e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
 

NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-quesiti & pareri M.I.M.S. (ex M.I.T.)
13-utilità
- - -
DOSSIER
:
14-
ABBAINO
15-
ABUSI EDILIZI
16-ABUSI EDILIZI (tolleranza del 2%)

17-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
18-AGIBILITA'
19-AMIANTO
20-ANAC (già AVCP)
21
-APPALTI
22-ARIA
23-ASCENSORE
24-ASL + ARPA
25-ATTI AMMINISTRATIVI
26-ATTI AMMINISTRATIVI (abuso d'ufficio ed altri reati correlati con la P.A.)
27-ATTI AMMINISTRATIVI (accesso esposto e/o permesso di costruire e/o atti di P.G.)
28-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
29-ATTI AMMINISTRATIVI (P.E.C. - Posta Elettronica Certificata)
30-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
31-BARRIERE ARCHITETTONICHE
32-BOSCO
33-BOX
34-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
35-CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro - SBARRA/STANGA
36-CANNE FUMARIE e/o COMIGNOLI
37-CARTELLI STRADALI
38-CARTELLO DI CANTIERE - COMUNICAZIONE INIZIO LAVORI
39-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
40-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
41
-C.I.L. e C.I.L.A.
42
-COMPETENZE GESTIONALI
43
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
44-CONDIZIONATORE D'ARIA
45-CONDOMINIO
46-CONSIGLIERI COMUNALI
47-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
48-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
49-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
50-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
51-DEBITI FUORI BILANCIO
52-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
53-DIA e SCIA
54-DIAP
55-DIRITTI di SEGRETERIA in MATERIA EDILIZIO-URBANISTICA
56-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
57-DISTANZA dai CONFINI
58-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA - DEMANIO MARITTIMO/LACUALE
59-DISTANZA dalla FERROVIA

60-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
61-DURC
62-EDICOLA FUNERARIA
63-EDIFICIO UNIFAMILIARE
64-ESPROPRIAZIONE
65-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
66-IMMEDIATA ESEGUIBILITA' DELIBERAZIONI di CONSIGLIO e GIUNTA COMUNALE
67-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
68-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
69-INCENTIVO PROGETTAZIONE (ora INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE)
70-INDUSTRIA INSALUBRE
71-L.R. 12/2005
72-L.R. 23/1997
73-L.R. 31/2014
74-LEGGE CASA LOMBARDIA
75-LICENZA EDILIZIA (necessità)
76-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
77-LOTTO INTERCLUSO
78-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
79-MOBBING
80-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
81-OPERE PRECARIE
82-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
83-PATRIMONIO
84-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
87-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
88-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
89-PERMESSO DI COSTRUIRE (commissione edilizia e/o paesaggio - parere)
90-PERMESSO DI COSTRUIRE (commissione paesaggio - nomina, compenso, ecc.)

91-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
92-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
93-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
94
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
95-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
96-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
97-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
98-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
99-PISCINE
100-PUBBLICO IMPIEGO
101-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
102-RIFIUTI E BONIFICHE
103-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
104-RUDERI
105-
RUMORE
106-SAGOMA EDIFICIO
107-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi) e SANATORIA SISMICA
108-SCOMPUTO OO.UU.
109-SEDIME (area di)
110-SEGRETARI COMUNALI
111-SEMINTERRATI
112-SIC-ZSC-ZPS - VAS - VIA
113-SICUREZZA SUL LAVORO
114
-
SILOS
115-SINDACATI & ARAN
116-SOPPALCO
117-SOTTOTETTI
118-SUAP
119-SUE
120-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
121-
TELEFONIA MOBILE
122-TENDE DA SOLE
123-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
124-TRIBUTI LOCALI
125-VERANDA
126-VINCOLO CIMITERIALE
127-VINCOLO IDROGEOLOGICO
128-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
129-VINCOLO STRADALE
130-VOLUMI TECNICI / IMPIANTI TECNOLOGICI

131-ZONA AGRICOLA
132-ZONA SISMICA E CEMENTO ARMATO

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link 1-BG - link 2-MI
link 3-CR
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2 - link 3-BG
link 4-MI

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
P.E.C. (indirizzi):
Registro I.P.A. – Indice delle PP.AA. e dei gestori dei pubblici servizi
Registro RE.G.IND.E. delle PP.AA. (Registro Generale degli Indirizzi Elettronici)
Registro I.N.I.-P.E.C. delle IMPRESE e PROFESSIONISTI
Registro I.NA.D. Indice Nazionale dei Domicili Digitali
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2 - inPA - Portale del Reclutamento
3
- mobilità
 
 
 

In questa home-page sono presenti oltre all'ultimo aggiornamento, che inizia appena qui sotto, anche i seguenti aggiornamenti pregressi:
 
    AGGIORNAMENTO AL 19.02.2024
AGGIORNAMENTO AL 30.01.2024 AGGIORNAMENTO AL 23.01.2024 AGGIORNAMENTO AL 09.01.2024

AGGIORNAMENTO AL 28.02.2024

GIURISPRUDENZA

URBANISTICAGiusta il costante orientamento giurisprudenziale, in materia di pianificazione urbanistica deve essere riconosciuta al Comune un’ampia discrezionalità, con la conseguenza che la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato dei privati a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
Invero, deve rilevarsi che, «con riferimento all’esercizio dei poteri pianificatori urbanistici, la tutela dell’affidamento è riservata ai seguenti casi eccezionali:
   I) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l’avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona;
   II) pregresse convenzioni edificatorie già stipulate;
   III) giudicati (di annullamento di dinieghi edilizi o di silenzio-rifiuto su domande di rilascio di titoli edilizi), recanti il riconoscimento del diritto di edificare;
   IV) modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo».
Quindi, in assenza di un affidamento qualificato, giuridicamente tutelato, in capo all’Azienda ricorrente, la potestà pianificatoria non è soggetta al principio del divieto di reformatio in peius, in quanto l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse degli amministrati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina a interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
Oltretutto, è ormai condiviso in giurisprudenza l’orientamento secondo il quale «“… l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi-, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio”.
Sino al punto di ritenere legittima la scelta pianificatoria della c.d. “opzione zero” a seguito della quale lo strumento urbanistico non consente più, de futuro, l’ulteriore consumo di suolo».
Peraltro, può accadere che la destinazione di un’area a verde agricolo con divieto di edificazione non implichi necessariamente che si debbano soddisfare in modo diretto e immediato interessi agricoli, ma piuttosto può essere finalizzata al perseguimento di esigenze di ordinato governo del territorio, legate alla necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a preservare tale equilibrio, come accade nella fattispecie de qua.
---------------
... per l’annullamento
   - della deliberazione del Consiglio comunale di Lurate Caccivio del 14.12.2019, n. 52, pubblicata in data 22.04.2020, nelle sole parti in cui,
   (i) in accoglimento delle osservazioni n. 11.8, lett. c), proposte dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio, ha assoggettato l’area di proprietà delle parti ricorrenti al regime di cui al neo introdotto art. 30, commi 5-7, delle N.T.A. del P.d.R.: Ambito “agricolo di interesse paesaggistico”, nelle quali è esclusa la possibilità di nuova edificazione, e
   (ii) ha introdotto l’art. 30, comma 3, lett. d), delle N.T.A. del P.d.R., a mente del quale nelle “aree agricole di tipo produttivo” “la nuova edificazione a destinazione agricola potrà intervenire qualora (…) l’avente titolo disponga di una superficie di proprietà, contermine all’edificio di prevista realizzazione, non inferiore a 10.000 mq”.
...
3. Con il secondo motivo di ricorso si assume che l’azzonamento del comparto di proprietà della ricorrente quale “area agricola di interesse paesaggistico”, oltre a essere del tutto immotivato e in contrasto con lo stato di fatto, non essendo la zona interessata da alcun cono vedutistico, né da vincoli paesaggistici sovraordinati, sarebbe altresì stato assunto in violazione del procedimento di formazione dello strumento pianificatorio, poiché sarebbe stato introdotto soltanto in fase di approvazione dello strumento urbanistico, in seguito all’accoglimento delle osservazioni proposte da un soggetto terzo, impedendo in tal modo agli interessati di presentare le proprie osservazioni a margine di una tale scelta.
3.1. La doglianza è complessivamente infondata.
Attraverso l’impugnata Variante al P.G.T. di Lurate Caccivio, il comparto di proprietà dell’Azienda agricola ricorrente, di cui al foglio 9, mappale 1188, è stato classificato tra gli “ambiti agricoli di interesse paesaggistico”, con previsione di inedificabilità assoluta, confermando per tale ultimo aspetto quanto già stabilito con i pregressi strumenti pianificatori (cfr. all. 9 e 10 del Comune).
Tale collocazione trova la propria giustificazione nella circostanza che il comparto è inserito nella classe più alta di sensibilità paesaggistica (classe 5 - “molto elevata” - all. 6 del Comune) ed è altresì ricompreso nella “Rete ecologica provinciale - CAS - Aree sorgenti di biodiversità di secondo livello” secondo il Piano territoriale di coordinamento provinciale (P.T.C.P.) di Como (all. 5 del Comune), nonché incluso nel perimetro del Piano locale di interesse sovracomunale (P.L.I.S.) “Sorgenti del Torrente Lura” (all. 11 del Comune, pag. 45; cfr. anche certificato di destinazione urbanistica del 06.05.2015, all. 7 al ricorso).
In tal modo risulta confermato che la zona è inserita in un corridoio ecologico di una certa rilevanza, trattandosi di area caratterizzata da “fondamentali relazioni a livello di rete ecologica alla scala comunale e sovracomunale”, come ulteriormente dimostrato anche dalla aerofotogrammetria dell’area in questione, che ne attesta la collocazione in un contesto paesaggistico ancora inedificato posto al centro di un’area completamente boscata (cfr. Relazione tecnica, pag. 8: all. 8 al ricorso).
In presenza di tali presupposti, assolutamente coerenti con lo stato di fatto e per nulla travisati, risulta certamente giustificato l’azzonamento riservato all’area di proprietà dell’Azienda agricola ricorrente attraverso la Variante impugnata, avendo l’Amministrazione comunale inteso preservare il contesto da ulteriore edificazione, ivi compresa quella correlata allo svolgimento dell’attività agricola. Quindi, non risulta illogico che in sede di esame delle osservazioni, sia stato deciso che, «per le condizioni oggettive dell’area, si propone classificarla come ‘area agricola di interesse paesaggistico’» (osservazione n. 11.8, lett. c), proposta dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio: all. 8 del Comune, pag. 23).
La legittimità di tale modus procedendi risulta avvalorata dal costante orientamento giurisprudenziale, secondo il quale, in materia di pianificazione urbanistica, deve essere riconosciuta al Comune un’ampia discrezionalità, con la conseguenza che la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato dei privati a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 14.11.2023, n. 9758; IV, 21.08.2023, n. 7881; TAR Lombardia, Milano, II, 11.07.2022, n. 1662; 25.01.2022, n. 165; 12.03.2021, n. 653; 28.12.2020, n. 2613).
Sempre in linea con la consolidata giurisprudenza, deve rilevarsi che, «con riferimento all’esercizio dei poteri pianificatori urbanistici, la tutela dell’affidamento è riservata ai seguenti casi eccezionali:
   I) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l’avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona;
   II) pregresse convenzioni edificatorie già stipulate;
   III) giudicati (di annullamento di dinieghi edilizi o di silenzio-rifiuto su domande di rilascio di titoli edilizi), recanti il riconoscimento del diritto di edificare;
   IV) modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo
» (Consiglio di Stato, IV, 02.01.2023, n. 21; anche, IV, 24.01.2023, n. 765; II, 08.09.2021, n. 6234; TAR Lombardia, Milano, IV, 05.12.2023, n. 2951; altresì, Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2019).
Quindi, in assenza di un affidamento qualificato, giuridicamente tutelato, in capo all’Azienda ricorrente, la potestà pianificatoria non è soggetta al principio del divieto di reformatio in peius, in quanto l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse degli amministrati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina a interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 05.06.2023, n. 5464; IV, 20.04.2023, n. 4015; TAR Lombardia, Milano, II, 25.01.2022, n. 165; 14.12.2020, n. 2492; 07.07.2020, n. 1291; 14.02.2020, n. 309; II, 17.04.2019, n. 868; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
Oltretutto, è ormai condiviso in giurisprudenza l’orientamento secondo il quale «“… l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi-, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio” (così, Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710, §. 6.).
Sino al punto di ritenere legittima la scelta pianificatoria della c.d. “opzione zero” a seguito della quale lo strumento urbanistico non consente più, de futuro, l’ulteriore consumo di suolo
» (Consiglio di Stato, IV, 24.01.2023, n. 765; anche, IV, 14.09.2023, n. 8325; IV, 19.07.2023, n. 7070; TAR Lombardia, Milano, II, 28.12.2020, n. 2613; II, 17.04.2019, n. 868).
Peraltro, può accadere che la destinazione di un’area a verde agricolo con divieto di edificazione non implichi necessariamente che si debbano soddisfare in modo diretto e immediato interessi agricoli, ma piuttosto può essere finalizzata al perseguimento di esigenze di ordinato governo del territorio, legate alla necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a preservare tale equilibrio, come accade nella fattispecie de qua (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, II, 31.07.2023, n. 7407; VI, 02.11.2021, n. 7308; IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano, IV, 19.02.2024, n. 423; IV, 05.12.2023, n. 2951; II, 14.02.2020, n. 309; 03.12.2018, n. 2723; 18.06.2018, n. 1534; 20.06.2017, n. 1371).
Alla stregua di quanto sottolineato, risulta evidente che le contestazioni formulate nella censura oggetto di scrutinio afferiscono al merito delle scelte dell’Amministrazione, palesando un differente punto di vista rispetto a quest’ultima, assolutamente soggettivo, che non può trovare ingresso in questa sede (cfr. TAR Lombardia, Milano, IV, 13.12.2023, n. 3029; IV, 11.07.2022, n. 1662; II, 12.03.2021, n. 653; II, 28.12.2020, n. 2613; II, 07.07.2020, n. 1291; II, 10.12.2019, n. 2636; II, 20.08.2019, n. 1896; anche, Consiglio di Stato, IV, 12.09.2023, n. 8275) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.02.2024 n. 492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Quanto alla dedotta assenza di vincoli discendenti dai Piani degli Enti sovraordinati (ossia il P.T.R. e il P.T.C.P.), va precisato che il modello delineato dall’art. 2, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005 “prevede che i piani collocati al livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettano una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio”.
Ciò sta a significare che soltanto con riguardo ad alcuni specifici e limitati ambiti i Piani sovraordinati hanno efficacia prescrittiva e prevalente rispetto a quelli adottati dal livello di governo inferiore, solitamente recando una disciplina avente una efficacia di indirizzo e di coordinamento.
Del resto, le prerogative in ambito pianificatorio dei Comuni non possono essere affatto conculcate, essendo precluso alle Regioni e alle Province trasformare i poteri comunali in ordine all’uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive.
Difatti, la funzione di pianificazione urbanistica nel nostro ordinamento è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni e in tal senso il legislatore statale ha qualificato come funzioni fondamentali dei Comuni «la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lett. d), del d.l. n. 78/2010), sottraendo allo specifico potere regionale di allocazione, ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione e stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello dell’Ente più vicino al cittadino (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179/2019; i Comuni non possono essere “meri esecutori di una scelta pianificatoria regionale” per Corte costituzionale, sentenza n. 202/2021).
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal P.T.R. e dal P.T.C.P. a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben possa il P.G.T. introdurre ulteriori disposizioni, destinate a meglio precisare o ad ampliare siffatta tutela.
Sicché, anche ove si fosse al cospetto di previsioni prescrittive e prevalenti, le stesse opererebbero solo nel verso di impedire al Comune, o all’Ente territoriale minore, la compromissione del bene oggetto di tutela (paesaggio, rete ecologica, ambito agricolo strategico, ambiti di interesse provinciale, ecc.), mentre nessun limite può essere posto laddove tale ultimo Ente volesse garantire maggiore tutela a tali beni o volesse estenderne l’ambito, pena l’intrinseca contraddittorietà di siffatta conclusione.
---------------

... per l’annullamento
   - della deliberazione del Consiglio comunale di Lurate Caccivio del 14.12.2019, n. 52, pubblicata in data 22.04.2020, nelle sole parti in cui,
   (i) in accoglimento delle osservazioni n. 11.8, lett. c), proposte dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio, ha assoggettato l’area di proprietà delle parti ricorrenti al regime di cui al neo introdotto art. 30, commi 5-7, delle N.T.A. del P.d.R.: Ambito “agricolo di interesse paesaggistico”, nelle quali è esclusa la possibilità di nuova edificazione, e
   (ii) ha introdotto l’art. 30, comma 3, lett. d), delle N.T.A. del P.d.R., a mente del quale nelle “aree agricole di tipo produttivo” “la nuova edificazione a destinazione agricola potrà intervenire qualora (…) l’avente titolo disponga di una superficie di proprietà, contermine all’edificio di prevista realizzazione, non inferiore a 10.000 mq”.
...
3.2. Quanto poi alla dedotta assenza di vincoli discendenti dai Piani degli Enti sovraordinati (ossia il P.T.R. e il P.T.C.P.), va precisato che il modello delineato dall’art. 2, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005 “prevede che i piani collocati al livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettano una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio” (TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451; II, 23.09.2016, n. 1700).
Ciò sta a significare che soltanto con riguardo ad alcuni specifici e limitati ambiti i Piani sovraordinati hanno efficacia prescrittiva e prevalente rispetto a quelli adottati dal livello di governo inferiore, solitamente recando una disciplina avente una efficacia di indirizzo e di coordinamento (cfr., per alcuni esempi, TAR Lombardia, Milano, IV, 19.02.2024, n. 423; II, 06.07.2021, n. 1656; II, 23.03.2021, n. 763).
Del resto, le prerogative in ambito pianificatorio dei Comuni non possono essere affatto conculcate, essendo precluso alle Regioni e alle Province trasformare i poteri comunali in ordine all’uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive (Consiglio di Stato, IV, 15.01.2020, n. 379).
Difatti, la funzione di pianificazione urbanistica nel nostro ordinamento è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni e in tal senso il legislatore statale ha qualificato come funzioni fondamentali dei Comuni «la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lettera d), del decreto-legge n. 78 del 2010), sottraendo allo specifico potere regionale di allocazione, ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione e stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello dell’Ente più vicino al cittadino (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2019; i Comuni non possono essere “meri esecutori di una scelta pianificatoria regionale” per Corte costituzionale, sentenza n. 202 del 2021).
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal P.T.R. e dal P.T.C.P. a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben possa il P.G.T. introdurre ulteriori disposizioni, destinate a meglio precisare o ad ampliare siffatta tutela.
In applicazioni di tali coordinate ermeneutiche, può rilevarsi che, anche ove si fosse al cospetto di previsioni prescrittive e prevalenti, le stesse opererebbero solo nel verso di impedire al Comune, o all’Ente territoriale minore, la compromissione del bene oggetto di tutela (paesaggio, rete ecologica, ambito agricolo strategico, ambiti di interesse provinciale, ecc.), mentre nessun limite può essere posto laddove tale ultimo Ente volesse garantire maggiore tutela a tali beni o volesse estenderne l’ambito, pena l’intrinseca contraddittorietà di siffatta conclusione (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2019; anche, TAR Lombardia, Milano, IV, 19.02.2024, n. 424; IV, 05.12.2023, n. 2951) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.02.2024 n. 492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni della loro abusività”.
L’ordinanza di demolizione non necessitava di previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, in quanto, secondo giurisprudenza consolidata di questo Consiglio.
“L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990, considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare alcun esito diverso”.
“Al sussistere di opere abusive la pubblica amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di demolizione; per questo motivo, avendo tale provvedimento natura vincolata, non è neanche necessario che venga preceduto da comunicazione di avvio del procedimento” .
---------------
“La presentazione di una istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso ma determina una mera sospensione dell'efficacia dell'ordine di demolizione con la conseguenza che, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.
Infatti, per i principi di legalità e di tipicità del provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa procedimentale del destinatario dell'atto può essere idonea a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia. Diversamente da quanto previsto in materia di condono, nel caso di istanza di accertamento di conformità non vi è alcuna regola che determini la cessazione dell'efficacia dell'ordine di demolizione i cui effetti sono, quindi, meramente sospesi fino alla definizione del procedimento ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001”.
“La giustificazione di questo orientamento sta nell'evitare che l'ente locale, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, sia tenuto ad adottare un nuovo provvedimento di demolizione delle opere abusive, altrimenti finendosi per riconoscere in capo al privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale suo annullamento, quel medesimo provvedimento”.
---------------
Il Collegio condivide la statuizione del Giudice di prime cure, laddove conclude che “nel caso di specie, non si evince dagli atti che l’amministrazione si sia mai espressa sull’istanza di sanatoria presentata dai ricorrenti con la conseguenza che, essendo ormai decorso il termine di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, deve ritenersi pacificamente formato sulla stessa il silenzio–diniego”, in quanto tale conclusione rispecchia la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato sul punto. Invero:
   - “La presentazione di una istanza di accertamento di conformità, infatti, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso; non vi è pertanto alcuna automatica necessità per l'amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione. Essa determina soltanto un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, che opera in termini di mera sospensione dello stesso. In caso di rigetto dell'istanza, che peraltro sopravviene in caso di inerzia del Comune dopo soli 60 giorni, l'ordine di demolizione riacquista la sua piena efficacia”.
---------------

Con il primo motivo di gravame (rubricato: Error in judicando. Violazione dei principi in materia di giusto procedimento amministrativo e di giusta amministrazione), gli appellanti sostengono l’erroneità della sentenza (punto 7.1) laddove -ai fini del rigetto del ricorso sulla base della considerazione che l'ordine di demolizione di una costruzione abusiva rappresenta un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico- ritiene inconferente il richiamo alla delibera del Consiglio Comunale di Sorrento n. 14 del 20.03.2012 in considerazione del carattere recessivo della delibera stessa rispetto alle disposizioni di rango primario e afferma l'inderogabilità della legge ad opera dell'atto consiliare.
Tale interpretazione del TAR sarebbe errata e basata su una superficiale lettura dei motivi di ricorso, in quanto il richiamo all'atto consiliare non avrebbe avuto lo scopo di affermare che lo stesso fosse derogatorio rispetto alle disposizioni legislative, bensì di criticare il modus procedendi dell'Amministrazione, invocando il vizio di eccesso di potere laddove la p.a. ha adottato il provvedimento demolitorio senza tenere in alcun conto la deliberazione del Consiglio Comunale.
L'errore di giudizio sarebbe confermato nelle ragioni esposte nella decisione appellata al punto 7.4, dalla lettura del quale sembrerebbe che il Giudice abbia ritenuto che, al momento della presentazione del ricorso di primo grado, i sessanta giorni previsti per dall'art. 36 T.U.E. per la formazione del silenzio-rigetto, sarebbero già trascorsi, il che non risponderebbe al vero in quanto la domanda di accertamento di conformità reca la data del 27.11.2012, mentre il ricorso al TAR è stato notificato all'Amministrazione il 13.11.2012, per cui sarebbe evidente che i termini dell'accertamento di conformità fossero ancora in corso.
La doglianza non ha pregio.
Va premesso, come emerge dalla parte in fatto, che per le opere de quibus -non conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni urbanistiche vigenti nel territorio comunale, realizzate dopo l’imposizione del vincolo paesaggistico ambientale ex d.lgs. n. 42/2004 (vincolo apposto per la Città di Sorrento con D.M. del 26.01.1962 ex l. n. 1497/1939) e oggetto della qui impugnata ordinanza di demolizione- è stata presentata dalle parti il 19.11.2004 domanda di condono ex l. n. 326/2003; tale domanda di condono è stata respinta dal Comune nel 2012 in quanto, per la dimensione e la consistenza dell’opera realizzata (consistente in una sopraelevazione di un ulteriore livello di mq. 90 ad uso abitativo in blocchi di lapillo e lamiere coibentate di coperture, il tutto completamente rifinito, nonché in una scala di collegamento tra il piano di campagna ed il solaio di copertura, su di un immobile preesistente), è stata inquadrata dal Comune di Sorrento quale nuova costruzione ed in quanto, stante la preesistenza di vincolo paesaggistico ed idrogeologico, è stata ritenuta non riconducibile nella fattispecie del c.d. terzo condono.
Inoltre emerge dall’ultimo capoverso del punto 6 della sentenza qui impugnata che il ricorso avverso il diniego del condono è stato respinto con sentenza del TAR n. 1837/2019.
3.1.1. Nel caso concreto l’ordine di demolizione impugnato è legittimo in quanto è stato adottato dopo la pronuncia di rigetto del Comune di Sorrento sulla domanda di condono.
Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni della loro abusività” (ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 07.06.2021, n. 4319).
L’ordinanza di demolizione non necessitava di previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, in quanto, secondo giurisprudenza consolidata di questo Consiglio (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. VI, 11.05.2022, n. 3707).
L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990, considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare alcun esito diverso”.
Al sussistere di opere abusive la pubblica amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di demolizione; per questo motivo, avendo tale provvedimento natura vincolata, non è neanche necessario che venga preceduto da comunicazione di avvio del procedimento” (Consiglio di Stato sez. II, 01.09.2021, n. 6181).
Stante l’attività vincolata della p.a. in presenza di abusi edilizi, contrariamente all’assunto delle parti appellanti, nel caso concreto non ha alcun rilievo -nemmeno sotto l’aspetto dell’eccesso di potere- l’asserita violazione del contenuto della delibera del Consiglio comunale di Sorrento n. 14 del 20.3.2012, qualificata dagli appellanti quale atto di indirizzo, in quanto in presenza di un atto comunale di rigetto dell’istanza di condono ex art. 36 del TUE, non è necessario alcun ulteriore esame o interpretazione della situazione alla luce del contenuto della delibera del consiglio comunale n. 14/2012.
3.1.2. Per quanto concerne l’ulteriore profilo del primo motivo d’appello che si incentra sulla valutazione, da parte del Giudice di prime cure, della sorte dell’ordinanza di demolizione dopo la presentazione dell’istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, il Collegio rileva che al riguardo deve trovare applicazione l’indirizzo giurisprudenziale in forza del quale “la presentazione di una istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso ma determina una mera sospensione dell'efficacia dell'ordine di demolizione con la conseguenza che, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.06.2018, n. 3417; Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5669; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.09.2022, n. 8320).
Infatti, per i principi di legalità e di tipicità del provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa procedimentale del destinatario dell'atto può essere idonea a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia. Diversamente da quanto previsto in materia di condono, nel caso di istanza di accertamento di conformità non vi è alcuna regola che determini la cessazione dell'efficacia dell'ordine di demolizione i cui effetti sono, quindi, meramente sospesi fino alla definizione del procedimento ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001
” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.10.2022, n. 9070).
La giustificazione di questo orientamento sta nell'evitare che l'ente locale, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, sia tenuto ad adottare un nuovo provvedimento di demolizione delle opere abusive, altrimenti finendosi per riconoscere in capo al privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale suo annullamento, quel medesimo provvedimento (CdS, VI, sentenza n. 446/2015)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.11.2018, n. 6233).
3.1.3. Nel caso concreto, come si ricava dai documenti depositati dalle parti, l’istanza ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 è stata depositata in data 27.11.2012 (doc. 2 dei ricorrenti in primo grado, depositato il 28.11.2012); l’odierna appellante, nel corso del giudizio di primo grado non ha depositato ulteriore documento concernente la sorte della domanda presentata ex art. 36 DPR n. 380/2001.
Il Collegio condivide la statuizione del Giudice di prime cure, laddove conclude che “nel caso di specie, non si evince dagli atti che l’amministrazione si sia mai espressa sull’istanza di sanatoria presentata dai ricorrenti con la conseguenza che, essendo ormai decorso il termine di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, deve ritenersi pacificamente formato sulla stessa il silenzio–diniego”, in quanto tale conclusione rispecchia la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato sul punto (ex multis: Sez. II, 06.05.2021, n. 3545: “La presentazione di una istanza di accertamento di conformità, infatti, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso; non vi è pertanto alcuna automatica necessità per l'amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione. Essa determina soltanto un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, che opera in termini di mera sospensione dello stesso. In caso di rigetto dell'istanza, che peraltro sopravviene in caso di inerzia del Comune dopo soli 60 giorni, l'ordine di demolizione riacquista la sua piena efficacia (cfr. ancora, Consiglio di Stato, sez. VI, 28.09.2020, n. 5669)”.
Contrariamente all’assunto degli appellanti, il Giudice di prime cure non si riferisce ai 60 giorni trascorsi dalla presentazione del ricorso al TAR, bensì al decorso dei 60 giorni dalla presentazione dell’istanza ex art. 36 DPR n. 380/2001, e quindi dal 27.11.2012 (cfr. timbro di entrata sul doc. 2 dei ricorrenti in primo grado), per cui la statuizione del Giudice di prime cure è corretta e logicamente ripercorribile, con conseguente rigetto del primo motivo di appello in quanto infondato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.02.2024 n. 1705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Circolazione stradale, l’ente locale non può impugnare l’archiviazione del prefetto. Lo ha affermato il Cons. Stato con sentenza priva di precedenti.
La regione non è legittimata ad impugnare gli atti adottati dalla prefettura in sede di controllo delle sanzioni in materia di circolazione stradale
.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. III con la sentenza 19.02.2024 n. 1592 (Pres. Greco, Est. Marra) priva di precedenti. La disciplina della “circolazione stradale” e delle relative sanzioni, infatti, appartiene alla competenza dello Stato. Al Prefetto è stato attribuito un controllo sull’operato degli apparati amministrativi degli enti locali preposti a loro volta a garantire la sicurezza stradale in ambito locale. Non è dunque ammissibile che l’ente territoriale impugni la decisione di un organo –il prefetto- preposti al suo controllo.
Il caso era della Azienda Strade Lazio - Astral S.p.a. società alla quale la Regione Lazio ha delegato le funzioni amministrative con riguardo ai servizi di Polizia stradale. Nel 2017, una signora aveva presentato una domanda per la regolarizzazione e messa in sicurezza di un accesso carrabile, realizzato sulla strada regionale. L’Astral aveva respinto la richiesta per la pericolosità dell’accesso per la circolazione stradale notificando un verbale di contestazione contenente una sanzione pecuniaria.
La Prefettura di Frosinone però disponeva l’archiviazione sul ricorso amministrativo presentato dalla signora, sul presupposto che “l’esame della documentazione in atti non consente di formulare un giudizio di sicura responsabilità nei confronti del ricorrente”. A quel punto Astral ha impugnato il provvedimento al Tar Lazio che però ha respinto il ricorso. Contro questa decisione la Spa è ricorsa al Consiglio di Stato che lo ha dichiarato inammissibile rilevando la carenza di legittimazione attiva del ricorrente.
Il Collegio richiama le motivazioni della Cassazione (n. 3038/2005) in relazione ad una vicenda in parte analoga in cui era, tuttavia, in discussione la legittimazione di un Comune a proporre opposizione contro l’ordinanza del Prefetto che aveva accolto il ricorso contro un verbale di infrazione e disposto l’archiviazione. La Suprema corte spiegava che spetta al solo trasgressore la facoltà di insorgere contro il provvedimento con cui il Prefetto respinge il suo ricorso (e nulla si prevede per la contraria ipotesi in cui lo stesso sia accolto e il verbale archiviato).
La disciplina della “circolazione stradale”, spiega il Cds, appartiene alla competenza dello Stato, in quanto strumentale alla tutela di un interesse, qual è quello alla sicurezza delle persone, che trascende l’ambito strettamente locale e postula una regolamentazione unitaria. Spetta dunque allo Stato anche la disciplina delle sanzioni, mentre la natura degli interessi oggetto di tutela giustifica che, in sede locale, sia stato attribuito al Prefetto un ruolo di coordinamento ed anche di controllo sull’esercizio della funzione strumentale a garantire la sicurezza della circolazione stradale da parte degli apparati amministrativi degli enti locali, anche se attivato, in via eventuale, su ricorso della parte.
Pertanto, in capo all’amministrazione locale, sino a quando non si sia esaurito il potere di intervento del Prefetto, non è configurabile una posizione soggettiva –diritto soggettivo o interesse legittimo– tutelabile dinanzi al giudice amministrativo, risultando applicabile il principio in forza del quale non è ammissibile che un organo di amministrazione attiva insorga avverso le statuizioni degli organi preposti al controllo o alla revisione del suo operato, evocandolo in giudizio e ponendosi in opposizione ad esso (articolo NT+Diritto del 26.02.2024).
---------------
Sulla carenza di legittimazione della regione ad impugnare gli atti adottati dalla prefettura in sede di controllo delle sanzioni in materia di circolazione stradale.
---
Circolazione stradale – Codice della strada – Sanzioni – Controllo – Impugnativa ente locale - Inammissibilità
La disciplina della “circolazione stradale” appartiene alla competenza dello Stato, in quanto strumentale alla tutela di un interesse, qual è quello alla sicurezza delle persone, che trascende l’ambito strettamente locale e postula una regolamentazione unitaria; spetta dunque allo Stato anche la disciplina delle sanzioni, mentre la natura degli interessi oggetto di tutela giustifica che, in sede locale, sia stato attribuito al Prefetto un ruolo di coordinamento ed anche di controllo sull’esercizio della funzione strumentale a garantire la sicurezza della circolazione stradale da parte degli apparati amministrativi degli enti locali, anche se attivato, in via eventuale, su ricorso della parte.
Pertanto, in capo all’amministrazione locale, sino a quando non si sia esaurito il potere di intervento del Prefetto, non è configurabile una posizione soggettiva –diritto soggettivo o interesse legittimo– tutelabile dinanzi al giudice amministrativo, risultando applicabile il principio in forza del quale non è ammissibile che un organo di amministrazione attiva insorga avverso le statuizioni degli organi preposti al controllo o alla revisione del suo operato, evocandolo in giudizio e ponendosi in opposizione ad esso (1).

---
   (1) Non risultano precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. III con la sentenza 19.02.2024 n. 1592 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sul contraddittorio in tema di verifica dell’anomalia dell’offerta e sul calcolo dei minimi salariali in caso di lavoro discontinuo.
---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di servizi – Offerta anomala – Contraddittorio.
In tema di verifica dell’anomalia dell’offerta, se è vero che l’articolo 97, comma 5, del d.lgs. n. 50 del 2016 ha previsto per la verifica di anomalia dell’offerta una struttura “monofasica” del procedimento e non più trifasica, cioè articolata in giustificativi, chiarimenti, contraddittorio -com’era, invece, nel regime disegnato dal previgente articolo 87 del d.lgs. n. 163 del 2006– e dunque non vi è un vincolo assoluto di piena corrispondenza tra giustificazioni richieste e ragioni di anomalia dell’offerta, non si può tuttavia approdare all’estremo opposto in cui l’esternazione delle ragioni dell’anomalia dell’offerta avvenga in definitiva solo col provvedimento di esclusione, amputando ogni forma di confronto sui profili ritenuti critici, in spregio dei canoni di collaborazione e buona fede che devono informare i rapporti tra stazione appaltante e imprese partecipanti alla gara, specie quando vengono in rilievo profili escludenti inderogabili come la violazione dei minimi salariali inderogabili (1).
---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di servizi – Offerta anomala – Minimi salariali – Lavoro discontinuo.
Poiché i minimi salariali stabiliti inderogabilmente dal contratto collettivo sono espressi su base mensile e non già su base oraria, è corretto riproporzionare la paga oraria al monte orario dei lavoratori discontinui pari a 45 ore settimanali, dunque con divisore mensile 195 (2)
---------------
   (1) Non risultano precedenti negli esatti termini.
   (2) Non risultano precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.02.2024 n. 1591 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
2. – Delineato nei termini che precedono il thema disputandum, il Collegio deve primariamente peritarsi di scrutinare il primo motivo di appello, come visto, di indole schiettamente procedimentale.
In buona sostanza il primo giudice ha dato ragione all’operatore estromesso G. che si assumeva leso nelle proprie prerogative partecipative atteso che effettivamente “nel caso di specie, il contraddittorio è mancato, perché l’amministrazione si è limitata ad avanzare una richiesta di giustificazioni connotata da estrema genericità e, a fronte delle giustificazioni fornite, non ha sottoposto all’aggiudicataria i profili dell’offerta ritenuti –per la prima volta– problematici, sicché non le ha consentito di fornire giustificazioni specifiche sui profili che hanno condotto all’esclusione”.
L’appellante contrasta tale affermazione trincerandosi dietro il carattere vincolato ed ineludibile del rimedio espulsivo a fronte di una violazione dei minimi salariali inderogabili che non consentirebbe giustificazione alcuna a mente dell’art. 97, co. 6, d.lgs. n. 50/2016.
2.1. – Il motivo è infondato.
2.2. – Le osservazioni del Pi.Al.Tr. non sono, infatti, persuasive.
A ben vedere, il RUP, con la nota del 19.10.2022, si è limitato a richiedere chiarimenti genericamente riferiti all’offerta nel suo complesso senza far seguire a tale nota di avvio della verifica alcuna richiesta di approfondimento istruttorio o di maggiori delucidazioni con riferimento alla –per vero ben circoscritta– vexata questio dell’individuazione del corretto divisore per il lavoro discontinuo nella disciplina del CCNL Multiservizi: sennonché, sarebbe stato opportuno e conveniente, specie in un’ottica di trasparenza procedimentale e di clare loqui, che il RUP esternasse le proprie perplessità in ordine al calcolo del costo medio orario (questione compendiabile in estrema sintesi nella scelta tra il divisore 195 o 173) prima di addivenire alla definitiva esclusione della prima graduata, giunta a sorpresa dopo un non trascurabile lasso di apparente stasi procedimentale con la nota del 22.12.2022.
2.3. – Se è dunque vero che “il principio del contraddittorio procedimentale non comporta un vincolo assoluto di piena corrispondenza tra giustificazioni richieste e ragioni di anomalia dell’offerta”, come evocato dall’appellante, -anche a mente dell’evoluzione ordinamentale che, con l’articolo 97, comma 5, del d.lgs. n. 50 del 2016, ha previsto per la verifica di anomalia dell’offerta una struttura “monofasica” del procedimento e non più trifasica, cioè articolata in giustificativi, chiarimenti, contraddittorio, com’era, invece, nel regime disegnato dal previgente articolo 87 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163- non si può tuttavia approdare all’estremo opposto in cui l’esternazione delle ragioni dell’anomalia dell’offerta avvenga in definitiva solo col provvedimento di esclusione, amputando ogni forma di confronto sui profili ritenuti critici, in spregio dei canoni di collaborazione e buona fede che devono informare i rapporti tra stazione appaltante e imprese partecipanti alla gara, specie quando vengono in rilievo profili escludenti inderogabili come la violazione dei minimi salariali inderogabili.
2.4. – Deve dunque essere vagliata positivamente la statuizione del primo giudice laddove afferma univocamente che il contraddittorio è mancato nella fattispecie de qua impedendo all’impresa destinataria del provvedimento espulsivo di apportare il proprio fondamentale contributo partecipativo.
3. – Spostando ora il fuoco della disamina sul secondo mezzo di censura, si entra nel vivo della questione di merito giuslavoristica della corretta individuazione del divisore per i lavoratori discontinui del comparto regolato dal CCNL Multiservizi.
3.1. – Ad avviso del Collegio la tesi di parte appellante non coglie nel segno.
3.2. – Dall’esegesi sistematica dell’accordo di contrattazione collettiva non si rinviene alcun indice testuale di impedimento all’individuazione di altri divisori oltre a quello enucleato in via ordinaria dall’art. 19 con riguardo all’orario normale di lavoro di 40 ore settimanali.
Anzi, l’applicazione del divisore 195 rappresenta un corollario logico della ratio stessa sottesa all’istituto della discontinuità, consistente appunto nell’assicurare un monte orario di 45 ore settimanali a parità di base salariale (a fronte di prestazioni di mera attesa o custodia) nel quadro di una cornice di flessibilità dell’organizzazione del lavoro: giova, infatti, soffermarsi sulla circostanza che le ore contemplate dal lavoro discontinuo non corrispondono necessariamente a periodi di svolgimento effettivo della mansione, ma possono tradursi in prestazioni di mera attesa o, a tutto concedere, di custodia.
Indi la contrattazione collettiva, in una prospettiva di competizione più serrata sul costo del lavoro, ha convenuto che tale monte ore maggiorato, ma più rarefatto sul piano delle energie psico-fisiche profuse dal lavoratore, sia remunerato con la stessa paga mensile dell’ordinario lavoratore del comparto multiservizi soggetto alla disciplina base dell’art. 19 CCNL.
Tale ratio efficientista e pro-competitiva sarebbe vanificata se si facesse ricorso indistintamente al divisore 173, come a voler ignorare che il monte ore di cui si discorre è maggiorato e assicura prestazioni orarie più competitive, perlomeno sui servizi di durata come la guardiania e la portineria.
4. – Siffatto argomentare è ulteriormente corroborato dalla decisiva circostanza che i minimi salariali stabiliti inderogabilmente dal contratto collettivo sono espressi su base mensile e non già su base oraria: a mente di tale inconfutabile dato si sfalda l’intero impianto impugnatorio giacché la notoria inderogabilità in peius dei trattamenti fissati dalla contrattazione collettiva opera rispetto a tali valori mensili e non può trovare adesione la rielaborazione di tali valori su base oraria sviluppata dall’Azienda appellante nel tentativo di dimostrare che i prospetti orari di G. conducano a ribassi illeciti.
5. – Se a tali considerazioni si aggiunge, infine, che, nonostante l’applicazione del divisore inferiore per i lavoratori discontinui, l’offerta dell’originaria ricorrente assicura a costoro una retribuzione mensile pari a quella –pacificamente conforme al CCNL– riconosciuta ai lavoratori ordinari si sgretolano definitivamente le fondamenta della doglianza in esame: si veicola, infatti, l’asserto conclusivo che nella fattispecie in esame non vi è luogo a discorrere di violazioni dei minimi salariali inderogabili atteso che tali minimi devono essere esaminati e raffrontati nella valorizzazione globale su base mensile e non su quella su base oraria.
Anzi, ricapitolando i termini della questione mediante l’espediente logico-argomentativo del rasoio di Oc., può dirsi che G. ha sviluppato un’offerta al contempo rispettosa, sul piano economico dei minimi salariali mensili da contrattazione collettiva ed efficiente sul piano tecnico, in virtù del maggior monte ore ritraibile dall’attività dei discontinui: il conseguente minor costo orario della manodopera rappresenta un naturale corollario del quoziente operato col divisore maggiorato pari a 195, espressivo del maggior monte ore assicurato dai discontinui, ma non inficia in alcun modo i minimi inderogabili, essendo questi formulati su base mensile.
6. – Tanto considerato, il motivo deve essere disatteso.
7. – In ultimo, la terza censura, volta a denunciare la decisione del primo giudice in ordine al lamentato difetto istruttorio e motivazionale del verbale del RUP, allegato per relationem al provvedimento di esclusione viene a cadere per la sua stessa intrinseca genericità e vaghezza a fronte della esaustiva relazione giustificativa dell’offerta prodotta da parte appellata in sede di verifica: per vero, rimarca correttamente il primo giudice che l’appellata ha prodotto questa corposa relazione, nella quale “dedica un lungo paragrafo al costo della manodopera, indicando in modo dettagliato e argomentato le diverse voci che conducono ad uno scostamento tabellare; una parte è dedicata espressamente all’analisi dell’“incidenza effettiva a carico dell’azienda degli oneri per carenza malattia, infortunio e maternità”.
7.1. – Le affermazioni del primo giudice meritano piena condivisione avendo specialmente riguardo al fatto che secondo la costante giurisprudenza la difformità dalle tabelle ministeriali non è sufficiente da sola a dimostrare la non congruità del costo del personale dichiarato dall'offerente (v. ex multis, Cons. Stato, sez. III, 27.11.2023, n. 10164) ed è ammissibile lo scostamento da tali valori purché risulti suffragato da attendibili dati esperienziali e statistiche aziendali.
Orbene, la dettagliata relazione prodotta da G. in sede di giustificativi dava conto, anche sotto forma tabellare, di tali statistiche aziendali ampiamente idonee a giustificare gli scostamenti dalle tabelle ministeriali, cionondimeno il RUP non ne ha inspiegabilmente tenuto conto sminuendone la valenza esplicativa, vieppiù acuita dall’erronea applicazione del divisore 173 di cui al punto precedente, con inevitabili riverberi in punto di monte orario complessivo.
7.2. – Indi, appare fondato il vizio istruttorio e motivazionale lamentato dal primo ricorrente e ravvisato dal TAR lombardo, con conseguente reiezione anche dell’ultimo nucleo censorio (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.02.2024 n. 1591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla impossibilità di monetizzare le ferie non godute per causa imputabile al lavoratore.
---------------
Impiegato dello Stato e pubblico in genere – Corpo della Guardia di finanza - Ferie – Omessa presentazione istanza - Monetizzazione – Esclusione.
Il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta solo quando sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile (1).
Nel caso di specie il finanziere –collocato in aspettativa per infermità e dichiarato inabile al servizio il giorno prima del suo decesso- per sua libera scelta aveva espressamente richiesto di non convertire i giorni di licenza ordinaria maturati in licenza straordinaria, circostanza che ha comprovato la possibilità concreta di fruire delle ferie sebbene rifiutate esplicitamente dall’interessato.

