreto attuativo delle delega fiscale riguardante i tributi locali. Ma fino a quando la norma non sarà cambiata, le nuove ipotesi di ravvedimento conseguenti all’invio degli schemi di atti non sembrano applicabili ai tributi locali (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 18.09.2024).

EDILIZIA PRIVATA - VARIAgriturismo a inquadramento regionale.
Criteri regionali per inquadrare le attività agrituristiche. Infatti, per verificare l'esistenza di un rapporto di connessione tra attività agricola principale e attività di ristorazione ricezione e di ospitalità, necessario per poter qualificare come agrituristica un'attività e la relativa azienda, non rileva più l'impiego delle risorse umane in ogni attività ma, appunto, il rispetto dei criteri fissati dalle singole regioni.

Lo precisa l'Ispettorato nazionale del lavoro, d'intesa con Inps e Inail nella nota 16.07.2024 n. 5486 di prot..
Le regole vigenti (e superate). In base alle regole vigenti, l'inquadramento delle imprese agrituristiche avviene se le attività di coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento di bestiame (le attività agricole) risultano principali rispetto a quelle ricettive e ospitalità, le quali devono porsi, con esse, in un rapporto di connessione e complementarietà.
Pertanto, l'azienda è esclusa dalla classificazione nel settore agricoltura qualora venga riscontrata una notevole consistenza dei redditi dell'attività di ristorazione, una grande sproporzione di tempo dedicato all'attività di ristorazione rispetto a quello dedicato all'attività agricola, una prevalenza dell'utilizzo di prodotti acquistati sul mercato rispetto a quelli provenienti dall'attività agricola principale.
Le novità legislative. Tali regole, spiega l'Inl, vanno aggiornare allo scopo di prendere in considerazione la disciplina regionale come richiede la legge n. 96/2006, alla luce delle novità intervenute nell'anno 2021 in piena pandemia Covid-19.
Infatti, la legge n. 96/2006 rimette alle Regioni le modalità per il rilascio della autorizzazione alla attività agrituristica e obbligo gli enti territoriali di dettare «criteri, limiti e obblighi amministrativi per lo svolgimento dell'attività agrituristica», nonché «criteri per la valutazione del rapporto di connessione delle attività agrituristiche rispetto alle attività agricole che devono rimanere prevalenti».
In relazione a tali criteri, inoltre, l'art. 68 del dl n. 73/2021 (convertito dalla legge n. 106/2021) ha modificato la predetta legge n. 96/2006 sopprimendo il criterio del «tempo di lavoro necessario all'esercizio delle stesse attività».
Le nuove regole. Pertanto, alla luce delle novità, per determinare il rapporto di connessione tra attività agricola principale e attività complementari per poter inquadrare un'azienda come agrituristica, non è più rilevante il criterio della maggiore consistenza di risorse umane, ma occorre rispettare i criteri fissati dalla regione di riferimento.
Infine, l'Ispettorato nazionale stabilisce che, nell'ambito dei relativi accertamenti, gli ispettori dovranno tener conto dei criteri fissati dalla legislazione regionale, verificando la rispondenza dell'azienda ai requisiti stabiliti dalle norme regionali.
In caso di significativo scostamento dai requisiti normativi, inoltre, l'ispettore, prima di adottare ogni provvedimento, interesserà gli uffici regionali competenti al rilascio dell'abilitazione al fine di acquisire ogni utile elemento istruttorio volto a comprovare il corretto inquadramento previdenziale delle imprese coinvolte (articolo ItaliaOggi del 19.07.2024).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Appalti, dal 2 marzo sanzioni penali tenendo conto del pregresso. Le eventuali giornate di irregolarità valgono per il calcolo dell’importo.
Le condotte di somministrazione, appalto e distacco prive dei requisiti di legge, iniziate prima del 02.03.2024, data di entrata in vigore del Dl 19/2024, e proseguite dopo, hanno valore penale e dovranno essere sanzionate con le nuove regole previste dall’articolo 18 del Dlgs 276/2003, come riscritto dal Dl 19/2024.

Questa l’indicazione contenuta nella nota 24.06.2024 n. 1133 di prot. dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl).
Dopo aver chiarito, con la nota 1091/2024, l'esatto importo delle ammende da applicare e il complesso meccanismo della recidiva, questa volta l'Ispettorato prende in esame il regime intertemporale di applicazione delle nuove sanzioni. Non c'è dubbio, come spiegato dall'Inl, che alle condotte iniziate dall'entrata in vigore del Dl 19/2024, si applichino le nuove sanzioni penali. Allo stesso modo appare evidente che i fenomeni interpositori irregolari conclusi prima del 2 marzo sono da considerarsi, in virtù della depenalizzazione attuata con il Dlgs 8/2016, semplici illeciti amministrativi.
Il vero tema, oggetto di chiarimento, attiene invece a tutte le condotte a cavallo dell'entrata in vigore del Dl 19/2024. Per comprendere quale regime sanzionatorio applicare, l'Ispettorato ricorda che la Cassazione (sentenza 25313/2015) ha attribuito al reato di appalto illecito di manodopera, previsto dall'articolo 18, comma 5-bis, del Dlgs 276/2003, natura permanente, con la conseguenza che la sua consumazione si ha nel luogo e per tutto il tempo in cui viene effettivamente svolta l'attività lavorativa, e non in quello nel quale viene sottoscritto il contratto di appalto o dove ha sede l'agenzia dalla quale provengono i lavoratori.
In ragione di tale orientamento l'Ispettorato afferma che le condotte iniziate prima del 02.03.2024 e proseguite dopo tale data hanno una valenza esclusivamente penale e perciò sono soggette alle pene stabilite dal nuovo articolo 18. Inoltre, per la determinazione della sanzione applicabile, parametrata al numero di giornate di illecito impiego e soggetta a prescrizione obbligatoria, in ragione dell'alternatività tra pena detentiva e pecuniaria, vanno considerati anche i periodi precedenti il 2 marzo.
Ciò in quanto le giornate di impiego hanno rilievo nella valutazione della gravità dell'illecito, la quale, a sua volta, determina una reazione sanzionatoria proporzionale e vincolata poiché predeterminata in ragione dei lavoratori coinvolti e del numero delle giornate e costituiscono un mero elemento di quantificazione delle ammende in riferimento a una condotta necessariamente unitaria.
Si pensi all'ipotesi di un appalto stipulato il 01.02.2024 che ha interessato due lavoratori ed è proseguito fino al 15 aprile, rivelandosi illecito perché carente dei requisiti previsti dall'articolo 29 del Dlgs 276/2003. Se dagli accertamenti il personale ispettivo ha appurato che ciascun lavoratore è stato impiegato, dal 1° febbraio al 15 aprile, per 30 giornate, la sanzione sarà quella penale base di 72 euro (salvo aggravanti) e andrà commisurata in ragione di tutte le 60 giornate di illecito impiego.
Resta inteso che l'importo delle sanzioni non potrà, in ogni caso, essere inferiore a 5.000 né superiore a 50.000 euro, come stabilito dal comma 5-quinquies dell'articolo 18. Le considerazioni esposte non impegnano l'amministrazione di appartenenza (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.06.2024).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATANiente brutte sorprese dal Durc. Simulatore Inail per verificare la regolarità.
Niente più brutte sorprese dal Durc. Infatti, 15 giorni prima della scadenza l'impresa può anticipare la verifica della regolarità contributiva: se del caso può correggere e può sanare le eventuali anomalie, arrivando in regola all'emissione del nuovo documento unico di regolarità contributiva (Durc) ed evitare ritardi nell'erogazione d'incentivi e nei pagamenti negli appalti. Al momento, l'opportunità vale soltanto in relazione ai premi assicurativi dell'Inail, tramite il nuovo servizio online «simulazione regolarità contributiva Inail».

Lo spiega lo stesso Inail nella nota 06.06.2024 n. 5544 di prot..
La vigente disciplina. Operativo dal 01.07.2015, il Durc attesta la regolarità contributiva di un'impresa ai fini Inps e Inail, nonché casse edili per le imprese classificate o classificabili nel settore dell'edilizia. La verifica viene fatta tramite il servizio Durc on-line. Se c'è regolarità, il Durc ha validità di 120 giorni dall'emissione o dalla data d'interrogazione.
Se, invece, non c'è regolarità contributiva, Inps, Inail e casse edili, tramite Pec, invitano l'interessato alla regolarizzazione, indicando tutte le cause d'irregolarità rilevate. L'interessato, quindi, avvalendosi delle procedure in uso presso ciascun istituto, può regolarizzare la propria posizione entro il termine di 15 giorni dalla notifica dell'invito.
Stop a brutte sorprese. In questo quadro di disciplina è intervenuta la legge n. 160/2023 (legge delega in materia di incentivi). Al fine di velocizzare la procedura di rilascio del Durc, ha previsto la possibilità per le imprese di avviare, volontariamente, la procedura di verifica della regolarità contributiva fino a 15 giorni in anticipo (lo stesso termine dato alla regolarizzazione) rispetto alla data di scadenza di un Durc in corso di validità.
In attuazione di ciò, l'Inail ha rilasciato il nuovo servizio on-line «simulazione regolarità contributiva Inail» che permette alle imprese, agli altri soggetti assicuranti e agli intermediari delegati di effettuare una simulazione della regolarità contributiva, relativamente a quanto di competenza dell'istituto assicuratore.
La verifica anticipata. La simulazione avviene in base al codice fiscale dell'impresa da verificare. Se risulta un Durc in corso di validità, la richiesta può essere fatta esclusivamente a partire dal quindicesimo giorno antecedente alla scadenza del Durc e riporterà la situazione al secondo mese antecedente alla predetta data di scadenza.
Diversamente, nel caso in cui per il codice fiscale per cui si effettua la richiesta di simulazione non risulta un Durc in corso di validità, la verifica viene effettuata alla data della richiesta e riporterà la situazione contributiva al secondo mese antecedente. In entrambi i casi, qualora non venga rilevata la presenza di irregolarità, l'esito della simulazione sarà «regolare».
Nel caso in cui, invece, venga rilevata la presenza di possibili irregolarità, l'esito della simulazione sarà «da verificare». In quest'ultimo caso, potrà essere contattata la sede dell'Inail competente per le opportune verifiche (articolo ItaliaOggi del 08.06.2024).