---------------
   (1) Conformi: Cons. Stato, sez. I, 03.07.2023, n. 982; sez. IV, 30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 13.03.2018, n. 1580, sez. III, 17.05.2018, n. 2956; sez. V, 12.02.2007, n. 560 in Foro it., 2007, III, 314.
Nel senso che l’indennità sostitutiva per ferie non godute debba essere riconosciuta al personale (militare o delle Forze di polizia) assente dal servizio perché collocato in aspettativa per infermità e successivamente cessato dal servizio, Cons. Stato, sez. VI, 09.05.2011, n. 2736, in Foro it., 2011, III, 304; sez. VI, 07.05.2010, n. 2663, id., 2010, III, 371; sez. VI, 21.04.2008, n. 1765, id., 2008, III, 429.
         Difformi: non risultano precedenti difformi negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. I, parere 14.02.2024 n. 148 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
PARERE
6. Il ricorso è infondato.
7. La censura di violazione della legge, eccesso di potere, irragionevolezza e illogicità è inaccoglibile poiché il provvedimento impugnato contiene l’esplicitazione chiara e univoca della ragione posta a fondamento del diniego di monetizzazione delle ferie, ossia la riconducibilità della loro mancata fruizione non ad esigenze di servizio ma a una libera scelta operata dall’appuntato Za., il quale non ha presentato l’istanza per il loro godimento.
7.1. La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato –in linea con la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 95 del 2016) e quella della Corte di giustizia (prima sezione, sentenza 25.06.2020, C-762/18 e C-37/19)– è ormai consolidata nel senso di ritenere che il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta quando sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile (Cons. Stato, sez. I, 03.07.2023, n. 982; sez. II, 30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 13.03.2018, n. 1580, sez. III, 17.05.2018, n. 2956, e 21.03.2016, n. 1138).
Ove invece il dipendente abbia avuto la possibilità di fruire delle ferie (e quindi in assenza di una indicazione di senso contrario proveniente dal datore di lavoro), vige il divieto di monetizzazione di cui all’art. 5, comma 8, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini), convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135, che pertanto opera laddove il dipendente medesimo non abbia fatto espressa richiesta delle ferie medesime (Cons. Stato, sez. I, 03.07.2023, n. 982; sez. II, 30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 12.10.2020, n. 6047, e 02.03.2020, n. 1490).
7.2. Nel caso di specie, è pacifico che il militare, per sua libera scelta (v. dichiarazione dell’interessato 18.02.2021, versata al fascicolo d’ufficio), abbia espressamente richiesto di non convertire i giorni di licenza ordinaria maturati in licenza straordinaria e che, a fronte di tale chiara dichiarazione, l’odierno ricorrente non possa invocare ex post la monetizzazione dei periodi di ferie maturate e non godute sulla base di cause non imputabili al lavoratore e quindi, come tali, idonee a consentire una deroga al richiamato quadro normativo.
8. A tanto consegue il rigetto del ricorso (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 14.02.2024 n. 148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristorante Pizzeria – Installazione tenda ad apertura variabile – Tenda rettrattile – Ordine di demolizione e ripristino stato dei luoghi – Violazione norme urbanistico edilizie – Corpo estraneo a struttura fabbricato – Idoneità a pregiudicare il pregio e il decoro architettonico – Unicamente in presenza di caratteristiche ed effetti di perdurante e stabile immutazione.
Affinché un corpo estraneo alla struttura di un fabbricato sia idoneo a pregiudicare il pregio e il decoro architettonico e, in definitiva, a vulnerare le caratteristiche esteriori dell’immobile, occorre che l’elemento aggiuntivo abbia caratteristiche ed effetti di perdurante e stabile immutazione, che postulano a monte la stabilità e fissità della consistenza materiale impattante, nonché, contestualmente, la sua proiezione nello spazio–tempo.
Nel caso di specie, trattandosi di tende di tela con bracci retrattili, appoggiate immediatamente sopra la porta di ingresso dei locali, il materiale assume una consistenza informe e pressoché nulla ovvero di ridottissimo rilievo urbanistico, per tutto il tempo in cui resta involto ovvero arrotolato nelle due bacchette che lo contengono e che sono meramente appoggiate al muro.
Le opere oggetto di contestazione, inoltre, si limitano a soddisfare esigenze precarie e si connotano per la temporaneità della loro utilizzazione, ritenuto che la funzione delle tende è temporalmente delimitata e consistente in riparo dal sole, con esclusione della funzione di protezione dalla pioggia, poiché consta di mero tessuto permeabile.
Ne consegue che gli elementi aggiunti all’edificio, in presenza delle suddette caratteristiche non arrecano vulnera apprezzabili ai valori architettonici ed artistici.

...
   (1) Trattasi, secondo il Collegio, di una tenda solo “in potenza” allorché arrotolata e chiusa, la quale si trasforma in tenda “in atto” quando, per effetto dello sviluppo del materiale avvolto nel quale consiste, lo stesso muta e prende appunto forma di tenda
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 09.02.2024 n. 983 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
1.3. Con il terzo motivo è articolata la censura sostanziale, rubricandosi carenza di potere ed abnormità, violazione degli art. 31 TUED e dell’art. 2, comma 1, d.P.R. 31/2017 perché la tenda retrattile non deve essere considerata alla stregua di nuova costruzione.
In particolare, si duole il ricorrente che, nel caso di specie, si tratta di due tende di tela con bracci retrattili, appoggiate immediatamente sopra la porta di ingresso dei locali, dunque non sulla facciata del fabbricato, al di sotto dei vani contenenti i motori dei climatizzatori, ed utilizzate in modo temporaneo, solo per riparare i tavolini ivi presenti.
Le opere oggetto di contestazione, quindi, così come descritte nell’ordinanza impugnata e come risulta dai rilievi fotografici inclusi, si limitano a soddisfare esigenze precarie e si connotano per la temporaneità di utilizzazione, sicché non si qualificano come manufatti atti a migliorare la fruizione di uno spazio esterno stabile e duraturo.
Data la loro consistenza, le caratteristiche costruttive e la funzione, sotto il profilo normativo rappresentano un’opera che non determina una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio” tale da richiedere il preventivo rilascio del permesso di costruire.
...
5. Ritiene il Collegio fondato ed assorbente il terzo motivo di ricorso in punto di inidoneità del descritto elemento ad incrementare il carico urbanistico e, soprattutto, a recare un vulnus alla tutela del patrimonio architettonico e delle caratteristiche del centro storico, per le considerazioni che seguono.
Va tuttavia corretta la prospettiva di indagine proposta dal ricorrente in ricorso nella parte iniziale, in cui sostiene l’assenza di autonoma rilevanza dei due manufatti per cui si procede e la conseguente loro non soggezione al previo rilascio del titolo edilizio.
Rimarca il Collegio che non è questa la contestazione elevata nel provvedimento demolitorio e nel presupposto verbale di accertamento.
Invero, come si motiva nell’atto impugnato nel passo sopra riportato, cioè che si contesta non è l’abusività per carenza di titolo abilitativo edilizio, bensì la violazione dell’art. 49, comma 22, della Legge Regionale n. 16 del 22.12.2004, prevedente che “Sulla facciata degli stabili siti nei centri storici” vieta “l’installazione di apparecchi dì condizionamento d’aria, caldaie, tubazioni e antenne, nonché l’inserimento di nuovi elementi che compromettono il decoro architettonico degli stessi”; in sintesi, dunque, si contesta l’avvenuta inflizione al patrimonio storico artistico che caratterizza le zone omogenee “A” – Centro storico, di un vulnus al decoro architettonico.
6. Occorre pertanto indagare se l’elemento aggiunto dal ricorrente all’edifico, possiede siffatta natura ed attitudine impattante.
Osserva al riguardo il Collegio che affinché un corpo estraneo alla struttura di un fabbricato sia idoneo a pregiudicare il pregio e il decoro architettonico e, in definitiva, a vulnerare le caratteristiche esteriori dell’immobile, occorre che l’elemento aggiuntivo abbia caratteristiche ed effetti di perdurante e stabile immutazione, che postulano a monte la stabilità e fissità della consistenza materiale impattante, nonché, contestualmente, la sua proiezione nello spazio–tempo.
Solo un elemento che abbia connotati fisici definiti e che come tale perduri, appare infatti idoneo ad arrecare vulnera apprezzabili ai valori architettonici ed artistici.
6.1. Siffatte note sostanziali, a ben guardare, non emergono tuttavia rispetto al materiale apportato dal ricorrente all’edificio.
Tale materiale assume, infatti, una consistenza informe e pressoché nulla ovvero di ridottissimo rilievo urbanistico, per tutto il tempo in cui resta involto ovvero arrotolato nelle due bacchette che lo contengono e che sono meramente appoggiate al muro; infatti, quando la tenda “in potenza” è avvolta, perché non serve alla sua funzione rimanendo chiusa, laddove quando è aperta non è ancorata all’immobile né al suolo.
Giova anche porre in luce la circostanza che le due bacchette contenitrici, oltretutto, sono poste al di sotto dei condizionatori e quindi anche che il coupe d’oeil è assorbito dalla massa dei condizionatori; verosimilmente, dunque, le due incriminate bacchette possono sembrar dei listelli di sostegno dei condizionatori.
6.2. Il Collegio è pertanto al cospetto, ponendo mano ai canoni della fisica aristotelica, di una tenda solo “in potenza” allorché arrotolata e chiusa, la quale si trasforma in tenda “in atto” quando, per effetto dello sviluppo del materiale avvolto nel quale consiste, lo stesso muta e prende appunto forma di tenda.
6.3. Non sfugge peraltro al Collegio che l’obiezione sollevabile al delineato costrutto è prevedibile e di agevole intuizione: v’è da chiedersi, cioè, se il descritto materiale informe o proteiforme, che quando rimane nello stadio larvale e consiste in due bacchette avvolgenti o contenenti appare di scarsissima consistenza ed impatto anche ottico, nel momento in cui muta a seguito dello svolgimento e conseguente evoluzione in “tenda”, acquisisca altresì una portata e un carattere impattante l’ambiente e il decoro architettonico dell’edificio.
Tale indagine deve giocoforza dipanarsi sotto il profilo temporale, il parametro guida essendo solo siffatta terza dimensione della fisica.
7. Orbene in proposito il ricorrente, già nell’atto introduttivo, ha precisato che le opere oggetto di contestazione, così come descritte nell’ordinanza impugnata e come risulta dai rilievi fotografici inclusi, si limitano a soddisfare esigenze precarie e si connotano per la temporaneità della loro utilizzazione.
L’additata temporaneità è stata meglio spiegata nel corso dell’esposizione camerale, allorché il procuratore di parte ricorrente ha precisato che l’evoluzione in tenda, e quindi la protensione del materiale avvolto, è temporalmente delimitata dalla sua funzione di riparo dal sole, con esclusione della funzione di protezione dalla pioggia, poiché consta di mero tessuto permeabile.
Allegazioni non contestate dalla difesa comunale e pertanto assumibili a fondamento della decisione ai sensi dell’art. 64, comma 2, c.p.a.
Ne consegue la limitatezza temporale dell’uso e dell’impegno e conseguente impatto del materiale svolto e divenuto “tenda in atto”, discendente dalla funzione ombrifera cui essa assolve, circoscritta, quindi, al tempo della radiazione solare.
7.1. A tale specifico riguardo, il patrono del ricorrente ha inoltre puntualizzato che le aree antistanti il locale “ombreggiato”, ove aggettano le due avversate tende, insistono, come emerge anche dalla documentazione fotografica versata in atti ed esaminata attentamente dal Collegio, in un vicoletto angusto, per tale sua natura quindi naturalmente esposto al sole solo per poche ore al giorno.
Parallelamente, come dianzi evidenziato, la “tenda in atto” non rimane tale a lungo, giacché la sua protensione non è temporalmente estesa anche alle giornate o ai momenti di pioggia, in ragione della consistenza del materiale in un tessuto permeabile e, pertanto, inutile a proteggere dalla pioggia.
Se a ciò si aggiunga altresì la notazione –integrante fatto notorio– che a Napoli le giornate piovose non sono frequenti, emerge complessivamente il ridotto lasso di tempo nel quale la tenda “in potenza” (cioè arrotolata e involta nelle due bacchette contenitrici) muta e permane quale “tenda in atto”; lasso temporale, sostanzialmente coincidente con il periodo di irradiazione solare.
8. Da quanto osservato ed accertato deriva che i due elementi che erroneamente il Comune qualifica come tende, non posseggono attitudine ad impattare e vulnerare le caratteristiche architettoniche e il decoro dell’edificio; dal che va esclusa la violazione dell’art. l’art. 49, comma 22, della Legge Regionale n. 16 del 22.12.2004.
La scrutinata fondatezza del terzo motivo di ricorso consente di accogliere il gravame, con annullamento del provvedimento impugnato.

APPALTI SERVIZI: Procedura aperta – Affidamento servizio di raccolta, trasporto, recupero di fanghi disidratati non pericolosi – Suddivisione in lotti – Costi per la manodopera e sicurezza – Impugnazione provvedimento di esclusione – Modifica-correzione del costo della manodopera e del monte ore – Riduzione del monte ore in sede di giustificativi – Rilevanza ai fini dell’esclusione – Principi del risultato, della fiducia e dell’accesso al mercato – D.lgs. n. 36 del 2023
Secondo pacifica giurisprudenza, la modifica dei costi della manodopera –introdotta nel corso del procedimento di verifica dell’anomalia– comporta un’inammissibile rettifica di un elemento costitutivo ed essenziale dell’offerta economica, che non è suscettivo di essere immutato nell’importo, al pari degli oneri aziendali per la sicurezza, pena l’incisione degli interessi pubblici posti a presidio delle esigenze di tutela delle condizioni di lavoro e di parità di trattamento dei concorrenti, come imposte dall’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016 (1).
Tale consolidato orientamento giurisprudenziale, non può ritenersi superato alla luce del nuovo Codice dei contratti pubblici. Infatti, il d.lgs. n. 36 del 2023 si pone del tutto in linea con il d.lgs. n. 50 del 2016 nell’assicurare una tutela rafforzata degli interessi dei lavoratori, richiedendo di indicare in via separata il costo della manodopera e gli oneri di sicurezza, ciò anche al fine di assicurare che gli operatori economici svolgano una seria valutazione preventiva dei predetti costi prima di formulare il proprio “ribasso complessivo” (2).
Inoltre, i principi del raggiungimento dello scopo, di fiducia e di accesso al mercato devono ritenersi rivolti non solo nei confronti dell’Amministrazione, ma anche degli operatori economici privati i quali devono collaborare per il buon esito dell’affidamento: ebbene proprio tali principi non consentono di superare il divieto di modificazione del contenuto dell’offerta, di cui il costo della manodopera costituisce parte integrante.

...
   (1) Cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. III, 31.05.2022, n. 4406.
   (2) Si fa riferimento agli articoli 41, comma 13, e 108, comma 9, del d.lgs. n. 36 del 2023
(
TAR Veneto, Sez. I, sentenza 09.02.2024 n. 230 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765 ha introdotto l'obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi eseguiti sul territorio comunale.
Per il periodo antecedente al 1967 l'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva un siffatto obbligo limitatamente ai centri abitati.
Secondo un consolidato e condivisibile indirizzo giurisprudenziale, l’obbligo di munirsi di licenza edilizia, imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente alla legge urbanistica del 1967 (come è nella specie) è da considerare legittimo, valido e cogente, atteso che la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, come prevista dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, non impediva ai comuni di estendere all'intero territorio comunale il potere di pianificazione e controllo dell'attività edilizia, trattandosi di una tipica prerogativa degli enti locali, che come tale non poteva e non può integrare alcuna violazione del principio di eguaglianza sostanziale tra cittadini o di ingiustificata disparità di trattamento dei medesimi, come prospettato dagli appellanti.
---------------

7. L’appello è infondato.
7.1. Giova ricordare in punto di fatto che nella specie le difformità che interessano la proprietà degli appellanti riguardano alcune modifiche alle aperture e la realizzazione della soletta di copertura a quote sensibilmente superiori rispetto alla licenza edilizia (in particolare: - gronda autorizzata a 1,05 mt, ma realizzata 1,75 mt; - gronda autorizzata a 0,45 mt, ma realizzata 1,24 mt; - colmo autorizzato a 2,40 mt, ma realizzato a 3,27 mt); al proposito eloquenti e incontestate sono le risultanze del verbale di sopralluogo dell’Ufficio tecnico comunale (in atti), nonché le indicazioni contenute nel provvedimento impugnato con il quale è stata ordinata “la demolizione della porzione residenziale e opere abusive sopra descritte ed il ripristino della situazione autorizzata con Licenza Edilizia n. 1228 del 18.02.1965 …”, trattandosi di interventi realizzati in parziale difformità rispetto al titolo abilitativo (art. 34, comma 1 del DPR 380/2001).
8. Ciò posto, passando alla disamina del primo motivo di appello, occorre in principalità considerare che:
   - l'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l'obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi eseguiti sul territorio comunale;
   - per il periodo antecedente al 1967 l'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva un siffatto obbligo limitatamente ai centri abitati;
   - è pacifico in causa che, all’epoca in cui erano stati realizzati gli abusi de quibus (1965), il Comune di Merate era dotato di un Regolamento Edilizio e di Programma di Fabbricazione (approvato con Decreto Interministeriale del 18.07.1956 n. 1108), il quale inseriva l'area di specie in zona semintensiva e all’art. 3 prevedeva espressamente il rilascio di apposita licenza edilizia per la costruzione di immobili nel territorio comunale;
   - l’edificio di specie è stato realizzato in forza della licenza edilizia (Prat. n. 1228) rilasciata in data 18.02.1965 e, una volta ultimati i relativi lavori, ha ottenuto, previo sopralluogo, in data 01.09.1965, il permesso di abitabilità.
Secondo un consolidato e condivisibile indirizzo giurisprudenziale, l’obbligo di munirsi di licenza edilizia, imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente alla legge urbanistica del 1967 (come è nella specie) è da considerare legittimo, valido e cogente, atteso che la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, come prevista dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, non impediva ai comuni di estendere all'intero territorio comunale il potere di pianificazione e controllo dell'attività edilizia, trattandosi di una tipica prerogativa degli enti locali, che come tale non poteva e non può integrare alcuna violazione del principio di eguaglianza sostanziale tra cittadini o di ingiustificata disparità di trattamento dei medesimi, come prospettato dagli appellanti.
Del resto l’accoglimento di una siffatta prospettazione condurrebbe ad una irragionevole ed illogica rimozione di una legittima attribuzione municipale, qual’e è proprio quella della ordinata pianificazione urbanistica, per tutti quei comuni che, per ragioni di sensibilità culturale o per tutelare adeguatamente il particolare pregio dei propri territori, avessero avvertito l’esigenza di subordinare il legittimo esercizio del diritto di edificazione al rilascio della licenza edilizia ancor prima che la legge nazionale la imponesse in via generalizzata; né può ragionevolmente invocarsi una pretesa violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale, che si manifesterebbe -secondo la prospettazione degli appellanti- nella diversità di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione all’esercizio del jus aedificandi i cittadini del Comune di Merate, obbligati a chiedere la licenza edilizia anche per attività edificatoria da realizzarsi fuori del centro abitato, rispetto ai quelli residenti in altri comuni che non avevano adottato un regolamento edilizio recante un simile obbligo, giacché intuitivamente diverse essendo le singole realtà locali, neppure è immediatamente apprezzabile la violazione del principio di uguaglianza e la connessa ingiustificata diversità di trattamento.
In definitiva, non può ragionevolmente dubitarsi del fatto che, in presenza di opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia del 18.02.1965, le stesse debbono qualificarsi come abusive (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.02.2024 n. 1297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A fronte di opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, l’ordinanza di demolizione costituisce un atto del tutto vincolato, rispetto al quale l’ente locale non è titolare di alcun margine di discrezionalità neppure quanto al suo contenuto.
Esso inoltre non richiede alcuna autonoma comparazione dell’interesse pubblico con quello privato, dal momento che la repressione degli abusi edilizi costituisce attività doverosa e vincolata per l'amministrazione appellata; quanto alla sua motivazione poi la stessa è adeguatamente costituita dalla descrizione delle opere abusive e della loro contrarietà al titolo, come è nella specie.
Né il tempo trascorso dall’epoca di realizzazione del manufatto può comportare deviazioni dalla citata doverosità dell’intervento repressivo o fondare alcun legittimo affidamento in capo ai proprietari.
---------------

8.2. Parimenti infondato è il secondo motivo di gravame.
Invero, a fronte di opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, l’ordinanza di demolizione costituisce un atto del tutto vincolato, rispetto al quale l’ente locale non è titolare di alcun margine di discrezionalità neppure quanto al suo contenuto.
Esso inoltre non richiede alcuna autonoma comparazione dell’interesse pubblico con quello privato, dal momento che la repressione degli abusi edilizi costituisce attività doverosa e vincolata per l'amministrazione appellata; quanto alla sua motivazione poi la stessa è adeguatamente costituita dalla descrizione delle opere abusive e della loro contrarietà al titolo, come è nella specie
Né il tempo trascorso dall’epoca di realizzazione del manufatto può comportare deviazioni dalla citata doverosità dell’intervento repressivo o fondare alcun legittimo affidamento in capo ai proprietari (cfr., sul punto, sentenza n. 9/2017 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.02.2024 n. 1297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come ribadito più volte dalla giurisprudenza, il rilascio del certificato di abitabilità non può avere efficacia sanante rispetto alle opere abusive.
Infatti, la illiceità dell'immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal conseguimento del certificato di agibilità che riguarda profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano il rispettivo rilascio:
   - il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità igiene e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, viceversa
   - il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da esso interessata.
Tutto ciò esclude che fra i due atti possa sussistere un’interferenza reciproca.
E’ vero, d’altro canto, che il conseguimento di agibilità di un immobile dovrebbe presupporne la conformità con la disciplina urbanistica, ma è altrettanto vero che l’eventuale illegittimità, in parte qua, di detto certificato, non impedisce l'attivazione dei doverosi poteri di intervento e sanzionatori che il Comune esercita in quanto autorità competente per la vigilanza sul territorio.
---------------

8.3. Non merita favorevole apprezzamento neppure il terzo motivo di gravame, in quanto, come ribadito più volte dalla giurisprudenza, il rilascio del certificato di abitabilità non può avere efficacia sanante rispetto alle opere abusive.
Infatti (ex multis Consiglio di Stato sez. VII, n. 8239/2023; Consiglio di Stato sez. II, n. 3836/2021) la illiceità dell'immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal conseguimento del certificato di agibilità che riguarda profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano il rispettivo rilascio: il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità igiene e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, viceversa il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da esso interessata.
Tutto ciò esclude che fra i due atti possa sussistere un’interferenza reciproca, come sostenuto dal motivo in esame.
E’ vero, d’altro canto, che il conseguimento di agibilità di un immobile dovrebbe presupporne la conformità con la disciplina urbanistica, ma è altrettanto vero che l’eventuale illegittimità, in parte qua, di detto certificato, non impedisce l'attivazione dei doverosi poteri di intervento e sanzionatori che il Comune esercita in quanto autorità competente per la vigilanza sul territorio (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.02.2024 n. 1297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Sugli alloggi di edilizia popolare assegnati in virtù del rapporto di servizio.
---------------
Beni pubblici – Alloggi di edilizia popolare – Assegnazione in virtù del rapporto di servizio – Natura giuridica – Beni appartenenti al patrimonio indisponibile – Autotutela esecutiva – Ammissibilità.
Gli immobili assegnati a soggetti in “attività di servizio” sono destinati a realizzare interessi pubblici e pertanto appartengono al patrimonio indisponibile, con la connessa possibilità dell’amministrazione di far uso dei poteri di autotutela esecutiva ex art. 823, comma 2, c.c. (1).
---------------
Beni pubblici – Alloggi di edilizia popolare – Assegnazione in virtù del rapporto di servizio – Cessazione rapporto – Revoca assegnazione – Legittimità.
Nel caso in cui il rapporto di servizio (unitamente ad altri elementi) abbia consentito di beneficiare di alloggi di edilizia popolare, qualora venga meno tale rapporto (e quindi il presupposto in virtù del quale si è potuto beneficiare della predetta assegnazione, prescindendo dalle ordinarie graduatorie per le assegnazioni degli alloggi di edilizia popolare), legittimamente l’amministrazione procede alla revoca della predetta assegnazione (2).

---------------
   (1) Precedenti conformi: non esistono precedenti negli esatti termini. Sulla circostanza secondo la quale la destinazione “pubblica”, oltre a far annoverare i beni tra quelli appartenenti al patrimonio indisponibile, consente all’amministrazione di far uso dei poteri di autotutela ex art. 823, comma 2, c.c.: Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2023, n. 418.
         Precedenti difformi: non risultano precedenti difformi.
   (2) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. IV, 28.05.1999, n. 883. Sulla disciplina degli alloggi assegnati in virtù del rapporto di servizio: Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2011, n. 1890
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.02.2024 n. 1166 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
5.6. Le censure sono infondate.
5.6.1. I provvedimenti di revoca della assegnazione degli alloggi sono stati adottati con due decreti prefettizi del 25.11.1997; sotto il profilo delle norme vigenti ratione temporis, non emergono elementi che consentano di suffragare la tesi degli odierni appellanti.
5.6.2. Gli appellanti propongono una lettura parcellizzata e decontestualizzata delle norme sopra richiamate, che debbono invece essere lette e interpretate in maniera sistematica.
5.6.3. La tesi della diversa qualificazione del rapporto locativo de quo, in relazione al rapporto di servizio non può essere condivisa, in quanto la legge n. 52/1976, all’art. 3, opera un rinvio al d.P.R. n. 1406/1954, che, all’art. 8, disciplina le ipotesi di revoca, richiamando l’art. 4 della legge 27.12.1953 n. 980, che (a sua volta) prevede la revoca della assegnazione dell’alloggio in caso di cessazione dal servizio.
5.6.4. Costituisce elemento non controverso che il rapporto di servizio (unitamente ad altri elementi) ha consentito agli appellanti di beneficiare di alloggi di edilizia popolare; ne consegue che, venendo meno il rapporto di servizio (e quindi il presupposto in virtù del quale gli odierni appellanti hanno potuto beneficiare della predetta assegnazione, prescindendo dalle ordinarie graduatorie per le assegnazioni degli alloggi di edilizia popolare), legittimamente l’amministrazione ha proceduto alla revoca della predetta assegnazione.
5.6.5. Secondo principi consolidati nella giurisprudenza di questa Sezione, dai quali il Collegio non ritiene di doversi discostare, “...è principio generale che gli alloggi di cui alla legge n. 52 del 1976 ("Interventi straordinari per l'edilizia a favore del personale civile e militare della pubblica sicurezza, dell'Arma dei carabinieri, del Corpo della guardia di finanza, del Corpo degli agenti di custodia e del Corpo forestale dello Stato") possono essere assegnati al personale in questione solo in quanto sia in servizio, come emerge dalla espressa previsione dell'art. 1, comma 1, che stabilisce l'assegnazione degli alloggi al personale "in attività di servizio", e secondo la ratio della normativa, per cui gli alloggi servono a far fronte alle esigenze abitative connesse con la prestazione del servizio in sedi diverse dal luogo abituale di residenza e hanno pertanto natura di "alloggi di servizio", con la conseguente legittimità della revoca dell'assegnazione quando cessa il presupposto dell'esigenza di servizio” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.05.1999, n. 883).
5.6.6. L’art. 1, comma 1, della l. 24.12.1993 n. 560 (“Norme in materia di alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica”) dispone quanto segue: “Sono alloggi di edilizia residenziale pubblica, soggetti alle norme della presente legge, quelli acquisiti, realizzati o recuperati, ivi compresi quelli di cui alla legge 06.03.1976, n. 52, a totale carico o con concorso o con contributo dello Stato, della regione o di enti pubblici territoriali, nonché con i fondi derivanti da contributi dei lavoratori ai sensi della legge 14.02.1963, n. 60 , e successive modificazioni, dallo Stato, da enti pubblici territoriali, nonché dagli Istituti autonomi per le case popolari (IACP) e dai loro consorzi comunque denominati e disciplinati con legge regionale”.
Il predetto articolo nel prevedere e disciplinare l’alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica riconosce legittimazione all’acquisto dei predetti alloggi agli assegnatari o ai loro familiari conviventi, i quali conducano un alloggio a titolo di locazione da oltre un quinquennio e non siano in mora con il pagamento dei canoni e delle spese all’atto della presentazione della domanda di acquisto.
Il fatto che la norma abbia espressamente esteso anche agli assegnatari degli alloggi realizzati ai sensi della legge 06.03.1976 n. 52 (come gli odierni appellanti) non implica che abbia fatto venir meno le norme sopra richiamate relative alla revoca della assegnazione dell’alloggio in caso di cessazione del rapporto di servizio.
5.6.7. In altri termini, l’inclusione degli alloggi in questione tra quelli qualificati di edilizia residenziale pubblica, ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge n. 560 del 1993 non ha inciso sul loro vincolo di destinazione e sulle conseguenti modalità di assegnazione e revoca, operando al diverso fine della disciplina della loro alienazione, come anche confermato dalla circolare del Ministero delle finanze n. 455 del 21.02.1994 (cfr. Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana 28.05.2019 n. 491; Tar Sicilia, Sez. III, 24.10.2017 n. 2405; Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.03.2011, n. 1890; in senso conforme, Tar Lazio, Sez. I-ter, 14.05.2012, n. 4310; Tar Liguria, Sez. II, 12.06.2008, n. 1403).
Sotto tale profilo, è stata accolta una nozione di “alloggio di servizio” intesa in senso ampio e, pertanto, non circoscritta soltanto agli alloggi strumentali per lo svolgimento del servizio, ma comprensiva di tutti gli alloggi comunque concessi ai dipendenti alla sola condizione che essi espletino “in loco” le mansioni pubbliche alle quali sono preposti (cfr. Cass. Civ., Sezioni unite, 19.12.2003, n. 19548).
6. Con il secondo motivo di appello, gli odierni appellanti deducono erroneità della sentenza nella parte in cui ha respinto il primo, il terzo e il quarto motivo del ricorso introduttivo del giudizio (sotto altro profilo); violazione e falsa applicazione degli articoli 1 e 3 della l. 06.03.1976 n. 52; difetto di istruttoria; travisamento in fatto e in diritto; eccesso di potere per difetto dei presupposti; difetto di motivazione; ingiustizia manifesta.
6.1. Secondo la prospettazione degli appellanti, il giudice di primo grado, partendo da una qualificazione giuridica errata degli alloggi in questione, sarebbe addivenuto all’erronea conclusione di ritenere che, nel caso di specie, sussisterebbero i presupposti per poter procedere al rilascio in via autoritativa degli immobili in danno degli appellanti e per poter esercitare la c.d. autotutela esecutiva.
6.2. A giudizio degli appellanti, i beni immobili (alloggi) oggetto del presente contenzioso devono essere annoverati tra i beni del patrimonio pubblico disponibile, con tutte le conseguenze di diritto in ordine all’applicazione agli stessi del regime giuridico di diritto comune.
6.3. A questo riguardo, fanno rilevare che la c.d. “autotutela esecutiva” della pubblica amministrazione può essere esercitata esclusivamente nei confronti di beni appartenenti al demanio e al patrimonio pubblico indisponibile, ma non anche con riguardo alla gestione dei beni appartenenti alla categoria del patrimonio disponibile.
6.4. Evidenziano che il demanio e il patrimonio indisponibile identificano i beni pubblici in senso stretto che sono utilizzabili secondo modalità determinate, nelle quali il rispetto del vincolo funzionale della destinazione pubblica impone l’applicazione di regole di matrice pubblicistica e autoritativa; laddove i beni appartenenti al c.d. patrimonio disponibile, al contrario, sono riconducibili invece al regime giuridico di diritto comune.
6.5. Sostengono che gli alloggi per cui è causa non rientrino né nel demanio né nel patrimonio pubblico indisponibile, ma siano ascrivibili al patrimonio disponibile della amministrazione, per le seguenti ragioni:
   - difetterebbe una destinazione del bene a finalità pubbliche e/o a pubblici servizi ad opera di una norma di legge;
   - difetterebbe una destinazione del bene a finalità pubbliche e/o a pubblici servizi ad opera di atti amministrativi generali o di pianificazione;
   - la stessa amministrazione, nel disciplinare il rapporto in questione, ha utilizzato lo schema del contratto di locazione, in luogo della concessione-contratto.
A riprova di quanto dedotto, evidenziano che il godimento dell’alloggio è stato attribuito agli appellanti non per finalità pubblicistiche connesse e funzionali alle necessità del servizio, ma per finalità personali degli interessati e volte a garantire le esigenze abitative del personale dell’amministrazione e dei relativi familiari.
In altri termini, il godimento dell’alloggio sarebbe stato attribuito agli appellanti in forza di un ordinario contratto di locazione e dietro il pagamento di un corrispettivo, instaurandosi con l’amministrazione un rapporto in cui, ad una prima fase prenegoziale pubblicistica, connotata dall’esercizio del potere amministrativo, sarebbe subentrata una fase di disciplina prettamente contrattuale del rapporto, regolata unicamente da strumenti di natura privatistica.
6.6. Le censure sono infondate.
6.6.1. Occorre in primo luogo rilevare che i beni di proprietà di soggetti pubblici appartengono al patrimoni indisponibile se “destinati a un pubblico servizio” (art. 826, comma 3, c.c.) o più in generale se destinati a realizzare un interesse pubblico.
Come già affermato in un recente precedente della Sezione (sentenza 12.01.2023, n. 418), la destinazione “pubblica” oltre a far annoverare i beni tra quella appartenenti al patrimonio indisponibile, consente all’amministrazione di far uso dei poteri di autotutela ex art. 823, comma 2, c.c.
Nel caso di specie, la destinazione del bene alla realizzazione di interessi pubblici emerge con evidenza dalla circostanza che gli immobili in questione erano (e sono) destinati a soggetti in “attività di servizio”, realizzandosi così sin dal momento genetico un collegamento tra il bene e l’interesse pubblico da soddisfare.
6.6.2. Sotto altro aspetto, costituisce ius receptum nella giurisprudenza amministrativa il principio secondo il quale gli atti con i quali la pubblica amministrazione ammette i privati al godimento degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (ossia di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dell’ente) vanno ascritti al genus delle concessioni di beni pubblici (Tar Liguria, Sez. I, 13.12.2016 n. 1233).
6.6.2. La concessione del bene pubblico è uno degli strumenti attraverso i quali l’amministrazione provvede alla gestione dei beni di sua proprietà, che possiede a titolo pubblicistico, al fine di assicurarne il migliore utilizzo.
Nel caso dell'edilizia residenziale pubblica non viene però in rilievo solo la necessità di utilizzare al meglio i beni dell'amministrazione; l’assegnazione dell'alloggio non è quindi mero strumento di gestione del bene pubblico, ma tende a soddisfare un generale bisogno della collettività; ne è prova il fatto che la stessa edificazione degli alloggi popolari è oggetto di un’attività programmatoria la quale viene attivata per far fronte alle esigenze abitative della collettività (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 30.10.2018 n. 1399).
6.6.5. Nella sentenza impugnata, il giudice di primo grado, dopo una ricostruzione del quadro normativo di riferimento, ha evidenziato che l’assegnazione dell’alloggio è avvenuta in relazione al rapporto di servizio degli odierni appellanti, con la conseguenza che la cessazione del rapporto di servizio ha legittimato l’amministrazione alla revoca delle precedenti assegnazioni.
Sulla base delle coordinate ermeneutiche sopra richiamate, ritiene il Collegio che le conclusioni del giudice di primo grado debbano essere confermate, in quanto legittimamente l’amministrazione ha proceduto alla revoca della assegnazione dell’alloggio nel momento in cui, con la cessazione del rapporto di servizio, è venuto meno uno dei presupposti legittimanti l’assegnazione dell’alloggio.
L’esercizio del potere di revoca trova il suo espresso fondamento giuridico nelle norme sopra richiamate.
Come sopra evidenziato, il d.P.R. 27.11.1954, n. 1406 (“Norme regolamentari per l'assegnazione e la gestione degli alloggi, costruiti dall'I.N.C.I.S., da assegnare in locazione al personale dipendente dall’amministrazione della pubblica sicurezza”), richiamato anche dalle parti appellanti, all’art. 8, disciplina le ipotesi di revoca, richiamando l’art. 4 della legge 27.12.1953 n. 980, che (a sua volta) prevede la revoca della assegnazione dell’alloggio in caso di cessazione dal servizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.02.2024 n. 1166 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul diniego dell'istanza di concessione edilizia.
Invero, il provvedimento in esame -presentando natura vincolata- non necessitava di una particolare motivazione; e proprio il carattere vincolato del provvedimento di diniego rende superflua la comunicazione di avvio del procedimento, dal momento che nessun apporto utile poteva essere conferito dalla partecipazione del ricorrente all’istruttoria procedimentale.
Giova evidenziare al riguardo che la disposizione dell'art. 21-octies, l. n. 241/1990 che esclude l'effetto invalidante del vizio dovuto a violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, trova applicazione anche in relazione ai provvedimenti viziati per incompetenza relativa.
In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di specificare che il vizio d'incompetenza relativa, che colpisce un provvedimento amministrativo, in quanto lo stesso avrebbe dovuto essere emanato da organo diverso dello stesso ente, costituisce un mero vizio procedimentale, in quanto tale sanabile ove l'atto stesso abbia natura vincolata e l'irrilevanza del vizio sul suo contenuto dispositivo sia palese.
In altri termini, l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, l. n. 241 del 1990 —che ha escluso l'effetto invalidante del vizio dovuto a “violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”— trova applicazione anche in relazione ai provvedimenti viziati per incompetenza relativa.
Ciò posto, andando al caso di specie, e considerata la natura vincolata del provvedimento impugnato, devono ritenersi del tutto irrilevanti i vizi di incompetenza relativa denunciati dalla parte ricorrente (in quanto “sarebbero stati adottati in conflitto di interesse” o “perché adottati dal responsabile dell’Ufficio Urbanistica anziché dal responsabile del SUAP”) e ciò ai sensi del principio enucleato dall'art. 21-octies della Legge n. 241/1990.
---------------

Oggetto di questo contenzioso è la richiesta di rilascio di concessione edilizia (per la realizzazione di un complesso edilizio destinato ad attività commerciale nel comune di Piazza Armerina) dove all’area (in cui ricade il fondo) veniva attribuita dal ricorrente una destinazione urbanistica (ossia “B”) diversa rispetto a quella impressa dal Comune (“F5”).
Il ricorso è infondato.
La richiesta è stata rigettata perché la progettazione risultava essere redatta come se l’area ricadesse in zona B anziché in F5 come risultante dal PRG; in altri termini, il progetto presentato da parte ricorrente presentava specifiche e caratteristiche tipiche di una zona B, di contro, l’area di proprietà del Se. era stata qualificata nel nuovo piano regolatore come zona F5 Parchi urbani e suburbani e addirittura sottoposta al vincolo cimiteriale e boschivo.
Nel provvedimento si legge quanto segue:
   a) “l’area interessata alla realizzazione del complesso edilizio ricade nel vigente PRG per il 90% in zona F5 (parchi urbani e suburbani) e il 10% come viabilità di progetto”;
   b) “il progetto è stato redatto, attribuendo tutti i parametri e destinazione d’uso ammesse alla zona B, in contrasto con quanto previsto dalla zonizzazione del vigente PRG (Tav. Z.5-03) che classifica l’area per il 90% circa in zona F5 dove sono consentiti parchi urbani e suburbani e il 10% come viabilità di progetto”.
Risulta pertanto infondata la censura di difetto di motivazione spiegata in ricorso posto che è possibile comprendere in maniera chiara l’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione locale nell’adozione del provvedimento.
In ogni caso, giova evidenziare che il provvedimento in esame -presentando natura vincolata- non necessitava di una particolare motivazione; e proprio il carattere vincolato del provvedimento di diniego rende superflua la comunicazione di avvio del procedimento, dal momento che nessun apporto utile poteva essere conferito dalla partecipazione del Se. all’istruttoria procedimentale.
Giova evidenziare al riguardo che la disposizione dell'art. 21-octies, l. n. 241/1990 che esclude l'effetto invalidante del vizio dovuto a violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, trova applicazione anche in relazione ai provvedimenti viziati per incompetenza relativa (cfr. TAR Campania-Napoli, sez. VII, 10/03/2022, n. 1614; Cons. St., sez. III, 04.09.2020 n. 5355; id., sez. V, 07.02.2020 n. 971; id., sez. III, 22.01.2019 n. 253; id., 03.08.2015 n. 3791; id., sez. V, 14.05.2013 n. 2602; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.03.2019 n. 1212; id., 28.03.2017 n. 1710; TAR Toscana, 30.01.2012 n. 197; TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 03.05.2021 n. 5096).
In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di specificare che il vizio d'incompetenza relativa, che colpisce un provvedimento amministrativo, in quanto lo stesso avrebbe dovuto essere emanato da organo diverso dello stesso ente, costituisce un mero vizio procedimentale, in quanto tale sanabile ove l'atto stesso abbia natura vincolata e l'irrilevanza del vizio sul suo contenuto dispositivo sia palese (vedi Consiglio di Stato sez. VI, 20/01/2022, n. 359).
In altri termini, l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, l. n. 241 del 1990 —che ha escluso l'effetto invalidante del vizio dovuto a “violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”— trova applicazione anche in relazione ai provvedimenti viziati per incompetenza relativa (vedi Consiglio di Stato sez. III, 13/05/2020, n. 3046).
Ciò posto, andando al caso di specie, e considerata la natura vincolata del provvedimento impugnato, devono ritenersi del tutto irrilevanti i vizi di incompetenza relativa denunciati dalla parte ricorrente (in quanto “sarebbero stati adottati in conflitto di interesse” o “perché adottati dal responsabile dell’Ufficio Urbanistica anziché dal responsabile del SUAP”) e ciò ai sensi del principio enucleato dall'art. 21-octies della Legge n. 241/1990 (TAR Sicilia-Palermo, sez. II, 10/01/2022, n. 37; Consiglio di Stato sez. III, 04/09/2020, n. 5355) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 31.01.2024 n. 388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’indennità risarcitoria per abusi paesaggistici minori.
---------------
Edilizia e urbanistica – Abuso – Mancanza autorizzazione paesaggistica – Indennità risarcitoria per abusi paesaggistici minori – Doverosità.
La circostanza che la l. n. 1497 del 1939 sia stata abrogata definitivamente nel 2008 non ha alcun rilievo quanto all’esistenza dell’illecito da sanare poiché la norma all’epoca vigente è stata riprodotta nel d.lgs. n. 42 del 2004, che ha raccolto le norme esistenti in precedenti testi legislativi, cosicché possono considerarsi abrogate solo le fattispecie non contenute nel nuovo testo unico, trattandosi, negli altri casi, di mera modifica del nomen iuris. Pertanto, l’indennità risarcitoria, oggi disciplinata dall’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, in caso di abusi paesaggistici cd. minori, che era già prevista dall’art. 15 l. 1497/1939, è dovuta (1).
---------------
   (1) Precedenti conformi: non risultano precedenti negli specifici termini.
         Precedenti difformi: non risultano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 30.01.2024 n. 945 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
1. La signora -OMISSIS- ha impugnato la sentenza indicata in epigrafe che ha respinto il suo ricorso avverso l’atto dirigenziale regionale n. 44 del 12.03.2014, avente ad oggetto l’applicazione delle indennità risarcitorie di cui all’art. 167 d.lgs. 42/2004 e art. 1, comma 37, lett. B2. L. 308/2004.
2. In effetti l’appellante aveva realizzato, previa comunicazione asseverata del 06.09.1995, un volume tecnico di mq. 37 sul terrazzo della sua casa sita in Brindisi all’epoca ricadente in zona non vincolata.
Successivamente aveva trasformava quel vano tecnico in volume abitativo e con istanza del 10.12.2004 chiedeva la sanatoria per quella trasformazione del volume tecnico in volume abitativo ai sensi del decreto legge n. 269/2003, convertito con modificazioni nella l. n. 326/2003.
La Soprintendenza con nota del 29.01.2009 aveva assentito al mantenimento dell’opera sotto il profilo paesaggistico con conseguente rilascio del provvedimento che autorizzava il cambiamento di destinazione d’uso.
Il 12.05.2014 veniva notificato alla ricorrente l’atto dirigenziale del Servizio Regionale Urbanistica n. 44 del 17.03.2014 di applicazione della indennità risarcitoria di cui all’art. 167 D.lgs. 42/2004, avverso il quale l’interessata propone ricorso al TAR per la Puglia.
3. Quest’ultimo ha respinto il ricorso affermando innanzitutto che il vincolo paesaggistico era esistente già all’epoca di realizzazione del volume tecnico e che l’indennità risarcitoria costituiva presupposto imprescindibile per la sanabilità dell’abuso paesaggistico; ha aggiunto che era inoltre priva di rilievo la circostanza che si fosse realizzato un mero cambio di destinazione d’uso senza lavori esterni, così come era irrilevante, ai fini della legittimità del provvedimento impugnato, il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento.
4. L’appello è affidato a tre motivi, sostanzialmente reiterativi di cui proposti in primo grado, ma secondo l’interessata malamente apprezzati e ingiustamente respinti.
4.1. Con il primo motivo si ribadisce che l’autorizzazione paesaggistica non era necessaria e che comunque era stata rilasciata con la sanatoria dal Comune di Brindisi in data 24.06.2010 relativamente alle opere edilizie consistenti in una mera ristrutturazione con cambio di destinazione d’uso di un volume tecnico in civile abitazione sul terrazzo, sanatoria peraltro preceduta dai pareri di compatibilità ambientale favorevole emessi dal Nucleo di Valutazione Paesaggistica del Comune in data 09.12.2008 e dalla Soprintendenza in data 29.01.2009.
E’ stato anche sottolineato che la sanzione prevista all’epoca dalla L. 1497/1939 era stata definitivamente abrogata nel 2008; che la modifica della destinazione d’uso non aveva comportato alcun danno sul piano paesistico e infine che, trattandosi di un intervento minore ai sensi del d.P.R. 31/2017, non era necessaria l’autorizzazione paesaggistica.
...6. L’appello è infondato, il che consente di prescindere dall’esame della questione, pur rilevabile d’ufficio, dell’inammissibilità del gravame a causa del mancato deposito della sentenza impugnata ex art. 94 c.p.a..
6.1. Relativamente al primo motivo di gravame, va premesso che la circostanza che la L. 1497/1939 sia stata abrogata definitivamente nel 2008 non ha alcun rilievo quanto all’esistenza dell’illecito da sanare poiché la norma all’epoca vigente è stata riprodotta nel d.lgs. 42/2004, che ha raccolto le norme esistenti in precedenti testi legislativi cosicché possono considerarsi abrogate solo le fattispecie non contenute nel nuovo testo unico, trattandosi negli altri casi di mera modifica del nomen iuris.
Pertanto l’indennità risarcitoria, oggi disciplinata dall’art. 167 del d.lgs. 42/2004 in caso di abusi paesaggistici cd. minori, era già prevista dall’art. 15 l. 1497/1939.
L’autorizzazione paesaggistica era necessaria anche all’epoca della realizzazione del volume tecnico in base alla L. 310/1995, mentre le successive autorizzazioni rilasciate dalla Soprintendenza e dal Comune di Brindisi, invocate dall’appellante a sostegno della non necessità dell’autorizzazione, devono considerarsi autorizzazioni in sanatoria dal momento che, all’epoca in cui fu chiesta la modifica della destinazione d’uso del manufatto, era emerso che l’autorizzazione paesistica non era stata richiesta; se l’autorizzazione fosse stata a suo tempo richiesta quando furono effettuate le modifiche interne era evidente che non vi sarebbe stato il pagamento di alcuna sanzione.
E’ inconferente il richiamo al d.P.R. 31/2017 che non era vigente all’epoca dei fatti.
In conclusione l’ottenimento di una autorizzazione paesaggistica in sanatoria comporta il pagamento della sanzione prevista dall’art. 167 d.lgs. 42/2004, come già correttamente affermato il primo giudice (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 30.01.2024 n. 945 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La distinzione tra atti di conferma in senso proprio e meramente confermativi deve individuarsi nella circostanza che l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi, escludendosi che possa considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo, non impugnabile, allorché l'Amministrazione si limiti a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
---------------

1. Con il ricorso in esame si espone che la Co.Ca. S.r.l.s. è proprietaria di un immobile sito in Via ... n. 17/b - frazione Casatico di Giussago, edificato in forza di permesso di costruire n. 60/2006 e di successive varianti, nonché di autorizzazione paesaggistica del 22.12.2006, rilasciati dal Comune di Giussago alla precedente proprietaria Xe.Im. S.r.l.
Quest’ultima subiva un’esecuzione immobiliare con redazione di una perizia che riscontrava difformità e conseguenti contestazioni di irregolarità, oggetto di ordinanza di demolizione che ingiungeva di provvedere alla demolizione e/o alla riduzione in pristino delle opere abusive eseguite entro e non oltre 90 giorni.
Parte ricorrente che aveva acquisito il bene, dubitando dell’effettiva possibilità di ridurre in pristino senza compromettere le parti dell’edificio realizzate in conformità, affidava ad un tecnico di fiducia la redazione di una perizia strutturale, che effettivamente rappresentava che le operazioni di demolizione e ricostruzione degli elementi portanti di copertura avrebbero potuto pregiudicare il comportamento strutturale dell’opera; veniva dunque con atto del 03.06.2019 presentata istanza di fiscalizzazione degli abusi ex art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, anche se poi si rinunciava a detta procedura per richiedere l’indicazione delle prescrizioni che avrebbero dovuto consentire la compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 17 del DPR n. 31/2017.
Tuttavia il Comune, a seguito di parere negativo della Soprintendenza, con atto del 15.06.2020 dichiarava improcedibile quest’ultimo procedimento e disponeva “la riapertura dei termini per l’ottemperanza all’Ordinanza di demolizione notificata in data 04.04.2019 …, termini precedentemente sospesi a decorrere dal 03.06.2019”; il 10.07.2020, in piena emergenza COVID-19, parte ricorrente richiedeva una proroga dei termini di esecuzione, accolta dal Comune con successiva nota del 17.07.2020 purché fossero eseguiti alcuni adempimenti.
Da ultimo, con il provvedimento impugnato, il Comune comunicava la riapertura dei termini per l’ottemperanza all’ordinanza di demolizione, anche se parte ricorrente contestava le modalità di conteggio del termine per l’adempimento, in previsione della presentazione di progetto di demolizione parziale del sottotetto, poi effettivamente trasmesso il 31.12.2020.
Avverso il provvedimento in epigrafe sono insorte le ricorrenti rassegnando le seguenti censure:
...
4. Il Collegio ritiene di prescindere dalle eccezioni in rito, anche quanto all’asserita improcedibilità, attesa l’infondatezza nel merito del ricorso.
4.1 Quanto alla presunta lesività dell’atto impugnato per come qualificabile quale conferma in senso proprio, in disparte la successiva valutazione nel merito del gravame, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, V, 27.07.2023, n. 7343; 09.05.2023, n. 4642; TAR Lombardia, Milano, IV, 25.07.2023, n. 1959) secondo cui la distinzione tra atti di conferma in senso proprio e meramente confermativi deve individuarsi nella circostanza che l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi, escludendosi che possa considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata; ricorre invece l'atto meramente confermativo, non impugnabile, allorché l'Amministrazione si limiti a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riguardo ad un organismo edilizio autonomamente utilizzabile siccome realizzato in assenza di titolo autorizzativo, in caso di ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza.
---------------
Il provvedimento demolitorio è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.
Nemmeno è dovuta in siffatte ipotesi la comunicazione di avvio del procedimento, atteso che per gli atti repressivi degli abusi edilizi che hanno natura urgente e vincolata –proprio in considerazione dell’avvenuta realizzazione di una trasformazione del territorio senza alcun titolo abilitativo- non sono richiesti apporti partecipativi dei soggetti destinatari nemmeno quanto alla determinazione dell’area di sedime, che potrà sempre essere meglio specificata nella successiva fase dell’accertamento dell’inottemperanza.
Invero, è orientamento pacifico in giurisprudenza che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".

---------------
Nel caso di specie, la parte ricorrente aveva la disponibilità materiale dell’opera abusiva, ragion per cui legittimamente la notifica del provvedimento demolitorio si è perfezionata nei confronti di chi, in quel momento, deteneva l’immobile indipendentemente dall’aver contribuito a realizzare l’abuso.
Del resto dalla lettura dell’art. 31, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 380/2001 emergono come destinatari della sanzione demolitoria, in forma non alternativa ma congiunta, il proprietario ed il responsabile dell’abuso: ne discende che l’ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata, come nella specie, nei confronti della proprietaria del manufatto, sebbene non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall’accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo stato di buona fede rispetto alla commissione dell’illecito.
Infatti la condizione di estraneità o di buona fede soggettiva al momento della commissione dell’illecito potrebbe assumere rilievo unicamente ai fini della successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità del proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il terzo responsabile dell’abuso.
Sul punto questa stessa Sezione (06.06.2022, n. 1309) ha avuto modo di affermare che “l’acquisizione dei beni al patrimonio comunale, correlata all’inottemperanza all’ordine di demolizione di opere abusive, grava sia sul proprietario che sul detentore del bene, anche se non autori materiali dell’abuso e non aventi causa dal trasgressore, poiché una volta venuti a conoscenza, tramite la notifica dell’ordinanza di rimessione in pristino, dell’attività illecita svolta da terzi, devono attivarsi contro il responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva, e laddove abbiano la disponibilità del manufatto devono provvedere in proprio all’eliminazione dell’intervento edilizio sine titulo; in mancanza di ciò subiscono certamente l’acquisizione del bene".
---------------

4.2 In disparte se nella fattispecie si possa ricondurre ad una nuova istruttoria/motivazione –con conseguente riapertura dei termini per l’ottemperanza- la mera descrizione degli eventi intercorsi medio tempore dall’ultima sospensione concessa, preliminarmente la Sezione esprime l’avviso che, con riguardo ad un organismo edilizio autonomamente utilizzabile siccome realizzato in assenza di titolo autorizzativo, in caso di ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza.
Con tali premesse le censure in termini di violazione di legge non meritano positiva valutazione in quanto il provvedimento demolitorio, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività (cfr. TAR Campania, Salerno, II, 29.01.2019, n. 203; Napoli, IV, 10.01.2019, n. 137; Cons. Stato, VI, 05.11.2018, n. 6233).
Nemmeno è dovuta in siffatte ipotesi la comunicazione di avvio del procedimento, atteso che per gli atti repressivi degli abusi edilizi che hanno natura urgente e vincolata –proprio in considerazione dell’avvenuta realizzazione di una trasformazione del territorio senza alcun titolo abilitativo- non sono richiesti apporti partecipativi dei soggetti destinatari nemmeno quanto alla determinazione dell’area di sedime, che potrà sempre essere meglio specificata nella successiva fase dell’accertamento dell’inottemperanza.
Non troverebbero ingresso neanche le censure di natura procedimentale, essendo orientamento pacifico in giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, II, 13.06.2019, n. 3971; TAR Campania, Napoli, IV, 10.1.2019, n. 137) che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
4.3 In ogni caso parte ricorrente aveva la disponibilità materiale dell’opera abusiva, ragion per cui legittimamente la notifica del provvedimento demolitorio si è perfezionata nei confronti di chi, in quel momento, deteneva l’immobile indipendentemente dall’aver contribuito a realizzare l’abuso.
Del resto dalla lettura dell’art. 31, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 380/2001 emergono come destinatari della sanzione demolitoria, in forma non alternativa ma congiunta, il proprietario ed il responsabile dell’abuso: ne discende che l’ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata, come nella specie, nei confronti della proprietaria del manufatto, sebbene non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall’accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo stato di buona fede rispetto alla commissione dell’illecito.
Infatti la condizione di estraneità o di buona fede soggettiva al momento della commissione dell’illecito potrebbe assumere rilievo unicamente ai fini della successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità del proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il terzo responsabile dell’abuso.
Sul punto questa stessa Sezione (06.06.2022, n. 1309) ha avuto modo di affermare che “l’acquisizione dei beni al patrimonio comunale, correlata all’inottemperanza all’ordine di demolizione di opere abusive, grava sia sul proprietario che sul detentore del bene, anche se non autori materiali dell’abuso e non aventi causa dal trasgressore, poiché una volta venuti a conoscenza, tramite la notifica dell’ordinanza di rimessione in pristino, dell’attività illecita svolta da terzi, devono attivarsi contro il responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva, e laddove abbiano la disponibilità del manufatto devono provvedere in proprio all’eliminazione dell’intervento edilizio sine titulo; in mancanza di ciò subiscono certamente l’acquisizione del bene (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 13.10.2020, n. 1889; 04.07.2019, n. 1528; 21.01.2019, n. 112; 03.11.2016, n. 2014; 16.03.2015, n. 728)" (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rileva il Collegio che l'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 (secondo cui "Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale") è interpretato dalla giurisprudenza nel senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria posta da tale normativa debba essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione, fase esecutiva nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della legittimità del provvedimento di demolizione.
Infatti la costante giurisprudenza ritiene che la norma ha valore eccezionale e derogatorio, ragion per cui non è l'Amministrazione a dover valutare, prima di emettere l'ordine di demolizione dell'abuso, se essa possa essere applicata, ma è il privato interessato a dover dimostrare, in modo rigoroso, nella fase esecutiva, l'obiettiva impossibilità di ottemperare all'ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme.
Va ancora chiarito in questa sede che l’art. 34, co. 2, del T.U. edilizia introduce una sanzione alternativa rispetto a quella demolitivo-restitutoria nel caso in cui la demolizione non possa avvenire senza incidere sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso.
La statuizione che prevede una sanzione pecuniaria non configura un'ipotesi di sanatoria dell'abuso edilizio perpetrato, ma semplicemente contempera l'esigenza di ristabilire lo status quo ante con quella di assicurare la sicurezza pubblica; la sanzione pecuniaria si applica soltanto quando sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione, risultando in maniera inequivoca che la demolizione inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.
In altri termini, l'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che "quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione".
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione; in quella sede, infatti, le parti ben potranno dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità dell’immobile derivante dall'esecuzione della demolizione.

---------------

4.4 Contrariamente a quanto asserito in sede ricorsuale in relazione all'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 -secondo cui "Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale"- rileva il Collegio che la citata disposizione è interpretata dalla giurisprudenza nel senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria posta da tale normativa debba essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione, fase esecutiva nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della legittimità del provvedimento di demolizione.
Infatti la costante giurisprudenza ritiene che la norma ha valore eccezionale e derogatorio, ragion per cui non è l'Amministrazione a dover valutare, prima di emettere l'ordine di demolizione dell'abuso, se essa possa essere applicata, ma è il privato interessato a dover dimostrare, in modo rigoroso, nella fase esecutiva, l'obiettiva impossibilità di ottemperare all'ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme (cfr. TAR Sicilia, Palermo, II, 26.02.2020, n. 439; Cons. Stato, II, 12.09.2019, n. 6147; VI, 15.07.2019, n. 4939; 21.05.2019, n. 3280; 09.07.2018, n. 4169; 19.11.2018, n. 6497; 29.11.2017, n. 5585).
La Sezione ritiene dunque, in conformità al suesposto consolidato orientamento, che nel caso di specie il Comune di Giussago non potesse che ordinare la demolizione delle opere abusivamente realizzate, salva la facoltà per parte ricorrente di dedurre, al momento della concreta esecuzione del provvedimento di demolizione, in ordine all'eventuale situazione di pericolo di stabilità del fabbricato derivante dall'esecuzione della demolizione delle opere abusive e per le opere realizzate in parziale difformità dal titolo edilizio.
Va ancora chiarito in questa sede che l’art. 34, co. 2, del T.U. edilizia introduce una sanzione alternativa rispetto a quella demolitivo-restitutoria nel caso in cui la demolizione non possa avvenire senza incidere sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso.
La statuizione che prevede una sanzione pecuniaria non configura un'ipotesi di sanatoria dell'abuso edilizio perpetrato, ma semplicemente contempera l'esigenza di ristabilire lo status quo ante con quella di assicurare la sicurezza pubblica; la sanzione pecuniaria si applica soltanto quando sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione, risultando in maniera inequivoca che la demolizione inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.
In altri termini, l'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che "quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione".
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione (ex plurimis Cons. Stato, VI, 20/07/2018, n. 4418; 29/11/2017, n. 5585; 12/04/2013, n. 2001); in quella sede, infatti, le parti ben potranno dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità dell’immobile derivante dall'esecuzione della demolizione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di volume utile ai fini urbanistici non è coincidente con quella applicabile in sede paesistica, dal momento che
   - nelle valutazioni di natura urbanistica mediante il volume utile viene misurata la consistenza dei diritti edificatori, mentre
   - nei giudizi paesistici viene considerata la percepibilità dell'opera come volume collocato in uno scenario e viene pertanto valutato il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell'insieme paesistico.
Invero, “se nelle valutazioni di natura urbanistica, attraverso il volume utile, viene misurata la consistenza dei diritti edificatori (che sono consumati da alcune tipologie costruttive, ad esempio l’edificazione fuori terra, e non da altre, ad esempio la realizzazione di locali tecnici), nei giudizi paesistici assume rilievo solo il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell’insieme paesistico".

---------------

4.5 Nella fattispecie è fuori discussione, per come deducibile dalla proposta progettuale successivamente presentata, che anche l’ipotizzata realizzazione di tasche a tetto, mediante la rimozione di parti di copertura per la formazione di terrazzi e spazi senza permanenza di persone, pur determinando una significativa riduzione quantitativa dell’abuso, non andrebbe a modificare il volume per quanto attiene all'aspetto della tutela paesaggistica, lasciando immutata la percepibilità dell'opera ai fini paesistici soprattutto in ragione dell'invarianza della sagoma di copertura.
Occorre sottolineare che la nozione di volume utile ai fini urbanistici non è coincidente con quella applicabile in sede paesistica, dal momento che nelle valutazioni di natura urbanistica mediante il volume utile viene misurata la consistenza dei diritti edificatori, mentre nei giudizi paesistici viene considerata la percepibilità dell'opera come volume collocato in uno scenario e viene pertanto valutato il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell'insieme paesistico.
In coerenza con quanto esposto, la Sezione (n. 1788/2023) ha ritenuto che “se nelle valutazioni di natura urbanistica, attraverso il volume utile, viene misurata la consistenza dei diritti edificatori (che sono consumati da alcune tipologie costruttive, ad esempio l’edificazione fuori terra, e non da altre, ad esempio la realizzazione di locali tecnici), nei giudizi paesistici assume rilievo solo il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell’insieme paesistico (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 24.06.2020, n. 1172; 11.06.2019, n. 1319; altresì, TAR Campania, Napoli, VII, 01.02.2018, n. 712)” (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In giurisprudenza è opinione consolidata
   - che "l'esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una delle imprescindibili modalità di cura dell'interesse pubblico affidato all'una od all'altra branca dell'Amministrazione ed è espressione del principio di buon andamento di cui all'art. 97, Cost." e
   - che "nella specifica materia dell'attività urbanistico-edilizia, un potere specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa natura, anche mediante provvedimenti innominati), volto ad assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, è affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001), non sussistendo l'obbligo di comparazione degli interessi e non essendo rinvenibile un affidamento tutelabile del privato".
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, sono tipizzati e vincolati nella misura in cui presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
Poi, il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento.
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus..
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem.
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo legittimare.

---------------

4.6 Sotto ulteriore profilo le censure in termini di eccesso di potere e di difetto di motivazione sono ancor più destituite di fondamento se si considera che in giurisprudenza è opinione consolidata (ad es., Cons. Stato, IV, 25.11.2008, n. 5811) che "l'esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una delle imprescindibili modalità di cura dell'interesse pubblico affidato all'una od all'altra branca dell'Amministrazione ed è espressione del principio di buon andamento di cui all'art. 97, Cost." e che "nella specifica materia dell'attività urbanistico-edilizia, un potere specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa natura, anche mediante provvedimenti innominati), volto ad assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, è affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001), non sussistendo l'obbligo di comparazione degli interessi e non essendo rinvenibile un affidamento tutelabile del privato".
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, sono tipizzati e vincolati nella misura in cui presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
4.7 Per il resto il Collegio ritiene di far proprio quanto argomentato dall’Adunanza Plenaria (17.10.2017, n. 9), ovvero che il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (Cons. Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; 06.03.2017, n. 1060).
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus (Cons. Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem (in tal senso Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908; VI, 13.12.2016, n. 5256).
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo legittimare (Cons. Stato, 28.02.2017, n. 908; IV, 12.10.2016, n. 4205; 31.08.2016, n. 3750) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 13.12.2023, "Aggiornamento dei criteri attuativi «Modalità per la pianificazione comunale» (art. 7 della l.r. 12/2005 «Legge per il governo del territorio»)" (deliberazione G.R. 04.12.2023 n. 1504).
---------------
Si leggano anche i correlati:
  
allegato 1 (AGGIORNAMENTO DEI CRITERI ATTUATIVI DELLA LR 12/2005 “MODALITÀ PER LA PIANIFICAZIONE COMUNALE”)
   ● allegato 2 (Atto di indirizzo e coordinamento tecnico per l’attuazione dell’articolo 3 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio" - MODALITÀ DI COORDINAMENTO ED INTEGRAZIONE DELLE INFORMAZIONI PER LO SVILUPPO DEL SISTEMA INFORMATIVO TERRITORIALE INTEGRATO - S.I.T.)
   ● allegato 3 [Determinazioni in merito al Piano di Governo del Territorio dei comuni con popolazione compresa tra 2.001 e 15.000 abitanti (art. 7, c. 3, LR n. 12/2005) - deliberazione C.R. 01.10.2008 n. 8138)]
   ● allegato 4 (CRITERI ED INDIRIZZI PER LA DEFINIZIONE DELLA COMPONENTE GEOLOGICA, IDROGEOLOGICA E SISMICA DEL PIANO DI GOVERNO DEL TERRITORIO, IN ATTUAZIONE DELL’ART. 57 DELLA L.R. 11.03.2005, N. 12 – TESTO INTEGRALE)
   ● allegato 5 [Indirizzi generali per la valutazione di piani e programmi (art. 4, comma 1, l.r. 11.03.2005, n. 12) - deliberazione C.R. 13.03.2007 n. 351]
   ● allegato 6 (CRITERI E PROCEDURE PER L’ESERCIZIO DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE IN MATERIA DI TUTELA DEI BENI PAESAGGISTICI IN ATTUAZIONE DELLA LEGGE REGIONALE 11.03.2005 N. 12)
         - allegato 6-1 (ALLEGATO A - SCHEMA DI DOMANDA PER AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA - ELABORATI PER LA PRESENTAZIONE DEI PROGETTI)
         - allegato 6-2 (ALLEGATO B - SCHEDE DEGLI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL PAESAGGIO)
         - allegato 6-3 (ALLEGATO C - MODELLI PER PROVVEDIMENTI PAESAGGISTICI (AUTORIZZATIVI E SANZIONATORI))
         - allegato 6-4 (ALLEGATO D - RAPPORTO ANNUALE SULLO STATO DEL PAESAGGIO)

   ● allegato 7 (Atti di indirizzo e coordinamento tecnico della legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio" - INDIRIZZI E CRITERI URBANISTICI PER LA PIANIFICAZIONE DEGLI ENTI LOCALI IN MATERIA COMMERCIALE)