TRIBUTI: L’autotutela diventa obbligatoria.
Il decreto attuativo della delega fiscale (legge 111/2023), relativo alle modifiche allo statuto del contribuente (legge 212/2000), Dlgs 219/2023 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 03.01.2024, ha modificato la disciplina dell’autotutela degli atti tributari, disciplina già da tempo presente nelle norme riguardanti i provvedimenti amministrativi (articolo 21-nonies della legge 241/1990).
In particolare, il nuovo articolo 10-quater dello statuto disciplina l’esercizio del potere di autotutela obbligatoria da parte dell’amministrazione finanziaria, mentre il successivo articolo 10-quinquies quello di autotutela facoltativa.
In base alle nuove norme introdotte nell’articolo 1 dello statuto dal Dlgs 219/2023, le disposizioni in materia di autotutela sono obbligatorie per l’amministrazione finanziaria, mentre valgono come norme di principio per le regioni e gli enti locali nell’adeguamento dei rispettivi ordinamenti. Tuttavia, il comma 3-ter dell’articolo 1 chiarisce che i medesimi soggetti, nel disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza, non possono prevedere garanzie per il contribuente inferiori a quelle assicurate dalle citate disposizioni dello statuto, ma solo stabilire eventualmente livelli di tutela ulteriori.
Come è noto, l’autotutela costituisce un potere discrezionale per le amministrazioni pubbliche, da esercitarsi, con riferimento a provvedimenti amministrativi viziati, sulla base della valutazione dell’interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto.
Anche nell’ordinamento tributario la Corte di cassazione ha sempre affermato che l’esercizio di tale facoltà sia discrezionale; tuttavia, il Governo, nell’attuazione della delega fiscale, ha ritenuto che tale orientamento non tenga in debita considerazione la peculiarità del rapporto tributario che afferisce a diritti soggettivi, fondato sull’articolo 53 della Costituzione.
Per tali motivi, ha introdotto la previsione dei casi in cui l’esercizio di tale potere sia obbligatorio, in buona sostanza riprendendo le casistiche già previste dal Dm 37/1997, attuativo della previgente disciplina dell’autotutela contenuta nell’articolo 2-quater del Dl 564/1994, contestualmente abrogata dal Dlgs 219/2023.
L’articolo 10-quater stabilisce, infatti, che l’amministrazione finanziaria procede ad annullare d’ufficio, quindi anche senza istanza di parte, gli atti impositivi o rinuncia all’imposizione, nei seguenti casi in cui l’atto è manifestatamente illegittimo: errore di persona; errore di calcolo; errore sull’individuazione del tributo; errore materiale del contribuente facilmente riconoscibile dall’amministrazione finanziari;, errore sul presupposto dell’imposta; mancata considerazione di pagamenti regolarmente eseguiti; mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini di decadenza. Si tratta delle stesse casistiche previste dal Dm 37/1997 (eccetto la doppia imposizione e la sussistenza dei requisiti per deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi precedentemente negati; mentre è previsto in più l’errore sull’individuazione del tributo).
L’esercizio dell’autotutela obbligatoria è possibile anche nel caso di pendenza di giudizio o di atti definitivi (inoppugnabili per scadenza dei termini), mentre l’obbligo non ricorre nel caso di sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione (senza limitare più la fattispecie alle sole sentenze di merito e non anche a quelle meramente procedurali, come aveva ritenuto la giurisprudenza), ovvero qualora sia trascorso un lasso di tempo congruo che la norma individua in un anno dalla mancata impugnazione dell’atto viziato.
Ciò in quanto il legislatore, in questo caso, valuta che il consolidamento della posizione tributaria faccia ritenere prevalente l’interesse pubblico alla conservazione del credito e, quindi, il principio costituzionale del pareggio di bilancio, rispetto a quello di ripristino della legalità nel rapporto tributario.
La norma, inoltre, circoscrive l’ambito della responsabilità dell’amministrazione finanziaria, nelle valutazioni prese in merito all’autotutela, ai soli casi di dolo e non anche di colpa grave, come prevede normalmente la norma dell’articolo 1, comma 1, della legge 20/1994 per la responsabilità amministrativo-contabile.
L’articolo 10-quinquies si occupa, invece, dell’autotutela facoltativa, evidenziando la facoltà ma non l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di intervenire sugli atti viziati anche in presenza di cause di illegittimità dell’atto o di infondatezza della pretesa diverse da quelle che danno origine all’autotutela obbligatoria.
Vi rientrano, quindi, tutte le casistiche previste dal Dm 37/1997 non contemplate dall’articolo 10-quater, come la valutazione sui requisiti per beneficiare di deduzioni o detrazioni, in precedenza negate. Anche in questo caso non costituisce un limite all’esercizio del potere di autotutela la presenza di un giudizio o la definitività dell’atto.
Pur se in tale fattispecie non vengono richiamati i limiti temporali o di presenza di giudicato, previsti invece per l’autotutela obbligatoria. Si tratta comunque di una facoltà, quella dell’articolo 10-quinquies, che richiede una valutazione discrezionale dell’ente. Anche in questo caso opera la limitazione alle solo ipotesi di dolo della responsabilità connessa all’esercizio dell’autotutela.
Da rilevare che il Dlgs 220/2023, di riforma del contenzioso sempre in attuazione della delega fiscale, prevede la possibilità per il contribuente di impugnare, avanti al giudice tributario, il rifiuto espresso o tacito all’istanza di autotutela, nei casi di autotutela obbligatoria e quello espresso, nel caso di autotutela facoltativa (articolo 19, comma 1, lettere g-bis) e g-ter), Dlgs 546/1992). Il ricorso avverso il diniego tacito è proponibile trascorsi 90 giorni dalla presentazione dell’istanza.
Si tratta di norme che, pur riprendendo in larga parte una prassi operativa presente negli enti locali anche prima della novella, dovranno essere recepite nei regolamenti comunali.
Da rilevare, infine, l’abrogazione dell’articolo 2-quater del Dl 564/1994. La norma, nei primi commi (1 e 1-bis) disciplinava il potere di autotutela, rimandando a un Dm, potere la cui applicazione negli enti locali era rimessa dal comma 1-ter ai propri ordinamenti. L’abrogazione travolge anche la disposizione che prevedeva che nel potere di annullamento o di revoca di cui al comma 1 doveva intendersi compreso anche il potere di disporre la sospensione degli effetti dell’atto che appaia illegittimo o infondato.
Tuttavia, c’è da ritenere che tale potere permanga ancora oggi nell’autotutela facoltativa (pur se, come è noto, la sospensione incide sull’obbligo di pagamento derivante dall’atto impositivo e non anche sui termini di impugnativa dello stesso). Viene meno anche la disciplina dell’annullamento parziale. L’annullamento dell’atto viziato, come evidenzia l’art. 10-quinquies, può essere sia totale che parziale, allorquando riguarda solo una parte, quella viziata, dell’atto impositivo.
Il comma 1-sexies dell’articolo 2-quater oggi abrogato, preservava la facoltà del contribuente, nel caso di annullamento parziale, di avvalersi degli istituti di definizione agevolata delle sanzioni previsti per l’atto oggetto di annullamento o revoca, alle medesime condizioni esistenti alla data di notifica dell’atto, purché rinunci al ricorso.
Questo avveniva, ad esempio, nel caso di ricorso avverso un atto impositivo; l’ente impositore, qualora rilevava la fondatezza e, quindi, l’illegittimità di una parte dell’atto, poteva annullare parzialmente lo stesso, consentendo al contribuente di beneficiare, per le sanzioni correlate alla parte non annullata dell’atto, delle facoltà di riduzione ammesse dalla norma (eccetto l’articolo 17, comma 2, Dlgs 472/1997), normalmente precluse dalla presentazione del ricorso, previa rinuncia alla prosecuzione del giudizio.
Inoltre, viene abrogata anche la norma che vieta l’impugnazione dell’annullamento (comma 1-octies), pur se si tratta di un principio, nel caso dell’annullamento parziale, più volte ribadito dalla giurisprudenza (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 17.01.2024).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI: Dissesto degli enti locali: alla Corte costituzionale la perentorietà dei termini e l'automaticità degli effetti.
---------------
Comune e provincia – Procedura di dissesto – Competenza consiliare – Natura vincolata della dichiarazione di dissesto – Sindacato giurisdizionale – Limiti.
La dichiarazione del dissesto è un atto di competenza dell'organo consiliare rigidamente vincolato, la cui adozione è doverosa e sufficientemente motivata dalla mera ricognizione dell'incapacità dell’ente di garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili, ovvero di assicurare il pagamento dei crediti liquidi ed esigibili di terzi con gli strumenti forniti dalle norme di contabilità.
Il sindacato giurisdizionale sull’atto de quo è necessariamente incentrato sulla verifica del corretto esercizio del potere di azione in ordine all'accertamento dei presupposti di fatto previsti dalla legge, non potendo consentirsi al giudice amministrativo alcuna valutazione delle scelte operate.

(Nella fattispecie in esame, la sezione reputa legittima l’adozione della deliberazione finale di dissesto finanziario, preceduta dall’approvazione del rendiconto della gestione nonché dalla presa d’atto dell’impossibilità di ripiano. Assume che gli incontestabili dati di bilancio militano nel senso di ritenere realizzato il presupposto della dichiarazione di dissesto, sulla scorta di un accertamento dell’evidenza dei dati medesimi, a nulla rilevando le ipotetiche soluzioni prospettate dai revisori dei conti, quanto all’alienazione degli immobili di proprietà comunale ovvero ad altre forme di anticipazione finanziaria) (1).
---------------
Comune e provincia – Procedura di dissesto – Natura del termine – Presentazione di nuova ipotesi di bilancio riequilibrato- Questioni di legittimità costituzionale

È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 5, 51, 97 e 114 della Costituzione:
   a) dell’art. 259, primo comma, del dlgs 18.08.2000, n. 267, limitatamente all’aggettivo “perentorio” in esso contenuto;
   b) dell’art. 261, quarto comma, del T.U.E.L., limitatamente all’aggettivo “perentorio” in esso contenuto, per la parte in cui ugualmente stabilisce la perentorietà del termine (di 45 giorni) per la presentazione di una nuova ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, susseguente all’istruttoria negativa della commissione per la finanza e gli organici degli enti locali;
   c) dell’art. 262, primo comma, del T.U.E.L., limitatamente alla previsione secondo cui “l’inosservanza del termine per la presentazione dell’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato o del termine per la risposta ai rilievi e dalle richieste di cui all’art. 261, comma 1, o del termine di cui all’art. 261, comma 4, integrano l’ipotesi di cui all’art. 141, comma 1, lettera a)”. (2)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza non definitiva 20.09.2024 n. 5039 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono, non può considerarsi ultimato l’edificio senza «tamponature» esterne. La Cassazione boccia il ricorso di una proprietaria e stabilisce che l’ordine di demolizione riguarda anche le eventuali aggiunte all’opera abusiva.
In tema di condono edilizio, deve essere esclusa l’ultimazione del rustico in assenza delle tamponature perimetrali, poiché costruzione al rustico è l’insieme delle strutture portanti e del tamponamento di un edificio, tale da rendere individuabile il volume agli effetti dell’articolo 31 del Testo unico dell’edilizia.

È quanto ha ricordato la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 18.09.2024 n. 35006.
Nel provvedimento, con cui boccia il ricorso di una proprietaria in relazione a una richiesta di condono riferita alla sanatoria varata nel 1994, la Corte ricorda che «anche la consolidata giurisprudenza amministrativa che il concetto di rustico è necessariamente comprensivo delle tamponature esterne che realizzino in concreto i volumi rendendoli individuabili ed esattamente calcolabili».
Può considerarsi ultimata soltanto «un'opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazioni, tramezzature interne»).
Con un'altra sentenza (sentenza 18.09.2024 n. 35008) la Cassazione, Sez. III penale, si è poi occupata degli effetti dell'ordinanza di demolizione delle opere abusive.
E ha stabilito che stabilito che «l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, riguarda l'edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte successive all'esercizio dell'azione penale e/o alla condanna, atteso che l'obbligo di demolizione si configura come un dovere di restitutio in integrum dello stato dei luoghi e, come tale, ha ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell'originaria costruzione» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 19.09.2024).

EDILIZIA PRIVATA: E' stato precisato, e deve essere ribadito, che:
   a)
l'operatività dell'ordine di demolizione non può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione;
   b)
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo è legittimamente adottato nei confronti del proprietario de)l'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche l'autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa;
   c)
l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente.
---------------
Va ricordato che
l'ordine di demolizione de manufatto abusivo, previsto dall'art. 31, comma nono, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, riguarda l'edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all'esercizio dell'azione penale e/o alla condanna, atteso che l'obbligo di demolizione si configura come un dovere di "restitutio in integrum" dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell'originaria costruzione.
Inoltre,
ai fini della individuazione dei limiti stabiliti per la concedibilità della sanatoria, ogni edificio va inteso quale complesso unitario che faccia capo ad unico soggetto legittimato alla proposizione della domanda di condono, con la conseguenza che le eventuali singole istanze presentate in relazione alle separate unità che compongono tale edificio devono riferirsi ad una unica concessione in sanatoria, onde evitare la elusione del limite di settecentocinquanta metri cubi attraverso la considerazione di ciascuna parte in luogo dell'intero complesso.
Tale principio è stato confermato anche in tema di condono edilizio previsto dal d.l. 30.11.2003, n. 269, convertito, con modificazioni, in legge 24.11.2003, n. 326, essendo stato affermato che
la presentazione di plurime istanze di sanatoria relative a distinte unità immobiliari, ciascuna di volumetria non eccedente i 750 mc., costituisce artificioso frazionamento della domanda, in caso di nuova costruzione di volumetria inferiore a 3.000 mc., la cui realizzazione sia ascrivibile ad un unico soggetto.
L'unitarietà del complesso immobiliare deve essere riferita al centro di imputazione di interessi cui esso fa riferimento, dovendosi intendere per tale non l'unicità della persona fisica titolare di tali interessi bensì la unicità della situazione giuridica soggettiva attiva della quale il bene è oggetto, ancorché facente capo a più persone; nel caso di comproprietà, quello che rileva è il rapporto tra il bene e il diritto del quale è oggetto non tra il bene e la pluralità di persone che possono disporne.
Al riguardo, va comunque ribadito che
ai fini della sanatoria prevista dall'art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 -secondo cui, tra l'altro, le disposizioni di cui ai capi IV e V della l. 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria ovvero, indipendentemente dalla volumetria iniziale, un ampliamento superiore a 750 metri cubi- la realizzazione di un piano interrato rientra tra gli interventi computabili ai fini della determinazione della cubatura dell'edificio, dovendo detto calcolo essere riferito, salvo che non viga una disposizione contraria, ad ogni elemento dell'opera idoneo ad incidere sull'assetto del territorio ed a aumentare il carico urbanistico
.
---------------