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Consorzi stabili fuori gara anche per sanzioni a imprese non designate per l’esecuzione. Lo precisa il Tar Lazio chiarendo che l’esclusione deve però essere sorretta da adeguata motivazione da parte della stazione appaltante come prescrive anche il nuovo codice.
In caso di partecipazione alla gara di un consorzio stabile, le carenze nell’esecuzione di precedenti contratti di appalto che abbiano portato alla risoluzione per inadempimento o ad altre misure sanzionatorie rilevano ai fini dell’esclusione anche se sono intervenute nei confronti di un’impresa consorziata diversa da quella designata come esecutrice nella gara stessa.
Nel contempo, l'esclusione deve essere sorretta da adeguata motivazione, che implica lo svolgimento da parte della stazione appaltante di una compiuta istruttoria che consenta alla stessa di compiere le sue valutazioni discrezionali in merito all'effettiva rilevanza dei fatti contestati al fine di procedere all'eventuale esclusione.
Si è espresso in questi termini il TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 11.01.2024 n. 560, che affronta il tema di come deve essere inteso il possesso dei requisiti generali in capo al consorzio stabile e come opera la causa di esclusione delle inadempienze in precedenti contratti, da valutare anche alla luce delle novità introdotte dal Dlgs 36/2023.
Il fatto
Il Ministero della Difesa aveva bandito una gara per l'affidamento di un appalto di lavori. L'aggiudicazione veniva in un primo momento operata a favore di un raggruppamento temporaneo di imprese in cui il mandatario era un consorzio stabile. Successivamente, anche a seguito di un'istanza presentata dal secondo classificato, la stazione appaltante procedeva all'annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione.
Tale annullamento veniva motivato con riferimento alla previsione dell'allora vigente articolo 80, comma 5, lettera c-ter), del Dlgs 50/2016, che prevedeva l'esclusione dalla gara del concorrente che fosse incorso in significative o persistenti carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto, che avessero portato alla risoluzione per inadempimento o ad altre sanzioni comparabili.
La stessa disposizione prevedeva peraltro che su tali circostanze la stazione appaltante fosse chiamata a motivare, anche in relazione al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità della stessa. Nello specifico, a carico del consorzio stabile (mandatario del raggruppamento originariamente aggiudicatario) risultava una risoluzione per inadempimento di un precedente contratto di appalto, nonché altri quattro provvedimenti di rescissione in danno, sempre a carico del consorzio in relazione a precedenti appalti.
La stessa stazione appaltante precisava che non assumeva alcun rilievo la circostanza che le imprese consorziate esecutrici dei precedenti contratti di appalto che avevano dato luogo agli atti di risoluzione e rescissione fossero diverse dall'impresa designata come esecutrice nella gara bandita.
Ciò in quanto gli eventi da considerare pregiudizievoli in capo al consorzio ai fini della sua partecipazione alla gara andavano valutati a prescindere da quale fosse la consorziata esecutrice nei contratti rispetto ai quali si erano manifestati gli inadempimenti, e quindi anche se tale consorziata non coincideva con quella designata in sede di gara.
Il provvedimento di annullamento dell'aggiudicazione è stato impugnato dal consorzio stabile davanti al giudice amministrativo. Secondo il ricorrente erroneamente la stazione appaltante avrebbe fatto conseguire in maniera automatica l'annullamento dell'aggiudicazione dagli atti di risoluzione e rescissione dei precedenti contratti di appalto.
Ciò senza considerare da un lato la necessità di operare una valutazione in concreto in merito alla gravità e rilevanza degli inadempimenti e al grado di responsabilità dell'impresa consorziata; dall'altro, che in tali contratti le consorziate esecutrici erano diverse da quella indicata in sede di gara.
In relazione a tale ultimo profilo, il ricorrente evidenziava che qualora gli eventi contestati riguardavano contratti in cui l'impresa consorziata esecutrice era diversa da quella indicata in sede di gara non sussisterebbe neanche un onere dichiarativo in capo al consorzio stabile, in quanto tali eventi non sarebbero direttamente imputabili al consorzio stesso.
I requisiti generali in capo al consorzio e alle consorziate
Il giudice amministrativo ha proceduto in primo luogo all'esame di questo secondo profilo.
La censura avanzata dal ricorrente è stata respinta, ritenendosi corretto il comportamento della stazione appaltante. Ricorda infatti il giudice amministrativo che la struttura giuridica del consorzio stabile considerato come un soggetto autonomo dotato di personalità giuridica, distinta da quella delle consorziate comporta che l'evento ritenuto pregiudizievole vada considerato e valutato in capo al consorzio a prescindere dal fatto che lo stesso abbia materialmente riguardato un'impresa consorziata diversa da quella designata in sede di gara.
Tale evento si riferisce infatti a un requisito di ordine generale (di idoneità morale) che come tale deve essere posseduto in primo luogo dall'impresa consorziata indicata come esecutrice in sede di offerta relativa alla specifica gara, non potendosi ammettere che un'impresa consorziata priva dei requisiti generali possa essere avvantaggiata dallo schermo di copertura costituito dal consorzio.
Ma lo stesso requisito di ordine generale deve essere posseduto anche dal consorzio in quanto tale, e a tal fine è irrilevante che l'evento che viene in considerazione per ritenere insussistente il suddetto requisito abbia riguardato contratti in cui era impresa esecutrice una consorziata diversa da quella designata in sede di gara.
In sostanza, il giudice amministrativo evidenzia che i requisiti generali per la partecipazione alla gara devono essere posseduti sia dal consorzio in quanto tale che dall'impresa consorziata indicata come esecutrice.
Ma in relazione al consorzio, la carenza del requisito generale rileva anche se il fatto produttivo della stessa sia imputabile a una consorziata diversa da quella designata in sede di gara. In realtà la necessità che i requisiti generali siano posseduti direttamente anche dal consorzio non è esplicitamente prevista dalla disciplina legislativa, ma è il frutto di una elaborazione giurisprudenziale sul punto.
Infatti sia il Dlgs 50 che il Dlgs 36 si occupano esclusivamente dei requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi in capo alle imprese consorziate, ma nulla dicono in merito ai requisiti di carattere generale. Tuttavia la conclusione accolta dal giudice amministrativo appare condivisibile.
Il soggetto che partecipa alla gara e che risulta titolare del relativo contratto in caso di aggiudicazione è il consorzio stabile in quanto tale. E poiché esso si configura come una stabile struttura di impresa con una propria soggettività giuridica e con distinta autonomia anche patrimoniale, appare corretto che il consorzio in sé sia in possesso dei requisiti generali per la partecipazione alla gara. E risulta altrettanto logico che la sussistenza di tali requisiti sia accertata con riferimento ai comportamenti di tutte indistintamente le imprese consorziate, senza che rilevi la circostanza che gli stessi comportamenti siano stati posti in essere da una consorziata diversa da quella designata in sede di partecipazione alla gara.
In sostanza, l'idoneità morale del consorzio stabile è anche la risultanza dell'idoneità morale di tutte le imprese consorziate, proprio perché la struttura consortile unitaria implica che qualunque comportamento di ognuna di tali imprese si rifletta immediatamente sulla idoneità del consorzio in relazione al possesso di requisiti generali.
Nel caso di specie ha quindi correttamente operato la stazione appaltante, che ha ritenuto rilevanti ai fini dell'annullamento dell'aggiudicazione le vicende contrattuali (risoluzione e rescissioni) che hanno riguardato un'impresa consorziata, ancorché diversa da quella indicata in sede di gara.
Affermato questo principio di carattere generale, il giudice amministrativo ne introduce tuttavia un temperamento. Viene infatti specificato che resta in capo alla stazione appaltante un ambito di valutazione discrezionale volto ad accertare se il comportamento pregiudizievole dell'impresa consorziata sia idoneo a incidere sull'idoneità morale del consorzio, argomento che si collega in parte alla seconda censura del ricorrente in merito al ritenuto difetto di motivazione del provvedimento di annullamento dell'aggiudicazione.
L'obbligo di motivazione
Secondo il ricorrente la stazione appaltante nel disporre l'annullamento in autotutela dell'aggiudicazione sarebbe incorsa nei vizi di carenza di motivazione e difetto di istruttoria. Il giudice amministrativo ha accolto questa censura. Ha infatti ritenuto che la stazione appaltante, nel valutare la causa di esclusione che nel caso di specie è stata posta alla base dell'annullamento dell'aggiudicazione consistente nell'intervenuta risoluzione di precedenti contratti per inadempimento, debba motivare specificamente anche in relazione al tempo trascorso e alla gravità dell'inadempimento.
Questa valutazione e la contestuale puntuale motivazione nel caso di specie è mancata del tutto. La stazione appaltante non ha infatti in alcun modo preso in considerazione la pluralità di elementi fattuali prospettati dal ricorrente e che avrebbero potuto incidere sulla valutazione degli eventi intervenuti nei precedenti rapporti contrattuali.
In sostanza, tali elementi, se opportunamente vagliati, avrebbero potuto portare a un più adeguato apprezzamento delle vicende pregresse, così da motivare in maniera appropriata sulla sussistenza o meno della mancanza del requisito generale oggetto di considerazione. Da qui l'illegittimità del provvedimento di annullamento dell'aggiudicazione per carenza di motivazione e difetto di istruttoria.
Le novità del Dlgs 36
Le considerazioni relative al rispetto puntuale dell'obbligo di motivazione escono rafforzate dalle novità introdotte dal Dlgs 36. 
Quest'ultimo, nell'ambito della rivisitazione complessiva della disciplina sulle cause di esclusione, considera le carenze nell'esecuzione di precedenti contratti che abbiano dato luogo alla risoluzione per inadempimento o a sanzioni equivalenti non più in maniera autonoma, ma come una delle ipotesi che integra l'illecito professionale grave.
Ai sensi dell'articolo 98, comma 2, l'illecito professionale deve essere valutato in base alla sussistenza degli elementi che potenzialmente lo integrano, all'idoneità dello stesso ad incidere sull'affidabilità e integrità dell'operatore e tenendo conto degli adeguati mezzi di prova. E il mezzo di prova relativo a questa specifica ipotesi di illecito professionale si sostanzia nell'intervenuta risoluzione per inadempimento o nella condanna al risarcimento del danno o in altre conseguenze comparabili.
In quest'ambito, l'illecito professionale grave rientra tra le cause di esclusione non automatica, che implicano quindi un ambito di valutazione discrezionale della stazione appaltante in merito alla sussistenza dei relativi elementi costitutivi. Con la conseguenza che viene consolidato anche a livello legislativo l'orientamento giurisprudenziale in merito alla necessità che tale valutazione si estrinsechi in una adeguata motivazione (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.01.2024).
---------------
SENTENZA
10. La censura non è fondata.
In effetti le diverse fattispecie “critiche” dichiarate dal Co.Bu. nel DGUE (potenzialmente rilevanti e quindi da dichiarare ai sensi dell’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50/2016) sono tutte relative a commesse nelle quali non erano coinvolte, come ditte esecutrici, le imprese consorziate indicate dal RTI concorrente nella specie.
In effetti il DGUE si riferisce: alle commesse affidate dal Comune di Selvazzano, dal Comune di Cava de’ Tirreni e dal Comune di Alghero, nelle quali l’esecutrice designata era la consorziata El.Si. Srl; all’appalto affidato dal Comune di Palermo, dove la consorziata designata era la Di. S.r.l.; all’appalto affidato dalla Città di Peschiera Borromeo, dove la consorziata designata era la Be.In. S.r.l.
Quindi nessuna delle fattispecie pregresse concerne le due imprese designate nell’ambito dell’affidamento in oggetto.
Tuttavia, alla luce dei più recenti arresti giurisprudenziali, il Collegio ritiene che la struttura giuridica del Consorzio stabile comporta, quale corollario, che il pregiudizio a carico dello stesso vada valutato e apprezzato dalla S.A. a prescindere dal fatto che la consorziata esecutrice coinvolta nella pregressa commessa sia diversa da quella designata nella nuova procedura (Cons. Stato sez. V, 03.05.2022, n. 3543; id. 25.03.2021, n. 2352; TAR Sicilia, Catania, 31.05.2023, n. 1763).
Più precisamente occorre, in primo luogo che le imprese indicate come esecutrici siano esse stesse in possesso dei requisiti generali, non potendosi esse avvantaggiare dello “schermo di copertura” ritraibile dal consorzio (cfr. Cons. Stato, V, n. 3543/2022 cit.; id. 09.10.2020, n. 6008; 30.09.2020, n. 5742; 05.05.2020, n. 2849; 05.06.2018, n. 3384 e 3385; 26.04.2018, n. 2537).
Ciò implica, in effetti, che il pregiudizio a carico di una data consorziata (anche laddove maturato quale esecutrice di precedente affidamento a beneficio del consorzio) non rilevi di per sé ai fini dei requisiti partecipativi a una diversa gara in cui sia designata dal consorzio stabile una distinta consorziata esecutrice (Cons. Stato, n. 2387 del 2020, cit.).
Ma ciò non vuol dire (anche) che il pregiudizio maturato (e risultante) a carico dello stesso consorzio stabile su un precedente affidamento non rilevi ai fini di una successiva procedura solo perché risultava ivi designata una diversa consorziata esecutrice.
I requisiti generali vanno infatti accertati sì in capo alle consorziate esecutrici, ma anche nei confronti del consorzio in sé (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2012, n. 8, relativa a un consorzio di produzione e lavoro, con principio ben riferibile anche ai consorzi stabili: “il possesso dei requisiti generali e morali […] deve essere verificato non solo in capo al consorzio ma anche alle consorziate”; Cons. Stato, V, 25.03.2021, n. 2532).
Per questo, “la circostanza che il fatto della consorziata esecutrice in un pregresso affidamento non valga a comprovare la carenza dei requisiti nell’ambito di una gara con altra esecutrice designata non consente sic et simpliciter di obliterare o ritenere superato un pregiudizio che risulti a carico (anche) del consorzio stesso.
Una siffatta valutazione attiene infatti, eventualmente, all’apprezzamento di merito circa l’affidabilità e integrità dell’operatore, a seconda del tipo di illecito pregresso e delle sue connotazioni materiali (cfr. Cons. Stato, n. 2532 del 2021, cit.), nonché del giudizio discrezionale rimesso alla stazione appaltante in caso di illeciti non comportanti l’automatica esclusione dell’impresa.
Come correttamente dedotto dall’appellante, infatti, il concorrente in gara è il consorzio stabile, così come lo stesso consorzio è il titolare del contratto con l’amministrazione (cfr. Cons. Stato, V, 02.02.2021, n. 964; cfr. peraltro anche, in termini generali, Cons. Stato, Ad. plen., 13.03.2021, n. 5, in ordine alla configurazione strutturale propria dei consorzi stabili -diversa da quella dei consorzi ordinari- caratterizzati da una “stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio”).
Alla luce di ciò, se personalmente a carico del consorzio stabile risulta un pregiudizio, lo stesso va valutato e apprezzato dalla stazione appaltante a prescindere dal fatto che la consorziata esecutrice ivi coinvolta (ed eventualmente colpita, insieme al consorzio, dai provvedimenti pregiudizievoli dell’amministrazione) sia diversa da quella designata nella nuova procedura di gara
.” (Cons. Stato n. 3453/2022).
Ne consegue che le pregresse vicende in esame, poiché hanno riguardato (oltre alle consorziate “diverse” da quelle designate nelle specie) lo stesso Co.Bu. -nei confronti del quale le rescissioni e le contestazioni sono state formalmente dichiarate (e il Consorzio ha assunto altresì veste attorea nei conseguenti contenziosi instaurati)- sono state giustamente considerate dalla S.A., ai fini del loro apprezzamento in funzione della verifica di affidabilità del RTI concorrente.

EDILIZIA PRIVATA: Interventi di demolizione e ricostruzione: attenzione a Google Earth. Le foto prese dalla rete possono essere determinanti ai fini della dimostrazione della commissione di abusi edilizi.
Si può parlare di intervento di demolizione e ricostruzione solamente laddove il privato dia prova dell’assenza di variazioni del volume, dell'altezza o della sagoma dell'edificio preesistente
: è quanto chiarito dal TAR Campania, sede di Napoli, sez. II, con la sentenza 10.01.2024, n. 286.
1. I fatti di causa
Oggetto del giudizio era l’impugnazione dell’ordinanza di demolizione di un corpo di fabbrica realizzato abusivamente all’esito di un intervento di demolizione e ricostruzione.
Determinante per valutare la reale consistenza dell’immobile è stata la valutazione delle risultanze fotografiche ottenute dall’applicazione Google Earth con le quali si è potuto dimostrare che, almeno fino al 2016, la consistenza dell’immobile.
Il TAR, dunque, qualificato l’intervento come nuova costruzione e riscontrata l’assenza dei titoli abilitativi, non ha potuto far altro che respingere il ricorso confermando la legittimità dell’ordinanza impugnata.
2. Interventi di demolizione e ricostruzione. Quali limiti?
La motivazione della sentenza in commento si sofferma sulla qualificazione degli interventi edilizi di demolizione e ricostruzione e sulla possibilità di ricondurli nella fattispecie delineata quale “nuova costruzione”.
Richiamiamo, prima di procedere oltre, le definizioni rilevanti:
   - Nuova costruzione: intervento che determinano una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni latu sensu intese, le quali, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, manifestano un carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo (art. 3, comma 1, lett. e) e art. 10, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380/2001);
   - Intervento di demolizione e ricostruzione: tipologia afferente alla categoria degli interventi di ristrutturazione edilizia caratterizzati dalla demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche; in ipotesi tassative si possono prevedere incrementi di volumetria [art. 3, comma 1, lett. d), e art. 10, comma 1, lett. c), nonché art. 22, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380/2001];
Tali brevi richiami appaiono utili in quanto il ricorrente, nella fattispecie in commento, invocava –al fine di vedersi comminata una sanzione più lieve– la qualificazione dell’intervento eseguito quale ristrutturazione di una preesistenza edilizia e non già quale nuova costruzione.
Le differenze sono tutt’altro che lessicali: la ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire, o in difformità al titolo abilitativo, determina l’applicazione dell’art. 33, d.P.R. n. 380/2001 e non la più afflittiva sanzione demolitoria prevista dall’art. 31, d.P.R. n. 380/2001.
3. Nel dubbio, l’intervento si presume di “nuova costruzione”
A fronte delle difese del ricorrente, il TAR è stato chiamato a pronunciarsi sul criterio discretivo tra l'intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione.
Si può parlare di intervento di demolizione e ricostruzione in assenza di variazioni del volume, dell'altezza o della sagoma dell'edificio preesistente. Diversamente, si deve parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione quanto ai titoli edilizi necessari ed al regime sanzionatorio
La prova delle richiamate indefettibili e precise condizioni grava unicamente sul privato e, nella sentenza in commento, tale prova è mancata, anche alla luce delle risultanze fotografiche ottenute dall’applicazione Google Earth prodotte dall’amministrazione (31.01.2024 - tratto da www.altalex.com).
---------------
SENTENZA
1. Gli odierni ricorrenti hanno impugnato l’ordinanza n. 2 del 21.02.2020, con la quale il Dirigente del Settore Assetto del Territorio del Comune di Giugliano in Campania ha ingiunto la demolizione di un corpo di fabbrica presso l’immobile ubicato alla via ... n. 33, in Giugliano in Campania, distinto in catasto al foglio 82, particella 1207 ex art. 31 del d.P.R. 380/2001.
2. Il provvedimento è stato adottato sulla base del verbale di sequestro redatto dal Comando di Polizia Municipale prot. n. 3847/P.G./2019 P.V.52/S/19 del 28/11/2019 nel quale l’intervento viene dettagliatamente descritto come “una struttura in muratura di circa 80 mq, poggiante su una pedana in c.a. con altezza di circa 0,50 cm ed una superficie di circa 200 mq, …provvista di una porta in ferro, n. 3 finestre ed una finestra, l'interno è composto da un unico ambiente allo stato grezzo”.
3. Si tratterebbe, come rappresentato nel provvedimento qui impugnato, di interventi volti alla realizzazione di un organismo edilizio nuovo e con specifica e autonoma rilevanza e destinazione, eseguiti, tuttavia, in assenza di titolo abilitativi.
4. Parte ricorrente contesta l’illegittimità e chiede, quindi, l’annullamento del provvedimento gravato alla luce dei seguenti motivi così riportati:
...
7. Il ricorso è infondato.
8. Possono essere unitariamente trattate le censure di merito, che contestano la corretta qualificazione giuridica dell’intervento realizzato senza titolo ai sensi dei procedimenti sanzionatori di cui al d.P.R. 380/2001 (primo e quarto motivo).
9. Dagli atti istruttori emerge una chiara descrizione del fabbricato, costituito da un edificio ad un solo piano di circa 80 mq, dotato anche di aperture laterali (sia di porta che di finestre) e realizzato su una piattaforma in cemento armato. Non è peraltro in contestazione che per la sua realizzazione non sia stato chiesto alcun permesso di costruire.
Non vi è pertanto dubbio che tale intervento edilizio rientri nella fattispecie delineata dal legislatore quale “nuova costruzione” ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. a), del d.P.R. 380/2001 (“Per nuova costruzione si intende qualsiasi intervento che consista in una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni latu sensu intese, che, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo” TAR Campania Salerno, Sez. II, 12/04/2023, n. 8199.
Quanto alla sua epoca di realizzazione, a fronte dell’onere probatorio imposto al privato che ha la disponibilità dell’immobile e quindi la conoscenza dei fatti anche storici che lo riguardano, l’amministrazione ha fornito documentata prova contraria, poiché dalle immagini tratte dall’applicazione “Google Earth” del 2016 (documento allegato al verbale di sequestro) emerge che a tale data l’immobile come configurato nel verbale di accertamento non sussisteva.
Peraltro, sul criterio discretivo tra l'intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione, soccorre l’orientamento consolidato secondo cui ricorre la prima ipotesi, dalla assenza di variazioni del volume, dell'altezza o della sagoma dell'edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia, sia quanto a regime autorizzatorio che ad eventuale sanzione (TAR Napoli, sez. II, 21.06.2022, n. 4223; “in ambito edilizio, anche se l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 consente di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività finalizzate a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, che implicano modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, tuttavia è necessario conservare sempre una linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma abbiano una portata limitata e siano in ogni caso riconducibili all'organismo preesistente” (TAR Napoli, sez. VI, 02.03.2023, n. 1344).
Nel caso di specie non vi è dubbio che si tratti di una unità nuova, realizzata su fondamento di cemento armato, dotata di finestre perimetrali, autonomamente utilizzabile, non essendo stato neanche provato l’impatto effettivo dell’intervento su un presunto preesistente organismo edilizio.
La mancanza del permesso di costruire che avrebbe dovuto essere rilasciato prima della costruzione dell’immobile giustifica pertanto l’adozione dell’ordinanza di demolizione ex art. 31 del d.P.R. 380/2001 citato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 10.01.2024 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Considerato che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce, notoriamente, manifestazione di attività amministrativa doverosa, non risultano rilevanti le supposte violazioni procedimentali che avrebbero precluso un effettiva partecipazione degli interessati al procedimento, dovendosi ribadire che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della pubblica amministrazione, con la conseguenza che, ai fini dell'adozione dell'ordinanza di demolizione, non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non potendosi in ogni caso pervenire all'annullamento dell'atto alla stregua dell'art. 21-octies, L. 07.08.1990, n. 241.
Analogamente, l'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, poiché “l'abuso, anche se risalente nel tempo, non può giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto che il semplice trascorrere del tempo non può legittimare e, di conseguenza, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto vincolato, non richiede in nessun caso una specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti”.
---------------
Rispetto alla preannunciata presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 e/o 37, d.p.r. 380/2001, il Comune sottolinea che non è rinvenibile alcuna disposizione normativa né arresti giurisprudenziali da cui evincere che il deposito, intenzionale o anche effettivo, della predetta domanda in sanatoria determini l’illegittimità del provvedimento demolitorio, che, pertanto, sarà solo sospeso nella sua efficacia.
---------------

1. Gli odierni ricorrenti hanno impugnato l’ordinanza n. 2 del 21.02.2020, con la quale il Dirigente del Settore Assetto del Territorio del Comune di Giugliano in Campania ha ingiunto la demolizione di un corpo di fabbrica presso l’immobile ubicato alla via ... n. 33, in Giugliano in Campania, distinto in catasto al foglio 82, particella 1207 ex art. 31 del d.P.R. 380/2001.
2. Il provvedimento è stato adottato sulla base del verbale di sequestro redatto dal Comando di Polizia Municipale prot. n. 3847/P.G./2019 P.V.52/S/19 del 28/11/2019 nel quale l’intervento viene dettagliatamente descritto come “una struttura in muratura di circa 80 mq, poggiante su una pedana in c.a. con altezza di circa 0,50 cm ed una superficie di circa 200 mq, …provvista di una porta in ferro, n. 3 finestre ed una finestra, l'interno è composto da un unico ambiente allo stato grezzo”.
3. Si tratterebbe, come rappresentato nel provvedimento qui impugnato, di interventi volti alla realizzazione di un organismo edilizio nuovo e con specifica e autonoma rilevanza e destinazione, eseguiti, tuttavia, in assenza di titolo abilitativi.
4. Parte ricorrente contesta l’illegittimità e chiede, quindi, l’annullamento del provvedimento gravato alla luce dei seguenti motivi così riportati:
...
10. Quanto alla presunta violazione dell'art. 7, L. 241/1990, secondo un consolidato orientamento “considerato che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce, notoriamente, manifestazione di attività amministrativa doverosa, non risultano rilevanti le supposte violazioni procedimentali che avrebbero precluso un effettiva partecipazione degli interessati al procedimento, dovendosi ribadire anche a questo proposito che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della pubblica amministrazione, con la conseguenza che, ai fini dell'adozione dell'ordinanza di demolizione, non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non potendosi in ogni caso pervenire all'annullamento dell'atto alla stregua dell'art. 21-octies, L. 07.08.1990, n. 241 (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 07.11.2022 n. 9715)" (Cons. Stato, sez. VII, 27.02.2023, n. 1958).
11. Analogamente, l'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, poiché “l'abuso, anche se risalente nel tempo, non può giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto che il semplice trascorrere del tempo non può legittimare e, di conseguenza, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto vincolato, non richiede in nessun caso una specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti” (Cons. Stato Sez. VI, 27.02.2020, n. 1427).
12. Infine, rispetto alla preannunciata presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 e/o 37, d.p.r. 380/2001, il Comune sottolinea che non è rinvenibile alcuna disposizione normativa né arresti giurisprudenziali da cui evincere che il deposito, intenzionale o anche effettivo, della predetta domanda in sanatoria determini l’illegittimità del provvedimento demolitorio, che, pertanto, sarà solo sospeso nella sua efficacia.
Ed in effetti, parte ricorrente non ha dimostrato l’inoltro dell’istanza ex art. 36 del d.P.R. 380/2001 che in ogni caso avvia un procedimento che si conclude, in caso di mancato riscontro espresso, con il “silenzio-rifiuto” ex art. 36, comma 3 (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 10.01.2024 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con opere invasive sul sito in cui viene realizzata, perciò configura una nuova costruzione ex art. 3, comma 1, lett. e), del DPR n. 380/2001 e non una pertinenza urbanistica del fabbricato residenziale.
Per condivisibile giurisprudenza tutti gli elementi strutturali concorrono al computo di volumetria dei manufatti, interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio cui accede.
La piscina, infatti, non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, poiché, sul piano funzionale, non è esclusivamente complementare all'uso delle abitazioni e non costituisce una mera attrezzatura per lo svago alla stessa stregua di un dondolo o di uno scivolo installati nei giardini o nei luoghi di svago. Né può essere considerata pertinenza la realizzazione della piscina, considerato che la stessa comporta una "durevole trasformazione del territorio" la quale, sotto il profilo urbanistico, presenta una funzione autonoma rispetto a quella propria dell'edificio cui accede e per tale ragione non può coincidere con la relativa nozione civilistica.
Al riguardo può richiamarsi quella giurisprudenza del Consiglio di Stato sulla nozione di pertinenza urbanistica secondo cui tale nozione "è invocabile per opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia. Viceversa, tali non sono i manufatti che per dimensioni e funzione possiedono una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale sì da avere una potenziale attitudine ad una diversa e specifica utilizzazione".
---------------

2. Con il secondo motivo di appello l’appellante deduce erronea motivazione. Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, contraddittorietà.
Evidenzia che la seconda doglianza era stata respinta dall’adito Tribunale in ragione del fatto che le piscine “sono assoggettate a contribuzione dall’art. 7 del D.M. 801/1977 e non sono sempre pertinenziali dal punto di vista urbanistico, ma solo a certe condizioni, di cui occorre dare la prova”, mentre la piscina privata, contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza, è sempre una pertinenza, ed in quanto tale non è soggetta a titolo abilitativo oneroso.
Il motivo non è fondato.
La piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con opere invasive sul sito in cui viene realizzata, perciò configura una nuova costruzione ex art. 3, comma 1, lett. e), del DPR n. 380/2001 e non, come sostenuto dall'appellante, una pertinenza urbanistica del fabbricato residenziale.
Per condivisibile giurisprudenza tutti gli elementi strutturali concorrono al computo di volumetria dei manufatti, interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio cui accede.
La piscina, infatti, non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, poiché, sul piano funzionale, non è esclusivamente complementare all'uso delle abitazioni e non costituisce una mera attrezzatura per lo svago alla stessa stregua di un dondolo o di uno scivolo installati nei giardini o nei luoghi di svago. Né può essere considerata pertinenza la realizzazione della piscina, considerato che la stessa comporta una "durevole trasformazione del territorio" la quale, sotto il profilo urbanistico, presenta una funzione autonoma rispetto a quella propria dell'edificio cui accede e per tale ragione non può coincidere con la relativa nozione civilistica.
Al riguardo può richiamarsi quella giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. VI, 29.11.2019, n. 8192; id., 04.01.2016, n. 19; 24.07.2014, n. 3952; sez. V, 12.02.2013, n. 817; sez. VI, n. 100/2020) sulla nozione di pertinenza urbanistica, che questo Collegio condivide, secondo cui tale nozione "è invocabile per opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia. Viceversa, tali non sono i manufatti che per dimensioni e funzione possiedono una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale sì da avere una potenziale attitudine ad una diversa e specifica utilizzazione".
L’art. 7 del D.M. 10.05.1977, n. 801, in materia di determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici prevede che, in seguito alla realizzazione di una piscina coperta o scoperta quando sia a servizio di uno o più edifici comprendenti meno di 15 unità immobiliari, è previsto un incremento del costo di costruzione del 10%, pertanto il provvedimento impugnato si sottrae alla censura.
L’appello deve essere, conseguentemente, respinto (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 02.01.2024 n. 44 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul valore delle FAQ.
Occorre in primo luogo ribadire ben noti concetti in ordine al valore della FAQ, sulla base anche dell’evoluzione giurisprudenziale.
È infatti indubbio che si tratta della manifestazione di un nuovo, peraltro in linea teorica condivisibile, modo di atteggiarsi dell’Amministrazione che si pone in posizione di collaborazione con l’interessato sfruttando le tecnologie più moderne al fine di raggiungere il maggior numero di destinatari; ma proprio per le notevoli potenzialità (si veda per tutti l’esperienza COVID) è necessario delimitare i vincoli ed i limiti, onde evitare che questa possa poi costituire fonte di incertezza ulteriore quando la stessa Amministrazione ne modifichi successivamente il contenuto, o addirittura la espunga, come nel caso che ci occupa.
La questione riguarda, quindi, principalmente il valore da attribuire alla FAQ, ossia se essa possa essere considerata una vera interpretazione autentica, vincolante per l'interprete nell'individuazione del significato e nell'applicazione; ovvero sia qualcosa di meno una “sorta” di interpretazione collaborativa, i cui margini di applicazione e vincolatività sono però da decifrare con cura impingendo essi nell’affidamento dei terzi.
Al riguardo nelle gare pubbliche le FAQ, ovvero i chiarimenti in ordine alla valenza delle clausole della lex di gara fornite dalla stazione appaltante anteriormente alla presentazione delle offerte, “non costituiscono un’indebita, e perciò illegittima, modifica delle regole di gara, ma una sorta d'interpretazione autentica, con cui l'Amministrazione chiarisce la propria volontà provvedimentale, in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis”, sicché esse, per quanto non vincolanti, possono orientare i comportamenti degli interessati e non possono essere considerate tamquam non essent.
Più in particolare, pur non avendo esse -come detto- carattere vincolante, le risposte date dall'Amministrazione contribuiscono a fornire utili indicazioni di carattere applicativo in ordine alla ratio sottesa alle procedure e agli atti in corso di esame, e, una volta suggerita, attraverso le FAQ, la ratio propria dell'avviso pubblico, all'Amministrazione è consentito discostarsene solo in presenza di elementi decisivi, che il giudice deve sottoporre a uno scrutinio particolarmente severo, per evitare il rischio che la discrezionalità amministrativa si converta, con il diverso orientamento amministrativo sopravvenuto, in arbitrio o comunque leda l’affidamento creato nei destinatari delle disposizioni.
Quindi si tratta, in realtà, non di una interpretazione autentica nel senso stretto e formale del termine, che come tale sarebbe inequivocabilmente vincolante, ma di una “sorta” di supporto che l’Amministrazione offre alla platea degli interessati ma che in quanto tale presenta limiti sul contenuto e sulle modalità di esternazione; ossia ci troviamo nell’ambito dei meri chiarimenti interpretativi, delle opinioni, delle prassi applicative ai fini della migliore lettura della questione controversa, che non possono però modificare o integrare il senso delle disposizioni interpretate, anche se gli effetti in termini di affidamento dei partecipanti non possono essere del tutto e preventivamente esclusi.
In tal senso, sempre in materia di FAQ, la Sezione ha avuto modo comunque di pronunziarsi su un caso analogo vertente sul medesimo bando in esame, rilevando, in sede di delibazione dell’appello cautelare di altra associazione culturale, che esse “lungi dal poter assurgere al rango di fonte, pur se subordinata, del diritto oggettivo, integrano invece esclusivamente l’esternazione (in forma di “risposte” a “domande” asseritamene ricorrenti degli utenti) di una mera prassi amministrativa (ossia, in altri termini, di un’interpretazione amministrativa della normativa della cui applicazione si tratta) che, pur potendo eventualmente valere a formare la c.d. buona fede soggettiva degli utenti, non è certamente idonea a prevalere rispetto al dato normativo che sia difforme (nel caso della c.d. “risposta sbagliata” alla FAQ), né a modificare o integrare il bando di selezione (potendo semmai unicamente rilevare sotto il distinto profilo dell’eventuale vulnus recato all’affidamento del privato)…”.
Una FAQ quindi deve essere in primo luogo chiara nella “domanda” e nella “risposta” avendo il primario fine di dare chiarezza evitando di ingenerare ulteriore confusione; una FAQ poi modificata nel contenuto –o addirittura cancellata– può essere piuttosto indice di perplessità e comunque di un agire frettoloso dell’amministrazione, tale da poter ingenerare anche un affidamento nel privato.
Ecco perché l’Amministrazione deve svolgere -nell’ottica della massima trasparenza- già prima della pubblicazione un attento esame proprio al fine di non ingenerare inutilmente l’affidamento nei soggetti interessati, i quali peraltro non possono essere onerati di un continuo controllo delle FAQ medesime sino alla data di scadenza del termine di presentazione dell’istanza di partecipazione.
Come anche un limite di particolare pregnanza va individuato nel contenuto della FAQ.
Si ribadisce che le FAQ redatte dall'Amministrazione in sede di gara possono solo chiarire, precisare e meglio esprimere le previsioni della lex specialis, ma non di certo modificarne od integrarne il contenuto.
---------------

4. Con il secondo motivo (rubricato: Sull’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto vincolante l’interpretazione del bando fornita dall’Amministrazione nelle FAQ) l’appellante richiama il contenuto della FAQ B 3; detta FAQ è stata poi repentinamente cancellata dall’Amministrazione e recava il seguente contenuto:
   "- B 3: Un’associazione culturale può partecipare al Bando?
SI. Nelle more dell’istituzione del Registro unico nazionale del Terzo settore, trovano applicazione le previgenti normative ai fini e per gli effetti derivanti dall’iscrizione degli enti nei Registri Onlus, Organizzazioni di volontariato, Associazione di promozione sociale; registri che non riguardano le associazioni culturali.
In attesa di conoscere se a queste associazioni sarà data la possibilità di iscrizione al Registro, si ritiene di riconoscere, per favorire la maggiore partecipazione possibile, anche a tali enti la possibilità di presentare domanda. Una volta operativo il Registro unico nazionale del Terzo settore, l’associazione culturale è tenuta a presentare domanda di iscrizione al predetto Registro, secondo le modalità previste dalla normativa di riferimento e, solo nel caso in cui la domanda fosse rifiutata, verrebbe meno il requisito richiesto, con conseguente dichiarazione di inammissibilità della domanda di partecipazione al presente Bando
.”
A tal riguardo sostiene l’appellante che considerato il ritardo nell’attivazione del Registro unico, l’Amministrazione, con la FAQ B 3, è intervenuta per dirimere alcuni dubbi chiarendo che un’ATS potesse ricomprendere all’interno della sua compagine anche un’associazione culturale (quale Voice Art), senza dover dimostrare l’iscrizione di quest’ultima in uno dei registri previsti dalla normativa previgente.
Afferma inoltre che con la risposta contenuta nella FAQ l’Amministrazione ha chiarito la propria volontà provvedimentale, precisando il contenuto della lex specialis.
4.1 Il motivo, pur in fatto apprezzabile, non può portare all’accoglimento dell’appello.
Occorre in primo luogo ribadire ben noti concetti in ordine al valore della FAQ, sulla base anche dell’evoluzione giurisprudenziale.
È infatti indubbio che si tratta della manifestazione di un nuovo, peraltro in linea teorica condivisibile, modo di atteggiarsi dell’Amministrazione che si pone in posizione di collaborazione con l’interessato sfruttando le tecnologie più moderne al fine di raggiungere il maggior numero di destinatari; ma proprio per le notevoli potenzialità (si veda per tutti l’esperienza COVID) è necessario delimitare i vincoli ed i limiti, onde evitare che questa possa poi costituire fonte di incertezza ulteriore quando la stessa Amministrazione ne modifichi successivamente il contenuto, o addirittura la espunga, come nel caso che ci occupa.
La questione riguarda, quindi, principalmente il valore da attribuire alla FAQ, ossia se essa possa essere considerata una vera interpretazione autentica, vincolante per l'interprete nell'individuazione del significato e nell'applicazione; ovvero sia qualcosa di meno una “sorta” di interpretazione collaborativa, i cui margini di applicazione e vincolatività sono però da decifrare con cura impingendo essi nell’affidamento dei terzi.
Al riguardo nelle gare pubbliche le FAQ, ovvero i chiarimenti in ordine alla valenza delle clausole della lex di gara fornite dalla stazione appaltante anteriormente alla presentazione delle offerte, “non costituiscono un’indebita, e perciò illegittima, modifica delle regole di gara, ma una sorta d'interpretazione autentica, con cui l'Amministrazione chiarisce la propria volontà provvedimentale, in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis” (Cons. Stato, Sez. IV, 21.01.2013, n. 341; Cons. Stato, Sez. III, 22.01.2014, n. 290), sicché esse, per quanto non vincolanti, possono orientare i comportamenti degli interessati e non possono essere considerate tamquam non essent.
Più in particolare, pur non avendo esse -come detto- carattere vincolante, le risposte date dall'Amministrazione contribuiscono a fornire utili indicazioni di carattere applicativo in ordine alla ratio sottesa alle procedure e agli atti in corso di esame (Cons. Stato, Sez. I, parere 6812/2020), e, una volta suggerita, attraverso le FAQ, la ratio propria dell'avviso pubblico, all'Amministrazione è consentito discostarsene solo in presenza di elementi decisivi, che il giudice deve sottoporre a uno scrutinio particolarmente severo, per evitare il rischio che la discrezionalità amministrativa si converta, con il diverso orientamento amministrativo sopravvenuto, in arbitrio o comunque leda l’affidamento creato nei destinatari delle disposizioni (Cons. Stato, I, parere 1275/2021; cfr. anche sez. V 02.03.2022, n. 1486).
Quindi si tratta, in realtà, non di una interpretazione autentica nel senso stretto e formale del termine, che come tale sarebbe inequivocabilmente vincolante, ma di una “sorta” di supporto che l’Amministrazione offre alla platea degli interessati ma che in quanto tale presenta limiti sul contenuto e sulle modalità di esternazione; ossia ci troviamo nell’ambito dei meri chiarimenti interpretativi, delle opinioni, delle prassi applicative ai fini della migliore lettura della questione controversa, che non possono però modificare o integrare il senso delle disposizioni interpretate, anche se gli effetti in termini di affidamento dei partecipanti non possono essere del tutto e preventivamente esclusi.
In tal senso, sempre in materia di FAQ, la Sezione ha avuto modo comunque di pronunziarsi su un caso analogo vertente sul medesimo bando in esame, rilevando, in sede di delibazione dell’appello cautelare di altra associazione culturale, che esse “lungi dal poter assurgere al rango di fonte, pur se subordinata, del diritto oggettivo, integrano invece esclusivamente l’esternazione (in forma di “risposte” a “domande” asseritamene ricorrenti degli utenti) di una mera prassi amministrativa (ossia, in altri termini, di un’interpretazione amministrativa della normativa della cui applicazione si tratta) che, pur potendo eventualmente valere a formare la c.d. buona fede soggettiva degli utenti, non è certamente idonea a prevalere rispetto al dato normativo che sia difforme (nel caso della c.d. “risposta sbagliata” alla FAQ), né a modificare o integrare il bando di selezione (potendo semmai unicamente rilevare sotto il distinto profilo dell’eventuale vulnus recato all’affidamento del privato)…” (Sez. IV ord. n. 2845/2022 del 20.06.2022).
Una FAQ quindi deve essere in primo luogo chiara nella “domanda” e nella “risposta” avendo il primario fine di dare chiarezza evitando di ingenerare ulteriore confusione; una FAQ poi modificata nel contenuto –o addirittura cancellata– può essere piuttosto indice di perplessità e comunque di un agire frettoloso dell’amministrazione, tale da poter ingenerare anche un affidamento nel privato.
Ecco perché l’Amministrazione deve svolgere -nell’ottica della massima trasparenza- già prima della pubblicazione un attento esame proprio al fine di non ingenerare inutilmente l’affidamento nei soggetti interessati, i quali peraltro non possono essere onerati di un continuo controllo delle FAQ medesime sino alla data di scadenza del termine di presentazione dell’istanza di partecipazione.
Come anche un limite di particolare pregnanza va individuato nel contenuto della FAQ.
Si ribadisce che le FAQ redatte dall'Amministrazione in sede di gara possono solo chiarire, precisare e meglio esprimere le previsioni della lex specialis, ma non di certo modificarne od integrarne il contenuto (Consiglio di Stato, sez. V, 04.05.2022, n. 3492).
Nel caso specifico, la FAQ era obiettivamente erronea, e peraltro veniva successivamente cancellata dalla stessa Amministrazione, ma non poteva rendere legittima da sola l’erogazione del finanziamento, né creare un affidamento rilevante, vista la chiarezza del quadro normativo, sulla base di quanto sopra evidenziato, e dimostrata altresì (seppur ex post) la possibilità di iscrizione al Registro regionale dell’associazionismo della Regione Lazio di cui all’art. 9 della l.r. 22/1999.
Ad avviso del Collegio pertanto il motivo, pur degno di considerazione, non può portare all’accoglimento dell’appello (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.12.2023 n. 11198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAScala a chiocciola abusiva se non è prevista nella relazione asseverata.
La decisione del Consiglio di Stato: bocciato il ricorso dei proprietari intenzionati a ricavare un locale abitabile nel sottotetto.
La sentenza 21.08.2023 n. 7832 emessa dal supremo Tribunale amministrativo (Sez. VII), ci consente di cogliere due aspetti per nulla scontati in tema di abusi edilizi. Difatti, come vedremo, un intervento edilizio può risultare abusivo perché in qualche misura “collegato” ad altra opera del tutto irregolare; ma anche perché, seppur presente nel progetto grafico, non è espressamente menzionato nella correlata relazione asseverata prodotta alle amministrazioni.
Il fatto
I privati proprietari di un immobile strutturato su più livelli, decidevano di realizzare alcuni interventi edilizi, e più precisamente: l’abbassamento del solaio dell’ultimo piano con conseguente installazione di una scala a chiocciola, necessaria ad accedere al piano mansarda (così ricavato), nonché al terrazzo soprastante. Facile intuire come l’abbassamento del solaio avesse consentito di ricavare dei vani abitabili, con un inevitabile aumento di superficie.
Gli interventi edilizi in parola, richiamavano l’attenzione tanto del Comune quanto della Soprintendenza (attesa l’esistenza di un vincolo), che ritenevano del tutto abusiva l’attività posta in essere dai privati, in quanto le opere, per tipologia e per come realizzate, non erano di fatto mai state autorizzate. Conseguentemente, il Comune emetteva ordinanza di demolizione e reintegrazione, mentre la Soprintendenza esigeva la predisposizione di un progetto finalizzato al ripristino dello stato dei luoghi.
I privati, del tutto convinti di non essersi resi colpevoli di alcun abuso, decidevano di rivolgersi al Tar, che tuttavia rigettava il loro ricorso.
I giudici amministrativi, infatti, ritenevano che l’intervento complessivo fosse qualificabile come ristrutturazione edilizia; solo così può definirsi la realizzazione di più opere coordinate, da cui è derivato un organismo edilizio caratterizzato da una diversa distribuzione dei volumi sul piano verticale, tanto da rendere abitabili degli spazi che in precedenza non lo erano. Per un siffatto intervento, le autorizzazioni erano ineludibili; mancando le stesse, l’abuso è incontestabile.
La decisione del Consiglio di Stato
Investiti della vicenda, i giudici di Palazzo Spada non hanno alcun dubbio in merito alla piena correttezza di quanto statuito nel provvedimento del Tar. Quanto all’ampliamento del sottotetto, non è contestabile la sua abusività, essendo senz’altro un’opera mai assentita dalla Soprintendenza. L’attenzione ai concentra poi sulla scala a chiocciola ritenuta abusiva per due ordini di ragioni.
Anzitutto, in virtù della sua funzione di collegamento agli ambienti abusivamente ricavati (sottotetto abitabile), essa si inserisce in un contesto di opere non autorizzate, da ciò conseguendo anche la sua abusività. Ma vi è un ulteriore aspetto di non scarsa rilevanza: la scala a chiocciola, non era prevista nella relazione asseverata che ha consentito la realizzazione dell’intervento, ma risultava soltanto dai correlati progetti grafici.
Ebbene, per il Consiglio di Stato ciò non è affatto sufficiente; il manufatto doveva anche essere menzionato testualmente nella relazione asseverata, che nel caso di specie recava invece la sola menzione di opere interne del tutto differenti da quelle poi realmente eseguite
 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 10.10.2023).
---------------
SENTENZA
1. Con il primo motivo le appellanti ripropongono, anche ai sensi dell’art. 36 c.p.c., le medesime censure di illegittimità per violazione del giusto procedimento con riferimento ad ogni atto impugnato e, in particolare, deducono che il Giudice riunendo i due giudizi (R.G. 2365/2002 ed R.G. 2374/2002) avverso la ordinanza di demolizione del Comune di Napoli e il provvedimento di ripristino della Soprintendenza, aveva esaminato solo la censura di violazione del giusto procedimento con riferimento al ricorso (R.G. 2365//02) avverso la ordinanza di demolizione omettendo ogni censura parimenti avverso il provvedimento di ripristino emesso dalla Soprintendenza.
2. Con il secondo motivo deducono che il Tar erroneamente aveva ritenuto che le opere oggetto di contestazione non risultavano autorizzate ed avrebbero comportato un aumento di superficie utile. In particolare il Giudice aveva erroneamente ritenuto che alcune delle opere in questione non risultavano inserite nella autorizzazione soprintendizia n. 25014 del 21.08.1993 rilasciata ai sig.ri Ce.Bo. e Ma.Te.Cu., loro danti causa.
3. Con il terzo motivo deducono che la sentenza appellata era erronea anche nella parte in cui il Giudice aveva ritenuto che le opere contestate risultavano configurare un intervento di “ristrutturazione edilizia”.
Le censure, da esaminare congiuntamente per la loro stretta connessione, non sono fondate.
Il Tar ha disposto una istruttoria dalla quale è emerso che le opere oggetto della residua impugnazione avevano comportato un aumento delle superfici utili; esse sono, infatti, consistite nell’abbassamento del solaio dell’ultimo piano (immediatamente sottostante il “soppegno” al di sotto del tetto) e nella installazione di una scala a chiocciola per l’accesso al piano mansarda, così ricavato, nonché al terrazzo soprastante.
L’abbassamento del solaio dell’ultimo piano ha consentito di ricavare dei vani abitabili in luogo del descritto soppegno (cfr. verbale di P.G. del 23.02.2002, di cui alla produzione erariale del 30.09.2016 nel fascicolo riunito R.G. 2374/2002 nonché comunicazione di notizia di reato del 02.11.1999, del 07.05.2002).
Il Tar ha quindi condivisibilmente concluso che l’intervento fosse qualificabile (quanto meno) come ristrutturazione in quanto erano state realizzate più opere coordinate che aveva portato a un organismo edilizio caratterizzato da una diversa distribuzione dei volumi sul piano verticale tanto da rendere abitabili degli spazi che non lo erano in precedenza.
Gli interventi hanno, infatti, comportato un aumento delle superfici utili con l’abbassamento del solaio dell’ultimo piano, con la realizzazione di vani abitabili in luogo del soppegno, con la installazione della scala per l’accesso al piano mansarda e alla terrazza.
Quanto alle violazioni del procedimento, l'indirizzo condiviso della giurisprudenza amministrativa ritiene che i provvedimenti aventi natura di atto vincolato, come l'ordinanza di demolizione o l’ordine di ripristino, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento, non essendo prevista la possibilità per l'Amministrazione di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve assicurare le garanzie partecipative, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo (Cons. Stato n. 6490 del 2021; Cons. Stato n. 4389 del 2019; Cons. Stato n. 2681 del 2017).
In sostanza, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, non risultando pertanto rilevanti le supposte violazioni procedimentali che avrebbero precluso un'effettiva partecipazione degli interessati al procedimento, non potendosi in ogni caso pervenire all'annullamento dell'atto alla stregua dell'art. 21-octies l. 07.08.1990, n. 241 (Cons. Stato, n. 1958 del 2023).
Quanto all’ampliamento del sottotetto, non è contestabile la sua abusività essendo senz’altro opera non prevista dall’autorizzazione soprintendentizia n. 25014 del 21.08.1993.
Sono condivisibili le affermazioni del primo Giudice il quale ha evidenziato che la scala a chiocciola, è da qualificarsi abusiva per due ragioni. Innanzitutto, la scala si inserisce in un contesto di opere non autorizzate per la sua funzione di collegamento anche agli ambienti abusivamente ricavati (sottotetto abitabile); inoltre, essa non era prevista nella relazione asseverata che ha consentito la realizzazione dell’intervento ma solo nei relativi grafici.
Sebbene sia già dirimente la prima considerazione, va osservato, rispetto a quest’ultima circostanza, che non è sufficiente l’indicazione dell’opera nel grafico di progetto, dovendo essere la stessa anche menzionata testualmente nella relazione asseverata che reca la sola menzione di opere interne.
Trattandosi, quindi, di opere non autorizzate da effettuarsi su un immobile sottoposto a vincolo individuo, non v’è dubbio che l’ordine di reintegrazione (art. 131 d.lgs. 490/1999, vigente ratione temporis) acquisisca natura vincolata con la conseguente infondatezza di tutte le censure mosse avverso il provvedimento della Soprintendenza.
Nulla può essere disposto in relazione alla richiesta dell’interveniente di dichiarare la propria estraneità dagli abusi realizzati, avendo lo stesso spiegato un intervento ad adiunvandum e non un intervento autonomo. L’autonomo ricorso proposto dall’interveniente è stato, inoltre, dichiarato perento, sicché nessun elemento è stato fornito a sostegno della propria estraneità agli abusi.
L’appello deve essere, pertanto, respinto.

EDILIZIA PRIVATA - VARILa sanatoria riduce le carte. Niente certificato di agibilità? Venditore non inadempiente. La compravendita di un immobile al centro di una sentenza della Corte di cassazione.
Il rilascio della agibilità richiede la sussistenza dei requisiti sia igienico-sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, ragion per cui può essere ottenuta soltanto per gli immobili regolari anche sotto tale ultimo profilo ovvero, in caso di immobili abusivi, previa concessione o autorizzazione in sanatoria. Il certificato di agibilità non può essere, quindi, rilasciato nel caso in cui l'immobile sia abusivo. In caso di compravendita di immobile in corso di sanatoria non può configurarsi un inadempimento del venditore per mancata consegna del suddetto certificato.
E' quanto ha stabilito la Suprema Corte, Sez. II civile, con la sentenza 01.08.2023 n. 23370.
Il caso di specie origina dall'impugnazione della sentenza con la quale la Corte d'appello di Catania, in riforma delle decisioni emesse in primo grado, aveva rigettato la domanda di risoluzione del contratto preliminare di compravendita di un immobile per asserito inadempimento di parte venditrice.
Il rifiuto del promissario acquirente del bene di addivenire alla stipulazione del contratto definitivo era giustificato dalla mancata consegna del certificato di abitabilità dell'immobile, tuttora mancante, essendo specifico obbligo del venditore, ai sensi dell'art. 1477 cc, consegnare tale documento all'acquirente, quale requisito della fruibilità e commerciabilità dell'immobile.
Secondo il Collegio non rilevava il fatto che nel contratto preliminare le parti avessero previsto la necessità di presentare domanda per la concessione in sanatoria dell'immobile, ponendo a carico della promittente venditrice il relativo onere e tutte le somme dovute a saldo della oblazione e dei contributi urbanistici ai fini del rilascio della concessione in sanatoria e certificato di agibilità, “atteso che solo una espressa rinuncia da parte del promissario acquirente avrebbe potuto esonerare l'altra parte dall'obbligo di provvedere alla consegna del suddetto certificato”.
Interposta impugnazione, la Suprema Corte ha ritenuto i due motivi, da trattarsi congiuntamente per la loro connessione obiettiva, ammissibili e fondati.
In particolare, la ricorrente ha censurato la pronuncia dei giudici collegiali che avrebbero trascurato di considerare che l'oggetto del preliminare di vendita era un immobile abusivo, non in regola con la normativa edilizia, tanto che le parti avevano previsto che il promittente venditore dovesse presentare domanda di concessione in sanatoria, adempimento regolarmente posto in essere anche con il pagamento della relativa oblazione e degli oneri concessori.
Per quanto di interesse in questa sede, secondo gli Ermellini la Corte di appello ha errato nel ritenere non sufficiente, a tal fine, il richiamo contenuto nel preliminare al procedimento in sanatoria, bensì necessaria un'espressa rinuncia alla consegna del certificato da parte dell'acquirente: “la promessa di acquisto di un immobile che le parti consapevolmente sanno essere oggetto di procedimento di sanatoria edilizia comporta, quale conseguenza implicita e necessaria, la rinuncia al suddetto certificato, in deroga alla disposizione di cui all'art. 1477 cc”.
La previsione del procedimento di sanatoria edilizia risponde non solo all'interesse della parte acquirente, ma anche della parte venditrice, in quanto la normativa in materia “sanziona con la nullità l'atto di trasferimento tra ivi di immobili abusivi, consentendo l'atto solo nei casi di abusi sanabili e previa allegazione di copia della domanda di sanatoria e della menzione degli estremi dell'avvenuto versamento delle prime due rate dell'oblazione”.
Infatti, l'art. 40 della legge 47/1985 consente la trasferibilità degli immobili abusivi, previa allegazione della domanda in sanatoria e degli estremi del pagamento delle prime due rate dell'oblazione, senza pertanto richiedere l'intervenuto rilascio del provvedimento in sanatoria: quindi, “il trasferimento non implica anche la consegna del certificato di abitabilità o agibilità dell'immobile, che necessariamente sarà posteriore al nuovo titolo edilizio, non potendo essere rilasciato prima”.
In base alla giurisprudenza di legittimità, proseguono i giudici di piazza Cavour, “la mancata consegna del certificato di abitabilità non determina in via automatica la risoluzione del contratto preliminare di compravendita per inadempimento del venditore, dovendo essere verificata in concreto la gravità dell'omissione in relazione alla godimento ed alla commerciabilità del bene e che, nel caso di immobili soggetti a sanatoria, l'interesse dell'acquirente all'ottenimento del certificato appare attenuato, atteso che l'art. 35 legge n. 47/1985 prevede espressamente che esso, a conclusione del procedimento in sanatoria, venga rilasciato anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con la sicurezza statica“.
Il Collegio è incorso in un ulteriore errore non avendo comunque valutato, in relazione al caso concreto, l'incidenza della mancanza del certificato suddetto sulla possibilità di godimento e commerciabilità del bene.
Nella valutazione delle prove, la Corte di appello ha ritenuto il venditore inadempiente all'obbligo di consegnare il certificato di agibilità omettendo tuttavia di valutare, sottolineano gli Ermellini, che in ispeciele parti, nella consapevolezza del carattere abusivo dell'immobile, avevano espressamente previsto di dar corso al procedimento di sanatoria, senza posticipare alla sua definizione la conclusione del contratto definitivo, e che il suddetto certificato presuppone il rilascio della autorizzazione o concessione in sanatoria. Sconta di conseguenza tale errore anche l'affermazione che tale mancata consegna avrebbe potuto essere giustificata solo da una espressa rinuncia della parte promissaria acquirente, dovendo essa confrontarsi con il contenuto e gli effetti derivanti dalla clausola contrattuale più volte menzionata”.
In altri termini la Corte di appello aveva dato atto che le parti, in sede di contratto preliminare, “nella evidente consapevolezza della presenza di difformità sull'immobile, avevano previsto la necessità di attivare il procedimento di sanatoria edilizia, ponendo a carico della parte promittente l'onere di presentare la relativa domanda e di sopportare le conseguenti spese per l'oblazione ed ogni altro contributo ed onere. Non risulta, invece, che le parti avessero stabilito che la stipulazione del contratto definitivo sarebbe stata rimandata alla definizione del procedimento di sanatoria. La clausola negoziale che prevedeva l'attivazione del suddetto procedimento stava quindi a significare la disponibilità da parte del promissario acquirente di stipulare l'atto definitivo di acquisto una volta presentata la domanda di sanatoria ed assolti i relativi oneri di spesa, senza attendere la sua definizione”.
La Cassazione approda così al rigetto del ricorso.
La decisione impugnata non è corretta: i giudici territoriali, nell'interpretare il contratto preliminare, non si sono attenuti “al dato testuale che le parti avevano convenuto solo la presentazione della domanda in sanatoria e quindi di voler stipulare il contratto definitivo anche in assenza della concessione, con ciò implicitamente ritenendo non necessario il rilascio del certificato di abitabilità, la cui mancanza era stata opposta dalla controparte solo in corso di giudizio, quale mero pretesto per giustificare il proprio inadempimento”.
Sicché, chiosa la Corte, “il giudice del rinvio, nel valutare, conformemente ai principi esposti, il comportamento delle parti e le reciproche contestazioni di inadempienza, dovrà altresì verificare la reale portata della clausola contrattuale citata anche sotto altro profilo, se vale a dire con essa il promittente venditore garantiva la effettiva possibilità di sanatoria degli abusi presenti nell'immobile ed accertare, altresì, se essi erano suscettibili di sanatoria o, come dedotto dalla odierna ricorrente nella memoria depositata, sono stati effettivamente sanati ed il certificato di agibilità è stato rilasciato
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.10.2023).
---------------
SENTENZA
Il primo motivo del ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1477 cod. civ. e degli artt. 40 e 35 legge n. 47 del 1985, censura la decisione impugnata per avere ritenuto fondata l’eccezione di inadempimento sollevata dalla controparte per la mancata consegna del certificato di agibilità dell’immobile.
Sostiene al riguardo la ricorrente l’erroneità di tale soluzione, per avere la Corte di appello trascurato di considerare che oggetto del preliminare di vendita era un immobile abusivo, non in regola con la normativa edilizia, tanto che le parti avevano previsto che il promittente venditore dovesse presentare domanda di concessione in sanatoria, adempimento questo regolarmente posto in essere anche con il pagamento della relativa oblazione e degli oneri concessori.
Ora, poiché l’art. 40 legge n. 47 del 1985 consente la trasferibilità degli immobili abusivi, previa allegazione della domanda in sanatoria e degli estremi del pagamento delle prime due rate dell’oblazione, senza pertanto richiedere l’intervenuto rilascio del provvedimento in sanatoria, ne discende che, in tale ipotesi, il trasferimento non implica anche la consegna del certificato di abitabilità o agibilità dell’immobile, che necessariamente sarà posteriore al nuovo titolo edilizio, non potendo essere rilasciato prima.
La promessa di acquisto di un immobile che le parti consapevolmente sanno essere oggetto di procedimento di sanatoria edilizia comporta quindi, quale conseguenza implicita e necessaria, la rinuncia al suddetto certificato, in deroga alla disposizione di cui all’art. 1477 cod. civ.
Ha errato pertanto la Corte di appello laddove ha ritenuto che non fosse sufficiente, a tal fine, il richiamo contenuto nel preliminare al procedimento in sanatoria, ma fosse necessaria un espressa rinuncia alla consegna del certificato da parte dell’acquirente.
Si aggiunge che, in base alla giurisprudenza di legittimità, la mancata consegna del certificato di abitabilità non determina in via automatica la risoluzione del contratto preliminare di compravendita per inadempimento del venditore, dovendo essere verificata in concreto la gravità dell’omissione in relazione alla godimento ed alla commerciabilità del bene e che, nel caso di immobili soggetti a sanatoria, l’interesse dell’acquirente all’ottenimento del certificato appare attenuato, atteso che l’art. 35 legge n. 47 del 1985 prevede espressamente che esso, a conclusione del procedimento in sanatoria, venga rilasciato “anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con la sicurezza statica ...“. In tale contesto, il giudice territoriale avrebbe dovuto comunque valutare, in relazione al caso concreto, l’incidenza della mancanza del certificato suddetto sulla possibilità di godimento e commerciabilità del bene.
Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione dell’art. 1460 cod. civ. e degli artt. 1362, 1366 e 1375 stesso codice, lamentando che la Corte, nell’interpretare il contratto preliminare, non si sia attenuta al dato testuale che le parti avevano convenuto solo la presentazione della domanda in sanatoria e quindi di voler stipulare il contratto definitivo anche in assenza della concessione, con ciò implicitamente ritenendo non necessario il rilascio del certificato di abitabilità, la cui mancanza era stata opposta dalla controparte solo in corso di giudizio, quale mero pretesto per giustificare il proprio inadempimento.
I due motivi, che possono trattarsi congiuntamente per la loro connessione obiettiva, sono ammissibili e fondati.
Sotto il primo profilo, non hanno fondamento le eccezioni sollevate dal controricorrente di inammissibilità dei motivi per difetto di specificità e perché fondati su circostanze nuove, mai dedotte nei giudizi di merito.
Le censure sollevate dal ricorso investono direttamente le ragioni della decisione e risultano argomentate sulle medesime risultanze e dati di fatto su cui la Corte di appello ha motivato la conclusione accolta, che viene contrastata per erronea applicazione di norme di diritto.
La fondatezza del ricorso emerge invece dalla considerazione che la stessa Corte di appello ha dato atto che le parti, in sede di contratto preliminare, nella evidente consapevolezza della presenza di difformità sull’immobile, avevano previsto la necessità di attivare il procedimento di sanatoria edilizia, ponendo a carico della parte promittente l’onere di presentare la relativa domanda e di sopportare le conseguenti spese per l’oblazione ed ogni altro contributo ed onere.
Non risulta, invece, che le parti avessero stabilito che la stipulazione del contratto definitivo sarebbe stata rimandata alla definizione del procedimento di sanatoria. La clausola negoziale che prevedeva l’attivazione del suddetto procedimento stava quindi a significare la disponibilità da parte del promissario acquirente di stipulare l’atto definitivo di acquisto una volta presentata la domanda di sanatoria ed assolti i relativi oneri di spesa, senza attendere la sua definizione. Nella premessa, merita aggiungere, che tale adempimento fosse idoneo a produrre l’effetto sperato, che vale a dire gli abusi esistenti potessero essere sanati e fosse ristabilita la regolarità del bene dal punto di vista edilizio e urbanistico.
La previsione del procedimento di sanatoria edilizia rispondeva, del resto, non solo all’interesse della parte acquirente, ma anche della parte venditrice, in quanto la normativa in materia, com’è noto, sanziona con la nullità l’atto di trasferimento tra vivi di immobili abusivi, consentendo l’atto solo nei casi di abusi sanabili e previa allegazione di copia della domanda di sanatoria e della menzione degli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione (art. 40 legge n. 47 del 1985).
Tanto precisato, appare condivisibile la critica svolta nel ricorso per avere la Corte di appello ritenuto che, nonostante la clausola contrattuale sopra menzionata, la parte promittente avesse altresì l’obbligo di consegnare il certificato di agibilità dell’immobile, per non avervi la controparte espressamente rinunciato, non potendo altrimenti considerarsi non inadempiente.
Tale affermazione mal si concilia con la citata previsione contrattuale sulla necessità del procedimento di sanatoria dell’immobile, che implicava, da un lato, la mancanza del suddetto certificato e la sua conoscenza da parte dell’acquirente e, dall’altro, la sua ottenibilità solo in un momento successivo.
Ciò per la ragione che
il rilascio del certificato di agibilità presuppone, anche, la conformità urbanistica dell’immobile e non può essere quindi rilasciato nel caso in cui esso sia abusivo (Cons. Stato, sez. II, 17.05.2021, n. 3836).
In questo senso depone la normativa in materia urbanistico edilizia introdotta dal d.p.r. n. 380 del 2001, che ha eliminato, com’è noto, ogni differenza tra agibilità ed abitalità, assorbendo la seconda nella prima.
In particolare, mentre l’art. 24, nella sua stesura originaria, vigente al momento contratto per cui è causa, prevedeva che il certificato di agibilità attestasse la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici, il successivo art. 25, nel disciplinare il procedimento di rilascio, menzionava espressamente tra le dichiarazioni a corredo della domanda l’attestazione relativa alla “conformità dell’opera rispetto al progetto presentato“ (comma 1, lett. b), ossia la sua regolarità edilizia ed urbanistica.
Con il d.lgs. n. 222 del 2016, che ha ricondotto la certificazione al regime della s.c.i.a., tale requisito di conformità, con l’abrogazione del citato art. 25, è stato riportato nella norma definitoria dell’art. 24, come modificato, che include espressamente “la conformità dell’opera al progetto presentato“ tra i fatti che il tecnico deve asseverare all’atto della presentazione della segnalazione certificata per l’agibilità degli edifici.
Il rilascio della agibilità richiede, pertanto, la sussistenza dei requisiti sia igienico sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, ragion per cui può essere ottenuta soltanto per gli immobili regolari anche sotto tale ultimo profilo ovvero, in caso di immobili abusivi, previa concessione o autorizzazione in sanatoria. Lo stesso art. 35 d.lgs. n. 380 del 2001, che regola il relativo procedimento in sanatoria, prevede espressamente del resto che a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria venga rilasciato il certificato di agibilità, anche in deroga relativamente a determinati requisiti dell’immobile.

La sentenza impugnata è quindi errata per avere ritenuto l’odierna ricorrente inadempiente all’obbligo di consegnare il certificato di agibilità, omettendo di valutare che le parti, nella consapevolezza del carattere abusivo dell’immobile, avevano espressamente previsto di dar corso al procedimento di sanatoria, senza posticipare alla sua definizione la conclusione del contratto definitivo, e che il suddetto certificato presuppone il rilascio della autorizzazione o concessione in sanatoria.
Sconta di conseguenza tale errore anche l’affermazione che tale mancata consegna avrebbe potuto essere giustificata solo da una espressa rinuncia della parte promissaria acquirente, dovendo essa confrontarsi con il contenuto e gli effetti derivanti dalla clausola contrattuale più volte menzionata.
Non è qui in discussione
il principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui il venditore ha, in generale, l’obbligo di reperire e consegnare il certificato di agibilità, quale requisito per la usufruibilità e commercializzazione futura del bene, non potendo altrimenti considerarsi adempiente rispetto alle obbligazioni nascenti dal contratto.
Proprio la riconducibilità di tale omissione nella categoria dell’inadempimento, porta a ritenere che l’oggetto sia disponibile e che quindi l’acquirente possa rinunciarvi ovvero non possa contestare la sua mancanza tutte le volte in cui abbia manifestato l’intenzione di non considerare la sua consegna decisiva per l’acquisto dell’immobile
(Cass. n. 10665 del 2020).
Merita aggiungere che il giudice del rinvio, nel valutare, conformemente ai principi esposti, il comportamento delle parti e le reciproche contestazioni di inadempienza, dovrà altresì verificare la reale portata della clausola contrattuale citata anche sotto altro profilo, se vale a dire con essa il promittente venditore garantiva la effettiva possibilità di sanatoria degli abusi presenti nell’immobile ed accertare, altresì, se essi erano suscettibili di sanatoria o, come dedotto dalla odierna ricorrente nella memoria depositata, sono stati effettivamente sanati ed il certificato di agibilità è stato rilasciato.
Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

EDILIZIA PRIVATA: Invero, il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia.
Sicché
   - sia il soggetto che ha la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio -ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario-
   - che il responsabile dell'abuso
sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi, posto che l'acquirente dell'immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente proprietario, ivi compresa l'abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell'ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo stato l'abuso commesso prima del passaggio di proprietà, restando ovviamente salva la possibilità per il terzo acquirente che sia in buona fede di rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione.
L'accertamento della natura abusiva rende dovuto (nel caso di specie) il ripristino, non potendo applicarsi l'art. 34, relativo agli interventi realizzati in parziale difformità rispetto al permesso di costruire.
L’asserito potenziale pregiudizio alla parte conforme non incide sulla legittimità dell'ordine di demolizione e può rilevare, semmai, solo nella fase successiva e su impulso della parte, sempre che la demolizione sia ingiunta ai sensi degli artt. 33 o 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, recanti la previsione alternativa della sanzione pecuniaria e la cui applicazione è esclusa allorquando la demolizione è ingiunta, come nella specie, in base agli artt. 27 e 31 del citato decreto.
---------------

L’appello è infondato.
Infatti il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che ha la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio -ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario- che il responsabile dell'abuso sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi, posto che l'acquirente dell'immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente proprietario, ivi compresa l'abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell'ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo stato l'abuso commesso prima del passaggio di proprietà (così Cons. Stato II n. 2830 del 04.05.2020, VI, 11.12.2018, n. 6893; nello stesso senso Cons. Stato, A.P. 17.10.2017, n. 9), restando ovviamente salva la possibilità per il terzo acquirente che sia in buona fede di rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione (cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 14.08.2015, n. 3933).
L'accertamento della natura abusiva rendeva, infatti, dovuto il ripristino, non potendo applicarsi l'art. 34, relativo agli interventi realizzati in parziale difformità rispetto al permesso di costruire.
L’asserito potenziale pregiudizio alla parte conforme non incide sulla legittimità dell'ordine di demolizione e può rilevare, semmai, solo nella fase successiva e su impulso della parte, sempre che la demolizione sia ingiunta ai sensi degli artt. 33 o 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, recanti la previsione alternativa della sanzione pecuniaria e la cui applicazione è esclusa allorquando la demolizione è ingiunta, come nella specie, in base agli artt. 27 e 31 del citato decreto (così Consiglio di Stato II n. 4851 del 15.05.2023).
L’appello deve pertanto essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 17.07.2023 n. 6969 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Immobili abusivi, il trasferimento della proprietà al Comune non impedisce la demolizione.
L'acquisizione del bene deve rendere più agevole l'abbattimento e non incrementare il patrimonio dell'ente. L'effetto traslativo dell'opera edilizia abusiva al patrimonio comunale, previsto dall'art. 31 del Dpr 380/2001, consegue ope legis in caso di inottemperanza all'ingiunzione a demolire e non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, «in quanto il trasferimento dell'opera nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente preordinato a una sua più agevole demolizione e non, invece, a incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del territorio».

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 23.03.2021 n. 11133, che ha respinto il ricorso contro la pronuncia con cui la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Palermo, aveva dichiarato il costruttore di un immobile responsabile dei reati previsti dagli articoli 44, lettera c), 64 e 71, 65 e 95, 93 e 95, del Dpr 380/2001 e all'articolo 181 del Dlgs 42/2004 e concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, subordinatamente alla demolizione delle opere abusive.
Cornice normativa
L'articolo 31 del Dpr 380/2001, omologo alla precedente disposizione prevista dall'articolo 7 della legge 47/1987 «Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia» prevede che:
   • il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso edilizio la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di un termine di novanta giorni per adempiere;
   • decorso inutilmente questo termine il bene e l'area di sedime sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del comune;
   • l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire «costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari»;
   • l'opera acquisita è demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare «non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali»;
   • il giudice, con la sentenza di condanna, «ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita», salvo che non sia intervenuta la suindicata delibera.
La sentenza della Cassazione
I difensori dell'imputato avevano sostenuto che la Corte d'appello, «in maniera acritica e illogica, aveva confermato la subordinazione della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, senza considerare [che] l'imputato non aveva la disponibilità dei beni perché acquisiti al patrimonio del Comune». Tesi che non ha colto nel segno.
La Cassazione ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, salvo che il comune abbia dichiarato l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato, la subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione del manufatto abusivo non è impedita dall'eventuale acquisizione del manufatto al patrimonio comunale a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione (sentenza Cassazione n. 41051/2015).
Sicché, a prescindere dall'acquisizione del bene al patrimonio comunale, «il soggetto condannato resta comunque il destinatario dell'ordine di demolizione, con conseguente onere da parte del medesimo di dare esecuzione, nelle forme di rito, all'ordine di demolizione a propria cure e spese» (sentenza Cassazione, n. 45703/2011).
Profili costituzionali
Nel senso indicato dalla Cassazione si è espressa anche la Corte costituzionale. Basta citare la sentenza n. 140/2018, che, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 2, della legge della Regione Campania 22.06.2017, n. 19 (Misure di semplificazione e linee guida di supporto ai Comuni in materia di governo del territorio) che attribuiva alla giunta regionale la potestà di adottare linee guida per supportare gli enti locali nell'attuazione di misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi, ha stabilito che «la demolizione degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio del Comune […] costituisce un principio fondamentale della legislazione statale».
Principio che i giudici costituzionali hanno riaffermato con la sentenza n. 86/2019: «la scelta operata dal legislatore statale di sanzionare le violazioni più gravi della normativa urbanistico-edilizia [impone] la rimozione dell'opera abusiva e, con essa, il ripristino dell'ordinato assetto del territorio» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.05.2021).
---------------
SENTENZA
1. Va osservato, in premessa, che è pacificamente riconosciuta la possibilità, per il giudice penale, di subordinare l'applicazione della sospensione condizionale alla demolizione delle opere abusive.
Tale possibilità, secondo un primo orientamento, confermato anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 1 del 10/10/1987 (dep. 1988), Bruni, Rv. 177318), non era originariamente ammessa.
Tuttavia una successiva pronuncia delle medesime Sezioni Unite (Sez. U, n. 714 del 20/11/1996 (dep. 1997), Luongo, Rv. 206659) ha fornito un condivisibile indirizzo interpretativo, ammettendo la legittimità della sospensione condizionale subordinata alla demolizione che appare, peraltro, giustificata dalla circostanza che la presenza sul territorio di un manufatto abusivo rappresenta, indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del reato, da eliminare (cfr. Sez. 3, n. 32351 del 01/07/2015, Giglia e altro, Rv. 264252; Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo, Rv. 258517; Sez. 3, n. 28356 del 21/05/2013, Farina Rv. 255466; Sez. 3, n. 38071 del 19/09/2007, Terminiello, Rv. 237825; Sez. 3, n. 18304 del 17/01/2003, Guido, Rv. 22471; Sez. 3, n. 4086 del 17/12/1999 (dep. 2000), Pagano, Rv. 216444).
2. Va, poi, ricordato che l'effetto traslativo dell'opera edilizia realizzata abusivamente al patrimonio comunale, previsto dall'art. 31, comma quarto, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (ed in precedenza dall'omologa disposizione di cui all'art. 7 della Legge 28.02.1985, n. 47), consegue ope legis in caso di inottemperanza all'ingiunzione a demolire e non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, in quanto il trasferimento dell'immobile nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente preordinato ad una sua più agevole demolizione -il cui onere economico va posto in ogni caso a carico dei responsabili dell'abuso edilizio- e non invece ad incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 49397 del 16/11/200, Rv. 230652).
Il soggetto condannato resta, quindi, il destinatario dell'ordine di demolizione, con conseguente onere da parte del medesimo di dare esecuzione, nelle forme di rito, al predetto ordine di demolizione a propria cure e spese (cfr. ex multis, Sez. 3, n. 45703 del 26/10/2011, Rv. 251319; Sez. 3 n. 43294 del 29.09.2005, Rv. 232646; Sez. 3 n. 37120 dell'11.05.2005 Rv. 232174).
L'ordine di demolizione opera, pertanto, anche in caso di intervenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio comunale posto che, sino a quando non sia intervenuta una delibera dell'ente locale che dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive -ipotesi nella specie non verificatasi-, è sempre possibile per il condannato chiedere al Comune stesso l'autorizzazione a procedere alla demolizione a propria cura e spese (Sez. 3 n. 7399 del 13/11/2019, dep. 25/02/2020, Rv. 278090 - 01; Sez. 3, n. 39471 del 18/07/2017, Rv. 272502 - 01; Sez. 3, n. 26149 del 09/06/2005, Barbadoro, Rv. 231941; Sez. 3, n. 37120 del 08/07/2003, Bommarito ed altro, Rv. 226321).

URBANISTICA: Il termine e i presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005 [hanno] carattere ordinatorio e non perentorio e […], conseguentemente, il superamento delle scadenze previste non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria.
La disposizione di legge regionale sopra richiamata va necessariamente interpretata in senso costituzionalmente orientato, in guisa da garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica Amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché da assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione aderisce evidenzia che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, comma 7, della l.r. n. 12 del 2005 e ciò consente di riferire la sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori.
---------------

2.2. Passando al primo motivo, con il quale si assume la tardività dell’adozione della variante, osserva il Collegio che, come evidenziato dalla costante giurisprudenza della Sezione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Sez. II, 28.12.2020, n. 2613), “il termine e i presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005 [hanno] carattere ordinatorio e non perentorio e […], conseguentemente, il superamento delle scadenze previste non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria (TAR Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1895; 22.01.2019, n. 122; 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097; 15.09.2015, n. 1975; 22.07.2015, n. 1764; 24.04.2015, n. 1032; 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508)”.
La disposizione di legge regionale sopra richiamata va necessariamente interpretata in senso costituzionalmente orientato, in guisa da garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica Amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché da assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione aderisce evidenzia che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, comma 7, della l.r. n. 12 del 2005 e ciò consente di riferire la sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori (cfr.: TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 22.01.2019, n. 122; Id., 10.12.2018, n. 2761; Id., 30.3.2017, n. 761; Id., 26.5.2016, n. 1097; cfr., da ultimo, TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 10.2.2021, 374; Id., 26.11.2021, n. 2622).
Le assorbenti considerazioni esposte conducono, quindi, alla reiezione del motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che “chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive del proprio interesse.
L’interesse a impugnare lo strumento pianificatorio non può infatti esaurirsi nella generica aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, richiedendosi, invece che le ‘determinazioni lesive’ fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente ‘condizionate’, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà”.
---------------

2.3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta che, nonostante l’adozione di modifiche sostanziali anche al Piano delle Regole e al Piano dei Servizi, l’aggiornamento sarebbe stato svolto senza alcuna verifica ambientale strategica.
Come eccepito dal Comune resistente, il motivo è inammissibile e infondato.
2.3.1. Anzitutto, non è stato allegato né dimostrato dal ricorrente se e in quale misura le doglianze relative alla fase di VAS incidano sul “regime” riservato ai suoli di loro proprietà.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che “chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive del proprio interesse. L’interesse a impugnare lo strumento pianificatorio non può infatti esaurirsi nella generica aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, richiedendosi, invece che le ‘determinazioni lesive’ fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente ‘condizionate’, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà” (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 12.01.2011, n. 133; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 15.11.2016 n. 2140).
2.3.2. In ogni caso, il motivo è anche infondato per assenza di vizi di illogicità o di travisamento nella decisione di esclusione.
Il Documento di Piano sottoposto a VAS contemplava l’area del ricorrente (denominata “Golfo Agricolo”); a fronte di tale VAS sono stati necessari adeguamenti al Piano dei Servizi ed a quello delle Regole, per i quali però l’Amministrazione ha deciso di chiedere un parere motivato circa l’assoggettamento a VAS anche delle citate modifiche al PdS e al PdR, e l’Autorità Competente per la VAS, con parere del marzo 2017, ha escluso l’assoggettamento alla stessa VAS delle modifiche ai due citati Piani, in quanto gli elementi di novità non erano tali da determinare la necessità di una nuova procedura di verifica.
Si tratta di un parere estremamente articolato ed analitico, fra l’altro espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa delle Autorità preposte alla VAS, parere nel quale non si ravvisano evidenti errori o palesi illogicità.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo pacifico indirizzo della giurisprudenza amministrativa, la destinazione agricola non implica esclusivamente l’esercizio dell’attività agricola ma risponde anche alla necessità di salvaguardare valori ambientali e naturalistici, impedendo l’eccessivo consumo di suolo e favorendo un rapporto equilibrato fra aree urbane edificate ed aree libere prive di edificazione.
---------------

2.5. Con il quarto motivo il ricorrente deduce che il Comune, nell’assegnazione della destinazione all’area, non avrebbe considerato lo stato effettivo dei luoghi, essendo stata a suo dire irrimediabilmente compromessa la possibilità di uno sfruttamento agricolo del suolo in conseguenza delle opere di piantumazione preventiva effettuate durante la vigenza del previgente PGT.
Il motivo è infondato.
Sul punto è sufficiente osservare che, secondo pacifico indirizzo della giurisprudenza amministrativa, condiviso anche dalla scrivente Sezione, la destinazione agricola non implica esclusivamente l’esercizio dell’attività agricola ma risponde anche alla necessità di salvaguardare valori ambientali e naturalistici, impedendo l’eccessivo consumo di suolo e favorendo un rapporto equilibrato fra aree urbane edificate ed aree libere prive di edificazione (cfr. la sentenza di questa Sezione n. 62/2022, pronunciata in una causa contro lo stesso Comune di Segrate, nonché TAR Campania-Napoli, Sez. II, 30.05.2018, n. 3563; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 11.06.2013, n. 1502).
Ne consegue che l’avvenuta piantumazione non preclude l’assegnazione di una destinazione prevalentemente agricola al comparto.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In linea generale, va ricordato che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze.
Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree.
Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”.
Altresì, “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresent[a]no scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare”.
Con riferimento alla revisione peggiorativa della destinazione urbanistica di un’area il Consiglio di Stato ha osservato che “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
Va dunque ribadito che le valutazioni di merito compiute dall’Amministrazione, nell’imprimere una diversa destinazione all’area, non sono sindacabili in sede giurisdizionale se non nei limiti dell’abnormità e dell’irragionevolezza, insussistenti nel caso di specie.
---------------

2.7. Con il sesto motivo si deduce che il Comune non avrebbe valutato in alcun modo la sostenibilità economica delle politiche di intervento e delle scelte pianificatorie concretamente approvate.
Come eccepito dalla difesa comunale, il motivo è inammissibile nella parte in cui è volto a censurare nel merito le valutazioni operate dall’Amministrazione comunale, senza dedurre illogicità o irragionevolezza delle scelte effettuate, unico ambito di sindacabilità delle scelte discrezionali del Comune.
In linea generale, va ricordato che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio” (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. I, 29.01.2015, n. 283).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza della Sezione, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresent[a]no scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare” (cfr. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id., 29.05.2020, n. 960; id., 09.12.2016, n. 2328; id. 03.12.2018, n. 2715; id., 03.12.2018, n. 2718; id., 21.01. 2019, n. 119; id., 05.07.2019, n. 1557; id., 16.10.2019, n. 2176; id., 21.11.2019, n. 2458; id., 05.03.2020, n. 444; id., 07.05.2020, n. 705).
Con riferimento alla revisione peggiorativa della destinazione urbanistica di un’area –peraltro nemmeno avvenuta nel caso di specie, posto che la previsione precedente è stata annullata in via giurisdizionale- il Consiglio di Stato ha osservato, con la pronuncia della Sezione IV, 09.05.2018, n. 2780, che “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., ex plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)”.
Va dunque ribadito che le valutazioni di merito compiute dall’Amministrazione, nell’imprimere una diversa destinazione all’area, non sono sindacabili in sede giurisdizionale se non nei limiti dell’abnormità e dell’irragionevolezza, insussistenti nel caso di specie.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte di pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito e non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente strumento urbanistico, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa di fatto alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente.
---------------

10. Con il quarto motivo, gli appellanti evidenziano l’erroneità della motivazione del TAR per non aver considerato che le particelle nn. 103, 104 e 463, destinate a “Zona F – attrezzature pubbliche e ad uso pubblico – V.P. verde pubblico attrezzato”, nella precedente pianificazione presentavano, in parte, una destinazione a “Zona C”. Si insiste, inoltre, sulla natura espropriativa della nuova pianificazione.
10.1. Il quarto motivo di appello è infondato.
10.2. Va ribadito che le scelte di pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito (fra le più recenti, cfr. Cons. Stato, Sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 04.05.2020, n. 2824; Sez. II, 09.01.2020, n. 161; Sez. II, 06.11.2019, n. 7560; Sez. IV, 17.10.2019, n. 7051; Sez. IV, 29.08.2019, n. 5960; Sez. II, 07.08.2019, n. 5611; Sez. IV, 25.06.2019, n. 4345; Sez. IV, 28.06.2018, n. 3986) e non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente strumento urbanistico, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa di fatto alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente P.R.G. (Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.2021 n. 2420; Sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 20.01.2020, n. 456; Sez. IV, 24.06.2019, n. 4297; Sez. IV, 26.10.2018, n. 6094; Sez. IV, 24.03.2017, n. 1326; Sez. IV, 11.11.2016, n. 4666).
10.3. Né può convenirsi con la parte odierna appellante laddove lamenta di aver subito un’espropriazione de facto della proprietà, essendo evidente che la destinazione impressa alle aree per cui è causa costituisce applicazione degli ordinari poteri di “zonizzazione” spettanti al Comune
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.12.2022 n. 10731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte di pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito, e non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente P.R.G..
A tale proposito, il Collegio rileva che le c.d. zone agricole, oltre a comprendere le aree destinate effettivamente all’attività agricola, possono includere anche aree, solitamente periferiche, le quali, benché non utilizzate, in concreto, all’esercizio dell’agricoltura, non possono secondo le valutazioni del pianificatore avere altra valutazione urbanistica.
Risulta parimenti corretta la statuizione della sentenza di primo grado, che ha rilevato come la previsione di un “lotto minimo” per le zone a destinazione agricola non costituisca un presupposto previsto per poter attribuire la destinazione agricola al fondo, bensì l’unità minima necessaria affinché su quel fondo si possa autorizzare, da parte del comune, l’edificazione degli edifici strumentali all’attività di coltivazione o di carattere residenziale a servizio del fondo, al fine di evitare che le aree a destinazione agricola vengano surrettiziamente trasformate, mediante la loro vendita frazionata e mediante la costruzione di edifici su ciascuna di esse, in lotti a destinazione sostanzialmente residenziale.
---------------
Gli atti di pianificazione non necessitano di motivazione che sia puntuale per ciascuna specifica previsione di piano, riguardante la singola area.
--------------