4. Il secondo motivo è manifestamente infondato e proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità.
4.1. Risulta dalla sentenza di condanna allegata al ricorso che i coniugi Le.Lu./Fr.Ca. (deceduta nelle more dell'incidente di esecuzione) avevano abusivamente completato, nell'estate del 1996, un immobile di loro proprietà ultimandone i quattro appartamenti al primo piano e il terrazzino del piano rialzato (anch'esso abusivo) in violazione, peraltro, dei sigilli precedentemente apposti.
4.2. Risulta, inoltre, dal provvedimento impugnato, che il volume del fabbricato è superiore a 750 mc. e che per le singole porzioni dello stesso erano state presentate sei domande di condono proposte ex lege n. 724 del 1994 positivamente esitate a favore di Ga.De., Le.An., Le.Ro., Le.Ma. che risultano proprietarie delle singole porzioni giuste donazioni e compravendite effettuate tra il 2001 e il 2018 in epoca, cioè, successiva persino alla instaurazione dell'incidente di esecuzione.
4.3. E' stato precisato, e deve essere ribadito, che:
   a) l'operatività dell'ordine di demolizione non può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione (Sez. 3. n. 37120 del 11/05/2005, Morelli, Rv. 232175 - 01);
   b) l'ordine di demolizione del manufatto abusivo è legittimamente adottato nei confronti del proprietario de)l'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche l'autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa (Sez. 3, n. 39322 del 03/07/2009, Berardi, Rv. 244612 - 01);
   c) l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente (Sez. 3, n. 22853 del 29/03/2007, Coluzzi, Rv. 236880 - 01, che ha ribadito che il terzo acquirente dell'immobile potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione; nello stesso senso, Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802 - 01; Sez. 3, n. 45848 del 01/10/2019, Cannova, Rv. 277266 - 01).
4.4. Di certo il ricorrente, in buona sostanza, non è più proprietario dell'immobile se non del locale deposito a pian terreno, con conseguente mancanza di interesse concreto e attuale a coltivare il ricorso sulle restanti porzioni dell'immobile.
4.5. In ogni caso, correttamente il Giudice dell'esecuzione ha ritenuto l'artificioso frazionamento delle domande.
4.6. Va in primo luogo ricordato che l'ordine di demolizione de manufatto abusivo, previsto dall'art. 31, comma nono, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, riguarda l'edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all'esercizio dell'azione penale e/o alla condanna, atteso che l'obbligo di demolizione si configura come un dovere di "restitutio in integrum" dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell'originaria costruzione (Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016, dep, 2017, Molinari, Rv. 268831 - 01; Sez. 3, n. 38947 del 09/07/2013, Amore, Rv. 256431 - 01; Sez. 3, n. 21797 del 27/04/2011, Apuzzo, Rv. 250389 - 01; Sez. 3, n. 2872 dell'11/12/2008, dep. 2009, Corimbi, Rv. 242163 - 01; Sez. 3, n. 10248 del 18/01/2001, Vitrani, Rv. 218961 - 01; Sez. 3, n. 33648 del 08/07/2022, n.m.; Sez. 3, n. 41180 del 20/10/2021, n.m.; Sez. 3, n. 30298 del 02/07/2021, n.m.; Sez. 3, n. 19112 del 10/06/2020, n.m.).
4.7. In secondo luogo il Giudice ha fatto buon governo dell'insegnamento costante della Corte di cassazione secondo il quale, ai fini della individuazione dei limiti stabiliti per la concedibilità della sanatoria, ogni edificio va inteso quale complesso unitario che faccia capo ad unico soggetto legittimato alla proposizione della domanda di condono, con la conseguenza che le eventuali singole istanze presentate in relazione alle separate unità che compongono tale edificio devono riferirsi ad una unica concessione in sanatoria, onde evitare la elusione del limite di settecentocinquanta metri cubi attraverso la considerazione di ciascuna parte in luogo dell'intero complesso (Sez. 3, n. 44596 del 20/05/2016, Boccia, Rv. 269280 - 01; Sez. 3, n. 12353 del 02/10/2014, dep. 2014, Cantiello, Rv. 259292 - 01; Sez. 3, n. 12353 del 02/10/2023, Cantiello, Rv. 259292 - 01; Sez. 3, n. 20161 del 19/05/2005, Merra, Rv. 231643 - 01; Sez. 3, n. 8584 del 26/04/1999, La Mantia, Rv. 214280 - 01).
4.8. Tale principio è stato confermato anche in tema di condono edilizio previsto dal d.l. 30.11.2003, n. 269, convertito, con modificazioni, in legge 24.11.2003, n. 326, essendo stato affermato che la presentazione di plurime istanze di sanatoria relative a distinte unità immobiliari, ciascuna di volumetria non eccedente i 750 mc., costituisce artificioso frazionamento della domanda, in caso di nuova costruzione di volumetria inferiore a 3.000 mc., la cui realizzazione sia ascrivibile ad un unico soggetto (Sez. 3, n. 2840 del 18/11/2021, dep. 2022, Vicale, Rv. 282887 - 01, in fattispecie relativa a nuova costruzione avente volumetria complessiva di circa 2.200 mc., composta da quattro unità immobiliari, rispetto alla quale risultavano presentate, da soggetti diversi dall'autore dell'edificazione, due istanze di condono per unità di volumetria inferiore a 750 mc).
4.9. L'unitarietà del complesso immobiliare deve essere riferita al centro di imputazione di interessi cui esso fa riferimento, dovendosi intendere per tale non l'unicità della persona fisica titolare di tali interessi bensì la unicità della situazione giuridica soggettiva attiva della quale il bene è oggetto, ancorché facente capo a più persone; nel caso di comproprietà, quello che rileva è il rapporto tra il bene e il diritto del quale è oggetto non tra il bene e la pluralità di persone che possono disporne.
4.10. Nel caso di specie, l'immobile è unico ed all'epoca degli abusi era oggetto del diritto di (com)proprietà del ricorrente e della moglie; solo successivamente è stato frazionato in tante parti quanti erano gli appartamenti e i locali che ne sono stati ricavati molti dei quali peraltro ceduti a terze persone.
4.11. Il calcolo della volumetria computabile ai fini del limite 1i 750 mc. stabilito dall'art. 39, comma 1, legge n. 724 del 1994, costituisce questione di fatto non deducibile per la prima volta in sede di legittimità.
4.12. Al riguardo, va comunque ribadito che ai fini della sanatoria prevista dall'art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724 -secondo cui, tra l'altro, le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria ovvero, indipendentemente dalla volumetria iniziale, un ampliamento superiore a 750 metri cubi- la realizzazione di un piano interrato rientra tra gli interventi computabili ai fini della determinazione della cubatura dell'edificio, dovendo detto calcolo essere riferito, salvo che non viga una disposizione contraria, ad ogni elemento dell'opera idoneo ad incidere sull'assetto del territorio ed a aumentare il carico urbanistico (Sez. 3, n. 23474 del 08/04/2019, Perillo, Rv. 275796 - 01).
4.13. Quanto al diverso limite volumetrico di 3.000 mc. previsto dall'art. 32, comma 25, d.l. n. 269 del 2003, cit., premesso che nel caso di specie le concessioni in sanatoria sono state chieste e ottenute ai sensi della legge n. 724 del 1994, tale limite postula la legittimità delle singole istanze, legittimità che nel caso di specie deve essere esclusa a causa dell'artificioso frazionamento delle singole istanze.
4.14. Le deduzioni difensive che sostengono il contrario (anche in punto di computo della volumetria complessiva dell'immobile) sono inammissibili perché sollecitano un'indagine sul fatto che è preclusa in sede di legittimità, tanto più che il ricorrente non deduce nemmeno il travisamento degli elementi di prova indicati dal Giudice a sostegno della propria decisione.
 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.09.2024 n. 35008).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l'insegnamento della Corte di cassazione, in tema di reati edilizi, il giudice, nel dare attuazione all'ordine di demolizione di un immobile abusivo adibito ad abituale abitazione di una persona è tenuto a rispettare il principio di proporzionalità come elaborato dalla giurisprudenza convenzionale nelle sentenze Corte EDU, 21/04/2016, Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria, e Corte EDU, 04/08/2020, Kaminskas c. Lituania, considerando l'esigenza di garantire il rispetto della vita privata e familiare e del domicilio, di cui all'art. 8 della Convenzione EDU, e valutando, nel contempo, la eventuale consapevolezza della violazione della legge da parte dell'interessato, per non incoraggiare azioni illegali in contrasto con la protezione dell'ambiente, nonché i tempi a disposizione del medesimo, dopo l'irrevocabilità della sentenza di condanna, per conseguire, se possibile, la sanatoria dell'immobile ovvero per risolvere le proprie esigenze abitative.
Invero,
il diritto all'abitazione, riconducibile agli artt. 2 e 3 Cost. e all'art. 8 CEDU, non è tutelato in termini assoluti, ma è contemperato con altri valori di pari rango costituzionale, come l'ordinato sviluppo del territorio e la salvaguardia dell'ambiente, che giustificano, secondo i criteri della necessità, sufficienza e proporzionalità, l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo, sempre che tale provvedimento si riveli proporzionato rispetto allo scopo che la normativa edilizia intende perseguire, rappresentato dal ripristino dello status preesistente del territorio.
E' stato precisato che
il giudice, nel dare attuazione all'ordine di demolizione di un immobile abusivo adibito ad abituale abitazione di una persona, deve valutare la disponibilità, da parte dell'interessato, di un tempo sufficiente per conseguire, se possibile, la sanatoria dell'immobile o pér risolvere, con diligenza, le proprie esigenze abitative, la possibilità di far valere le proprie ragioni dinanzi a un tribunale indipendente, l'esigenza di evitare l'esecuzione in momenti in cui sarebbero compromessi altri diritti fondamentali, come quello dei minori a frequentare la scuola, nonché l'eventuale consapevolezza della natura abusiva dell'attività edificatoria.

---------------
L'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo non contrasta con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all'art. 8 Conv. EDU, posto che, non essendo desumibile da tale norma la sussistenza di alcun diritto "assoluto" ad occupare un immobile, anche se abusivo, solo perché casa familiare, il predetto ordine non vìola in astratto il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio, ma afferma in concreto il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato ed a ripristinare l'equilibrio urbanistico-edilizio violato.
Del resto,
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, con effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene, anche se non è l'autore dell'abuso, con la conseguenza che non può ricondursi alla nozione convenzionale di "pena", nel senso elaborato dalla giurisprudenza della Corte EDU, e non è soggetto a prescrizione.
La Corte di cassazione, in base alle argomentazioni sviluppate dalla stessa Corte e.d.u., ha chiaramente affermato che
la demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmero ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di 'un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge».
Né rileva l'affidamento che il titolare del bene da demolire possa fare sull'inerzia della AG: il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento.
Per queste ragioni, l'ordine demolitorio, diversamente dalla pena, non si estingue per morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, ma si trasmette agli eredi del responsabile e dei suoi aventi causa che a lui subentrino nella disponibilità del bene.
Non va nemmeno dimenticato che
la demolizione ordinata dal giudice penale costituisce atto dovuto, esplicazione di un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione, un potere che si pone a chiusura del sistema sanzionatorio amministrativo.
Il principio di proporzionalità, dunque, presuppone la cogenza dell'ordine di demolizione dell'opera abusivamente realizzata e la sua inderogabile funzione ripristinatoria di un "ordine urbanistico" tuttora violato, non potendo essere utilizzato per eludere tale funzione con il rischio di legittimare 'ex post', nei fatti, condotte costituenti reato e di consolidarne il relativo prodotto/profitto.
Il principio di proporzionalità si frappone all'esecuzione déll'ordine di demolizione per ragioni estranee alla adozione dell'ordine stesso; esso non incide nella fase deliberativa dell'ordine stesso, bensì in quella esecutiva. Per questo i fatti addotti a sostegno del rispetto del principio di proporzionalità devono essere allegati (e accertati) in modo rigoroso, dovendosene far carico (quantomeno sul piano dell'allegazione) chi intende avvalersene per paralizzare il ripristino di un ordine violato, tanto più se si tratta dello stesso autore dell'abuso.
Né tali fatti possono dipendere dall'inerzia o dalla volontà dell'autore dell'abuso o del destinatario dell'ordine. Va, al riguardo, ricordato (e sottolineato) che
l'ordine di demolizione ingiunto dal pubblico ministero costituisce esecuzione (provvisoriamente a spese della collettività) dell'ordine già irrevocabilmente impartito dal giudice con sentenza pronunciata all'esito di un giusto processo svolto nel contraddittorio tra le parti.
Il condannato (o i suoi aventi causa) non può "lucrare" sul tempo inutilmente trascorso dalla data di irrevocabilità della sentenza perché l'ingiunzione del pubblico ministero è causata proprio dalla sua inerzia, né può successivamente invocare il principio di proporzionalità allegando (colpevoli) inerzie o fatti da lui stesso posti in essere nella piena consapevolezza della natura abusiva dell'immobile, della precarietà della propria situazione abitativa, della persistente violazione dell'ordine.