7.4. Con il quarto motivo di appello, ci si duole della pronuncia impugnata per aver respinto il quarto motivo di ricorso di primo grado, con il quale si era censurata l’insussistenza dei presupposti per ritenere l’area in esame a destinazione “agricola”, anche in considerazione dell’insussistenza del “lotto minimo” per potersi qualificare come “zona agricola”.
7.4.1. Come correttamente statuito dal Tar, le scelte di pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito (fra le più recenti, cfr. da Cons. Stato, Sez. II, 18.05.2020, n. 3163 a Sez. IV, 28.06.2018, n. 3986) e non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente P.R.G. (cfr. da Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.2021 n. 2420 a Sez. IV, 11.11.2016, n. 4666).
7.4.2. A tale proposito, il Collegio rileva che le c.d. zone agricole, oltre a comprendere le aree destinate effettivamente all’attività agricola, possono includere anche aree, solitamente periferiche, le quali, benché non utilizzate, in concreto, all’esercizio dell’agricoltura, non possono secondo le valutazioni del pianificatore avere altra valutazione urbanistica (Cons. Stato, Sez. II, 28.02.2020, n. 1461; cfr. anche 22.01.2021, n. 659 e 13.10.2021 n. 6883).
7.4.3. Risulta parimenti corretta la statuizione della sentenza di primo grado, che ha rilevato come la previsione di un “lotto minimo” per le zone a destinazione agricola non costituisca un presupposto previsto per poter attribuire la destinazione agricola al fondo, bensì l’unità minima necessaria affinché su quel fondo si possa autorizzare, da parte del comune, l’edificazione degli edifici strumentali all’attività di coltivazione o di carattere residenziale a servizio del fondo, al fine di evitare che le aree a destinazione agricola vengano surrettiziamente trasformate, mediante la loro vendita frazionata e mediante la costruzione di edifici su ciascuna di esse, in lotti a destinazione sostanzialmente residenziale.
7.4.4. Il quarto motivo di appello va respinto.
7.5. Con il quinto motivo di appello, si grava la sentenza per non aver accolto la censura di difetto di motivazione del provvedimento di approvazione della variante.
7.5.1. In base alla costante e pacifica giurisprudenza di questo Consiglio, della quale il Tar ha fatto applicazione nello scrutinio della doglianza di ricorso, gli atti di pianificazione non necessitano di motivazione che sia puntuale per ciascuna specifica previsione di piano, riguardante la singola area (Cons. Stato, sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 04.05.2020, n. 2824; Sez. IV, 03.02.2020, n. 844).
7.5.2. Nel caso di specie, la motivazione contenuta nella relazione generale è pienamente pertinente alla scelta comunale di confermare la pregressa destinazione del suolo di proprietà della società, per evitare il consumo di suolo mediante l’incremento della superficie edificabile.
7.5.3. Il quinto motivo di appello va pertanto respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.12.2022 n. 10661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte di pianificazione urbanistica “costituiscono esercizio di ampia discrezionalità da parte dell'amministrazione e le stesse, nell'ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione, onde evitare un indebito sconfinamento nel cd. merito amministrativo.
Inoltre, l'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Pertanto, l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le previsioni incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata”.
---------------
Sull’amministrazione non grava un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree.
---------------
L
e osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo e in tale contesto vengono valutate dal Comune nell’ottica della corretta pianificazione per il soddisfacimento dell’interesse pubblico, sicché la provenienza delle stesse ha una rilevanza limitata, né si deve ritenere che il Comune sia tenuto a svolgere puntuali verifiche sulla legittimazione a presentare osservazioni, riconosciuta anzi con ampia latitudine.
---------------

3.2. Con il secondo motivo, si deduce l’illegittimità del piano, nella parte in cui ha accolto le osservazioni di Mi., poiché sarebbe stata incrementata la superficie edificabile ed espanso l’ATU9, in contrasto con gli obiettivi fissati nel documenti di piano e, in particolare, quelli di rallentare il consumo di suolo e di frenare lo sviluppo edilizio della città.
Al di là del fatto che, nelle more del ricorso, il documento di piano è scaduto per decorrenza del termine di validità quinquennale ai sensi dell’art. 8 L.R. n. 12/2005 e che dunque lo stesso non costituisca l’attuale parametro di riferimento in ordine alle scelte urbanistiche dell’amministrazione, la censura è comunque infondata nel merito.
Le scelte di pianificazione urbanistica –quale è quella in esame– “costituiscono esercizio di ampia discrezionalità da parte dell'amministrazione e le stesse, nell'ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione, onde evitare un indebito sconfinamento nel cd. merito amministrativo.
Inoltre, l'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Pertanto, l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le previsioni incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata
” (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 11.12.2020, n. 2473).
Nel caso di specie, alcuna irragionevolezza è rinvenibile nella scelta discrezionale del Comune, avuto riguardo al fatto che le zone a cui è stata attribuita destinazione residenziale sono esterne al Parco agricolo Sud Milano e ai limiti di aree incluse in un piano di lottizzazione; peraltro la previsione di un aumento di superficie edificabile e l’espansione dell’ATU9 trova specifica giustificazione nella funzionalità connessa all’ampliamento dell’oratorio e alla presenza di un’area per servizi già dotata di potenziale edificatorio, sicché l’accoglimento delle osservazioni deve essere giudicato in linea con gli obiettivi complessivi del Pgt, che prevedeva già (anche quello adottato) limitati interventi di completamento di piccoli lotti rimasti inedificati all’interno della città.
Infine, nessuna legittima aspettativa in senso opposto è individuabile in capo ai ricorrenti, che infatti nemmeno l’hanno allegata.
3.3. Parimenti infondata è la terza censura, con cui si lamenta l’illegittimo accoglimento dell’osservazione di Ch.Ed. per carenza di istruttoria, poiché il Comune non avrebbe verificato che le aree della società non avrebbero “i requisiti classici” delle aree di completamento.
Fermo quanto già sopra precisato circa l’ampia discrezionalità delle scelte del pianificatore urbanistico e la non irragionevolezza delle decisioni assunte nella fattispecie, deve essere ribadito, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, che sull’amministrazione non grava un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Sez. II, 16.02.2021, n. 879).
Non può quindi fondatamente sostenersi che l’amministrazione dovesse rendere puntuale conto, accogliendo l’osservazione della società, delle caratteristiche dell’area in raffronto a tutte le altre analoghe del territorio, essendo invece sufficiente il raffronto effettuato con quelle limitrofe e la valutazione di omogeneità operata.
3.4. Con il quarto motivo, i ricorrenti deducono che l’amministrazione comunale avrebbe analizzato un’osservazione –quella di Mi.– presentata da un sedicente procuratore speciale del proprietario dell’area, senza che tuttavia venisse prodotta una procura speciale notarile.
Il motivo è inammissibile, poiché i ricorrenti non hanno alcun interesse a contestare il difetto di rappresentanza sostanziale di Miglio, che avrebbe potuto essere fatto valere solo dal proprietario dell’area.
In ogni caso, le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo (cfr. TAR Lombardia, Milano, 11.01.2021, n. 58; id., 03.12.2018, n. 2722; id., 06.08.2018) e in tale contesto vengono valutate dal Comune nell’ottica della corretta pianificazione per il soddisfacimento dell’interesse pubblico, sicché la provenienza delle stesse ha una rilevanza limitata, né si deve ritenere che il Comune sia tenuto a svolgere puntuali verifiche sulla legittimazione a presentare osservazioni, riconosciuta anzi con ampia latitudine (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.02.2022 n. 220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn linea generale, le determinazioni di pianificazione urbanistica non necessitano di particolare motivazione, salvo che particolari situazioni abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti privati, nel caso in esame la ragione della modifica è stata esplicitata con la volontà di non ingenerare un contrasto con il P.T.C.P. adottato, dunque in funzione di salvaguardia dello stesso nell’attesa della sua approvazione finale.
---------------
Con riferimento alla posizione della società ricorrente, non risulta che essa potesse nutrire un affidamento qualificato nella collocazione della propria area in un ambito di trasformazione residenziale, giacché una tale posizione è rinvenibile, per costante giurisprudenza, solo nel caso in cui l’aspettativa si sia concretizzata in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato o quantomeno adottato.
---------------

7.1. Anche questo secondo motivo è destituito di fondamento.
7.2. Premesso che, in linea generale, le determinazioni di pianificazione urbanistica non necessitano di particolare motivazione, salvo che particolari situazioni abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti privati (ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 02.12.2020, n. 7636; TAR Milano, Sez. II, 16.09.2020, n. 1668), nel caso in esame la ragione della modifica è stata esplicitata con la volontà di non ingenerare un contrasto con il P.T.C.P. adottato, dunque in funzione di salvaguardia dello stesso nell’attesa della sua approvazione finale.
L’art. 31 delle N.T.A. del P.T.C.P., pur facendo salve le previsioni degli strumenti urbanistici vigenti al momento dell’approvazione del piano provinciale, certamente non suggerisce di addivenire a una pianificazione comunale collidente con il P.T.C.P. in corso di approvazione.
La vicinanza temporale tra l’approvazione del P.G.T. e del P.T.C.P. rende quindi più che ragionevole adeguare sin da subito il primo al secondo, in un’ottica di leale collaborazione tra istituzioni e di buon andamento dell’amministrazione.
7.3. Con riferimento alla posizione della società ricorrente, non risulta –per converso– che essa potesse nutrire un affidamento qualificato nella collocazione della propria area in un ambito di trasformazione residenziale, giacché una tale posizione è rinvenibile, per costante giurisprudenza, solo nel caso in cui l’aspettativa si sia concretizzata in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato o quantomeno adottato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25.08.2017, n. 4063; Id., 12.04.2018, n. 2204; Id., Sez. II, 06.11.2019, n. 7560; Id., 01.08.2018, n. 4734) o derivi da precedenti giudicati favorevoli (Cons. Stato, Sez. IV, 25.06.2019, n. 4343; Id., 08.06.2020, n. 3632)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.05.2021 n. 1267 - link a www.giustiziamministrativa.it).

URBANISTICA: Non è irragionevole, né in contrasto con l’art. 7 della legge 1150/1942 o con i principi della pianificazione, il metodo pianificatorio seguito dal Comune che, nel ridisegnare integralmente un contesto urbanistico ormai consolidato, si propone di ottenere un mix di destinazioni, alcune principali e altre di complemento.
La ricerca di un bilanciamento tra destinazioni diverse, che eviti la creazione di quartieri monofunzionali, è anzi un indice di qualità urbanistica. Naturalmente, possono essere censurati gli accostamenti di destinazioni incompatibili, che provocano disagi e dannose interferenze, ma nel caso in esame la soluzione individuata, incentrata su due destinazioni principali (terziario e servizi) con alcune destinazioni accessorie (spazi scoperti, residenze, distributori di carburante, attività industriali e artigianali), appare equilibrata, anche in conseguenza dell’esclusione delle infrastrutture più impattanti (grandi strutture di vendita, cimiteri, ospedali, impianti per servizi pubblici locali).
La presenza della destinazione residenziale in un ambito a vocazione commerciale non è un elemento di contraddittorietà, ma ha evidentemente lo scopo di garantire una certa continuità con la situazione preesistente.
La differenziazione degli indici edificatori rispetto ad altre zone del territorio è una diretta conseguenza del mix di destinazioni scelto per i singoli ambiti, e dunque non costituisce in via diretta un sintomo di irragionevolezza. L’illegittimità della scelta urbanistica non si manifesta neppure sotto forma di disparità di trattamento: per arrivare a questa conclusione occorrerebbe dimostrare che due situazioni del tutto identiche ricevono una dotazione di diritti edificatori diversa, ma nello specifico una simile prova non è stata fornita.
Lo strumento urbanistico generale fissa degli obiettivi e dei limiti: in questa cornice la specificazione e l’attribuzione in concreto dei diritti edificatori è correttamente rinviata ai piani attuativi, tramite accordo tra i proprietari se tutti partecipano o secondo le decisioni dei proprietari che dispongono della maggioranza del valore delle aree ai sensi dell’art. 27, comma 5, della legge 166/2002.
---------------
Il fatto che, nelle aree di trasformazione aventi dimensioni superiori a 7.000 mq., l’art. 32 delle NTA preveda una quota di edilizia residenziale convenzionata in una misura che varia dal 10% al 30% delle unità immobiliari, salva diversa previsione dei Progetti Norma, non configura alcuna illegittimità.
La perequazione urbanistica può assumere varie forme, tra cui anche l’imposizione di un limite ai diritti edificatori e la conversione della parte eccedente in iniziative di interesse collettivo (nello specifico, la realizzazione di alloggi da affittare a prezzi convenzionati) o in un obbligo ragionevolmente contenuto di cessione gratuita delle aree. Finché viene garantito l’equilibrio economico della lottizzazione, le distorsioni create da questo metodo pianificatorio rimangono ammissibili e non costituiscono un’ipotesi di espropriazione senza indennizzo ai danni dei lottizzanti.
In realtà, la misura della capacità edificatoria insediata su una certa area dipende dalle scelte dell’amministrazione, e dunque non vi è espropriazione quando l’amministrazione stabilisce un limite a tale capacità, sia pure sotto forma di vincolo di destinazione su una parte di quanto edificato. Tale vincolo può avere qualsiasi contenuto, purché corrisponda a un interesse pubblico effettivo, e dunque può anche servire a ottenere risultati simili a quelli che in passato erano conseguiti con altri strumenti come i PEEP, disciplinati da apposita normativa di settore.

---------------

Sull’impostazione urbanistica del PRG
14. Passando al merito, con una prima serie di argomenti il ricorrente cerca di dimostrare l’irragionevolezza del metodo pianificatorio seguito dal Comune che, nel ridisegnare integralmente un contesto urbanistico ormai consolidato, si propone di ottenere un mix di destinazioni, alcune principali e altre di complemento.
Le censure non sono però condivisibili.
15. Il metodo non appare né irragionevole né in contrasto con l’art. 7 della legge 1150/1942 o con i principi della pianificazione.
La ricerca di un bilanciamento tra destinazioni diverse, che eviti la creazione di quartieri monofunzionali, è anzi un indice di qualità urbanistica. Naturalmente, possono essere censurati gli accostamenti di destinazioni incompatibili, che provocano disagi e dannose interferenze, ma nel caso in esame la soluzione individuata, incentrata su due destinazioni principali (terziario e servizi) con alcune destinazioni accessorie (spazi scoperti, residenze, distributori di carburante, attività industriali e artigianali), appare equilibrata, anche in conseguenza dell’esclusione delle infrastrutture più impattanti (grandi strutture di vendita, cimiteri, ospedali, impianti per servizi pubblici locali).
La presenza della destinazione residenziale in un ambito a vocazione commerciale non è un elemento di contraddittorietà, ma ha evidentemente lo scopo di garantire una certa continuità con la situazione preesistente.
16. La differenziazione degli indici edificatori rispetto ad altre zone del territorio è una diretta conseguenza del mix di destinazioni scelto per i singoli ambiti, e dunque non costituisce in via diretta un sintomo di irragionevolezza. L’illegittimità della scelta urbanistica non si manifesta neppure sotto forma di disparità di trattamento: per arrivare a questa conclusione occorrerebbe dimostrare che due situazioni del tutto identiche ricevono una dotazione di diritti edificatori diversa, ma nello specifico una simile prova non è stata fornita.
17. Lo strumento urbanistico generale fissa degli obiettivi e dei limiti: in questa cornice la specificazione e l’attribuzione in concreto dei diritti edificatori è correttamente rinviata ai piani attuativi, tramite accordo tra i proprietari se tutti partecipano o secondo le decisioni dei proprietari che dispongono della maggioranza del valore delle aree ai sensi dell’art. 27, comma 5, della legge 166/2002.
Per quanto riguarda la conclusione degli accordi tra i privati, il Comune ha regolato i rapporti di forza secondo un canone che non è solo giuridico ma anche di senso comune: la consistenza delle rispettive quote di proprietà. L’art. 99 delle NTA precisa infatti che i diritti edificatori e gli oneri si ripartiscono in proporzione alla consistenza della proprietà, salvo diversa pattuizione. Tra gli oneri, che devono essere definiti in dettaglio nei piani attuativi, rientra anche l’esatta misura delle aree a standard, che dipende dalle caratteristiche degli edifici progettati.
18. Il fatto che, nelle aree di trasformazione aventi dimensioni superiori a 7.000 mq., l’art. 32 delle NTA preveda una quota di edilizia residenziale convenzionata in una misura che varia dal 10% al 30% delle unità immobiliari, salva diversa previsione dei Progetti Norma, non configura alcuna illegittimità.
La perequazione urbanistica può assumere varie forme, tra cui anche l’imposizione di un limite ai diritti edificatori e la conversione della parte eccedente in iniziative di interesse collettivo (nello specifico, la realizzazione di alloggi da affittare a prezzi convenzionati) o in un obbligo ragionevolmente contenuto di cessione gratuita delle aree. Finché viene garantito l’equilibrio economico della lottizzazione, le distorsioni create da questo metodo pianificatorio rimangono ammissibili e non costituiscono un’ipotesi di espropriazione senza indennizzo ai danni dei lottizzanti.
In realtà, la misura della capacità edificatoria insediata su una certa area dipende dalle scelte dell’amministrazione, e dunque non vi è espropriazione quando l’amministrazione stabilisce un limite a tale capacità, sia pure sotto forma di vincolo di destinazione su una parte di quanto edificato. Tale vincolo può avere qualsiasi contenuto, purché corrisponda a un interesse pubblico effettivo, e dunque può anche servire a ottenere risultati simili a quelli che in passato erano conseguiti con altri strumenti come i PEEP, disciplinati da apposita normativa di settore (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.05.2013 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 19.02.2024

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAPaesaggio, mai libera l’installazione di pannelli solari in area tutelata. Il Tar Sardegna boccia la posa in opera senza comunicazione di un impianto sul tetto di un condominio.
L’installazione di pannelli solari in aree soggette a vincolo non rientra nella categoria di edilizia libera e necessita di comunicazione di inizio lavori. Inoltre, se è in area vincolata necessita del parere dell’istituto di tutela.

Con questa motivazione il TAR Cagliari, Sez. I, con la sentenza 02.05.2023 n. 323 ha respinto il ricorso presentato da una persona che nella copertura condominiale di una palazzina di sei piani (che ricade in area sottoposta a vincolo urbanistico paesaggistico determinato da delibera del Consiglio comunale) aveva installato, senza autorizzazione, un impianto termico solare per la produzione di acqua calda.
Tutto inizia quando la proprietaria dell’appartamento situato a sesto piano presenta al Comune denuncia di abuso edilizio «al fine di valutare la legittimità dell’opera». Segue sopralluogo dei funzionari comunali nel piano di copertura dell’edificio da cui emerge che era stato «installato un impianto tecnologico “solare termico”, sulla copertura condominiale al piano settimo dell’edificio di uso esclusivo dell’unità immobiliare -sita al terzo piano e destinata ad uso residenziale- di sua proprietà».
Il sopralluogo alla presenza della proprietaria e usufruttuaria dell’appartamento al sesto piano dove è presente l’unico accesso alla copertura piana del fabbricato. Non a caso, nell’esposto la proprietaria lamenta il fatto «di essere costretta a consentire di far entrare in casa mia persone per eseguire le manutenzioni di un pannello solare installato abusivamente nel lastrico solare condominiale che è sopra la mia casa».
L’argomento era stato al centro anche di un’assemblea di condominio «con richiesta di rimozione in quanto l’installazione del pannello non risultava ritualmente consentita dal Condominio». Dagli accertamenti risulta che le opere sono state «realizzate in assenza di titolo abilitativo e in assenza di autorizzazione paesaggistica».
C’è quindi l’ordinanza di demolizione e ripristino dei luoghi. Segue il ricorso al Tar. Tra i motivi del ricorso «l’omessa comunicazione dell’avvio di procedimento», il fatto che «le opere potevano essere dunque eseguite senza alcun titolo abilitativo» e «l’installazione di pannelli solari ricadrebbe nell’attività di edilizia libera ben potendo dunque essere realizzati senza alcun titolo abilitativo».
Un altro elemento sollevato dal ricorrente riguarda «il contesto urbano dell’area in questione, caratterizzata proprio dalla presenza di molteplici pannelli solari e fotovoltaici nelle coperture degli edifici (e dunque la modifica di “lieve entità” sotto il profilo della coerenza urbanistica che caratterizza la zona».
A supporto della tesi secondo cui l’intervento ricade nell’ambito di edilizia libera, il ricorrente, cita la sentenza del Tar del 2020. Tesi che, secondo i giudici, non può essere accolta perché «diversamente da quanto avvenuto nel caso deciso dal Tar Lazio, il ricorrente non ha neanche inoltrato la comunicazione di inizio lavori».
Non solo, i giudici ricordano che «le disposizioni legislative subordinano espressamente gli interventi menzionati al rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, comprese le disposizioni contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio)».
Quanto all’autorizzazione paesaggistica, i giudici sottolineano che «i pannelli in questione, posizionati sul solaio piano del palazzo, risultano evidentemente inclinati e nettamente visibili dalle vie circostanti, con conseguente inapplicabilità -quanto meno con riguardo alla normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato- dell’invocata esenzione dal titolo autorizzatorio».
Ricorso infondato e respinto. Spese compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.09.2023).
---------------
SENTENZA
11. Il nucleo centrale del ricorso è, a ben vedere, rinvenibile nel secondo motivo di impugnazione.
12. Lamenta in primo luogo il sig. Fr. che nel caso di specie non si sarebbe considerato che l’intervento in questione ricade nella categoria dell’edilizia libera e pertanto sarebbe realizzabile senza necessità di titolo abilitativo.
12.1 Richiama a supporto la sentenza del TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 11025 del 28.10.2020, per la quale “l’installazione di impianti solari destinati alla produzione di acqua calda è considerata, ex combinato disposto artt. 123, comma 1, 3, comma 1-b, del D.P.R. n. 380 del 2001, estensione dell’impianto idrico-sanitario già in opera e, dunque, intervento di manutenzione straordinaria; che le relative opere possono essere eseguite senza alcun titolo abilitativo, ex art. 6, comma 1, lett. e-quater) (all’epoca art. 6, comma 2-d), del D.P.R. n. 380 del 2001; che non era necessario dunque presentare la d.i.a., essendo all’uopo sufficiente l’inoltro all’Amministrazione della comunicazione di avvio dei lavori”.
13. In relazione a tale richiamo giurisprudenziale il Collegio rileva, in primo luogo, che diversamente da quanto avvenuto nel caso deciso dal TAR Lazio, il ricorrente non ha neanche inoltrato la comunicazione di inizio lavori.
14. Tale non può intendersi, invero, quella inoltrata in data 08.04.2013 dall’allora proprietario dell’immobile Fl.Fl. che non ha affatto inserito nell’indicazione delle opere da eseguire l’installazione dei pannelli solari per cui è causa, limitandosi a indicare l’esecuzione di ben diverse (e specificate) opere interne.
15. Il ricorrente sostiene altresì che l’intervento in questione, eseguito tra il 2012 e il 2013, rientrerebbe nell’edilizia libera e sarebbe ammissibile anche in assenza della comunicazione di inizio lavori.
Richiama sul punto:
   - l’art. 6 del DPR n. 380/2001, rubricato “
attività libera edilizia” che al comma 1, prevede tra gli interventi che non necessitano di titolo abilitativo edilizio, al punto “e-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici”.
   - l’art. 15 della l.r. n. 23/1985, rubricato “interventi di edilizia libera”, che al comma 1, dispone che “i seguenti interventi sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo edilizio:
(…)
j-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici
”.
16. L’argomento non è decisivo.
17. Come invero precisato nel provvedimento impugnato le citate disposizioni legislative subordinano espressamente gli interventi menzionati al rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, comprese le disposizioni contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).
18. Orbene, l’art. 75 del Regolamento Edilizio vigente, rubricato “Coerenza e compiutezza architettonica degli edifici”, vieta di posizionare nelle pareti esterne (comprese quelle orizzontali) apparecchiature tecnologiche (tra le quali rientrano senz’altro i pannelli solari) che non risultano in armonia architettonica con le pareti del fabbricato ed il suo intorno, visibili da altri spazi pubblici e prive di accorgimenti volti a mascherare i macchinari.
18.1 Recita infatti testualmente: “Nelle nuove costruzioni o nella modifica di edifici esistenti, tutte le pareti esterne prospettanti su spazi pubblici e privati, anche se interni all'edificio, e tutte le opere ad esse attinenti (finestre, parapetti, ecc.) devono essere realizzate con materiali e cura di dettagli tali da garantire la buona conservazione nel tempo delle strutture stesse. Nelle stesse pareti esterne è vietato sistemare tubi di scarico, canne di ventilazione e canalizzazioni in genere, apparecchiature tecnologiche a meno che il progetto non preveda armonicamente una loro sistemazione nelle pareti, secondo accurate scelte di carattere funzionale ed architettonico… Per le unità di condizionamento visibili dalla strada o da altri spazi pubblici è prescritta l’adozione di accorgimenti volti a mascherare il macchinario.”.
19.1 E come precisato nel provvedimento impugnato “L'impianto tecnologico accertato al momento del sopralluogo non può essere ritenuto all'uopo idoneo, perché non integrato nella configurazione della copertura e posizionato in maniera tale da essere visibile dagli spazi pubblici”.
20. Sul punto l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato trova conferma nelle produzioni fotografiche allegate al verbale di sopralluogo in atti, dalle quali i pannelli in questione sono ben visibili da diverse inquadrature prospettiche.
21. Né può ritenersi che la nuova normativa nel frattempo intervenuta, ossia il DL n. 17 del 01.03.2022, richiamata nelle memorie difensive dal ricorrente, sia sul punto decisiva, essendo essa non applicabile ratione temporis alla valutazione di legittimità del provvedimento in esame e restando -eventualmente- suscettibile di valutazione in caso di presentazione di una nuova futura istanza da parte dello stesso ricorrente.
22. Nell’ordinanza impugnata si contesta altresì che l’intervento sia stato realizzato in assenza di autorizzazione paesaggistica, necessaria per abilitare quel tipo di interventi in ambito tutelato.
23. Sostiene invece il sig. Fr. che intervento rientrerebbe nella categoria degli interventi “esclusi dall’autorizzazione paesaggistica” pur in ambiti vincolati.
Ciò risulterebbe, in particolare, dall’apposita circolare regionale di “Chiarimenti in merito al Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31 “Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”.
24. L’argomento non è fondato, in quanto nel “quadro sinottico di raffronto” (allegato a tale circolare) ove sono indicati gli “interventi ed opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica”, nella categoria “A.6.” che nella tesi del ricorrente giustificherebbe l’esclusione di tale autorizzazione, è inclusa “l’installazione di pannelli solari (termici o fotovoltaici) a servizio di singoli edifici, laddove posti su coperture piane e in modo da non essere visibili dagli spazi pubblici esterni”.
25. Quanto affermato dal ricorrente non trova dunque riscontro in fatto in quanto, come evidenziato dalle produzioni fotografiche del Comune, i pannelli in questione, posizionati sul solaio piano del palazzo, risultano evidentemente inclinati e nettamente visibili dalle vie circostanti, con conseguente inapplicabilità -quanto meno con riguardo alla normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato- dell’invocata esenzione dal titolo autorizzatorio.
26. L’intervento in questione, sul punto, pare invece ricadere nell’ambito del quadro b.8 dell’anzidetta circolare, relativo alla categoria degli “interventi e opere soggette a procedimento semplificato”, che peraltro allo stato non risulta essere stato avviato.
27. Neanche il rilievo che il notevole lasso di tempo intercorso dalla realizzazione dell’opera all’adozione del provvedimento impugnato avrebbe ingenerato un legittimo affidamento del ricorrente circa la liceità dell’opera, il che richiederebbe una motivazione del provvedimento rafforzata, merita accoglimento.
28. L’orientamento giurisprudenziale prevalente, più volte condiviso dal Tribunale, ritiene che anche nel caso di abuso risalente nel tempo l’ordine di demolizione di opere abusive costituisca atto dovuto, non potendo il semplice decorso del tempo giustificare il legittimo affidamento del contravventore poiché il potere di ripristino dello status quo non è soggetto ad alcun termine di prescrizione, né è tacitamente rinunciabile poiché il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione di illegalità, né imporre all’amministrazione la necessità di una comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito (Adunanza Plenaria n. 9 del 2017).
28.1 Pertanto, in presenza di un abuso edilizio la lesione degli interessi pubblici urbanistici (e paesaggistici) è “in re ipsa”, senza necessità di far precedere la repressione del predetto abuso dalla verifica dell’effettiva compromissione in concreto del contesto circostante, con la conseguente infondatezza del profilo di censura con cui si lamenta la carenza di una adeguata motivazione da parte dall’amministrazione procedente in ordine al rilievo minimale dell’opera.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Quesito su mutamento composizione delle commissioni consiliari.
Sintesi/Massima
Sulla composizione delle commissioni consiliari si richiama il parere n. 771/2018 in cui il Consiglio di Stato osserva come il rispetto del criterio proporzionale ex art. 38, c. 6, del d.lgs. n. 267/2000 potrebbe essere garantito prevedendo l'istituto del voto plurimo piuttosto che capitario.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha trasmesso le osservazioni formulate dal segretario comunale del comune di … in merito alla questione segnalata da un consigliere di minoranza. Il predetto consigliere ha evidenziato che, all'esito delle elezioni amministrative dell'ottobre 2021, il consiglio comunale di … si componeva di 12 consiglieri eletti per la lista "… e …" e di 5 consiglieri per la lista "" di cui fa parte il consigliere esponente.
In seno al consiglio comunale sono istituite le commissioni consiliari permanenti, composte ciascuna da cinque consiglieri, di cui tre in rappresentanza della maggioranza e due della minoranza. Nel corso del mandato, due consiglieri di maggioranza sono passati all'opposizione formando il gruppo misto.
A seguito di tale circostanza, i consiglieri di maggioranza hanno presentato una delibera al fine -ad avviso del consigliere esponente- di nominare i nuovi membri delle commissioni e modificare la composizione delle commissioni consiliari permanenti per assegnare i due rappresentanti della minoranza uno al gruppo "…" ed uno al gruppo misto. La proposta della maggioranza pregiudicherebbe, quindi, la rappresentanza del gruppo "…" nell'ambito delle commissioni consiliari, riducendone i componenti da due a uno. I consiglieri del predetto gruppo, ritenendo la posizione della maggioranza non coerente con il regolamento del consiglio comunale, hanno deciso di non procedere alla elezione dei propri rappresentanti nelle commissioni che, ad oggi, da quanto emerge dalla richiesta di parere, non sarebbero state più convocate.
L'ente ritiene, invece, che l'istituzione del gruppo misto ha comportato inevitabilmente un mutamento delle forze politiche in seno al consiglio comunale; pertanto, è stato necessario adeguare, in coerenza con il principio di proporzionalità, la composizione delle commissioni permanenti ai nuovi assetti, attraverso l'attribuzione al gruppo misto di un proprio rappresentante all'interno delle commissioni senza però intervenire sul numero dei componenti l'organo.
Tanto premesso, è stato chiesto di conoscere se, a seguito dell'istituzione del gruppo misto, le commissioni debbano mantenere la composizione iniziale, oppure se i due rappresentanti assegnati alla minoranza debbano essere considerati in ragione di un componente per ciascun gruppo dell'opposizione. Al riguardo, in via preliminare, si precisa che le commissioni non sono organi necessari dell'ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli e, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell'organo assembleare. In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque nell'ambito della competenza dei consigli.
Si rileva, in base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, che le commissioni consiliari, se previste dallo statuto, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto; pertanto, spetta al consiglio comunale prevedere nel regolamento i meccanismi idonei a garantirne il rispetto. Ai sensi dell'art. 33, comma 1, del regolamento del consiglio comunale è previsto che ciascuna commissione permanente è costituita da cinque consiglieri da ripartire fra i gruppi consiliari, in proporzione alla consistenza dei gruppi stessi. Il terzo comma del medesimo articolo 33 dispone che "eventuali modifiche dei gruppi consiliari non determinano mutamenti nella composizione delle commissioni, salvo il caso di dimissioni o di impedimento permanente".
Secondo il consigliere esponente tale ultima disposizione precluderebbe la possibilità di modificare la composizione delle commissioni. Il segretario del comune ha osservato, invece, come la composizione delle commissioni consiliari con tre rappresentanti di maggioranza e un rappresentante per ciascun gruppo di opposizione sia stata ritenuta rispettosa del criterio proporzionale, precisando che la disposizione recata dall'articolo 33, comma 3, del regolamento del consiglio disciplina l'ipotesi di un'intervenuta modifica dei gruppi già esistenti, quindi l'ipotesi prevista dalla predetta norma non sarebbe applicabile al caso di specie trattandosi di costituzione di un nuovo gruppo. È pur vero che il citato art. 33, comma 3, del regolamento sembra presentare una formulazione ambigua.
Pertanto, il consiglio comunale potrebbe valutare la possibilità di riformulare in modo più chiaro la disposizione regolamentare sopracitata. In merito alla questione prospettata, si richiama il parere n. 771 del 07.03.2018 in cui il Consiglio di Stato ha avuto modo di osservare come il rispetto del criterio proporzionale richiesto dall'art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 potrebbe essere garantito prevedendo l'istituto del voto plurimo in luogo del voto capitario.
Con specifico riferimento all'istituto del voto plurimo, il Consiglio di Stato-sez. V, con sentenza n. 4919 del 25.10.2017, ha osservato che "questa modalità di voto, nel garantire il rispetto del principio di proporzionalità ex art. 38, comma 6, d.lgs. n. 267 del 2000, non viola il principio di parità tra i consiglieri".
Dall'esame delle osservazioni fornite dal segretario dell'ente, emerge che il consiglio comunale starebbe valutando l'opportunità di introdurre apposite modifiche normative tali da adeguare le fonti di autonomia locale ai criteri indicati nella citata pronuncia del Consiglio di Stato del 2018.
Nelle more delle modifiche in parola, si richiama il consolidato avviso di questo Ministero, espresso in altri casi analoghi, e cioè che l'oggettiva impossibilità di insediare validamente le commissioni giustifica il riespandersi della piena attribuzione delle competenze del consiglio comunale, del quale le commissioni costituiscono articolazioni, essendo prive di competenza autonoma (parere 17.02.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

EDILIZIA PRIVATAQuesto Comune sta procedendo alla nomina del nuovo revisore dei conti per il triennio 2024/2027 ed ha provveduto a richiedere le prescritte dichiarazioni alla persona estratta dalla prefettura. Dalle dichiarazioni è emersa a carico dello stesso una condanna non definitiva per reato contro la PA.
È possibile procedere alla nomina?

Al fine di rispondere al quesito proposto dobbiamo discernere la nostra analisi necessariamente dalle specifiche previsioni introdotte dal Testo Unico degli Enti Locali in merito alle cause di incompatibilità dell’organo di revisione.
L'art. 236, comma 1, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 con riferimento alle ipotesi di incompatibilità dell’organo di revisione infatti stabilisce testualmente che: "valgono per i revisori le ipotesi di incompatibilità di cui al primo comma dell'articolo 2399 del codice civile, intendendosi per amministratori i componenti dell'organo esecutivo dell'ente locale".
Tanto ciò premesso il citato art. 2399 c.c. rinvia, tra l'altro, all'art. 2382 c.c. che prevede che sono cause impeditive alla nomina (e se nominati, causa di decadenza) le seguenti situazioni: interdetto; inabilitato; fallito; chi è stato condannato ad una pena che comporta l'interdizione anche temporanea dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi.
Le ipotesi d'incompatibilità e d'ineleggibilità alla carica di revisore degli enti locali, elencate all'art. 236 del Tuel, sono pertanto tipiche e nominate e quindi non possono essere derogate, né estese per analogia ad altri casi non espressamente individuati nella legge e pertanto finché il revisore dei conti rimane iscritto nell’apposito registro dei revisori legali e/o all'Albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili (necessaria ai fini dell’iscrizione all’elenco dei revisori degli enti locali).
Ad abundantiam segnaliamo che sul punto si è espresso anche il Ministero dell’Interno - Dipartimento Finanza Locale con proprio Parere 24.01.2024 dove viene ribadito che "Il revisore sottoposto a giudizio penale mantiene l'iscrizione nell'Elenco fino a quando permangono le condizioni relative all'iscrizione all'ODCEC e/o al Registro dei revisori legali e, di conseguenza, può essere nominato dall'ente".
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 236 - Art. 2399 c.c. - Art. 2382 c.c.
Documenti allegati

Parere 24.01.2024 del Ministero dell’Interno - Dipartimento Finanza Locale
(14.02.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Chiarimento in merito al parere prot. QI/19070/2021 inerente “i chioschi e i manufatti similari realizzati su suolo pubblico” - Indirizzi per gli Uffici (Comune di Roma, nota 07.02.2024 n. 26731 di prot.).
---------------
E’ pervenuta allo scrivente Dipartimento una richiesta di chiarimento in merito all’oggetto, in particolare, facendo riferimento al parere 03.02.2021 n. 19070 di prot.
[1] di questo dipartimento, se la realizzazione di chioschi e manufatti similari su suolo pubblico sia sottoposta alla legislazione inerente le opere pubbliche o al D.P.R. 380/2001, con riferimento sia ai chioschi di nuova installazione che a quelli già preesistenti ma privi di titolo edilizio.
L’argomento dell’installazione dei chioschi è già stato ampiamente trattato nei suoi vari aspetti anche in un altro parere di questo Dipartimento, 18.04.2018 n. 67434 di prot., ed in un ordine di servizio interdipartimentale con il Dip. Sviluppo Economico Attività Produttive e Agricoltura, 18.11.2015 n. 79383 di prot., richiamati e riportati in allegato al suddetto parere
parere 03.02.2021 n. 19070 di prot., pubblicati sul sito istituzionale all’indirizzo ..., ed alla cui lettura si rimanda per brevità di trattazione. (...continua).
---------------
[1] leggasi anche l'allegato 3 (Regione Lazio, parere 12.05.2011 n. 127210 di prot.) e l'allegato 4 (Regione Lazio, parere 19.05.2009 n. 91613 di prot.)

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Forma dei verbali del consiglio comunale.
Sintesi/Massima
La registrazione integrale dell'adunanza del consiglio non può avere validità di un verbale, atteso che l'art. 97, c. 4, lett. a), del d.lgs. n. 267/2000 assegna al segretario dell'ente locale la cura della verbalizzazione delle riunioni di consiglio.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha chiesto l'avviso di quest'Ufficio in ordine al quesito posto da un consigliere di minoranza del comune ... concernente la forma dei verbali del consiglio comunale.
In particolare, è stato chiesto se la registrazione integrale della seduta del consiglio possa avere la stessa validità di un verbale e, quindi, se sia possibile non procedere alla verbalizzazione da parte del segretario comunale dell'ente, tenuto conto che l'art. 56, comma 8, del regolamento del consiglio comunale di ... dispone che "Nel caso vengano utilizzati sistemi di registrazione integrale della seduta, i supporti magnetici rappresentano i verbali dell'adunanza".
Lo statuto dell'ente all'art. 34, comma 4, prevede che "… la verbalizzazione delle sedute del Consiglio e della Giunta sono curate dal Segretario Comunale, secondo le modalità ed i termini stabiliti dal regolamento." Il successivo comma 5 dispone che i verbali delle sedute sono firmati dal presidente e dal segretario.
Al riguardo, si rileva che, ai sensi dell'art. 97, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 267/2000, il segretario dell'ente locale "partecipa con funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta e ne cura la verbalizzazione". Pertanto, è lo stesso legislatore statale che ha previsto, nell'ambito delle competenze del segretario, la cura della verbalizzazione delle riunioni di consiglio e di giunta, e lo statuto dell'ente ribadisce tale funzione del segretario comunale.
In merito alla natura e alla funzione del verbale, si fa presente che il Consiglio di Stato - sez. IV, con sentenza n. 4373 del 2018, nell'esaminare un caso diverso da quello in esame, ha osservato che "il verbale, atto giuridico appartenente alla categoria degli atti certificativi, è il documento preordinato alla descrizione di atti o fatti, rilevanti per il diritto, compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante, appositamente incaricato di tale compito."
L'Alto Consesso ha, altresì, evidenziato che "negli organi collegiali, dove la funzione di verbalizzazione e il verbale assumono rilievo decisivo e necessità indefettibile, il tratto di collegamento tra esternazione dell'atto amministrativo (che normalmente avviene in forme diverse dalla scritta) e documentazione dell'atto (ad esempio, deliberazione) è rappresentato dal verbale della seduta, che costituisce la 'memoria' di quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta stessa, affinché questi possano essere successivamente (ed ulteriormente) documentati, secondo le modalità di volta in volta prescritte. Come affermato dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato - sez. IV, 25.07.2001, n. 4074), il verbale ha il compito di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, senza che sia peraltro necessario indicare minutamente le singole attività compiute e le singole opinioni espresse."
Si soggiunge che il TAR Sicilia – Sez. di Catania, con sentenza n. 1311 del 14.07.2009, ha sottolineato che il verbale della seduta "costituisce l'elemento essenziale della esternazione e della documentazione delle determinazioni amministrative degli organi collegiali, nonché la condizione necessaria perché le determinazioni stesse acquistino valore di espressione di potestà amministrative."
Inoltre, dalla sentenza del Consiglio di Stato del 04.06.2020, n. 3544, si evince che "… l'atto di verbalizzazione ha una funzione di certificazione pubblica, contiene e rappresenta i fatti e gli atti giuridicamente rilevanti che è necessario siano conservati per le esigenze probatorie con fede privilegiata -dal momento che sono redatti da un pubblico ufficiale- che si sostanzia essenzialmente nella attendibilità in merito alla provenienza dell'atto, alle dichiarazioni compiute innanzi al pubblico ufficiale ed ai fatti innanzi a lui accaduti (cfr. Cass. sez. I, 03.12.2002, n. 17106)".
Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sopra citato, si ritiene che il consiglio comunale, nell'esercizio della propria autonomia funzionale ed organizzativa di cui all'articolo 38, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, abbia la possibilità di regolamentare la registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, ma le norme statutarie e quelle regolamentari dell'ente locale devono, comunque, trovare una necessaria armonizzazione con le norme statali.
Nel caso di specie, si osserva che l'articolo 56, comma 8, del regolamento del consiglio comunale non risulta coerente con il disposto dell'art. 97, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, in quanto la verbalizzazione è attività propria del segretario comunale, il quale, oltre a riportare gli interventi dei singoli consiglieri e degli altri partecipanti alla seduta, può segnalare fatti e circostanze avvenuti che non emergano dalla registrazione vocale. Inoltre, la forma scritta fornisce certezza in ordine alla modalità della deliberazione maturata in sede di riunioni degli organi collegiali (parere 07.02.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ufficio personale di questo comune ha ricevuto una istanza di congedo parentale da parte di una dipendente che terminerà il periodo di maternità obbligatorio il prossimo 25 gennaio.
Secondo le disposizioni introdotte dalla legge di bilancio 2024, qual è il trattamento economico previsto?

Come richiamato nel quesito proposto, la legge di bilancio per il 2024 (L. 30.12.2023, n. 213) ha previsto ulteriori disposizioni agevolative per i genitori in tema di congedi parentali di cui all'art. 34, D.Lgs. 26.03.2001, n. 151.
La norma di cui trattasi (art. 1, comma 179, L. 30.12.2023, n. 213) recita infatti testualmente che:
   “All'articolo 34, comma 1, primo periodo, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26.03.2001, n. 151, le parole: «elevata, in alternativa tra i genitori, per la durata massima di un mese fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell'80 per cento della retribuzione» sono sostituite dalle seguenti: «elevata, in alternativa tra i genitori, per la durata massima complessiva di due mesi fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell'80 per cento della retribuzione nel limite massimo di un mese e alla misura del 60 per cento della retribuzione nel limite massimo di un ulteriore mese, elevata all'80 per cento per il solo anno 2024». L'articolo 34, comma 1, del testo unico di cui al decreto legislativo n. 151 del 2001, come modificato dal presente comma, si applica con riferimento ai lavoratori che terminano il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità, di cui rispettivamente al capo III e al capo IV del medesimo testo unico di cui al decreto legislativo n. 151 del 2001, successivamente al 31.12.2023.”
Secondo le nuove disposizioni, pertanto, è stato previsto che il congedo parentale di due mesi, previsto fino al compimento del sesto anno di età del figlio, venga retribuito:
   - per il primo mese all'80% (ma per gli enti locali tale trattamento è assorbito da quello più favorevole previsto dall'art. 45, comma 3, CCNL 16.11.2022 che prevede la retribuzione dei primi 30 giorni pari al 100% - si veda la Circ. 16.05.2023, n. 45 dell'INPS);
   - per il secondo mese al 60% (per il solo 2024, la retribuzione al 60% del secondo mese è elevata all'80%).
   - per i restanti periodi continua ad applicarsi la disciplina attualmente vigente con indennità pari al 30%
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
Circ. 16.05.2023, n. 45 dell'INPS - L. 30.12.2023, n. 213, art. 1, comma 179 (07.02.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALI: Questa amministrazione comunale ha verificato di aver commesso un errore materiale in merito alla corretta indicazione del fondo di cassa nell'approvazione del rendiconto 2022.
E' possibile procedere nelle prossime settimane ad una riapprovazione dello stesso?

Il tema della modificabilità o meno del rendiconto approvato deriva da una atavica diatriba sul concetto della intangibilità o immodificabilità del rendiconto codificata per il bilancio dello Stato (che approva il rendiconto con legge ordinaria) dall'art. 150, R.D. 23.05.1924 n. 827.
Per ciò che concerne gli enti locali (che naturalmente approvano il rendiconto con proprio atto -delibera Consiliare- e non con legge) l'intangibilità e l'immodificabilità del rendiconto sono state più volte confermate dalla magistratura contabile (ad esempio Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo per il Piemonte, Deliberazione n. 117/2018/PRSE) in quanto secondo i giudici "modificare il rendiconto con effetto retroattivo sulla gestione di competenza pregressa significherebbe vanificare la funzione di veridicità "storica" insita nel rendiconto stesso".
Ad aiutarci nella risposta al quesito dobbiamo però registrare il recente intervento della stessa magistratura contabile ed in particolare della Sez. regionale di controllo per il Veneto che con propria Deliberazione n. 1/2024 ha affrontato nuovamente con dovizia di particolari il tema della modificabilità o meno del rendiconto approvato.
All'esito dell'indagine della Corte, viene concluso che non si rinvengono nell'ordinamento elementi ostativi alla rettifica di specifici allegati del rendiconto, in presenza di meri errori materiali e che pertanto "L'Ente potrà dunque, mediante opportuna delibera dell'organo consiliare, procedere senza indugio alla rettifica dell'allegato previsto dall'art. 11, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 118/2011, concernente il risultato di amministrazione, trasmettendo tempestivamente il rendiconto aggiornato alla banca dati delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 13 della legge 31.12.2009, n. 196 e rappresentando l'esito di tali variazioni nel primo documento di bilancio utile".
Sulla scorta di quanto innanzi, riteniamo che l'errore sulla corretta indicazione del fondo di cassa non può che essere ricondotto alla categoria degli errori materiali e che pertanto l'Ente potrà procedere alla riapprovazione del rendiconto 2022 con successiva ritrasmissione dello stesso alla BDAP.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
R.D. 23.05.1924 n. 827, art. 150
Documenti allegati

Sezione regionale di controllo per il Veneto, Deliberazione n. 1/2024 - Sezione regionale di controllo per il Piemonte, Deliberazione n. 117/2018/PRSE
 (31.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

COMPETENZE GESTIONALI: Assegnazione di poteri gestionali ad organi politici.
Quesiti
Nei comuni sotto i 5.000 abitanti sussiste la possibilità di attribuire la Responsabilità dirigenziale ai politici. Tuttavia questa facoltà è riconosciuta solo se ricorrono dei presupposti. Come indicato da varie pronunce ANAC, l’ultima con Delibera ANAC 291 del 20.06.2023, i presupposti sono:
   1) Comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti,
   2) Indicazione sullo statuto comunale della possibilità di deroga al principio di distinzione delle funzioni tra organi tecnici,
   3) Attribuzione delle funzioni tecniche prioritariamente al Segretario Comunale,
   4) Dimostrazione che l’attribuzione all’organo politico comporta il contenimento della spesa, mediante delibera allegata al bilancio.
Premesso quanto sopra, si chiede se in mancanza dei predetti requisiti (ad eccezione di quello concernente il numero di abitanti) è possibile che le competenze dirigenziali vengano attribuite ad un politico, nonostante nell’ente vi sia in pianta organica un dipendente D4 e se sia possibile che tale competenza dirigenziale venga attribuita tramite un’“auto-attribuzione” sindacale.
Risposta
La normativa così come interpretata dall’ANAC e dalla giurisprudenza fissa i presupposti indicati nel quesito, ferma restando che "è necessario che le relative disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale (art. 42 TUEL) o della giunta (articolo 48, comma 3, TUEL, relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi)” (cfr. TAR Liguria sez. I, sentenza 31.03.2021 n. 284).
Anche il Ministero dell’Interno (parere del 18.12.2014) ha ritenuto che il carattere speciale della norma richieda necessariamente il rispetto delle condizioni poste dalla norma medesima per la sua legittima applicazione, essendo necessaria sia la sussistenza di un apposito atto di giunta o regolamentare che disciplini la fattispecie, sia la documentazione annuale del risparmio di spesa in sede di approvazione del bilancio.
In merito all’applicazione dell’istituto derogatorio oggetto della presente trattazione, invero, lo stesso Ministero dell’Interno (si veda, ad esempio parere sopra citato) ha evidenziato che, in base all’art. 15 del CCNL 22.01.2004, negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo l’ordinamento organizzativo dell’ente sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli articoli 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999.
Pertanto, alla luce delle citate disposizioni, è apparso evidente al Ministero che negli enti privi di qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa. Pur dovendosi ritenere tuttora applicabile l’articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 il ricorso a tale disposizione resta, comunque, limitato e subordinato alla non concessione della posizione organizzativa al personale in possesso della qualifica apicale dell’ente, al fine del conseguimento di un effettivo risparmio di spesa. Peraltro, secondo la Corte dei conti, sez. reg. di contr. per l’Emilia Romagna, deliberazione 14.09.2023 n. 124, non è neppure necessario dimostrare la assoluta carenza, all’interno dell’Ente, di professionalità adeguate, in quanto la norma non subordina tale possibilità a siffatta condizione, che invece è richiesta per il conferimento di incarichi ad esterni.
L’esercizio di eventuali poteri gestionali da parte del Sindaco (o degli assessori) non può basarsi né sulla prerogativa sindacale di potere sindacale di affidare con proprio decreto le funzioni e la responsabilità dei servizi prevista dall’articolo 50, comma 10, TUEL, ma richiede necessariamente che sia preceduto da una apposita deliberazione di Giunta avente valenza ed efficacia regolamentare.
Infatti, la previsione della precitata disposizione dell’articolo 50, comma 10, TUEL, per il suo stesso tenore e per il contesto in cui è contenuta, non regola il potere di cui all’articolo 53 della legge n. 388/2000, ma riguarda semplicemente il potere di nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi.
Stante la deroga ad un principio generale, allora, occorre che la modifica organizzativa interna all’ente –assegnando agli organi politici anche l’esercizio di poteri gestionali– sia espressa e inequivoca.
Di questi principi ha fatto applicazione, infatti, il TAR Liguria, sez. II, nella sentenza n. 83 del 03.02.2022, che ha accolto il ricorso di un cittadino avverso una ordinanza sindacale adottata ai sensi dell’articolo 27 del D.P.R. n. 380/2001, che attribuisce ai dirigenti la vigilanza in materia edilizia e urbanistica, che aveva ingiunto ex articolo 31 D.P.R. n. 380/2001di provvedere entro il termine di 90 giorni dalla data di notifica della presente ordinanza a ripristinare lo stato dei luoghi originario mediante rimozione di tutti i materiali abbancati in assenza di alcun titolo edilizio …”.
Il TAR Liguria, infatti, non avendo rilevato il rigoroso rispetto della preventiva regolazione derogatoria dell’assetto organizzativo interno da parte della giunta comunale ha ritenuto, in via derivata, l’illegittimità dell’ordinanza emessa dal Sindaco.
In particolare, nella citata sentenza i giudici hanno ritenuto illegittima, in quanto viziata da incompetenza, l’ordinanza sindacale impugnata che aveva disposto l’immediata rimozione di alcuni materiali abbancati, idonei a configurare la realizzazione di deposito di materiale, rientrante, ex art. 3, comma 1, lett. e.7), D.P.R. n. 380/2001 nella definizione di “interventi di nuova costruzione”, che necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ex articolo 10, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001.
Ciò in quanto, come detto, il Sindaco si era autonomamente attribuito il potere di natura gestionale ai sensi dell’articolo 107 del TUEL, senza una preventiva, necessaria, disposizione regolamentare o, quantomeno, di una apposita deliberazione di Giunta in tal senso
(23.01.2024 - tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Legittime le prove concorsuali svolte con carta e penna. Le nuove regole sulle modalità di accesso agli impeghi nella pubblica amministrazione introdotte dal Dpr 82/2023 non hanno carattere impositivo.
Le nuove regole sulle modalità di accesso agli impieghi nella pubblica amministrazione introdotte dal Dpr 82/2023, seppur finalizzate a promuovere l’utilizzo dello strumento informatico nelle prove scritte, non hanno carattere impositivo e, pertanto, gli enti possono in determinati contesti scegliere se svolgerle alla vecchia maniera ovvero con l’uso della classica carta e penna.
Nel preferire questa soluzione, le amministrazioni sono tenute a motivare la loro scelta (dimostrandone la coerenza con il fine di assicurare il migliore e più efficiente metodo di selezione) e ad indicare nei bandi di concorso tutte le prescrizioni volte ad assicurare l'imparzialità e l'efficienza della procedura.

È quanto viene affermato dal TAR Lazio-Roma, Sez II-bis, con la sentenza 13.02.2024 n. 2948, che vede protagonista un comune laziale.
La procedura concorsuale indetta da un ente locale è stata impugnata, da un candidato innanzi al giudice amministrativo, ritenuta illegittima in ragione dell'espletamento della prova scritta in modalità cartacea e non informatizzata.
La norma violata, per il ricorrere, è l'articolo 13, comma 2, del Dpr 487/1994, nella versione aggiornata dall'articolo 1, comma 1, lettera n), del Dpr 82/2023, laddove si stabilisce che «gli elaborati sono redatti in modalità digitale attraverso la strumentazione fornita per lo svolgimento delle prove».
Raffrontando la precedente versione testuale della norma e quella attuale, il Tar sottolinea come nel testo previgente (utilizzando l'avverbio «esclusivamente») era sancita l'obbligatorietà della redazione degli elaborati delle prove scritte mentre nella nuova formulazione tale obbligatorietà (venendo meno l'utilizzo di tale avverbio) non è più rinvenibile.
La disposizione in esame, se letta con il disposto contenuto all'articolo 1, comma 3, dello stesso (secondo la quale è essenziale garantire lo svolgimento del concorso pubblico in modo da assicurarne l'imparzialità e l'efficienza, rendendo possibile e non doveroso l'ausilio di sistemi informatici), porta a ritenere che, pur registrandosi una preferenza legislativa per promuovere l'utilizzo dello strumento informatico, le modalità di svolgimento delle selezioni pubbliche sono rimesse alla discrezionalità della pubblica amministrazione e devono rispondere a logiche di razionalità ed efficienza organizzativa.
Per il giudice amministrativo laziale, dunque, l'uso della tradizionale forma di redazione degli elaborati mediante supporto cartaceo non è illegittima, ma non gode più di quella presunzione di imparzialità e di efficacia che era immanente nella previsione regolamentare originale, con la conseguenza che l'amministrazione è tenuta a motivare opportunamente circa la preferenza delle prove in detta modalità, dimostrandone la coerenza con il fine di assicurare il migliore e più efficiente metodo di selezione nel caso concreto.
Allo stesso modo nel bando di concorso devono essere indicate le prescrizioni volte ad assicurare l'imparzialità e l'efficienza della procedura (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 16.02.2024).
---------------
SENTENZA
I profili di rito possono essere tralasciati perché il ricorso è infondato nel merito, come puntualmente argomentato dal Comune di Fiumicino nelle proprie memorie difensive.
La disposizione di cui all’art. 1, comma 1, lettera n), del DPR 16.06.2023, nr. 82, ha sostituito l’art. 13, comma 2, del DPR 487/1994, che nel testo previgente sanciva l’obbligatorietà della redazione degli elaborati delle prove di concorso (come reso palese dall’avverbio “esclusivamente”) “su carta portante il timbro dell’ufficio e la firma di un componente della commissione esaminatrice….”, con il testo che adesso prevede la redazione degli elaborati “in modalità digitale attraverso la strumentazione fornita per lo svolgimento delle prove”, specificandone le condizioni (tempo aggiuntivo per malfunzionamento, non modificabilità del documento salvato dal candidato, disabilitazione della connessione internet).
Sia l’esegesi testuale operata nel raffronto tra la precedente versione testuale della norma e quella attuale (che non include più l’avverbio “esclusivamente”), sia l’interpretazione sistematica in rapporto all’art. 1, comma 3, D.P.R. 487/1994 a norma del quale è essenziale garantire lo svolgimento del concorso pubblico in modo da assicurarne l’imparzialità e l’efficienza, rendendo possibile (e non doveroso) l’ausilio di sistemi informatici (“Il concorso pubblico si svolge con modalità che ne garantiscano l'imparzialità, l'efficienza, l'efficacia nel soddisfare i fabbisogni dell'amministrazione reclutante e la celerità di espletamento ricorrendo, ove necessario, all'ausilio di sistemi automatizzati diretti anche a realizzare forme di preselezione e a selezioni decentrate per circoscrizione territoriali”) inducono il Collegio a condividere la tesi del Comune di Fiumicino, secondo la quale pur registrandosi una preferenza legislativa per promuovere l’utilizzo dello strumento informatico, le modalità di svolgimento delle selezioni pubbliche sono rimesse alla discrezionalità della P.A. e devono rispondere a logiche di razionalità e efficienza organizzativa.
Ciò comporta due importanti conseguenze.
La prima è che, a mente dell’art. 13, comma 2, del DPR 487/1994, nel testo modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera n), del D.P.R. 16.06.2023, n. 82, l’uso della tradizionale forma di redazione degli elaborati mediante supporto cartaceo non è illegittima, ma non gode più di quella presunzione di imparzialità e di efficacia che era immanente nella previsione regolamentare originale, con la conseguenza che l’Amministrazione è tenuta a motivare opportunamente circa la preferenza delle prove in detta modalità, dimostrandone la coerenza con il fine di assicurare il migliore e più efficiente metodo di selezione nel caso concreto.
La seconda è che, rispetto all’uso nelle prove scritte di supporti informatici, la redazione degli elaborati su carta dovrà essere disciplinata specificatamente dall’Ente, non potendosi più contare sulle garanzie formali che erano precedentemente previste dall’art. 13, comma 2, del DPR 487/1984 (e dunque spetterà all’Ente indicare nel bando di concorso le prescrizioni volte ad assicurare in concreto l’anonimato dell’elaborato durante la sua correzione ai fini dell’assegnazione del punteggio, la sua effettiva riferibilità al candidato, che quest’ultimo lo abbia redatto durante le prove e così via).
Siccome nessuno dei due aspetti sin qui elencati è oggetto di censura e la doglianza formulata si fonda solo sulla ritenuta obbligatorietà della prova scritta in modalità informatica (principio che va escluso), il gravame è infondato nel primo motivo e come tale va respinto.

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica.
---------------

3. Il ricorso è inammissibile.
L'unico motivo -con il quale si censurano la violazione di legge ed il vizio della motivazione del provvedimento impugnato relativamente all'inosservanza degli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001- è inammissibile.
Diversamente da quanto prospettato dal ricorrente, il Tribunale, nel motivare il rigetto dell'istanza di sospensione o revoca dell'ordine di demolizione, non ha imperniato la propria decisione sul solo diniego tacitamente espresso dalla Pubblica Amministrazione competente sulla richiesta di permesso in sanatoria -pur molto significativo- ma ha valorizzato altri elementi, come le dichiarazioni della teste Ca., la quale ha riferito che la demolizione comunque non è stata effettuata e che a causa dei vincoli insistenti sulla zona ove l'immobile è costruito si tratta di una costruzione non sanabile.
Inoltre, lo stesso consulente di parte ha aderito a tali conclusioni sottolineando che la sopraelevazione oltre il terzo piano non è sanabile; circostanza ammessa e non contestata dallo stesso ricorrente, il quale afferma di avere proposto un'istanza di sanatoria condizionata alla demolizione di parte dell'edificio.
Ed è sufficiente ricordare che è illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica (ex plurimis, Sez. 3, 15.10.2020 n. 28666, Rv. 280281).
Nel caso di specie, dunque, non è ravvisabile alcuna ipotesi di violazione di legge, avendo operato il Tribunale nel rispetto dell'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, con adeguata e coerente motivazione in punto di fatto, a fronte di una prospettazione difensiva manifestamente infondata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.02.2024 n. 5486).

EDILIZIA PRIVATA: Aree vincolate, la presenza di altri edifici non basta a giustificare il condono. Con questa motivazione il Tar di Roma ha respinto il ricorso contro un’ordinanza di demolizione.
La presenza di altri edifici in un’area vincolata non è motivo sufficiente per consentire la sanatoria di un’opera realizzata abusivamente.
Con questa motivazione il TAR Lazio-Roma, Sez. IV-quater con la sentenza 07.02.2024 n. 2422, ha respinto il ricorso di una persona che aveva impugnato l’ordinanza di demolizione di Roma Capitale per la realizzazione di un“immobile posto al piano terra con destinazione abitazione”, per 73 metri quadrati e un cubatura fuori terra di 247,00 metri cubi.
La vicenda inizia nell'aprile del 2013 quando dal Comune viene inviato l'avviso di rigetto alla domanda di condono, «in quanto l'edificio ricadrebbe in area sottoposta a tutela dei beni paesaggistici e al quale seguiva (malgrado le osservazioni del ricorrente) il provvedimento di rigetto definitivo». Quindi il ricorso al Tar.
Tra i motivi «travisamento dei fatti, in quanto l'edificio ricadrebbe nell'ambito della c.d. zona 02 (recupero urbanistico) e nel perimetro del piano di recupero urbanistico Nucleo 19.12b Pian del Marmo che riguarda un vasto quartiere ormai edificato e urbanizzato». Poi altre argomentazioni che riguardano la classificazione dell'area.
Per il Collegio il ricorso è infondato.
«Sono da respingere i primi due motivi con i quali si sostiene l'insussistenza del vincolo paesaggistico, in quanto l'immobile ricadrebbe in un'area oramai urbanizzata -scrivono i giudici-, rientrando nel perimetro del piano di recupero urbanistico Nucleo 19.12b Pian del Marmo che riguarda un quartiere ormai edificato, che non avrebbe nulla delle caratteristiche delle aree vincolate». I giudici sottolineano il fatto che «l'istanza di condono riguarda un abuso che ha determinato la realizzazione di un'intera unità immobiliare, con aumento di superficie utile e volumetria e adibita a civile abitazione».
Per i giudici «è evidente che non rileva l'avvenuta urbanizzazione dell'area e, ciò, considerando che il vincolo paesaggistico è fondato com'è su una valutazione complessiva del paesaggio e dell'area circostante, che presuppone un giudizio di prevalenza dell'interesse pubblico che, in quanto tale, può essere superato solo da un successivo provvedimento di revoca o di rimozione del vincolo stesso che, al termine di una nuova istruttoria, determini il venir meno delle circostanze e dei presupposti originari».
I giudici ricordano che l'applicabilità del terzo condono in riferimento alle opere realizzate in zona vincolata limitata alle sole opere di restauro e risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Non solo: «Il fatto che si sia in presenza di una zona urbanizzata non fa venire meno l'esigenza di scongiurare la realizzazione di ulteriori interventi abusivi -sottolineano i giudici-, risultando evidente come il vincolo paesaggistico non sia suscettibile di venir meno solo perché in passato sia stato disatteso, imponendosi al contrario un maggiore rigore per il futuro per prevenire ulteriori danni all'ambiente e salvaguardare quel poco di integro che ancora residua».
Ricorso respinto (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
---------------
SENTENZA
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
1.1 Sono da respingere i primi due motivi con i quali si sostiene l’insussistenza del vincolo paesaggistico, in quanto l’immobile ricadrebbe in un’area oramai urbanizzata, rientrando nel perimetro del piano di recupero urbanistico Nucleo 19.12b "Pian del Marmo" che riguarda un quartiere ormai edificato, che non avrebbe nulla delle caratteristiche delle aree vincolate.
1.2 Contrariamente a quanto dedotto, va evidenziato come sia stato lo stesso ricorrente a confermare (nel secondo motivo) che la zona in cui è situato l’immobile del ricorrente è inclusa nel piano territoriale paesistico n. 15/b “Valle del Tevere”, circostanza ulteriormente ribadita dall’avvenuto deposito del certificato di destinazione urbanistica che conferma la sussistenza dei vincoli individuati dall’Amministrazione.
1.3 Si consideri, peraltro, che l’istanza di condono riguarda un abuso che ha determinato la realizzazione di un’intera unità immobiliare, con aumento di superficie utile e volumetria e adibita a civile abitazione.
1.4 E’ altrettanto evidente che non rileva l’avvenuta urbanizzazione dell’area e, ciò, considerando che il vincolo paesaggistico è fondato com’è su una valutazione complessiva del paesaggio e dell’area circostante, che presuppone un giudizio di prevalenza dell’interesse pubblico che, in quanto tale, può essere superato solo da un successivo provvedimento di revoca o di rimozione del vincolo stesso che, al termine di una nuova istruttoria, determini il venir meno delle circostanze e dei presupposti originari.
1.5 E’ noto, peraltro, che l’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 4 e l’art. 3, comma 1, lett. b), della L.Reg. n. 12/2004, prevede che per le aree soggette a vincolo siano sanabili esclusivamente le opere di restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria (tipologie nn. 4, 5 e 6 dell'allegato "1" alla legge 24.11.2003, n. 326), tipologie queste ultime che escludono gli incrementi volumetrici e di superficie.
1.6 Un costante orientamento giurisprudenziale ha evidenziato che “l'applicabilità del c.d. terzo condono in riferimento alle opere realizzate in zona vincolata ..(sia) limitata alle sole opere di restauro e risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici" e, ancora, che "ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), del decreto legge su menzionato come convertito sul terzo condono, ... (siano) sanabili le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
   a) si tratti di opere realizzate prima della imposizione del vincolo;
   b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
   c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
   d) che vi sia il previo parere dell'Autorità preposta al vincolo
" (Cons. St., Sez. VI, 18.05.2015 n. 2518; Cons. Stato, sez. VI, 16/08/2023, n. 7779 Cons. Stato, Sez. VI, 03.02.2023 n. 1182, 29.07.2022 n. 6684, 22.04.2022 n. 3088 e 17.03.2020 n. 1902).
1.7 Anche la successiva giurisprudenza di merito ha confermato che “in materia edilizia ed urbanistica, in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, non può essere ammessa a sanatoria un'opera abusivamente realizzata qualora comporti l'edificazione di nuove superfici abitabili e un conseguente aumento volumetrico, seppur minimo, non rilevando in tal senso l'entità del vincolo stesso (assoluto o relativo) (TAR Lazio Roma, Sez. II-bis, 23/01/2018, n. 828)”.
1.8 Il fatto che si sia in presenza di una zona urbanizzata non fa venire meno l’esigenza di scongiurare la realizzazione di ulteriori interventi abusivi, risultando evidente come il vincolo paesaggistico non sia suscettibile di venir meno solo perché in passato sia stato disatteso, imponendosi al contrario un maggiore rigore per il futuro per prevenire ulteriori danni all’ambiente e salvaguardare quel poco di integro che ancora residua (TAR Lazio sez. IV-ter, 01/02/2023 n. 18076).
1.9 Da respingere è anche la terza e ultima censura con la quale si sostiene che sarebbe illegittima una qualunque ulteriore sanzione demolitoria o pecuniaria e, ciò, considerando che il Comune non risulta aver adottato i provvedimenti di carattere repressivo e sanzionatorio, essendosi quindi in presenza di poteri amministrativi ancora inespressi.

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Sui motivi aggiunti in appello, sull’invalidità derivata e sull'avvalimento.
---------------
Giustizia amministrativa – Motivi aggiunti – Grado di appello – Inammissibilità – Impugnazione di atti nuovi sopravvenuti.
Possono essere proposti motivi aggiunti in grado d'appello, al solo fine di dedurre vizi ulteriori degli atti già censurati in primo grado, e non anche nella diversa ipotesi in cui con essi s'intenda impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di primo grado.
Sono inammissibili i motivi aggiunti proposti, allorché gli atti sopravvenuti non sono in grado di integrare un vizio del provvedimento di aggiudicazione, oggetto di impugnativa in prime cure, sub specie di illegittimità sopravvenuta, e non vi sia ragione per derogare al principio del doppio grado di giudizio. (1)

---------------
Atto amministrativo – Annullabilità – Impugnazione – Nullità – Effetto caducante – Rapporto di presupposizione tra atti.
Si distingue tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, atteso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato; mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi ricorre nel caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale a guisa di inevitabile conseguenza dell'atto anteriore.
Si realizza, pertanto, l'effetto caducante solo qualora il rapporto di presupposizione che avvince i due provvedimenti sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi. (2)

---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di servizi – Avvalimento – Avvalimento tecnico-operativo – Tratti caratterizzanti.
Nella fattispecie di avvalimento tecnico operativo, sussiste sempre l'esigenza della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche, indispensabili per l'esecuzione dell'appalto che l'ausiliaria ponga a disposizione del concorrente.
L'indagine in ordine agli elementi essenziali dell'avvalimento operativo deve essere svolta sulla base delle generali regole sull'ermeneutica contrattuale e in particolare secondo i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali.
Il contratto di avvalimento, pertanto, non deve quindi necessariamente spingersi sino alla rigida quantificazione dei mezzi d'opera, all'esatta indicazione delle qualifiche del personale messo a disposizione ovvero all’indicazione numerica dello stesso personale.
L'assetto negoziale deve consentire l'individuazione delle esatte funzioni che l'impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio all'impresa ausiliata, nonché i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione.
Quando si tratti di avvalimento tecnico-operativo, può essere previsto l’impiego non di un singolo elemento della produzione, bensì dell’azienda intesa come complesso produttivo unitariamente considerato o di un ramo di essa. Di questa l’ausiliaria non perde la detenzione, pur mettendola adisposizione, in tutto o in parte, per l’utilizzazione dell’ausiliata, secondo le previsioni del contratto di avvalimento, approvate dalla stazione appaltante. (3)

---------------
   (1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 04.05.2020, n. 2792; Cons. Stato, sez.VI, 02.01.2018, n. 21.
   (2) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; Cons. Stato, sez. IV, 06.12.2013, n. 5813, idem, 13.06.2013, n. 3272; idem, 24.05.2013, n. 2823; Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2012, n. 5986; idem, 05.09.2011, n. 4998; Cons. Stato, sez. V, 25.11.2010, n. 8243.
   (3) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 04.10.2021, n. 6619; Cons. Stato, sez. V, 21.07.2021, n. 5485; Cons. Stato, sez. V, 12.02.2020, n. 1120; Cons. Stato, sez. V, 20.07.2021, n. 5464; Cons. Stato, sez. III, 04.01.2021, n. 68; Ad. plen., 14.11.2016, n. 23; Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2017, n. 3682; Cons. Stato, sez. III, 30.06.2021, n. 4935; Cons. Stato, sez. V, 10.01.2022, n. 169; Cons. Stato, sez. V, 22.02.2021 n. 1
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2024 n. 1263 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
13. In limine litis vanno delibate le eccezioni di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti in appello sollevata da LaB. e dal Comune di Milano e quella di improcedibilità del presente giudizio formulate da LaB., principiando in ordine logico da quella di inammissibilità.
13.1. Ed invero secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato, nella sua più autorevole composizione (Ad. Plen. n. 4 del 2011 e di recente ribadito da Ad. Plen. n. 9 del 2014), la norma positiva enucleabile dal combinato disposto degli artt. 76, co. 4, c.p.a. e 276, co. 2, c.p.c., impone di risolvere le questioni processuali e di merito secondo l'ordine logico loro proprio, assumendo come prioritaria la definizione di quelle di rito rispetto a quelle di merito, e fra le prime la priorità dell'accertamento della ricorrenza dei presupposti processuali (nell'ordine, giurisdizione, competenza, capacità delle parti, ius postulandi, ricevibilità, contraddittorio, estinzione), rispetto alle condizioni dell'azione (tale fondamentale canone processuale è stato ribadito da Ad. Plen. n. 10 del 2011).
13.2. L’eccezione è fondata alla luce di quanto di seguito specificato.
13.2.1. E’ noto che ai sensi dell’art. 104, comma 3, c.p.a., nel giudizio di appello possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte ricorrente venga a conoscenza di nuovi documenti, dopo la conclusione del primo grado di giudizio, e da detti documenti emergano vizi degli atti già impugnati, senza che gli stessi siano stati prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 17.07.2023, n. 6933; Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 04.10.2022, n. 996).
Da tale disposto normativo è dato agevolmente inferire che la proposizione di motivi aggiunti è consentita nei limiti in cui essi siano proposti avverso i medesimi atti già impugnati in prime cure.
Questo Consiglio ha avuto modo a sua volta di osservare che "ai sensi dell'art. 104, co. 3, del d.lgs. n. 104 del 2010 le parti possono proporre motivi aggiunti in grado d'appello al solo fine di dedurre ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado, dovendo rilevarsi come non ci si trovi in tale evenienza nell'ipotesi in cui con essi si intenda impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di prime cure" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.05.2020, n. 2792; id., sez. VI, 02.01.2018, n. 21).
La norma de qua ha pertanto codificato il pregresso orientamento giurisprudenziale che ammette i motivi aggiunti in grado d'appello al solo fine di dedurre vizi ulteriori degli atti già censurati in primo grado, e non anche nella diversa ipotesi in cui con essi s'intenda impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di primo grado (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 02.01.2018, n. 21).
La norma, costituendo un'eccezione alla regola del divieto dei nova nel giudizio di secondo grado, non si presta ad una lettura estensiva, che peraltro finirebbe per sovvertirne la stessa formulazione posta dal legislatore in termini inequivocabilmente negativi. Inoltre l'impugnazione dei nuovi atti sopravvenuti per la prima volta e direttamente in sede di appello violerebbe il principio del doppio grado di giudizio (Cons. Stato, sez. IV, 16.06.2011 n. 3662).
...
14. Deve per contro essere disattesa l’eccezione di improcedibilità dell’odierno giudizio, avanzata da LaB., fondata sul rilievo che gli atti di presa d’atto dell’aggiudicazione in favore del soggetto incorporante, che si sostanzierebbero in una riaggiudicazione, non sarebbero stati oggetto di rituale impugnativa in prime cure, trattandosi di profilo sconfessato non solo da Sa. ma dallo stesso Comune di Milano.
14.1. Né si può ritenere, alla luce di quanto innanzi rappresentato, circa la riaggiudicazione (implicita) in favore di LaB., che l’interesse al ricorso debba intendersi completamente traslato avverso le note di presa d’atto e di comunicazione, oggetto di impugnativa innanzi al Tar Lombardia, posto che, ferma la necessità che sui vizi denunciati con il ricorso per motivi aggiunti in appello –afferenti i requisiti di partecipazione di ordine generale del soggetto incorporante- si pronunci il giudice di prime cure, l’eventuale illegittimità del provvedimento di aggiudicazione in favore di Eu., oggetto dell’odierno giudizio, non potrebbe che determinare comunque in via automatica la caducazione della riaggiudicazione in favore del soggetto incorporante LaB..
14.2. Può pertanto applicarsi alla fattispecie de qua la giurisprudenza in materia secondo la quale, pur in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale a guisa di inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Detto rapporto di presupposizione è invero ravvisabile tra l’atto presupposto –aggiudicazione in favore del soggetto incorporato Eu.– e l’atto consequenziale –riaggiudicazione a favore del soggetto incorporante LaB., nella parte in cui quest’ultimo presuppone l’esistenza e la validità del primo -non oggetto di successivo ed autonomo vaglio- ferma restando per contro la necessità di autonoma impugnativa della riaggiudicazione per i profili afferenti esclusivamente ai requisiti di partecipazione del soggetto incorporante LaB., nei termini suindicati, in quanto non suscettibili di retroagire sul primo atto, determinandone una sorta di illegittimità sopravvenuta.
14.3. Pertanto, applicando tali coordinate ermeneutiche nei termini suesposti, si ravvisa l’indicato vincolo di presupposizione, in grado di comportare, in ipotesi di annullamento del provvedimento oggetto del presente contenzioso, da qualificarsi quale atto presupposto, un effetto caducante automatico dell’atto consequenziale, ovvero dell’implicita riaggiudicazione in favore del soggetto incorporante LaB., per la parte avente ad oggetto la previa aggiudicazione in favore di Eu. (atto presupposto).
...
17.3. Il motivo è infondato, dovendosi il disciplinare di gara interpretare in senso conforme alla previsione dell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016 cui expressis verbis fa rinvio.
17.4. Non ignora il collegio che secondo orientamento ormai consolidato in giurisprudenza, a seconda che si tratti di avvalimento c.d. garanzia ovvero di avvalimento c.d. tecnico o operativo, diverso è il contenuto necessario del contratto concluso tra l'operatore economico concorrente e l'ausiliaria; in particolare, in caso di avvalimento c.d. tecnico operativo sussiste sempre l'esigenza della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche, e specificamente indicate nel contratto, indispensabili per l'esecuzione dell'appalto che l'ausiliaria ponga a disposizione del concorrente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.10.2021, n. 6619; V, 21.07.2021, n. 5485; V, 12.02.2020, n. 1120 e le sentenze ivi richiamate; le ragioni alla base del predetto orientamento giurisprudenziale sono in Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giuris., 19.07.2021, n. 722).
E' peraltro altrettanto noto il principio (ex multis, cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.07.2021, n. 5464; III, 04.01.2021, n. 68, ma fissato dall'Adunanza plenaria nella sentenza del 14.11.2016, n. 23) secondo cui l'indagine in ordine agli elementi essenziali dell'avvalimento c.d. operativo deve essere svolta sulla base delle generali regole sull'ermeneutica contrattuale e in particolare secondo i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali (artt. 1363 e 1367 cod. civ.).
17.5. Il contratto di avvalimento pertanto non deve quindi necessariamente spingersi, ad esempio, sino alla rigida quantificazione dei mezzi d'opera, all'esatta indicazione delle qualifiche del personale messo a disposizione ovvero alla indicazione numerica dello stesso personale. Tuttavia, l'assetto negoziale deve consentire quantomeno "l'individuazione delle esatte funzioni che l'impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio all'impresa ausiliata, e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione" (Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2017, n. 3682); deve cioè prevedere, da un lato, la messa a disposizione di personale qualificato, specificando se per la diretta esecuzione del servizio o per la formazione del personale dipendente dell'impresa ausiliata, dall'altro i criteri per la quantificazione delle risorse e/o dei mezzi forniti (cfr. Cons. Stato, sez. III, 30.06.2021, n. 4935 Cons. Stato Sez. V, Sent., 10.01.2022, n. 169).
17.5.1. Inoltre questa Sezione ha altresì affermato il principio ( Consiglio di Stato, sez. V. 22/02/2021 n. 1514) per cui “L’elemento caratterizzante [l’avvalimento] non è limitato a un mero “prestito” formale di personale e/o di macchinari e/o di beni strumentali necessariamente, sganciato dalla relativa organizzazione aziendale […] anche se il suo effetto –relativamente al rapporto di appalto- consiste nell’imputazione giuridica ed economica delle prestazioni che ne sono oggetto direttamente all’impresa concorrente, che, a tal fine, si avvale dell’ausiliaria” (Cons. Stato, V, 16.03.2018, n. 1698) e che pertanto nel caso di ricorso all’istituto dell’avvalimento, è ben possibile “che, nel singolo contratto, sia previsto, quando si tratti di c.d. avvalimento tecnico-operativo, l’impiego non di un singolo elemento della produzione, bensì dell’azienda intesa come complesso produttivo unitariamente considerato (o di un ramo di essa). Di questa l’ausiliaria non perde la detenzione, pur mettendola a disposizione, in tutto o in parte, per l’utilizzazione dell’ausiliata, secondo le previsioni del contratto di avvalimento, approvate dalla stazione appaltante” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2024 n. 1263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una scala in ferro per consentire l'accesso ad un terrazzo costituisce intervento per il quale non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tale opera, finalizzata a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile, non determina una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configura piuttosto come mera pertinenza, essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accede e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico.
Nel caso in esame la scala di cui è contestata la realizzazione è costituita da una struttura mobile, ossia priva di un collegamento strutturale con l’abitazione, inidonea a modificarne la sagoma e il prospetto, e, in ragione della sua conformazione, destinata ad essere agevolmente spostata, essendo ancorata ad una pedana dotata di ruote: le caratteristiche ora evidenziate inducono, pertanto a ritenere che non necessitasse di un permesso di costruire, come invece adombrato dall’amministrazione che ha emesso l’ingiunzione ai sensi dell’art. 31, d.P.R. 380/2001.