In altri termini: il principio di proporzionalità non può essere indiscriminatamente e genericamente dedotto e utilizzato per legittimare la violazione dell'ordine di demolizione irrevocabilmente impartito dal giudice, poiché a tanto si arriverebbe opponendo sempre e comunque la violazione del domicilio.
La circostanza, pertanto, che l'immobile da demolire costituisca l'unico domicilio del condannato, oltre a non essere vera, non è di per sé dirimente poiché tale circostanza non influisce nemmeno sulla configurabilità del reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001.
Secondo il consolidato insegnamento della Corte di cassazione,
non è configurabile l'esimente dello stato di necessità in quanto, pur essendo ipotizzabile un danno grave alla persona in cui rientri anche il danno al diritto all'abitazione, difetta in ogni caso il requisito dell'inevitabilità del pericolo, posto che tale pericolo è evitabile chiedendo, in caso di terreno edificabile, il relativo permesso, mentre, in caso di terreno non edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un'abitazione non può prevalere sull'interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente.
Orbene,
se l'esigenza abitativa è irrilevante non solo ai fini della sussistenza del reato, ma anche dell'ordine di demolizione impedito con la sentenza di condanna, non si vede come questo argomento possa di per sé essere utilizzato per sterilizzare "ex post" l'ordine stesso.
---------------
5. Il terzo motivo è inammissibile per carenza di interesse e per gènericità.
5.1. Il ricorrente, come anticipato, è attualmente titolare del solo locale deposito a pian terreno, essendo gli appartamenti abitati dai figli, sicché non si vede in che modo la demolizione del fabbricato vìoli il diritto all'abitazione del ricorrente.
5.2. Secondo l'insegnamento della Corte di cassazione, in tema di reati edilizi, il giudice, nel dare attuazione all'ordine di demolizione di un immobile abusivo adibito ad abituale abitazione di una persona è tenuto a rispettare il principio di proporzionalità come elaborato dalla giurisprudenza convenzionale nelle sentenze Corte EDU, 21/04/2016, Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria, e Corte EDU, 04/08/2020, Kaminskas c. Lituania, considerando l'esigenza di garantire il rispetto della vita privata e familiare e del domicilio, di cui all'art. 8 della Convenzione EDU, e valutando, nel contempo, la eventuale consapevolezza della violazione della legge da parte dell'interessato, per non incoraggiare azioni illegali in contrasto con la protezione dell'ambiente, nonché i tempi a disposizione del medesimo, dopo l'irrevocabilità della sentenza di condanna, per conseguire, se possibile, la sanatoria dell'immobile ovvero per risolvere le proprie esigenze abitative (così Sez. 3, n. 423 del 14/12/2020, dep. 2021, RY. 280270 - 01; nello stesso senso, Sez. 3, n. 48021 dell'11/09/2019, Rv. 277994 - 01, secondo cui il diritto all'abitazione, riconducibile agli artt. 2 e 3 Cost. e all'art. 8 CEDU, non è tutelato in termini assoluti, ma è contemperato con altri valori di pari rango costituzionale, come l'ordinato sviluppo del territorio e la salvaguardia dell'ambiente, che giustificano, secondo i criteri della necessità, sufficienza e proporzionalità, l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo, sempre che tale provvedimento si riveli proporzionato rispetto allo scopo che la normativa edilizia intende perseguire, rappresentato dal ripristino dello status preesistente del territorio).
5.3. E' stato precisato che il giudice, nel dare attuazione all'ordine di demolizione di un immobile abusivo adibito ad abituale abitazione di una persona, deve valutare la disponibilità, da parte dell'interessato, di un tempo sufficiente per conseguire, se possibile, la sanatoria dell'immobile o pér risolvere, con diligenza, le proprie esigenze abitative, la possibilità di far valere le proprie ragioni dinanzi a un tribunale indipendente, l'esigenza di evitare l'esecuzione in momenti in cui sarebbero compromessi altri diritti fondamentali, come quello dei minori a frequentare la scuola, nonché l'eventuale consapevolezza della natura abusiva dell'attività edificatoria (Sez. 3, n. 5822 del 18/01/2022, D'Auria, Rv. 282950 - 01, che ha ritenuto corretta la decisione di rigetto dell'istanza di revoca dell'ingiunzione a demolire un immobile abusivo, rilevando che i ricorrenti avevano commesso numerose contravvenzioni urbanistiche e paesaggistiche e più delitti di violazione dei sigilli, avevano potuto avvalersi di plurimi rimedi per la tutela in giudizio delle proprie ragioni, avevano beneficiato di un congruo tempo per individuare altre situazioni abitative e non avevano indicato specifiche esigenze che giustificassero il rinvio dell'esecuzione dell'ordine di demolizione onde evitare la compromissione di altri diritti fondamentali; nello stesso senso, Sez. 3, n. 423 del 14/12/2020, dep. 2021, Leoni, Rv. 280270 - 01).
5.4. Come spiegato in motivazione dalla citata Sez. 3, D'Auria, «[ali fini della valutazione del rispetto del principio di proporzionalità, la Corte EDU ha (...) valorizzato essenzialmente:
   la possibilità di far valere le proprie ragioni davanti ad un tribunale indipendente;
   la disponibilità di un tempo sufficiente per "legalizzare" la situazione, se giuridicamente possibile, o per trovare un'altra soluzione alle proprie esigenze abitative agendo con diligenza;
   l'esigenza di evitare l'esecuzione in momenti in cui verrebbero compromessi altri diritti fondamentali, come quello dei minori a frequentare la scuola.
Inoltre, ai medesimi fini, un ruolo estremamente rilevante è stato attribuito alla consapevolezza della illegalità della costruzione da parte degli interessati al momento dell'edificazione ed alla natura ed al grado della illegalità realizzata (...) La maggior parte delle decisioni di legittimità ha ritenuto rispettato il principio di proporzionalità valorizzando il tempo a disposizione del destinatario dèll'ordine di demolizione per «cercare una soluzione alternativa» (così Sez. 3, n. 48021 del 11/09/2019, Giordano, Rv. 277994-01, e Sez. 3, n. 24882 del 26/04/2018, Ferrante, Rv. 273368-01, la quale ha escluso rilievo a situazioni di salute «solo "cagionevole"») o la gravità delle violazioni (cfr. Sez. 3
, n. 43608 del 08/10/2021, Giacchini, che ha valorizzato le dimensioni del fabbricato e la violazione di più disposizioni penali, anche in tema di paesaggio, conglomerato cementizio e disciplina antisismica), o entrambe le circostanze (Sez. 3, n. 35835 del 03/11/2020, Santoro ed altro, non massimata)».
5.5. Non va peraltro dimenticato che l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo non contrasta con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all'art. 8 Conv. EDU, posto che, non essendo desumibile da tale norma la sussistenza di alcun diritto "assoluto" ad occupare un immobile, anche se abusivo, solo perché casa familiare, il predetto ordine non vìola in astratto il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio, ma afferma in concreto il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato ed a ripristinare l'equilibrio urbanistico-edilizio violato (Sez. 3, n. 24882 del 26/04/2018, Ferrante, Rv. 273368 - 01; Sez. 3, n. 18949 del 10/03/2016, Contadini, 267024; Sez. 3, d. 3704 del 09/11/2022, dep. 2023, n.m.; Sez 3, n. 1668 del 29/09/2022, n.m.).
5.6. Del resto, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, con effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene, anche se non è l'autore dell'abuso, con la conseguenza che non può ricondursi alla nozione convenzionale di "pena", nel senso elaborato dalla giurisprudenza della Corte EDU, e non è soggetto a prescrizione (Sez. 3, n. 3979 del 21/002018, dep. 2019, Rv. 275850 - 02; Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Rv. 267977 - 01; Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Rv. 265540 - 01; Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Rv. 264736 - 01; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Rv. 250336 - 01).
Come diffusamente spiegato da Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, Rv. 265540, già con la sentenza Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009, Viesti e altri, Rv. 245918, la Corte di cassazione, in base alle argomentazioni sviluppate dalla stessa Corte e.d.u. (in essa richiamate), aveva chiaramente affermato che la demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmero ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di 'un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge».
5.7. Né rileva l'affidamento che il titolare del bene da demolire possa fare sull'inerzia della AG: il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento (Cons. St., Ad. Plen., n. 9 del 17/10/2017).
5.8. Per queste ragioni, l'ordine demolitorio, diversamente dalla pena, non si estingue per morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza (Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci, Rv. 249317; Sez. 3, n. 3720 del 24/11/1999 - dep. 2000, Barbadoro, Rv. 215601), ma si trasmette agli eredi del responsabile (v., ad es., Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 3206 del 30/05/011) e dei suoi aventi causa che a lui subentrino nella disponibilità del bene (v., ad es. Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 2266 del 12/04/2011; Consiglio di Stato Sez. 4, n. 6554 del 24/12/2008).
5.9. Non va nemmeno dimenticato che la demolizione ordinata dal giudice penale costituisce atto dovuto, esplicazione di un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 258518; Sez. 3, n. 37906 del 22/05/2012, Mascia ed altro, non massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/03/1994, Sorrentino Rv. 198511; cfr., altresì, Sez. U, n. 15 del 19/06/1996, RM. in proc. Monterisi, Rv. 205336; Sez. U, n. 714 del 20/11/1996 (dep. 1997), Luongo, Rv. 206659), un potere che si pone a chiusura del sistema sanzionatorio amministrativo (cfr. Corte Cost. Ord. 33 del 18/01/1990; ord. 308 del 09/07/1998; Cass. Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di Gennaro, Rv. 185699).
5.10. Il principio di proporzionalità, dunque, presuppone la cogenza dell'ordine di demolizione dell'opera abusivamente realizzata e la sua inderogabile funzione ripristinatoria di un "ordine urbanistico" tuttora violato, non potendo essere utilizzato per eludere tale funzione con il rischio di legittimare 'ex post', nei fatti, condotte costituenti reato e di consolidarne il relativo prodotto/profitto.
5.11. Il principio di proporzionalità si frappone all'esecuzione déll'ordine di demolizione per ragioni estranee alla adozione dell'ordine stesso; esso non incide nella fase deliberativa dell'ordine stesso, bensì in quella esecutiva. Per questo i fatti addotti a sostegno del rispetto del principio di proporzionalità devono essere allegati (e accertati) in modo rigoroso, dovendosene far carico (quantomeno sul piano dell'allegazione) chi intende avvalersene per paralizzare il ripristino di un ordine violato, tanto più se si tratta dello stesso autore dell'abuso.
5.12. Né tali fatti possono dipendere dall'inerzia o dalla volontà dell'autore dell'abuso o del destinatario dell'ordine.
Va, al riguardo, ricordato (e sottolineato) che l'ordine di demolizione ingiunto dal pubblico ministero costituisce esecuzione (provvisoriamente a spese della collettività) dell'ordine già irrevocabilmente impartito dal giudice con sentenza pronunciata all'esito di un giusto processo svolto nel contraddittorio tra le parti.
Il condannato (o i suoi aventi causa) non può "lucrare" sul tempo inutilmente trascorso dalla data di irrevocabilità della sentenza perché l'ingiunzione del pubblico ministero è causata proprio dalla sua inerzia, né può successivamente invocare il principio di proporzionalità allegando (colpevoli) inerzie o fatti da lui stesso posti in essere nella piena consapevolezza della natura abusiva dell'immobile, della precarietà della propria situazione abitativa, della persistente violazione dell'ordine.
5.13. In altri termini: il principio di proporzionalità non può essere indiscriminatamente e genericamente dedotto e utilizzato per legittimare la violazione dell'ordine di demolizione irrevocabilmente impartito dal giudice, poiché a tanto si arriverebbe opponendo sempre e comunque la violazione del domicilio.
5.14. La circostanza, pertanto, che l'immobile da demolire costituisca l'unico domicilio del condannato, oltre a non essere vera, non è di per sé dirimente poiché tale circostanza non influisce nemmeno sulla configurabilità del reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001.
Secondo il consolidato insegnamento della Corte di cassazione, non è configurabile l'esimente dello stato di necessità in quanto, pur essendo ipotizzabile un danno grave alla persona in cui rientri anche il danno al diritto all'abitazione, difetta in ogni caso il requisito dell'inevitabilità del pericolo, posto che tale pericolo è evitabile chiedendo, in caso di terreno edificabile, il relativo permesso, mentre, in caso di terreno non edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un'abitazione non può prevalere sull'interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente (Sez. 3, n. 2280 del 24/11/2017, dep. 2018, Lo Buono, Rv. 271769 - 01; Sez. 3, n. 35919 del 26/06/2008, Savoni, Rv. 241094 - 01; Sez. 3, n. 41577 del 20/09/2007, Ferraioli, Rv. 238258 - 01).
5.15. Orbene, se l'esigenza abitativa è irrilevante non solo ai fini della sussistenza del reato, ma anche dell'ordine di demolizione impedito con la sentenza di condanna, non si vede come questo argomento possa di per sé essere utilizzato per sterilizzare "ex post" l'ordine stesso.
5.16. Che l'art. 39, comma 14, legge n. 724 del 1994, prevede a riduzione dell'oblazione in caso di opera abusiva destinata ad abitazione principale onde ovviare a situazioni di estremo disagio abitativo è circostanza che non prova nulla se non il fatto che l'autore dell'abuso ha diritto alla riduzione della somma dovuta.
E' piuttosto vero che il fatto espressamente contemplato dal comma 13 dell'art. 39 («le opere realizzate al fine di ovviare a situazioni di estremo disagio abitativo») non è contemplato quale motivo di rilascio del condono edilizio nemmeno se l'opera è destinata ad abitazione principale.
Ne conségue che la deduzione difensiva che vorrebbe trarre dall'art. 39, commi 13 e 14, legge n. 724 del 1994 argomento a sostegno del diritto all'abitazione in caso di abuso di necessità è assolutamente infondato, a prescindere dalla genericità della deduzione stessa.
5.16.1. E' piuttosto vero che dopo la sentenza di condanna il ricorrente, invece di trovare una sistemazione alternativa e conformarsi di demolizione irrevocabilmente impartito dal giudice, ha posto in essere nel tempo condotte elusive dell'ordine onde consolidare il frutto dell'illecito perseverando in una condizione di mala fede ostativa alla applicazione del principio di proporzionalità.
6. Non è infine deducibile in sede esecutiva l'estinzione del reato avvenuta prima della sentenza irrevocabilmente pronunciata trattandosi d questione preclusa dal giudicato (e ciò a prescindere dalle considerazioni già svolte al § 4 che precede) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.09.2024 n. 35008).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di condono edilizio.
Sin da subito la Corte di cassazione ha affermato il principio secondo il quale deve essere esclusa l'ultimazione del rustico in assenza delle tamponature perimetrali, poiché costruzione al rustico è l'insieme delle strutture portanti e di tamponamento di un edificio, tale da rendere individuabile il volume agli effetti dell'art. 31.
Con specifico riferimento al "condono" del 1994, la Corte ha ribadito che
la nozione di "ultimazione" dell'immobile ai fini dell'applicazione della sanatoria edilizia deve essere in ogni caso tratta dalla formulazione dell'art. 31 della l. 28.02.1985 n. 47, che considera tali gli edifici per i quali sia completato il rustico ed eseguita la copertura (ovvero, quanto alle opere interne o agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente) essendo la normativa del 1985 espressamente richiamata dalla l. 23.12.1994 n. 724.
Anche le tamponature dei muri rientrano perciò sicuramente nel Concetto di "rustico" di cui si richiede l'ultimazione indipendentemente dal fatto che siano o debbano essere eseguite in muratura o con pannelli prefabbricati, né può trovare applicazione qualunque altra regolamentazione che modifichi, con il significato della norma, il contenuto del precetto penale
.
Tali principi sono stati ribaditi anche in relazione al "condono" del 2003:
   «
in tema di condono edilizio, la nozione di ultimazione dell'opera cui fare riferimento ai fini dell'applicabilità della relativa disciplina è quella dettata dall'art. 31, comma secondo, L. 20.02.1985, n. 47 cui rinvia l'art. 32, comma venticinquesimo, D.L. 30.09.2003, n. 269 -conv. con modd. in L. 24.11.2003, n. 326-, sicché era necessario che entro il termine del 31.03.2003 fosse stato eseguito il rustico e completata la copertura»;
  
«la realizzazione al rustico del manufatto, rilevante ai fini dell'assoggettabilità temporale dello stesso al condono, comporta il necessario completamento della copertura e il tamponamento dei muri perimetrali».
Anche la consolidata giurisprudenza amministrativa ritiene che
il concetto di "rustico" è necessariamente comprensivo delle tompagnature esterne che realizzino in concreto i volumi rendendoli individuabili ed esattamente calcolabili. Invero, «la nozione di ultimazione delle opere coincide con la realizzazione del rustico ed il completamento della copertura (art. 31, co. 5, legge n. 47/1985) e, a tal riguardo, è pacifico che per edificio al rustico s'intenda un'opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazioni, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili ed esattamente calcolabili.
---------------
L'art. 43 l. n. 47/1985
deve essere interpretato nel senso che la sanatoria deve riguardare esclusivamente le «strutture [già] realizzate» e «i lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità».
Invero,
l'art. 43, comma quinto, ha inteso esclusivamente affermare la condonabilità delle opere non potute ultimare (anche) a causa del sequestro penale limitando tale possibilità alle sole strutture già realizzate (prima dell'intervento penale) e ai lavori strettamente necessari alla funzionalità di queste ultime, non dell'opera da ultimare.
Come ripetutamente affermato anche dal Giudice amministrativo,
ai sensi degli artt. 43, comma 5, legge n. 47 del 1985 e 39 legge n. 724 del 1994, in sede di condono straordinario è consentito il completamento delle sole opere già funzionalmente definite alla data ultima del 31.12.1993, che si realizza quando si è in presenza di uno stato di avanzamento nella realizzazione del manufatto tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione; in altri termini, l'organismo edilizio deve aver assunto una sua forma stabile ed una adeguata consistenza plano volumetrica, come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione al rustico, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno.
Ed invero, l'art. 43, comma 5, legge n. 47 del 1985 va inteso nel senso che
   -
le "strutture realizzate", necessitanti lavori di completamento funzionale, devono consistere in manufatti che abbiano acquistato una fisionomia tale da renderne riconoscibile il disegno progettuale e la destinazione e debbano solo essere completati ai fini della loro funzionalità;
   -
ai fini della sussistenza dei presupposti richiesti dall'art. 43, quinto comma, legge n. 47 del 1985, per l'ottenimento del condono edilizio, per opere non ultimate devono intendersi quelle completate almeno al rustico, ossia mancanti solo delle finiture, ma necessariamente comprensive delle tamponature esterne che realizzino in concreto i volumi rendendoli individuabili ed esattamente calcolabili; per lavori attinenti alle strutture realizzate e che siano strettamente necessari alla loro funzionalità si intendono i soli lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito in modo tale da aver già acquistato una fisionomia tale da renderne riconoscibile il disegno progettuale e la destinazione e non lavori destinati ad integrare le opere con interventi edilizi che danno luogo di per sé a nuove strutture;
   -
l'art. 43 legge n. 47 del 1985 è applicabile solo ai lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito e non consente, pertanto, di integrare le opere con interventi edilizi che diano luogo a nuove strutture.
E' stato al riguardo precisato che
la disposizione di cui all'art. 43 legge n. 47 del 1985, e dunque la possibilità di completare un'opera oggetto di istanza di condono edilizio, si applica soltanto in presenza di lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito, non consentendo di integrare le opere con interventi edilizi che comportino la creazione di per sé di nuove strutture.
Infine,
in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori, pur se riconducibili, nella loro oggettività, alle catégorie della manutenzione straordinaria, della ristrutturazione o della costruzione di opere costituenti pertinenze urbanistiche, ripetono le caratteristiche d'illiceità dell'opera abusiva cui ineriscono strutturalmente, giacché la presentazione della domanda di condono non autorizza l'interessato a completare ad libitum e men che mai a trasformare o ampliare i manufatti oggetto di siffatta richiesta, stante la permanenza dell'illecito fino alla sanatoria.
---------------
La realizzazione dei lavori di completaménto di un manufatto abusivo prima della presentazione della domanda di sanatoria determina
la radicale abusività dell'intero fabbricato, non solo della parte oggetto dei nuovi lavori (nel senso che qualsiasi intervento effettuato su una costruzione realizzata abusivamente, ancorché l'abuso non sia stato represso, costituisce ripresa dell'attività criminosa originaria, integrante un nuovo reato edilizio; ne consegue che, allorché l'opera abusiva perisca in tutto o in parte o necessiti di attività manutentive, il proprietario non acquista il diritto di ricostruirla o di ristrutturarla o manutenerla senza titolo abilitativo, giacché anche gli interventi di manutenzione ordinaria presuppongono che l'edificio sul quale si interviene sia stata costruito legittimamente).
---------------