---------------

... per l'annullamento dell’ingiunzione di demolizione di una scala esterna - provvedimento del 09.08.2023, prot. n. 0508, del responsabile del settore IV “Urbanistica ed edilizia - Attività produttive” del Comune di Santa Marinella;
...
1. Con ordinanza prot. n. 508 del 09.08.2023, il Comune di Santa Marinella ingiungeva alle ricorrenti di effettuare la demolizione di opere realizzate abusivamente (“scala a chiocciola, in ferro zincato di colore bianco, di larghezza pari a mt. 1,40 ed altezza pari a mt. 3,50, ancorata con piastre in ferro e bulloni ad una pedana in ferro montata su ruote, che consente di accedere dal giardino al solaio di copertura del portico prospiciente l’ingresso dell’abitazione”) e di rimettere in pristino lo stato dei luoghi presso l’immobile ubicato al lungomare ... n. 9, distinto in catasto al foglio 22, p.lla 28, sub. 501.
2. Con ricorso notificato in data 24.10.2023 e depositato in data 02.11.2023, le ricorrenti esponevano:
   - che De Ma.Da. e le figlie Sa.Lu. e Sa.Gi. sono proprietarie della suddetta unità immobiliare, risalente agli anni ‘30, alla quale si accede dall’antistante giardino pertinenziale attraverso un portico a copertura piana;
   - che la copertura del portico ed il tetto a tegole sono raggiungibili, per qualunque esigenza, esclusivamente dal giardino;
   - che De Ma.Da. aveva posizionato nel giardino una scala a piattaforma mobile e di arredo, con struttura autoportante, realizzata con elementi di esigua dimensione (tubolari in ferro verniciato di diametro 8 cm con altezza variabile, 3 mt. nel punto più alto) dotata di ruote e fermi di sicurezza a vite che ne consentono, all’occorrenza, l’agevole spostamento all’interno dell’ampio giardino pertinenziale (di circa mq. 1.300).
Tanto premesso, impugnavano la suddetta ordinanza, sulla base dei seguenti motivi di diritto.
...
   2.2. “Violazione di legge (violazione e falsa applicazione artt. 3, 6, co. 1, lett. e-bis), 22, 31, 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001). Eccesso di potere per sviamento e travisamento dei fatti, difetto di istruttoria, illogicità e contraddittorietà degli atti, motivazione incongrua e contraddittoria, manifesta ingiustizia. Violazione del procedimento: artt. 10 e 11 della L. n. 241/1990”.
Evidenziava la parte ricorrente che la scala su piattaforma mobile in questione (diretta a soddisfare esigenze contingenti e temporanee, e destinata ad essere immediatamente spostata al cessare della necessità di accesso) non costituisce manufatto o intervento edilizio e, contrariamente a quanto assunto dall’amministrazione resistente mediante il richiamo all’art. 31 del D.P.R. 380/2001, non necessita del rilascio del permesso di costruire.
Denunciava comunque che la suddetta ingiunzione denotava una valutazione affrettata ed errata, ed era affetta da carenza di motivazione.
Allegava che l’ordine di demolizione non era stato preceduto dalla notifica di un accertamento motivato, tale da consentire un preventivo contraddittorio in sede amministrativa.
...
5. Ritiene il Collegio di poter esaminare anzitutto il secondo motivo di ricorso, in base all’orientamento secondo cui «Il principio della ragione più liquida consente di derogare all'ordine logico di esame delle questioni portate al vaglio dell'organo giurisdizionale e, qualora le questioni vagliate esauriscano la vicenda sottoposta al giudice amministrativo, aderendo al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato, gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati vengono ritenuti non rilevanti ai fini della decisione» (Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2023, n. 951).
6. Il motivo è fondato.
È condivisibile infatti l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui la realizzazione di una scala in ferro per consentire l'accesso ad un terrazzo costituisce intervento per il quale non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tale opera, finalizzata a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile, non determina una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configura piuttosto come mera pertinenza, essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accede e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico. (TAR Campania-Salerno, sez. I, 24/07/2013, n. 1680).
Nel caso in esame la scala di cui è contestata la realizzazione è costituita da una struttura mobile, ossia priva di un collegamento strutturale con l’abitazione, inidonea a modificarne la sagoma e il prospetto, e, in ragione della sua conformazione, destinata ad essere agevolmente spostata, essendo ancorata ad una pedana dotata di ruote (cfr. fotografie depositate in atti): le caratteristiche ora evidenziate inducono, pertanto a ritenere che non necessitasse di un permesso di costruire, come invece adombrato dall’amministrazione che ha emesso l’ingiunzione ai sensi dell’art. 31, d.P.R. 380/2001 (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 06.02.2024 n. 2261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Parere di regolarità tecnica espresso dal responsabile del servizio ex art. 49 TUEL – Natura – Parere non vincolante – Collocazione endoprocedimentale – Impugnazione – Inammissibilità.
Va dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto avverso il parere formulato dal responsabile del competente servizio comunale.
Tale parere risulta acquisito ai sensi dell’art. 49 del DLgs 18.08.2000, n. 267, a mente del quale: “1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. [omissis] 4. Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione”.
Oltre a rammentare che per consolidata giurisprudenza questi pareri rilevano solo sul piano interno (tant’è che la loro assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in un vizio di legittimità), è dirimente rimarcare la natura non vincolante del parere tecnico, dal quale (come la norma precisa) la Giunta e il Consiglio possono discostarsi, sia pure fornendo idonea motivazione.
Trattasi, quindi, di un parere che, per la sua collocazione endoprocedimentale e per l'assenza di efficacia esterna, è inidoneo a concretizzare quella lesione della situazione giuridica soggettiva facente capo alla ricorrente necessaria per la nascita dell'interesse a ricorrere.
---------------

... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia, (per quanto riguarda il ricorso introduttivo):
   1) della nota prot. n. 3442 del 15/03/2019 del Dirigente del Servizio Urbanistica del Comune di Cardito, con la quale, con riferimento alla pratica edilizia 623/2017 del 05.05.2017 relativa ad approvazione di PUA presentata dalla ricorrente, si esprime diniego definitivo;
...
1 - Il ricorso introduttivo ha ad oggetto la legittimità del parere contrario espresso dal Dirigente del servizio urbanistica del Comune di Cardito in merito all’adozione e approvazione da parte della Giunta Comunale del PUA ad iniziativa privata presentato dalla società ricorrente (di seguito, “Vi.”) con istanza n. prot. 5931/2017, con riferimento alla realizzazione di edificazione residenziale su lotto di sua proprietà in ct. al fg. 2, p.lle nn. 897 e 899 (zona C2, lato ovest).
La proposta di piano segue una precedente proposta presentata dalla ricorrente nel 2011 e respinta dall’Amministrazione con d.G.C. n. 164/2012, la quale ha resistito all’impugnativa esperita dalla Vi. (cfr. sent. n. 967/2016 in atti).
...
6 - In limine litis, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso introduttivo proposto avverso il parere formulato dal responsabile del competente servizio comunale.
Tale parere risulta acquisito ai sensi dell’art. 49 del Decreto Legislativo 18.08.2000, n. 267, a mente del quale: “1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. [omissis] 4. Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione”.
Oltre a rammentare che per consolidata giurisprudenza questi pareri rilevano solo sul piano interno (tant’è che la loro assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in un vizio di legittimità - cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.06.2013 n. 3236 che richiama quali precedenti conformi Cons. St., sez. IV, 26.01.2012, n. 351; sez IV, 22.06.2006, n. 3888; n. 1567 del 2001; 23.04.1998, n. 670), è dirimente rimarcare la natura non vincolante del parere tecnico, dal quale (come la norma precisa) la Giunta e il Consiglio possono discostarsi, sia pure fornendo idonea motivazione.
Trattasi, quindi, di un parere che, per la sua collocazione endoprocedimentale e per l'assenza di efficacia esterna, è inidoneo a concretizzare quella lesione della situazione giuridica soggettiva facente capo alla ricorrente necessaria per la nascita dell'interesse a ricorrere (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2024 n. 919 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Accesso civico, illegittimo il «no» all’istanza sull’esecuzione di un’opera pubblica. Consentito a chiunque di conoscere atti e decisioni della Pa anche ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria.
Fatti salvi i limiti (di stretta interpretazione) sanciti dall’articolo 5-bis del Dlgs 39/2013, l’accesso civico generalizzato consente a chiunque di conoscere atti e decisioni della Pa anche ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria per consentire la partecipazione al dibattito pubblico e il controllo democratico dell’attività amministrativa, senza necessità di verificare la legittimazione del soggetto richiedente.
Di conseguenza, nel caso di un'istanza riguardante l'accesso alle fasi di un procedimento di esecuzione di un'opera pubblica, il Comune non può evocare l'ipotesi di abuso del diritto all'accesso civico generalizzato e opporre un diniego all'istanza per il fatto di ritenerla strumentale, pretestuosa e d'intralcio al buon funzionamento degli uffici dell'ente.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 02.02.2024 n. 1117.
Il fatto
Nel caso in esame alcuni cittadini si erano rivolti a un Comune campano per acquisire una fitta mole di documentazione relativa alla progettazione ed esecuzione di un intervento di riqualificazione di un edificio storico, parzialmente finanziato dal ministero dell'Interno.
I cittadini si dolevano di una presunta e improvvisa trasformazione delle modalità dell'intervento (da miglioramento sismico e messa in sicurezza a integrale demolizione e successiva ricostruzione del plesso), per cui formulavano istanza all'ente locale per ottenere l'estrazione di copia di tutti i documenti relativi all'intervento in questione, e in particolare:
   - i pareri allegati al progetto definitivo ed esecutivo;
   - la corrispondenza intercorsa tra il Comune beneficiario del finanziamento e il ministero che lo erogava;
   - le attestazioni e/o dichiarazioni rese dal sindaco o dal Rup in merito all'ottenimento del finanziamento;
   - l'accordo/convenzione/contratto stipulato tra il Comune e l'ente finanziatore.
A fronte di una siffatta istanza il Comune opponeva un reiterato diniego evocando la figura giuridica dell'abuso del diritto all'accesso civico generalizzato in quanto il gruppo di cittadini, ad avviso dell'amministrazione, fondava le proprie richieste esclusivamente su mere e indimostrate illazioni circa la possibile perdita del finanziamento ministeriale.
L'ente aggiungeva poi che l'ampia e ingiustificata ostensione documentale sarebbe stata causa di intralcio al buon funzionamento della Pa. Al che gli interessati impugnavano il diniego dell'ente e il Tar Campania (Sezione II, decisione n. 1618/2023) accoglieva il ricorso censurando in toto l'operato comunale.
La carenza di motivazione
I giudici hanno osservato che la motivazione addotta dall'ente nel provvedimento di diniego non ha indicato le ragioni ostative all'accesso generalizzato, tenuto conto del fatto che, in relazione all'articolo 5-bis «il legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva individuazione di esclusioni all'accesso generalizzato, ma rinvia ad una attività valutativa che deve essere effettuata dalle amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di altrettanti validi interessi presi in considerazione dall'ordinamento» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
---------------
SENTENZA
L’appello non è fondato.
Con un primo mezzo di gravame il comune appellante deduce: “error in judicando - violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. l. 07.08.1990 n. 241 e s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e s.m.i. - difetto e, comunque, erroneita’ della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, il giudice di primo grado avrebbe errato nel disattendere l’eccezione di inammissibilità, formulata dal comune in primo grado e fondata sul rilevo della mancata impugnazione, nei termini di legge, dell’unico e solo provvedimento di diniego espresso, emesso dal Responsabile dell’U.T.C. con nota prot. del 24.11.2022, atteso che la successiva nota del Responsabile dell’U.T.C. prot. n. 786 del 14.02.2023 costituirebbe, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, un atto meramente confermativo del precedente diniego prot. n. 6138 del 24.11.2022.
La premessa, da cui muove il comune appellante, è quella secondo cui la mera reiterazione di una richiesta di accesso agli atti, già oggetto di un provvedimento di rifiuto, che non sia basata su elementi nuovi rispetto alla richiesta originaria o su una diversa prospettazione dell’interesse a base della posizione legittimante l’accesso, non vincola l’amministrazione ad un riesame della stessa e rende legittimo e non autonomamente impugnabile il provvedimento meramente confermativo del precedente rigetto.
Dall’accoglimento di tale premessa la parte appellante fa pertanto discendere l’inammissibilità del ricorso di primo grado, essendo stato lo stesso esperito a fronte di un atto meramente confermativo del primo diniego, non impugnato.
L’assunto della parte appellante, pur essendo astrattamente condivisibile, in quanto conforme alla constante giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. St., Sez. IV, 13.01.2020 n. 279 e, nello stesso senso, Cons. St., Sez. IV, 22.09.2020 n. 5549), non può trovare applicazione alla fattispecie oggetto del presente giudizio, in relazione alla quale, contrariamente a quanto ritenuto nel primo motivo di appello, non viene in rilievo una mera reiterazione della prima richiesta di accesso documentale, in assenza di nuovi elementi, ma una nuova richiesta di accesso basata sul diverso istituto dell’accesso civico generalizzato.
L’accesso civico generalizzato, come noto, costituisce un diritto fondamentale che contribuisce al miglior soddisfacimento degli altri diritti fondamentali che l’ordinamento giuridico riconosce alla persona.
La natura fondamentale del diritto di accesso generalizzato rinviene, infatti, fondamento, oltre che nella Carta costituzionale (artt. 1, 2, 97 e 117) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 42), anche nell’art. 10 della CEDU, in quanto la libertà di espressione include la libertà di ricevere informazioni e le eventuali limitazioni, per tutelare altri interessi pubblici e privati in conflitto, sono solo quelle previste dal legislatore, risultando la disciplina delle eccezioni coperta da riserva di legge.
L’accesso civico generalizzato si traduce nel diritto della persona a ricercare informazioni, quale diritto che consente la partecipazione al dibattito pubblico e di conoscere i dati e le decisioni delle amministrazioni al fine di rendere possibile quel controllo “democratico” che l’istituto intendere perseguire.
La conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, infatti, la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione (accountability) della classe politica e dirigente del Paese.
Ai fini dell’accesso civico generalizzato, inoltre, non occorre verificare, così come per l’accesso documentale, la legittimazione dell’accedente, né è necessario che la richiesta di accesso sia supportata da idonea motivazione.
L’accesso civico “generalizzato”, infatti, consente, contrariamente a quello documentale, a “chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria (articolo 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
Per effetto dell’adesione dell’ordinamento al modello di conoscibilità generalizzata delle informazioni amministrative proprio dei cosiddetti sistemi FOIA (Freedom of information act), l’interesse conoscitivo del richiedente è elevato al rango di un diritto fondamentale (cosiddetto “right to know”), non altrimenti limitabile se non in ragione di contrastanti esigenze di riservatezza espressamente individuate dalla legge, mentre l’accesso documentale (e ancor di più quello difensivo) risponde al paradigma del “need to know”, con tutto ciò che ne consegue in punto di
Dalle considerazioni che precedono emerge la netta distinzione, sul piano strutturale e funzionale, tra l’istituto dell’accesso documentale e quello civico generalizzato, da cui ulteriormente discende la legittima facoltà di azionare il secondo anche quando non sussistono ( o non sussistono più) i presupposti per esercitare il primo.
Con un secondo mezzo di gravame il comune appellante deduce: “error in judicando - violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. l. 07.08.1990 n. 241 e s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e s.m.i. - difetto e, comunque, erroneità della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, la sentenza di primo grado sarebbe erronea per avere il giudice di primo grado apoditticamente ritenuto “sussistenti” tutti i presupposti per l’accoglimento dell’istanza di accesso ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 33/2013.
Ciò, in quanto l’istanza di accesso del 02.02.2023 e, ancor di più, la successiva domanda giurisdizionale, lungi dal raggiungere un benché minimo grado di concretezza, sarebbero fondate soltanto su mere e indimostrate “illazioni” circa la possibile perdita del finanziamento e come tali si rileverebbero del tutto pretestuose.
Inoltre, tali richieste di accesso sarebbero state formulate in modo del tutto disfunzionale rispetto alla finalità che si propongono di realizzare, trasformandosi, in ragione dell’ampia e ingiustificata ostensione documentale, in una causa di intralcio al buon funzionamento della P.A., tale da compromettere lo svolgimento degli ordinari compiti di ufficio che già spettano al funzionario comunale
Il motivo non è fondato.
Per individuare l’ambito di estensione e gli eventuali limiti dell’accesso civico generalizzato si possono richiamare i principi espressi nel parere della sez. I del Consiglio di Stato 30.03.2021, n. 545.
È stato in precedenza ricordato che
l’accesso civico “generalizzato” consente a “chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria (art. 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
L’accesso civico generalizzato è azionabile da chiunque, senza previa dimostrazione di un interesse, concreto e attuale in relazione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal senso
(tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 04.01.2021, n. 60; sez. VI, 05.10.2020, n. 5861).
E’ stato precisato (Cons. Stato, sez. VI, 05.10.2020, n. 5861) che
con l’accesso civico generalizzato il legislatore ha inteso superare il divieto di controllo generalizzato sull’attività delle pubbliche amministrazioni, su cui è incentrata la disciplina dell’accesso di cui agli artt. 23 e ss., l. 07.08.1990, n. 241, così che l’interesse individuale alla conoscenza è protetto in sé, ferme restando le eventuali contrarie ragioni di interesse pubblico o privato di cui alle eccezioni espressamente stabilite dalla legge a presidio di determinati interessi ritenuti di particolare rilevanza per l’ordinamento giuridico.
E’ stato altresì puntualizzato che
il rapporto tra le due discipline (dell’accesso documentale e dell’accesso civico generalizzato, oltre il rapporto tra tali due discipline generali e quelle settoriali) deve essere interpretato non già secondo un criterio di esclusione reciproca, quanto piuttosto di inclusione/completamento, finalizzato all’integrazione dei diversi regimi in modo che sia assicurata e garantita, pur nella diversità dei singoli regimi, la tutela preferenziale dell’interesse coinvolto che rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia delle singole discipline (cfr. Adunanza Plenaria 10/2020).
La regola della generale accessibilità è peraltro temperata dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati che possono subire un pregiudizio dalla diffusione generalizzata di talune informazioni.
Tali eccezioni, previste dall'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, sono state classificate in assolute e in relative e al loro ricorrere le Amministrazioni devono (nel primo caso) o possono (nel secondo) rifiutare l'accesso.
Le eccezioni assolute al diritto di accesso generalizzato sono quelle individuate all'art. 5-bis, comma 3
(segreto di Stato e altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990), mentre quelle relative sono previste ai commi 1 e 2 del medesimo articolo (la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico; la sicurezza nazionale; la difesa e le questioni militari; le relazioni internazionali; la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; il regolare svolgimento di attività ispettive; la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; la libertà e la segretezza della corrispondenza; gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali).
Nel caso delle eccezioni relative, nelle Linee guida Anac, adottate con deliberazione n. 1309 del 28.12.2016 (recanti le indicazioni operative e le esclusioni e i limiti all'accesso civico generalizzato), è stato chiarito che il legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva individuazione di esclusioni all'accesso generalizzato, ma rinvia ad una attività valutativa che deve essere effettuata dalle Amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di altrettanti validi interessi presi in considerazione dall'ordinamento.
L'Amministrazione deve pertanto verificare, una volta accertata l'assenza di eccezioni assolute, se l'ostensione degli atti possa comunque determinare un pericolo di concreto pregiudizio agli interessi indicati dal Legislatore.
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, il Collegio rileva che dalla analisi della motivazione del provvedimento di diniego si ricava l’assenza di qualsivoglia riferimento ad una delle suindicate ragioni che precludono i diritti all’accesso generalizzato.
Più in radice, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, in riferimento all’istanza presentata ai sensi dell’accesso civico generalizzato, di fatto, il comune non si è proprio pronunciato. Il che appare già sufficiente per la conferma della sentenza impugnata.
Peraltro, nemmeno può essere condiviso l’assunto che, nel caso in esame, si verserebbe nell’ipotesi di abuso del diritto all’accesso civico generalizzato.
Come noto,
l’abuso del diritto, secondo la definizione più accreditata anche in dottrina, consiste nella deviazione dell'esercizio del diritto rispetto allo "scopo" per il quale il diritto stesso è stato riconosciuto.
Orbene, dalla natura degli atti richiesti al Comune di Cotrone (relativi al procedimento di riqualificazione di un edificio storico) emerge, contrariamente a quanto ritenuto dal comune appellante, non solo la ragionevole esigenza conoscitiva dei ricorrenti in primo grado, ma, venendo in rilievo l’utilizzo di risorse pubbliche, anche la conformità della richiesta documentale alle finalità cui è preordinata la previsione dello strumento dell’accesso civico generalizzato, che, come anticipato, mira, a favorire forme di diffuse di controllo sull’ esercizio dei pubblici poteri.
Il riferimento, infine, alla possibile paralisi dell’ufficio tecnico comunale a fronte della massiva richiesta di accesso, costituisce, ad avviso del Collegio, una inammissibile integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento di diniego dell’accesso.
Il maggioritario e condivisibile indirizzo interpretativo del Consiglio di Stato assume, infatti, l’inammissibilità della motivazione postuma (specie quando, come nel caso in esame, avviene per il tramite degli scritti difensivi), ritenendola in contrasto anche con le regole del giusto procedimento amministrativo.
Tale condivisibile orientamento trae ulteriore argomento dalla condivisibile considerazione per cui «il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti» (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione terza, 07.04.2014, n. 1629; sezione sesta, 22.09.2014, n. 4770; sezione terza, 30.04.2014, n. 2247; sezione quinta, 27.03.2013, n. 1808).
L’indirizzo giurisprudenziale in esame ha ricevuto, inoltre, l’autorevole avallo della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato, con l’ordinanza 26.05.2015, n. 92, la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 21-octies, comma 2, della n. 241 de 1990, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, da una sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti, motivando, tra l’altro, che la rimettente si era sottratta al doveroso tentativo di sperimentare l’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, chiedendo un improprio avallo a una determinata interpretazione della norma censurata.
Dalle considerazioni che precedono discende il respingimento dell’appello con conseguente conferma della sentenza impugnata.

ATTI AMMINISTRATIVI: Obbligo per la Pa di adottare il provvedimento espresso anche quando gode di ampia discrezionalità. Non può si può applicare la preclusione prevista per gli atti amministrativi generali.
L’amministrazione può essere condannata all’adozione di un provvedimento espresso anche laddove il potere sia connotato da ampia discrezionalità.

Lo afferma la III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 01.02.2024 n. 1061.
Il caso
A seguito della carenza di organico presso un ufficio del giudice di pace, alcuni enti e avvocati hanno rivolto istanza al ministero della giustizia affinché coprisse i posti in pianta organica e avviasse la procedura di rideterminazione della stessa.
Non avendo il ministero fornito risposta, hanno impugnato il silenzio-inadempimento, che il Tar Toscana ha dichiarato inammissibile perché si tratta di attività ampiamente discrezionale in quanto diretta a verificare l'adeguatezza delle risorse assegnate.
Il Consiglio di Stato, a cui è passata la vertenza, ricorda in premessa il costante orientamento giurisprudenziale, che costituisce principio generale, secondo cui è obbligo della Pa adottare un provvedimento espresso sull'istanza del soggetto interessato anche se si ritiene che la domanda sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo la Pa rimanere inerte.
La discrezionalità
L'applicazione al caso di specie di tali coordinate ermeneutiche induce i giudici di Palazzo Spada a dichiarare fondato l'appello. Non può infatti essere applicata la preclusione prevista per gli atti amministrativi generali, che non deve essere intesa in senso assoluto, acritico e generalizzato, posto che la sua ratio risiede nella impossibilità di individuare specifici destinatari in capo ai quali possa radicarsi una posizione giuridica qualificata e differenziata di interesse legittimo.
Non è questo il caso proposto dall'appello, riferito a specifiche interruzioni dei servizi giudiziari che avevano precluso l'efficace esercizio della professione forense.
D'altro canto, l'articolo 2 del Dlgs 165/2001 impone alle Pa di determinare le dotazioni organiche inspirando la loro organizzazione al criterio di funzionalità rispetto ai compiti e ai programmi di attività; l'articolo 6 inoltre dispone che in sede di definizione del piano dei fabbisogni di personale l'amministrazione indichi la consistenza della dotazione organica e la sua eventuale rimodulazione in base ai fabbisogni programmati.
È del tutto evidente, dunque, che sull'istanza l'amministrazione avrebbe dovuto pronunciarsi con un provvedimento espresso, ancorché connotato da ampio margine di discrezionalità.
Ma in virtù di tale margine, il giudice non può spingersi a verificare l'adeguatezza delle risorse assegnate agli uffici amministrativi, può solo ordinare al ministero di dare pieno riscontro all'istanza originaria. Ed è quello che fa nell'accogliere l'appello: accerta il silenzio-inadempimento del ministero e lo condanna a provvedere sull'istanza nel termine di trenta giorni (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024).
---------------
SENTENZA
1. A seguito di una situazione di carenza di organico presso l’ufficio del giudice di pace di Prato, che ha condotto ad una sensibile riduzione dei servizi (sospensione del servizi di iscrizione a ruolo dei decreti per ingiunzione di pagamento), gli enti e i singoli avvocati indicati in epigrafe hanno rivolto istanza al Ministero della Giustizia affinché coprisse i posti in pianta organica ed avviasse la procedura di rideterminazione della stessa.
Non avendo il Ministero fornito risposta, hanno impugnato davanti al TAR della Toscana il silenzio-inadempimento.
Il TAR della Toscana, con la sentenza gravata nel presente giudizio, ha dichiarato “
inammissibile l’azione proposta”, sia perché trattasi di attività “ampiamente discrezionale” (la prima), sia perché, ove si volesse intendere l’istanza come rivolta “all’emanazione dei cd. atti di gestione del rapporto di lavoro pubblico”, si profilerebbe un difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
I ricorrenti hanno impugnato la sentenza con ricorso in appello.
...
2. Il gravame censura la sentenza di primo grado anzitutto per travisamento dell’atto di diffida, in punto di qualificazione data alla pretesa dal primo giudice, il che ha reso la pronuncia “incomprensibile ed illogica”.
Il TAR avrebbe quindi male inteso ed applicato il precedente in termini costituito dalla sentenza del TAR Abruzzo n. 46 del 2023, non impugnata dall’amministrazione e passata in autorità di cosa giudicata, che ha accolto analogo ricorso.
3. Per quanto riguarda l’istanza volta alla copertura dei posti in pianta organica, il TAR, richiamando la citata sentenza n. 46 del 2023 del TAR dell’Abruzzo, ha affermato che “il precedente giurisprudenziale sopra richiamato ha, infatti, concluso per la natura ampiamente discrezionale della verifica in ordine all’adeguatezza delle risorse amministrative assegnate all’Organo giudiziario e la conseguenziale impossibilità di ordinare al Ministero la copertura degli organici: “poiché la verifica dell’adeguatezza delle risorse assegnate agli uffici amministrativi costituisce esercizio di attività ampiamente discrezionale e avviene con cadenza periodica, il collegio non può ordinare, come richiesto dal ricorrente, al Ministero di provvedere alla copertura della dotazione organica cristallizzata nel d.m. 05.11.2009” (TAR Abruzzo L’Aquila, 21.03.2023, n. 46).
Con tutta evidenza, siamo pertanto nel solco della giurisprudenza citata nella memoria dell’Amministrazione resistente e che ha escluso il possibile ricorso al processo speciale in materia di silenzio della p.a. con riferimento a provvedimenti generali o pianificatori caratterizzati dalla natura ampiamente discrezionale (Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2017, n. 6096; sez. V, 09.03.2015, n. 1182; sez. IV, 05.03.2013, n. 1349) e dalla mancanza di un conseguenziale obbligo di provvedere giudizialmente coercibile
”.
Nello stesso ordine di idee l’amministrazione appellata in memoria ha affermato che la domanda di copertura della pianta organica “è atto complesso ad alto contenuto discrezionale, implicante non soltanto atti di gestione, come assunto nell’appello”; analogamente, “il silenzio sulla domanda di modifica della pianta organica —domanda che emerge dagli atti, anche se praticamente abbandonata nel corso del giudizio introduttivo e non coltivata nell’appello— non è azionabile in ragione della natura giuridica degli atti di rideterminazione delle piante organiche”.
4. Va in proposito osservato che -contrariamente ai più risalenti arresti, soprattutto di primo grado, richiamati in senso opposto dalla motivazione della sentenza gravata- per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da ultimo sentenze n. 4415/2023, n. 5206/2023 e n. 7912/2023) “il rito previsto dagli artt. 31 e 117 c.p.a. rappresenta infatti sul piano processuale lo strumento rimediale per la violazione della regola dell'obbligo di agire in via provvedimentale sancita dall'art. 2, L. n. 241 del 1990”.
La violazione della citata disposizione che, sul piano sostanziale, ha sancito l’obbligo per l’amministrazione di agire in via provvedimentale, costituisce pertanto il presupposto del rimedio processuale in questione.
L’obbligo per la pubblica amministrazione di agire in via provvedimentale, discendente dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, ha ad oggetto anche l’attività discrezionale (ad eccezione delle categorie di provvedimenti che solitamente la giurisprudenza esclude non già in quanto discrezionali, ma perché sottratti per altre caratteristiche strutturali o funzionali all’obbligo di provvedere: sul punto si tornerà al successivo punto 5.).
5. La sentenza di questa Sezione n. 7548/2022 ha in proposito precisato che “
Per costante orientamento giurisprudenziale, costituisce principio generale, riconducibile ai canoni di trasparenza e buona amministrazione ex art. 97 Cost. ed alla disposizione normativa di cui all'art. 2, comma 3 della L. n. 241 del 1990, quello secondo cui è obbligo della Pubblica Amministrazione adottare un provvedimento espresso sull'istanza del soggetto interessato (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, 14.12.2004, n. 7955).
Ciò anche al fine di assicurare la trasparenza dell'azione e dei comportamenti dell'Amministrazione e favorire lo svolgimento imparziale del procedimento (cfr. Cons. Giust. Amm. Sicilia, 08.11.2005, n. 747).
L'obbligo dell'amministrazione pubblica di provvedere sulle istanze del privato con un provvedimento formale corrisponde ad un principio di civiltà giuridica, codificato dalla legge generale sul provvedimento amministrativo 07.08.1990, n. 241 art. 2, che trasmette un forte segnale in ordine alla doverosità dell'espresso agire della pubblica amministrazione, collegato al necessario raggiungimento della definizione, in senso positivo o negativo, di quella quota di interesse sostanziale concretamente messo in moto dall'atto di impulso del privato ed in esso soggettivizzata (cfr. TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, 04.10.2010, n. 32659).
In presenza di una formale istanza l'Amministrazione è tenuta a concludere il procedimento, e ciò anche se ritiene che la domanda sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo rimanere inerte. Il legislatore, infatti, ha imposto al soggetto pubblico di rispondere alle istanze private, sancendo l'esistenza di un dovere che rileva ex se quale diretta attuazione dei principi di correttezza, buon andamento e trasparenza, consentendo altresì alle parti, attraverso l'emanazione di un provvedimento espresso, di tutelare in giudizio i propri interessi a fronte di provvedimenti ritenuti illegittimi (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 23.02.2022, n. 1283; Cons. Stato, Sez. III, 13.07.2021, n. 5284; Cons. Stato. Sez. III, 19.04.2018, n. 2370; Cons. Stato, Sez. III, 18.05.2020, n. 3118)
”.
In senso analogo si è espressa la sentenza della VI sezione di questo Consiglio di Stato, n. 2420/2022: “
Ogniqualvolta la realizzazione della pretesa sostanziale vantata dal privato dipenda dall'intermediazione del pubblico potere, l'Amministrazione, in particolare, è tenuta ad assumere una decisione espressa, anche qualora si faccia questione di procedimenti ad istanza di parte e l'organo procedente ravvisi ragioni ostative alla valutazione, nel merito, della relativa domanda: l'attuale formulazione dell'art. 2, comma 1, L. n. 241 del 1990, pure in caso di "manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità … della domanda", impone l'adozione di un provvedimento espresso, consentendosi in tali ipotesi soltanto una sua redazione in forma semplificata, ma non giustificandosi una condotta meramente inerte.
Il silenzio-inadempimento non può, invece, configurarsi in presenza di posizioni giuridiche di diritto soggettivo, aventi ad oggetto un'utilità giuridico economica attribuita direttamente dal dato positivo, non necessitante dell'intermediazione amministrativa per la sua acquisizione al patrimonio giuridico individuale della parte ricorrente
”.
6. L’applicazione alla fattispecie dedotta di tali coordinate ermeneutiche depone nel senso della fondatezza del gravame.

APPALTI: Gare telematiche e malfunzionamenti delle piattaforme: le indicazioni del Tar.
È tutto da verificare l’impatto positivo sul contenzioso delle competizioni digitali: resta la ancora la prassi che trasforma ogni gara in una sorta di “caccia all’errore” e sulla disomogeneità degli orientamenti giurisprudenziali.

Due recenti sentenze del Tar Sicilia e del Tar Campania hanno affermato alcuni importanti principi in relazione allo svolgimento delle gare telematiche, con particolare riferimento alle ipotesi di malfunzionamento delle piattaforme digitali e dell’individuazione delle relative conseguenze.
Nello specifico, il TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 01.02.2024 n. 383
[1], ha affermato che il meccanismo di sospensione e proroga del termine di presentazione telematica dell'offerta previsto dalle norme opera soltanto nel caso in cui il malfunzionamento della piattaforma sia imputabile alla stazione appaltante ovvero vi sia un'incertezza assoluta in ordine alle cause che hanno determinato il ritardo nell'invio dell'offerta.
Al contrario, la sospensione o la proroga non trovano spazio nel caso in cui sia provata la negligenza del concorrente il quale, ancorché messo a conoscenza delle modalità tecniche di presentazione dell'offerta telematica e dell'opportunità di operare con congruo anticipo, non si sia attivato tempestivamente.
Il TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 01.02.2024 n. 800
[2],ha invece sancito l'illegittimità dell'esclusione del concorrente che abbia operato il caricamento della documentazione di gara sulla piattaforma telematica entro l'orario prefissato ma non sia riuscito a finalizzarne l'invio a causa di un rallentamento del sistema, non imputabile al concorrente stesso.
Ciò anche in considerazione dell'esiguo ritardo (8 secondi) con cui l'invio è stato finalizzato rispetto all'orario ultimo indicato nel disciplinare di gara.
Il Tar Sicilia: il malfunzionamento della piattaforma
Un ente appaltante aveva indetto una procedura aperta per l'affidamento di un accordo quadro relativo al servizio di gestione di centri di accoglienza per cittadini stranieri.
Il disciplinare di gara prevedeva che l'intera procedura si svolgesse attraverso una procedura telematica che prevedeva che la documentazione di offerta dovesse essere trasmessa tramite una piattaforma informatica messa a disposizione dall'ente appaltante. Un concorrente ricorreva al giudice amministrativo denunciando che non era stato messo nelle condizioni di partecipare alla procedura di gara.
Evidenziava infatti che entro l'orario indicato nel disciplinare di gara era riuscito a caricare la documentazione richiesta, ma che successivamente non aveva potuto presentare l'offerta in ragione di un blocco della piattaforma, che aveva dato luogo a una momentanea indisponibilità del servizio telematico. In considerazione di tale circostanza il concorrente presentava istanza all'ente appaltante per la riapertura del termine di presentazione dell'offerta.
Tale istanza veniva respinta sulla base dell'assunto secondo cui lo stesso disciplinare di gara stabiliva che l'inserimento della documentazione nel sistema rimaneva a rischio esclusivo del concorrente e che, in questa logica, i concorrenti erano tenuti ad avviare le attività di caricamento della documentazione di gara con congruo anticipo rispetto alla scadenza prevista, proprio per non trovarsi nell'impossibilità di completare la trasmissione dell'offerta nel termine prescritto.
In sede di ricorso il concorrente replicava a queste argomentazioni evidenziando che nessuna censura poteva essere mossa al suo comportamento, posto che lo stesso aveva provveduto al caricamento della documentazione nei termini previsti, e che esclusivamente l'invio dell'offerta non era avvenuto entro la scadenza stabilita a causa di un malfunzionamento del sistema.
Di conseguenza la scelta dell'ente appaltante di non procedere a una proroga del termine di presentazione dell'offerta doveva considerarsi illegittima, in quanto assunta in violazione da un lato di un'esplicita previsione del disciplinare di gara che la consentiva, e dall'altro dei principi generali di tutela dell'affidamento, raggiungimento del risultato, accesso al mercato e di buona fede richiamati negli articoli di apertura del D.lgs. 36/2023. La proroga del termine di presentazione dell'offerta.
Il Tar Sicilia ricorda preliminarmente il quadro normativo di riferimento.
Con previsioni sostanzialmente analoghe, sia il D.lgs. 50/2016 (articolo 79, comma 5-bis) che il D.lgs. 36/2023 (articolo 25, comma 2), stabiliscono che nel caso di malfunzionamento anche temporaneo delle piattaforme informatiche le stazioni appaltanti devono garantire la partecipazione alla gara dei concorrenti, anche eventualmente disponendo la sospensione del termine di presentazione delle offerte per il periodo di tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento e la proroga dello stesso per una durata proporzionale alla gravità del malfunzionamento.
In relazione a queste previsioni è indubbio che se il concorrente non riesce a trasmettere l'offerta entro il termine prestabilito a causa di un malfunzionamento del sistema informatico imputabile alla stazione appaltate ha diritto di essere riammesso in termini ai fini della presentazione dell'offerta. Tale diritto sussiste anche nell'ipotesi in cui vi siano incertezze in merito alla causa del mancato invio, nel senso che non si riesca a determinare se lo stesso dipenda effettivamente dalla stazione appaltante o dal concorrente che non si è attivato per tempo al fine di rispettare il termine, considerati i meccanismi di funzionamento delle piattaforme informatiche.
In sostanza, se la rimessione in termini è naturalmente dovuta nel caso di malfunzionamento del sistema oggettivamente ascrivibile alla stazione appaltante, su quest'ultima ricade anche il rischio della causa ignota del malfunzionamento. Al contrario, nessun diritto alla rimessione in termini sorge in capo al concorrente nel caso in cui il ritardo nella presentazione dell'offerta sia ascrivibile a una comprovata negligenza dello stesso.
In questo senso la giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente evocato il principio dell'autoresponsabilità dei concorrenti nelle gare telematiche, secondo cui gli stessi sopportano le conseguenze di eventuali errori commessi nella presentazione della documentazione di offerta.
In applicazione di tale principio la stessa giurisprudenza ha precisato che grava sul concorrente l'onere di attivarsi tempestivamente ai fini della presentazione della documentazione di gara e in particolare dell'offerta, in modo da capitalizzare i tempi. Più nello specifico, è stato affermato che nelle gare telematiche è richiesta ai concorrenti una particolare diligenza, nel senso che la sua capacità informatica e l'attenta lettura delle istruzioni sul funzionamento della piattaforma, nonché i fisiologici rallentamenti del