4. Tanto premesso, l'art. 39, comma 1, legge n. 724 del 1994, ha esteso la applicazione delle disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, come ulteriormente modificate dallo stesso art. 39, alle opere abusive ultimate entro il 31/12/1993 non superiori, per ordine di grandezza, alle volumetrie in essa indicate.
L'art. 31, comma 2, legge n. 47 del 1985, specifica che «si intendono ultimati gli edifici nei quali si stato eseguito il rustico e completata la copertura».
4.1. Sin da subito la Corte di cassazione ha affermato il principio secondo il quale deve essere esclusa l'ultimazione del rustico in assenza delle tamponature perimetrali, poiché costruzione al rustico è l'insieme delle strutture portanti e di tamponamento di un edificio, tale da rendere individuabile il volume agli effetti dell'art. 31 (Sez. 3, n. 4745 del 24/02/1988, Rv. 178166; Sez. 3, n. 7573 del 26/05/1992, Rv. 190934).
Con specifico riferimento al "condono" del 1994, la Corte ha ribadito che la nozione di "ultimazione" dell'immobile ai fini dell'applicazione della sanatoria edilizia deve essere in ogni caso tratta dalla formulazione dell'art. 31 della l. 28.02.1985 n. 47, che considera tali gli edifici per i quali sia completato il rustico ed eseguita la copertura (ovvero, quanto alle opere interne o agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente) essendo la normativa del 1985 espressamente richiamata dalla l. 23.12.1994 n. 724.
Anche le tamponature dei muri rientrano perciò sicuramente nel Concetto di "rustico" di cui si richiede l'ultimazione indipendentemente dal fatto che siano o debbano essere eseguite in muratura o con pannelli prefabbricati, né può trovare applicazione qualunque altra regolamentazione che modifichi, con il significato della norma, il contenuto del precetto penale (Sez. 3, n. 9011 del 12/08/1992, Rv. 208861; Sez. 3, n. 6548 del 12/04/1999, Rv. 213982; Sez. 3, n. 26119 del 13/05/2004, Rv. 228696).
Tali principi sono stati ribaditi anche in relazione al "condono" del 2003 da Sez. 3, n. 28515 del 29/05/2007, Rv. 237139 («in tema di condono edilizio, la nozione di ultimazione dell'opera cui fare riferimento ai fini dell'applicabilità della relativa disciplina è quella dettata dall'art. 31, comma secondo, L. 20.02.1985, n. 47 cui rinvia l'art. 32, comma venticinquesimo, D.L. 30.09.2003, n. 269 -conv. con modd. in L. 24.11.2003, n. 326-, sicché era necessario che entro il termine del 31.03.2003 fosse stato eseguito il rustico e completata la copertura»); Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008, dep. 2009, Rv. 242740 e, più recentemente, da Sez. 3, n. 28233 del 14/06/2011, Rv. 250658, che ha ribadito, in termini più generali, il principio secondo il quale la realizzazione al rustico del manufatto, rilevante ai fini dell'assoggettabilità temporale dello stesso al condono, comporta il necessario completamento della copertura e il tamponamento dei muri perimetrali (nello stesso senso, Sez. 3, n. 13641 del 15/11/2019, RV. 278784 - 01).
4.2. Anche la consolidata giurisprudenza amministrativa ritiene che il concetto di "rustico" è necessariamente comprensivo delle tompagnature esterne che realizzino in concreto i volumi rendendoli individuabili ed esattamente calcolabili (Cons. Stato, Sez. IV, 16.10.1998, n. 1306; Cons. Stato, Sez. IV, 15.04.2008, n. 3286; Cons. Stato, Sez. II, 26.11.2019, n. 339/2020; Cons. Stato, Sez. VI, 03.12.2018, n. 6841; Cons. Stato, Sez. II, 10.09.2019, n. 8542, che ha ribadito che «
la nozione di ultimazione delle opere coincide con la realizzazione del rustico ed il completamento della copertura (art. 31, co. 5, legge n. 47/1985) e, a tal riguardo, è pacifico che per edificio al rustico s'intenda un'opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazioni, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili ed esattamente calcolabili (C.d.S., sez. II, 05.07.2019, n. 4666; sez. VI, 03.06.2019, n. 3696; sez. VI, 20.02.2019, n. 1190)».
4.3. Nel caso di specie, il manufatto, alla data del 30.03.1992, era ancora incompleto non essendo stato chiuso in tutti i suoi lati il primo piano, tamponato completamente solo tra il 13.05.1994, data del dissequestro, e il 10.06.1994, data del successivo accesso.
4.4. La ricorrente lamenta, al riguardo, il malgoverno dell'art. 43 legge n. 47 del 1985 e l'omessa motivazione sul punto.
4.5. Secondo il costante insegnamento della Corte di cassazione, l'art. 43, cit., ai sensi del quale possono ottenere la sanatoria anche le opere non tempestivamente ultimate, nei modi e tempi prescritti, per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali, deve essere intesa quale norma di favore relativa anche ai provvedimenti del giudice penale (Sez. 3, n. 20135 del 25/03/2009, D'Antonio, Rv. 243766 - 01; Sez. 3, n. 32843 del 08/07/2005, Piazza, Rv. 232197 - 01; Sez. 3, n. 14148 del 26/10/1999, Mancuso, Rv. 215053 - 01, secondo cui deve è possibile la sanatoria dell'opera limitatamente alle strutture realizzate fino a quella data ed ai lavori destinati a consentirne la funzionalità, con esclusione di ogni altro intervento strutturale; Sez. 3, n. 7847 del 27/05/1998, Todesco, Rv. 211353 - 01; Sez. 3, n. 6906 del 12/06/1997, Sessa, Rv. 208677 - 01).
4.6. La ricorrente ne trae spunto per affermare la tempestività e legittimità degli interventi di successiva ultimazione del fabbricato di natura, afferma, nemmeno strutturale.
4.7. Sennonché, la norma deve essere interpretata nel senso che la sanatoria deve riguardare esclusivamente le «strutture [già] realizzate» e «i lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità».
Deve essere disattesa, perché manifestamente infondata, la tesi difensiva secondo la quale la norma consentirebbe, in ultima analisi, la creazione di nuovi volumi non esistenti alla data (e a causa) del sequestro e di completare, in buona sostanza, l'abuso edilizio ultimando l'opera.
4.8. L'art. 43, comma quinto, legge n. 47 del 1985 ha inteso esclusivamente affermare la condonabilità delle opere non potute ultimare (anche) a causa del sequestro penale limitando tale possibilità alle sole strutture già realizzate (prima dell'intervento penale) e ai lavori strettamente necessari alla funzionalità di queste ultime, non dell'opera da ultimare.
4.9. Come ripetutamente affermato anche dal Giudice amministrativo, ai sensi degli artt. 43, comma 5, legge n. 47 del 1985 e 39 legge n. 724 del 1994, in sede di condono straordinario è consentito il completamento delle sole opere già funzionalmente definite alla data ultima del 31.12.1993, che si realizza quando si è in presenza di uno stato di avanzamento nella realizzazione del manufatto tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione; in altri termini, l'organismo edilizio deve aver assunto una sua forma stabile ed una adeguata consistenza plano volumetrica, come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione al rustico, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno (Cons. Stato, Sez. VI, 26/05/2023, n. 5199).
Ed invero, l'art. 43, comma 5, legge n. 47 del 1985 va inteso nel senso che le "strutture realizzate", necessitanti lavori di completamento funzionale, devono consistere in manufatti che abbiano acquistato una fisionomia tale da renderne riconoscibile il disegno progettuale e la destinazione e debbano solo essere completati ai fini della loro funzionalità (Cons. Stato, Sez. VI, 20/02/2023, n. 1699, secondo cui ai fini della sussistenza dei presupposti richiesti dall'art. 43, quinto comma, legge n. 47 del 1985, per l'ottenimento del condono edilizio, per opere non ultimate devono intendersi quelle completate almeno al rustico, ossia mancanti solo delle finiture, ma necessariamente comprensive delle tamponature esterne che realizzino in concreto i volumi rendendoli individuabili ed esattamente calcolabili; per lavori attinenti alle strutture realizzate e che siano strettamente necessari alla loro funzionalità si intendono i soli lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito in modo tale da aver già acquistato una fisionomia tale da renderne riconoscibile il disegno progettuale e la destinazione e non lavori destinati ad integrare le opere con interventi edilizi che danno luogo di per sé a nuove strutture; nello stesso senso, Cons. Stato, Sez. VI, 20/07/2022, n. 6325, nonché Cons. Stato, Sez. VI, n. 17/10/2022, n. 8804, secondo cui l'art. 43 legge n. 47 del 1985 è applicabile solo ai lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito e non consente, pertanto, di integrare le opere con interventi edilizi che diano luogo a nuove strutture; in senso conforme, Cons. Stato, Sez. IV, 28/11/2016, n. 2911; Cons. Stato, Sez. V, 19/10/2011, n. 5625; Cons. Stato, Sez. IV, 18/06/2009, n. 4011).
4.10. E' stato al riguardo precisato che la disposizione di cui all'art. 43 legge n. 47 del 1985, e dunque la possibilità di completare un'opera oggetto di istanza di condono edilizio, si applica soltanto in presenza di lavori necessari per assicurare la funzionalità di quanto già costruito, non consentendo di integrare le opere con interventi edilizi che comportino la creazione di per sé di nuove strutture (Cons. Stato, Sez. VII, 07/02/2023, n. 1364; Cons. Stato, Sez. VI, n. 17/10/2022, n. 8804; Cons. Stato, Sez. VI, 11/04/2022, n. 2645; Cons. Stato, Sez. II, 13/11/2020, n. 7006).
4.11. Infine, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori, pur se riconducibili, nella loro oggettività, alle catégorie della manutenzione straordinaria, della ristrutturazione o della costruzione di opere costituenti pertinenze urbanistiche, ripetono le caratteristiche d'illiceità dell'opera abusiva cui ineriscono strutturalmente, giacché la presentazione della domanda di condono non autorizza l'interessato a completare ad libitum e men che mai a trasformare o ampliare i manufatti oggetto di siffatta richiesta, stante la permanenza dell'illecito fino alla sanatoria (Cons. Stato, Sez. VI, 20/12/2022, n. 11110; Cons. Stato, Sez. VI, 13/11/2018, n. 6367).
4.12. Deve dunque escludersi la possibilità di ultimare l'opera interrotta a causa di provvedimento giurisdizionale prima del 31.12.1993 mediante la prosecuzione dei lavori strutturalmente destinati a creare volumetrie inesistenti al momento dell'interruzione.
4.13. In ogni caso, ed è argomento che rende totalmente infondata, generica e non decisiva la deduzione difensiva, deve essere escluso che i lavori di completamento possano essere avviati prima della richiesta di rilascio di permesso in sanatoria straordinaria, non potendo provvedere a tanto nemmeno chi chieda la sanatoria ai sensi dell'art. 35 legge n. 47 del 1985. Il tredicesimo comma dell'art. 35, infatti, nel consentire la prosecuzione dei lavori alle specifiche condizioni in esso previste, presuppone comunque la presentazione della domanda.
4.14. Ne consegue che la realizzazione dei lavori di completaménto di un manufatto abusivo prima della presentazione della domanda di sanatoria determina, per le ragioni già indicate al § 4.11 che precede, la radicale abusività dell'intero fabbricato, non solo della parte oggetto dei nuovi lavori (nel senso che qualsiasi intervento effettuato su una costruzione realizzata abusivamente, ancorché l'abuso non sia stato represso, costituisce ripresa dell'attività criminosa originaria, integrante un nuovo reato edilizio; ne consegue che, allorché l'opera abusiva perisca in tutto o in parte o necessiti di attività manutentive, il proprietario non acquista il diritto di ricostruirla o di ristrutturarla o manutenerla senza titolo abilitativo, giacché anche gli interventi di manutenzione ordinaria presuppongono che l'edificio sul quale si interviene sia stata costruito legittimamente: cfr. Sez. 3, n. 38495 del 19/05/2016, Waly, Rv. 267582 - 01; Sez. 3, n. 40843 del 11/10/2005, Daniele, Rv. 232364 - 01; più recentemente, nello stesso senso, Sez. 3, n. 30673 del 24/06/2021, Saracino, Rv. 282162 - 01; Sez. 3, n. 48026 del 10/10/2019, Casola, Rv. 277349 - 01).
4.15. Si aggiunga (e costituisce argomento di non minore importanza) che, come affermato dal Giudice dell'esecuzione, la concessione in sanatoria dà atto che le opere (comprese quelle di "completamento") sono state ultimate entro il 31.12.2013 laddove, come visto, l'immobile è stato definitivamente realizzato non prima del mese di maggio dell'anno successivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.09.2024 n. 35006).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto dall'art. 31, comma nono, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, riguarda l'edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all'esercizio dell'azione penale e/o alla condanna, atteso che l'obbligo di demolizione si configura come un dovere di "restitutio in integrum" dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell'originaria costruzione.
---------------

6. Quanto alla dedotta inesistenza del titolo (derivante dal fatto che la condanna posta in esecuzione riguarda solo il completamento dell'immobile e non l'immobile nella sua interezza), fermo restando quanto già affermato ai §§ 4.11 e 4.14 che precedono, va ribadito che l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto dall'art. 31, comma nono, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, riguarda l'edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all'esercizio dell'azione penale e/o alla condanna, atteso che l'obbligo di demolizione si configura come un dovere di "restitutio in integrum" dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell'originaria costruzione (Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016, dep, 2017, Molinari, Rv. 268831 - 01; Sez. 3, n. 38947 del 09/07/2013, Amore, Rv. 256431 - 01; Sez. 3, n. 21797 del 27/04/2011, Apuzzo, Rv. 250389 - 01; Sez. 3, n. 2872 dell'11/12/2008, dep. 2009, Corimbi, Rv. 242163 - 01; Sez. 3, n. 10248 del 18/01/2001, Vitrani, Rv. 218961 - 01; Sez. 3, n. 33648 del 08/07/2022, n.m.; Sez. 3, n. 41180 del 20/10/2021, n.m.; Sez. 3, n. 30298 del 02/07/2021, n.m.; Sez. 3, n. 19112 del 10/06/2020, n.m.).
6.1. Peraltro, nel caso di specie la condanna è espressamente intervenuta per la realizzazione lavori di completamento dell'unico manufatto riconducibile ad un unico centro di interesse con conseguente unicità dell'oggetto materiale della condotta e della natura abusiva del manufatto stesso nella sua interezza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.09.2024 n. 35006).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIProselitismo in ufficio solo dal sindacalista.
Scatta la sanzione disciplinare per «l’uomo sandwich » in ufficio. Otto i giorni di sospensione dal servizio e dallo stipendio per il dipendente che durante la prestazione tiene attaccati al petto e alla schiena due copie formato A3 di un volantino sindacale: non è mai stato un delegato dei lavoratori e la sua condotta costituisce «fonte di costante distrazione dall’attività lavorativa». L’attività di proselitismo sindacale è senz’altro legittima, ma entro gli spazi comunicativi messi a disposizione dall’azienda e concordati con le organizzazioni dei lavoratori. Il tutto, però, con modalità tali da non recare pregiudizio «all’ordinario svolgimento della vita aziendale».

Così la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nell’ordinanza 13.09.2024 n. 24595.
Diligenza e decoro. Bocciato il ricorso del lavoratore. Indossando i cartelli a sandwich per tutta la giornata, il dipendente impone la visione costante del materiale sindacale a chi si trova vicino a lui. E rifiutando di togliersi di dosso i volantini viola i doveri di diligenza e di decoro imposti dal rapporto di lavoro.
Non è affatto vietato svolgere l’attività di proselitismo sindacale durante l’orario di servizio, ma è necessario che a compierla siano lavoratori in regolare permesso, per esempio i rappresentanti sindacali. E sempre che la vita aziendale non risulti alterata sul piano funzionale e produttivo, tenendo anche conto delle caratteristiche organizzative dell’impresa e del lavoro svolto.
Spazi deputati. Oltre a quello fisico, il datore deve consentire anche il volantinaggio elettronico: la posta elettronica, dunque, deve ritenersi compresa negli spazi deputati alla comunicazione sindacale. Il datore, se preferisce, può predisporre una casella mail ad hoc per le sole comunicazioni delle organizzazioni ai lavoratori.
I sindacati, dal canto loro, devono compiere l’opera di proselitismo entro gli spazi che il datore garantisce in base alla legge e agli accordi con le organizzazioni. Nella specie la sigla autonoma cui sono riconducibili i volantini non è firmataria degli accordi sulle affissioni in azienda (articolo ItaliaOggi del 24.09.2024).
---------------
SENTENZA
1)- Con il primo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione della legge n. 300/1970, degli artt. 1, 7, 14, 25, 26, nonché degli artt. 2104, 2105, 2106 c.c.
Il ricorrente lamenta la mancata considerazione del disposto degli artt. 1, 14, 26 Statuto Lavoratori ed in particolare dell’art. 25 sulla libertà sindacale, esercitabile da tutti i lavoratori. Contesta la valutazione della corte territoriale sulle conseguenze pregiudizievoli del comportamento in questione, capace di pregiudicare l’ordinario svolgimento dell’attività aziendale.
2)- Con il secondo motivo deduce violazione art. 2679 cc e 2729 cc anche in relazione agli artt. 2104, 2105, 2106, cc, e art. 7 l. n. 300/1970.
Contesta la valutazione circa il comportamento del ricorrente e la adeguatezza della sanzione inflitta.
I motivi possono essere trattati congiuntamente.
Questa Corte ha avuto occasione di chiarire che
l’attività di proselitismo sindacale nei luoghi di lavoro (nella specie si è anche occupata del cd. "volantinaggio elettronico"), incontra i limiti previsti dall'art. 26, comma 1, della l. n. 300 del 1970, e pertanto si deve ritenere consentita soltanto se effettuata senza pregiudizio per il normale svolgimento dell'attività aziendale, alla luce delle concrete modalità organizzative dell'impresa e del tipo di lavoro cui sono addetti i destinatari delle comunicazioni (Cass. n. 35643/2022; Cass. n. 5089/1986).
In particolare è stato affermato che,
pur non essendovi alcun divieto di svolgere tale attività durante l'orario di lavoro, occorre non solo che essa sia compiuta da lavoratori in regolare permesso (quali i dirigenti della R.S.A.), ma anche che, per le modalità e le cautele in concreto adottate ed avuto riguardo alle caratteristiche organizzative dell'impresa e del tipo di lavoro cui siano addetti i destinatari (….), risulti di fatto non pregiudicato l'ordinario svolgimento della vita aziendale, sotto il normale profilo funzionale e produttivo.
Nel caso in esame il giudice d’appello, riaffermando i principi che consentono a tutti i lavoratori lo svolgimento di attività sindacale nelle modalità consentite dalla contrattazione collettiva, ha peraltro individuato nella attività di proselitismo svolta dall’“uomo sandwich” un comportamento estraneo alle pattuizioni sociali in proposito realizzate.
Giova rammentare che
questa Corte, occupandosi degli obblighi datoriali circa il concreto svolgimento dell’attività di proselitismo sindacale, ha statuito che (Cass. n. 35643/2022) l'art 25 della legge n. 300/1970 nel disporre che "le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi spazi e che il datore di lavoro ha l'obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all'interno dell'unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro“, ha individuato, in linea con le condizioni comunicative all'epoca esistenti, una delle forme attraverso cui garantire lo svolgimento dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro.
Con riferimento al particolare “volantinaggio elettronico”, quale forma evolutiva dell’originario volantinaggio cartaceo, ha peraltro chiarito che l’obbligo datoriale sancito dall’art. 26 della legge n. 300/1970, secondo cui "I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all'interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell'attività aziendale”, è soddisfatto quando lo stesso mette a disposizione di ognuna delle rappresentanze sindacali aziendali un determinato idoneo spazio all'interno dell'unità produttiva, sicché non può ritenersi antisindacale il comportamento del datore di lavoro che, senza manomettere il materiale affisso sulle bacheche già installate, si limiti a spostare queste ultime in luoghi ugualmente idonei; ne' può ritenersi acquisito da parte delle rappresentanze sindacali il diritto all'affissione in un determinato luogo neanche nel caso in cui l'originaria collocazione fosse stata preventivamente concordata, e non può fondatamente parlarsi di detenzione qualificata delle bacheche (Cass. n. 1199/2000).
I principi richiamati individuano gli esatti limiti in cui intendere legittima l’opera di proselitismo sindacale e legittimo l’esercizio del diritto in tal senso, in quanto rispettoso degli “spazi” comunicativi messi a disposizione dal datore di lavoro, in adempimento degli obblighi imposti dal legislatore, anche concordati pattiziamente, e comunque tali da non recare pregiudizio all'ordinario svolgimento della vita aziendale, sotto il normale profilo funzionale e produttivo.
La corte di merito, proprio in riferimento a tale ultima condizione, ha ritenuto, con giudizio valutativo, che la particolare attività di volantinaggio attraverso “l’uomo sandwich” esulasse dai limiti imposti dall’art. 26 richiamato, in quanto fonte di costante distrazione rispetto all’attività lavorativa.
La valutazione, comunque espressione di un giudizio di merito non sindacabile in sede di legittimità, risulta rispettosa del disposto legislativo e della lettura allo stesso data in sede di diritto vivente, necessariamente sollecitato a rapportare il dettato normativo a fattispecie concrete, testimoni della evoluzione sociale dei comportamenti.
In tale quadro la particolare attività di volantinaggio costituita dall’ ”uomo sandwich”, per la durata dell’esposizione, impositiva della costante vista del materiale sindacale per la durata dell’intera prestazione lavorativa, può costituire fonte di distrazione costante e dunque recare pregiudizio all’ordinario svolgimento della vita ed attività aziendale.
Inconferenti risultano poi le doglianze relative alla errata applicazione dell’art. 62 del CCNL con riguardo alla sanzione inflitta, in quanto la corte territoriale, con valutazione di merito, oltre ad aver ritenuto fonte di certa distrazione dall’attività di lavoro la presenza dell’uomo sandwich, ha valutato anche gli ulteriori comportamenti del ricorrente ed ha considerato una pluralità di condotte (pag. 4 sentenza-inottemperanza all’ordine di rimozione dei volantini con violazione di doveri di diligenza e di decoro imposti dal rapporto di lavoro), integrative del disposto della previsione collettiva diretta a sanzionare l’inosservanza ad obblighi di legge o regolamenti.
Le censure, per quanto detto devono ritenersi infondate.
3)- Con terzo motivo è denunciata la violazione dell’art. 2697 c.c., ai fini dell’accertamento della natura discriminatoria del provvedimento sanzionatorio adottato; ai sensi dell’art. 15 legge n. 300/1970.
La censura si concentra sulla asserita natura discriminatoria del provvedimento disciplinare diretto a contrastare l’esercizio del diritto del lavoratore allo svolgimento dell’attività sindacale.
Le ragioni espresse con riguardo ai primi due motivi di censura esprimono come la valutazione svolta dalla corte territoriale sia coerente con i principi diretti a regolare l’espressione concreta dell’attività sindacale e della conseguente manifestazione dei diritti ad essa collegati.
Come già evidenziato, il provvedimento disciplinare ha riguardato comportamenti esorbitanti rispetto alle linee di condotta coerenti con la libertà di espressione e di proselitismo sindacale. Nessun profilo discriminatorio è dunque rilevabile anche perché non rappresentate da parte del ricorrente le finalità discriminatorie o persecutorie, sia pur in un regime di “agevolazione probatoria” quale quello previsto per le ipotesi di accertamento di attività discriminatorie.
A riguardo questa corte ha chiarito che nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell'onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all'art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all'art. 4 del d.lgs. 216 del 2003 (applicabile "ratione temporis"), che non stabiliscono un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, prevedendo una "presunzione" di discriminazione indiretta per l'ipotesi in cui, specie nei casi di coinvolgimento di una pluralità di lavoratori, abbia difficoltà a dimostrare l'esistenza degli atti discriminatori; ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione (Cass. n. 1/2020)
L’accertata incongruenza del comportamento del lavoratore rispetto ai principi che tutelano l’attività sindacale deve far escludere azioni vessatorie da parte del datore di lavoro, anche non supportate da nessuna indicazione specifica di trattamento univocamente discriminatorio subito da parte del ricorrente.
Il ricorso deve essere rigettato.

EDILIZIA PRIVATA: Condono, rigetto nullo se il Comune non si costituisce dopo il ricorso. Il Tar Campania boccia l’operato dell’ente che non si è difeso rispetto all’obiezione di documentazione carente.
Annullata, nel ricorso al Tar, l’ordinanza emessa dal Comune che nel procedimento amministrativo non si è costituito e non ha presentato la documentazione necessaria a sostenere il provvedimento verso cui è stato presentato ricorso.

A stabilirlo è stato il TAR Campania-Salerno, Sez. III, che, con la sentenza 13.09.2024 n. 1655, ha accolto il ricorso di una persona che era insorta contro il comune di Amalfi che aveva respinto un’istanza di condono per opere senza autorizzazione.
Tutto era iniziato quando il ricorrente aveva presentato istanza di sanatorio «per opere abusive consistenti in un ampliamento sine titulo della superficie della propria unità immobiliare».
Il Comune, «a seguito di plurime richieste di integrazione documentale (nel 2008 e nel 2011, seguite dal preavviso di rigetto) asseritamente rimate inevase, ha emesso la determinazione di archiviazione del procedimento motivata dalla mancata presentazione dei documenti previsti per legge entro il termine di tre mesi dalla espressa richiesta di integrazione notificata dal comune comporta l'improcedibilità della domanda e il conseguente diniego della concessione o autorizzazione in sanatoria per carenza di documentazione».
Per il ricorrente il provvedimento sarebbe illegittimo perché «la documentazione trasmessa al momento della presentazione dell'istanza e a seguito delle richieste di integrazione dovrebbe considerarsi completa; l'amministrazione sarebbe incorsa in un difetto di istruttoria e di motivazione, nonché nella violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241/1990, non avendo la stessa indicato analiticamente, nel provvedimento di archiviazione, la documentazione ritenuta mancante».
Successivamente il Comune non si era costituito in giudizio. Per i giudici il ricorso era meritevole di accoglimento perché «l'amministrazione, non costituendosi in giudizio né depositando alcun documento o relazione illustrativa idonei a smentire le allegazioni del ricorrente, non ha fornito alcuna dimostrazione dell'asserita incompletezza della documentazione a sostegno della richiesta di sanatoria, alla base del provvedimento impugnato».
Ricorso accolto e spese e compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 18.09.2024).
---------------
SENTENZA
Rilevato che:
   - il ricorrente ha presentato istanza di sanatoria ex l. n. 724/1994 (c.d. secondo condono) per opere abusive consistenti in un ampliamento sine titulo della superficie della propria unità immobiliare;
   - il Comune, a seguito di plurime richieste di integrazione documentale (nel 2008 e nel 2011, seguite dal preavviso di rigetto) asseritamente rimate inevase, ha emesso la determinazione, dagli estremi indicati in epigrafe, di archiviazione del procedimento, gravata in questa sede, motivata dalla “mancata presentazione dei documenti previsti per legge entro il termine di tre mesi dalla espressa richiesta di integrazione notificata dal comune comporta l'improcedibilità della domanda e il conseguente diniego della concessione o autorizzazione in sanatoria per carenza di documentazione”, come previsto dall’art. 2, comma 37, lett. d), l. n. 662/1996;
   - ad avviso del ricorrente, il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo giacché, in sintesi,
a) la documentazione trasmessa al momento della presentazione dell’istanza e a seguito delle richieste di integrazione dovrebbe considerarsi completa, alla stregua di quanto previsto dall’art. 35, l. n. 47/1985;
b) l’amministrazione sarebbe incorsa in un difetto di istruttoria e di motivazione, nonché nella violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990, non avendo la stessa indicato analiticamente, nel provvedimento di archiviazione, la documentazione ritenuta mancante;
...
Ritenuto che:
   - il ricorso merita accoglimento -assorbite le censure di carattere formale sub b)- giacché l’amministrazione, non costituendosi in giudizio né depositando alcun documento o relazione illustrativa idonei a smentire le allegazioni del ricorrente, non ha fornito alcuna dimostrazione dell’asserita incompletezza della documentazione a sostegno della richiesta di sanatoria, alla base del provvedimento impugnato;
   - conseguentemente, il provvedimento impugnato deve essere annullato, con salvezza delle ulteriori determinazioni del Comune;

APPALTI: Modalità di calcolo della soglia di anomalia ai fini dell’esclusione automatica delle offerte (metodo A dell'allegato II.2 del decreto legislativo n. 36/2023).
---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalti di lavori e servizi – Codice degli appalti pubblici - Aggiudicazione – Criterio del prezzo più basso – Soglia di anomalia - Offerte anomale – Esclusione automatica.
In caso di appalto da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso, il sistema di esclusione automatica delle offerte anomale di cui al metodo A dell’allegato II.2 del decreto legislativo 31.03.2023, n. 36 va interpretato nel senso che deve essere escluso l’operatore economico che abbia offerto un ribasso pari o superiore (e non solo superiore) alla soglia di anomalia, in continuità con l’analoga previsione contenuta nel previgente codice degli appalti pubblici (decreto legislativo 18.04.2016, n. 50). (1).
In motivazione, la sezione ha preso atto del difetto di coordinamento tra le disposizioni contenute nell’allegato II.2 del decreto legislativo 31.03.2023, n. 36 (Metodo di calcolo della soglia di anomalia per l’esclusione automatica delle offerte) laddove, con riferimento al metodo A,
   per un verso si prevede che la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso “pari o superiore” a una soglia di anomalia determinata (punti 1 e 2),
   dall’altro, conclude disponendo che tutti gli sconti “superiori” alla soglia di anomalia sono automaticamente esclusi (punto 3).
A fronte di tale differente formulazione si è ritenuto, in ciò conformandosi a recente orientamento della giurisprudenza amministrativa e dell’Anac, di prediligere una interpretazione coerente con il previgente istituto di cui all’art. 97 del decreto legislativo 18.04.2016 n. 50 che, per ipotesi analoga, comminava l'esclusione automatica dalla gara delle offerte con una percentuale di ribasso “pari o superiore” alla soglia di anomalia.

---------------
   (1) Conformi: Cons. Stato, sez. VII, 01.07.2024, n. 5780; Tar per il Piemonte, sez. I, 15.05.2024, n. 514; Tar per la Toscana, sez. I, 24.05.2024, n. 628; Tar per la Puglia, sez. I, 10.06.2024, n. 731
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 12.09.2024 n. 3010 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
7. Il ricorso è fondato per quanto di seguito esposto e considerato.
8. Ai sensi dell’art. 54, comma 1, primo periodo, del d.lgs. 36 del 2023 “Nel caso di aggiudicazione, con il criterio del prezzo più basso, di contratti di appalto di lavori o servizi di importo inferiore alle soglie di rilevanza europea che non presentano un interesse transfrontaliero certo, le stazioni appaltanti, in deroga a quanto previsto dall'articolo 110, prevedono negli atti di gara l'esclusione automatica delle offerte che risultano anomale, qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque”.
Il successivo comma 2 stabilisce che “Nei casi di cui al comma 1, primo periodo, le stazioni appaltanti indicano negli atti di gara il metodo per l'individuazione delle offerte anomale, scelto fra quelli descritti nell'allegato II.2, ovvero lo selezionano in sede di valutazione delle offerte tramite sorteggio tra i metodi compatibili dell'allegato II.2”.
L’art. 15 del disciplinare di gara concernente la procedura per cui è causa richiama espressamente il suddetto art. 54 del d.lgs. 36/2023, stabilendo che verrà disposta “...l'esclusione automatica delle offerte che risultano anomale, qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque. Per il calcolo della soglia di anomalia la commissione di gara individua, tramite sorteggio, uno dei metodi tra quelli previsti nel METODO A punto 2 dell'allegato II.2 del D.L.vo 36/2023”.
Il Metodo A, come disciplinato dal suddetto allegato II.2, individua la modalità di calcolo della somma di anomalia, prevedendo:
   - al punto 1), che “Quando il numero delle offerte ammesse è pari o superiore a quindici, la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o superiore a una soglia di anomalia determinata; (…)”:
   - al punto 2), che “Quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a quindici, la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o superiore a una soglia di anomalia determinata; (…)”;
   - al punto 3), che “Tutti gli sconti superiori alla soglia di anomalia sono automaticamente esclusi. Tra le offerte non escluse, la stazione appaltante individua come vincitrice quella con lo sconto maggiore”.
È di tutta evidenza che dal combinato disposto delle sopra riportate parti del Metodo A di calcolo della soglia di anomalia, come disciplinato dal predetto allegato II.2 del d.lgs. 36 del 2023, si evinca un’aporia normativa cui è incorso il legislatore di settore, il quale:
   - da un lato, stabilisce che “la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o superiore a una soglia di anomalia determinata”;
   - dall’altro, conclude disponendo che “Tutti gli sconti superiori alla soglia di anomalia sono automaticamente esclusi”.
La differente espressione linguistica scelta nel punto 3) del Metodo A, ove si fa riferimento -per quanto concerne l’esclusione automatica delle offerte anomale- ai soli “sconti superiori alla soglia di anomalia” e non più, come invece avviene nel corpo della disposizione che lo precede, alle “offerte che presentano un ribasso pari o superiore…” a tale soglia, ingenera il dubbio interpretativo in ordine alla sua corretta applicazione da parte delle stazioni appaltanti.
Il Collegio, condividendo l’approdo interpretativo cui è giunto il Consiglio di Stato con la sentenza n. 5780 dell’01.07.2024 (cfr. anche, TAR Piemonte, Sez. I, 15.05.2024, n. 514; TAR Toscana, Sez. I, 24.05.2024, n. 628; TAR Puglia, Bari, Sez. I, 10.06.2024, n. 731), ritiene che la problematica interpretativa innestata dall’infelice formulazione letterale di cui sopra debba essere risolta nei termini che seguono.
Come si evince dalla Relazione di accompagnamento del d.lgs. 36 del 2023, la quale costituisce un prezioso ausilio utile a ricercare “l’interpretazione autentica” delle disposizioni del nuovo Codice dei contratti pubblici che possono risultare di non immediata comprensione applicativa –e che costituisce «“materiale della legge” (Gesetzmaterial) che si propone come un vero e proprio manuale operativo per l’uso del nuovo codice, assorbendo anche la funzione di indirizzo attuativo sinora rivestita dalle “linee guida non vincolanti”»– il Metodo A del calcolo della soglia di anomalia e la conseguente disciplina concernente l’esclusione delle offerte c.d. anomale si collocano in linea di continuità con quanto già previsto dal precedente d.lgs. 50 del 2016, il cui art. 97, stabiliva, in particolare:
   - al comma 2-bis, che “Quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso e il numero delle offerte ammesse è inferiore a 15, la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o superiore ad una soglia di anomalia determinata; (…)”;
   - al comma 8, che “Per lavori, servizi e forniture, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso e comunque per importi inferiori alle soglie di cui all’articolo 35, e che non presentano carattere transfrontaliero, la stazione appaltante prevede nel bando l'esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi del comma 2 e dei commi 2-bis e 2-ter. (…)”.
Dalla lettura della suddetta Relazione di accompagnamento, in particolare, si desume che il Metodo A “…replica esattamente il metodo introdotto, all’art. 97, commi 2 e 2-bis, del decreto legislativo n. 50 del 2016, dalla lett. u), n. 1), dell’art. 1, comma 20, del decreto-legge n. 32 del 2019, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 55 del 2019. La scelta di mantenere la possibilità di ricorrere a questo metodo è duplice. In primo luogo, esso permette alle stazioni appaltanti di ricorrere ad un metodo da loro già ampiamente utilizzato e, quindi, riduce le complessità di adeguarsi nell’immediato a sistemi potenzialmente più efficaci, ma anche più complessi quali quelli dei due metodi presentati di seguito come Metodo B e Metodo C. (…)” (cfr. pag. 83 della Relazione).
Viene, quindi, confermata dal legislatore codicistico la piena operatività del metodo del c.d. taglio delle ali (cfr., sul punto, anche Ad. Plen., 19.09.2017, n. 5 in riferimento all’analogo metodo di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 -ora Metodo A dell’allegato II.2- per la determinazione della soglia).
Ad ulteriore conferma di quanto sopra, la Relazione di accompagnamento riporta una tabella illustrativa (cfr. Tavola “Esito della gara secondo i diversi metodi”, pag. 85 della Relazione) ove vengono evidenziate, in termini applicativi, le differenze tra il Metodo A, da un lato, e i Metodi B e C, dall’altro (rispetto ai quali sono escluse solo le offerte superiori alla soglia di anomalia), preceduta da una spiegazione, in concreto, del primo metodo (Metodo A), ribadendosi che “(…).Vengono escluse le imprese con offerte pari o superiori alla soglia di anomalia (…)”.
È quindi certo, ad avviso di questo organo giudicante, che il legislatore codicistico sia incorso in una svista nella formulazione normativa adoperata nel suddetto allegato II.2, come anche confermato -a contrario– dall’analisi del Metodo B e del Metodo C di calcolo della soglia di anomalia, i quali presentano loro specifiche peculiarità tali da giustificare l’esclusione soltanto delle offerte superiori alla soglia di anomalia individuata.
L’interpretazione sostenuta dalla Stazione appaltante, che pure invoca il dato letterale del punto 3) del Metodo A dell’allegato II.2, si scontra -quindi- sul piano dell’interpretazione sistematica con le sopra esposte considerazioni.
Tale linea interpretativa risulta, peraltro, coerente con quanto rilevato dall’ANAC con il Parere di cui alla Delibera n. 536 del 21.11.2023, la quale ha evidenziato la volontà del legislatore di non compiere un’inversione di tendenza nelle modalità applicative dell’istituto e di salvaguardare la continuità con la previgente normativa di cui al pregresso d.lgs. 50 del 2016.
Deve quindi ritenersi che, in applicazione corretta del suddetto Metodo A, l’offerta che presenti un ribasso percentuale “pari” alla soglia di anomalia debba essere automaticamente esclusa insieme alle offerte di ribassi superiori, come già previsto dalla disciplina previgente.
Tale conclusione risulta del resto in linea con il disposto dell'articolo 1, comma 2, del d.lgs. n. 36 del 2023 il quale, nel descrivere il principio del risultato, afferma espressamente che: "La concorrenza tra gli operatori economici è funzionale a conseguire il miglior risultato possibile nell'affidare ed eseguire i contratti". Con il principio de quo il legislatore ha, quindi, sancito che la concorrenza non deve essere vista come un fine ma come il mezzo attraverso il quale viene tutelato l'interesse pubblico ad un affidamento efficace, tempestivo ed efficientemente eseguito; obiettivo, questo, che può essere raggiunto solo selezionando a monte gli operatori che dimostrino diligenza e professionalità, quali "sintomi" di una affidabilità che su di essi dovrà esser riposta al momento in cui, una volta aggiudicatari, eseguiranno il servizio oggetto di affidamento (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. III, 12.12.2023, n. 3738).
L’estromissione dalla gara di un operatore la cui offerta sia “pari” -e non soltanto superiore- alla soglia di anomalia calcolata nell’ambito delle procedure in cui trova applicazione il suesposto Metodo A dell’allegato II.2. del d.lgs. 36 del 2023 è, invero, coerente con l’obiettivo dell’Amministrazione ministrazione di tendere al miglior risultato possibile, in "difesa" dell'interesse pubblico per il quale viene prevista una procedura di affidamento.
Il miglior risultato possibile, che sia anche il più "virtuoso", viene raggiunto, ad avviso del Collegio, anche mediante un’applicazione della disciplina de qua che conduca ad escludere dalla competizione chi abbia offerto un prezzo che -proprio perché pari alla soglia di anomalia nell’ambito- può essere indice del mancato rispetto di quei presìdi di qualità ed efficienza della commessa che l’operatore è chiamata a svolgere, finendo per tradire la funzionalizzazione verso il miglior soddisfacimento dell’interesse pubblico cui essa deve tendere (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 12.09.2024 n. 3010 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Grave violazione fiscale a 5mila €? Il CdS dubita della legittimità  della norma.
E’ da verificare la costituzionalità della norma del codice appalti che fissa a 5.000 euro la soglia superata la quale una violazione tributaria o fiscale definitivamente accertata può essere definita grave e quindi tale da determinare l’esclusione automatica dell’operatore economico che partecipa ad una procedura di affidamento di un appalto, o di una concessione.

Lo chiede il Consiglio di Stato, Sez. III, con l’ordinanza 11.09.2024 n. 7518 di rimessione alla corte costituzionale.
Per i giudici di palazzo Spada infatti avere definito per legge una soglia fissa, peraltro di importo minimo e sganciata dal valore del contratto da affidare, potrebbe essere una scelta in contrasto con i principi di parità di trattamento, proporzionalità e ragionevolezza.
La questione era sorta nella vigenza del precedente codice appalti (d.lgs. 50/2016) con riguardo alle cause di esclusione previste nell’allora vigente articolo 80, il cui contenuto è stato ripreso (sempre con riguardo alle violazioni definitivamente accertate) dall’articolo 94, comma 6, del d.lgs. 36/2023 che a sua volta rinvia all’allegato II.10 del codice stesso, il quale, infine, richiama il medesimo decreto che ha fissato a 5.000 euro (era in precedenza 10.000) la soglia di gravità.
Nel caso esaminato dai giudici la pendenza tributaria (18.000 euro) rientrava pacificamente nell’ambito di applicazione di cui all’articolo 80, comma 4 del d.lgs. 50/2016, in quanto ben oltre la soglia dei 5000 euro (di cui all’articolo 48-bis d.P.R. n. 602 del 1973) ed era da ritenersi definitivamente accertata visto che non era stato impugnato l’invito al pagamento.
Nel ricorso in appello, premessa l’irrilevanza della violazione se rapportata al valore dell’appalto (10milioni di euro), si eccepiva la violazione del principio di proporzionalità della pena di cui all’art. 49, par. 3, della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, ritenuto dalla Corte di giustizia nel 2022 di efficacia diretta in ogni paese membro. Si tratterebbe infatti si una misura estremamente penalizzante e in evidente sproporzione sia in assoluto sia in ragione del minimo valore.
Inoltre si censurava il fatto che la norma impedisce alla stazione appaltante la possibilità di effettuare ogni tipo di comparazione e ponderazione rispetto alla tenuità dell’infrazione fiscale, diversamente dai casi di esclusione per violazioni non definitivamente accertate di cui all’articolo 80, comma 4, del decreto 50/2016 (almeno il 10% del valore e almeno 35.000 euro).
Le tesi vengono di fato accolte nell’ordinanza dei giudici di Palazzo Spada: “il meccanismo determinativo della soglia di gravità per le irregolarità fiscali a valenza automaticamente escludente di cui al primo e secondo periodo dell’art. 80, co. 4, d.lgs. 50/2016 si pone in tensione insanabile con l’art. 3 Cost. quale crogiuolo in cui si fondono secondo un sapiente dosaggio assiologico i principi cardinali di proporzionalità e ragionevolezza”.
Aggiungono i magistrati che “la fissazione della soglia dell’insoluto rilevante in valore assoluto –e, si aggiunga, di importo effimero– non favorisce necessariamente la parità di trattamento agevolando asseritamente il buon andamento della pubblica amministrazione nella verifica di affidabilità del futuro contraente: come già evidenziato, l’invariabilità della soglia, appiattita fortemente verso il basso, omologa situazioni tra loro molto differenti mettendo su un piede di dubbia parità piccoli e grandi contribuenti, nella cornice di gare di respiro locale per valori modesti e di maxi procedure di potenziale rilievo transfrontaliero di entità plurimilionaria”.
Per queste ragioni l’ordinanza ha sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 80, comma 4, secondo periodo, del d.lgs. n. 50/2016, per violazione dell’art. 3 della carta costituzionale (articolo ItaliaOggi del 21.09.2024).

APPALTI: Alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità dell’art. 80, comma 4, secondo periodo del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di servizi – Valore dell’appalto – Soglia escludente – Determinazione – Canoni di proporzionalità e ragionevolezza.
È rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 80, comma 4, secondo periodo del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 in relazione all’art. 3 della Costituzione.
L’intervento correttivo che si profila necessario per ricondurre l’automatismo legale ad effetto escludente, di cui all’art. 80, co. 4, primo e secondo periodo, nei binari dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza consiste nell’inserzione di una chiara previsione di principio che àncori la determinazione della soglia escludente al valore dell’appalto, sulla falsariga del congegno divisato dal settimo periodo e inverato, infine, dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 28.09.2022.
Sarebbe bastevole ad elidere i rilevanti profili di contrasto un intervento additivo di principio del giudice delle leggi, secondo cui costituiscono gravi violazioni definitivamente accertate quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all'importo di cui all'articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602 e che, in ogni caso, sono correlate al valore dell'appalto. (1)

---------------
   (1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 23.02.2023, n. 1890, Cons. Stato, Ad. plen. 20.07.2015, n. 8; Cons. Stato, sez. V, 02.05.2022, n. 3439; sez. IV, 01.04.2019, n. 2113; sez. V, 12.02.2018, n. 856; Corte cost., sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016)
(Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 11.09.2024 n. 7518 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
ORDINANZA
4. – Di tutt’altro spessore è la seconda questione profilata da Du. che punta i riflettori sulla qualificazione di gravità della violazione tributaria al mero superamento della soglia fissa e predeterminata di cinquemila euro, in forza della relatio all’art. 48-bis d.P.R. 602 del 1973, per tacciarla di contrasto con l’art. 3 Cost., sub specie di contrasto coi principi di ragionevolezza e proporzionalità, cardinale e ordinale in rapporto al tertium comparationis rappresentato dal più temperato meccanismo di commisurazione della soglia di gravità per le violazioni non definitivamente accertate di cui al settimo periodo del medesimo comma 4 dell’art. 80.
5. – Alla luce dell’ampia disamina sin qui svolta il Collegio ritiene innanzitutto la questione rilevante ai fini della decisione della presente controversia.
L’esclusione dell’operatore economico dovrebbe conseguire quale effetto vincolato e automatico al riscontro del superamento della soglia normativamente scandita in caso di violazione definitivamente accertata della normativa tributaria, sicché il gravame proposto da Ma. dovrebbe trovare accoglimento con la conseguente esclusione di Du. dalla procedura alla luce dell’acclarata violazione della normativa fiscale in materia di contributo unificato, definitivamente accertata stante l’intervenuta inoppugnabilità dell’atto di accertamento del 16.07.2020 e l’incontrovertibile gravità della stessa in quanto il debitum tributario residuo ammontava a 18mila euro sino al momento regolarizzazione definitiva avvenuta il 29.06.2022, quindi traguardava la soglia di euro 5mila stabilita dall’art. 80, co. 4, secondo periodo, d.lgs. 50/2016 per rinvio fisso all’art. 48-bis d.P.R. n. 602 del 1973.
Né rileverebbero in alcun modo le sorti del secondo motivo di appello, incentrato sui denunciati profili di anomalia dell’offerta di Du., il cui scrutinio sarebbe logicamente e necessariamente successivo al tema decisorio dell’ammissibilità della sua partecipazione.
Si profila, dunque, all’orizzonte applicativo della vertenza una fattispecie di vero e proprio automatismo escludente che non consente graduazioni rispetto all’intrinseco disvalore della violazione, né parametrizzazioni con il valore della commessa pubblica per cui si compete, con il risultato che, come stigmatizza la controinteressata, “la sanzione espulsiva da un appalto di circa 10milioni di Euro, secondo l’appello di Ma., troverebbe fondamento nel mancato, o meglio ritardato, pagamento di Euro 18.000”.
Il limpido dato testuale non lascia spazio per esegesi difformi, né operazioni ermeneutiche correttive: non si può, infatti, far luogo alla disapplicazione della norma nazionale, pur invocata dalla difesa di Du. (v. punto 8 memoria Du. 28.05.2024), in forza dell’efficacia diretta del principio di proporzionalità eurounitario secondo le coordinate applicative tracciate dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea 08.03.2022, C-205/20 (NE).
La pronuncia del giudice unionale fa espresso riferimento alla branca del diritto sanzionatorio laddove il diritto dell’Unione prescrive di assicurare l’osservanza delle proprie norme (nella specie, le disposizioni della direttiva 96/71/CE) con sanzioni “effettive, proporzionate e dissuasive” –secondo la felice formula originariamente coniata dagli stessi giudici comunitari nella pronuncia 21.09.1989, causa C-68/88, Commissione c. Grecia- e statuisce che, facendo leva sull’effetto diretto della direttiva in parte qua, “il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso impone alle autorità nazionali l’obbligo di disapplicare una normativa nazionale, parte della quale è contraria al requisito di proporzionalità delle sanzioni previsto all’articolo 20 della direttiva 2014/67, nei soli limiti necessari per consentire l’irrogazione di sanzioni proporzionate”.
La direttiva 24/2014/UE non qualifica, infatti, l’esclusione dalla procedura in termini sanzionatori, né riproduce la formula ormai tralatizia coniata nella ricordata pronuncia Commissione c. Grecia del 1989, sicché il Collegio non ravvisa margini per un’esegesi eurounitariamente conforme che faccia ricorso alla disapplicazione normativa “per consentire l’irrogazione di sanzioni proporzionate”. Del resto, a ben vedere non pare possa discorrersi di sanzione in senso tecnico essendo l’esclusione dalla procedura una conseguenza necessitata dalla carenza di un requisito di ordine generale per l’ammissione alla gara.
Parimenti, non appare percorribile una linea ermeneutica adeguatrice che, recuperando un nesso di correlazione tra l’entità della violazione e il valore della commessa pubblica in palio, assicuri un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in conformità coi canoni di ragionevolezza e proporzionalità ex art. 3 Cost.: qualsivoglia intervento disapplicativo/manipolativo comporterebbe di fatto un’eterointegrazione normativa, emulativa della soluzione regolatoria più graduata recata dalla previsione di cui al settimo periodo del medesimo comma 4. Operazione sostanzialmente creativa preclusa, con tutta evidenza, a questo giudice a quo.
Tanto considerato, il Collegio rimettente deve concludere che l’unica soluzione applicativa prospettabile de jure condito nella controversia in esame sarebbe rappresentata dall’accoglimento del gravame -come del resto concluso dall’Adunanza plenaria n. 7/2024 nella vertenza speculare- in piana applicazione della disposizione della cui tenuta costituzionale si viene invece a dubitare, in adesione alle notazioni critiche svolte dal collegio difensivo di Du..
Indi, la rilevanza della questione si impone con tutta evidenza senza possibilità alcuna di soluzioni costituzionalmente conformi che possano scongiurare il presente incidente di costituzionalità.
6. – Con riguardo al presupposto della non manifesta infondatezza della questione si impongono alcune considerazioni di carattere preliminare di indole storico-sistematica.
6.1. – Il requisito della regolarità fiscale ai fini della partecipazione di un operatore economico alle procedure evidenziali per l’assegnazione di commesse pubbliche non è mai mancato nella trama positiva adottata dallo Stato italiano in attuazione delle direttive comunitarie via via susseguitesi.
L’art. 38 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, nel disciplinare i requisiti di ordine generale per la partecipazione alle gare già stabiliva l’esclusione dalle procedure di affidamento a carico degli soggetti “che hanno commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti” (formulazione anteriore alle modifiche apportate dal D.L. 70/2011, che ha interpolato l’attributo “gravi” dopo “violazioni”).
La norma costituisce attuazione facoltativa della previsione di cui all’art. 45 Dir. 2004/18/CE, par. 2, lett. f) (relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi) secondo cui “Può essere escluso dalla partecipazione all'appalto ogni operatore economico: […] f) che non sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento delle imposte e delle tasse secondo la legislazione del paese dove è stabilito o del paese dell'amministrazione aggiudicatrice”.
6.2. – La trama positiva si è sviluppata e arricchita con l’avvento della nuova direttiva unionale 2014/24/UE sugli appalti pubblici che ha abrogato la direttiva 2004/18/CE; la disciplina unionale ha, infatti, tracciato un discrimen tra violazioni tributarie definitivamente accertate o meno stabilendo, all’art. 57, par. 2, una dicotomia tra esclusione obbligatoria e facoltativa: da un lato, “un operatore è escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se l’amministrazione aggiudicatrice è a conoscenza del fatto che l’operatore economico non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali e se ciò è stato stabilito da una decisione giudiziaria o amministrativa avente effetto definitivo e vincolante secondo la legislazione del paese dove è stabilito o dello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice”, e, dall’altro, “le amministrazioni aggiudicatrici possono escludere o possono essere obbligate dagli Stati membri a escludere dalla partecipazione a una procedura d’appalto un operatore economico se l’amministrazione aggiudicatrice può dimostrare con qualunque mezzo adeguato che l’operatore economico non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali”.
Il legislatore nazionale non ha immediatamente recepito l’impianto dicotomico limitandosi a perpetuare la fattispecie di esclusione obbligatoria per le sole violazioni definitivamente accertate fintantoché questo recepimento parziale non è stato oggetto, insieme ad altri profili, dell’attenzione della Commissione europea nell’ambito della procedura di infrazione n. 2018/2273 promossa con lettera di costituzione in mora del 24.01.2019: la Commissione ha, infatti, ritenuto che “l’articolo 80, comma 4, del decreto legislativo 50/2016 non è conforme alle disposizioni della direttiva 2014/23/UE e della direttiva 2014/24/UE in quanto non consente di escludere un operatore economico che ha violato gli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali qualora tale violazione –pur non essendo stata stabilita da una decisione giudiziaria o amministrativa avente effetto definitivo– possa essere comunque adeguatamente dimostrata dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore”.
Sicché, il governo italiano ha emendato tale profilo di censura con due interventi correttivi: dapprima, l’art. 8, co. 5, lett. b), D.L. n. 76 del 2020 ha coniato ex novo la fattispecie di esclusione non automatica per gravi violazioni non definitivamente accertate, mantenendo l’uniformità della nozione di gravità mercé la relatio all’art. 48-bis d.P.R. 602/1973 (“Un operatore economico può essere escluso dalla partecipazione a una procedura d'appalto se la stazione appaltante è a conoscenza e può adeguatamente dimostrare che lo stesso non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali non definitivamente accertati qualora tale mancato pagamento costituisca una grave violazione ai sensi rispettivamente del secondo o del quarto periodo”); dipoi, con l’intervento novellistico della legge europea 2019-2020 (legge 23.12.2021, n. 238) il legislatore nazionale ha ritenuto di differenziare il congegno determinativo della soglia di gravità per le due fattispecie introducendo, per quelle non definitivamente accertate, il rimando alla fonte regolamentare vincolata dalla parametrizzazione al valore dell’appalto e dalla soglia non inferiore a 35mila euro (rimando che ha trovato, infine, inveramento con l’emanazione del D.M. 22.09.2022, v. infra).
Sicché, il nuovo ordito normativo recato dal contestato art. 80, co. 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 ora recepisce rispettivamente nel primo e nel quinto periodo le fattispecie di esclusione obbligatoria e facoltativa per irregolarità fiscale stabilendo come noto che:
   i. un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d'appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamen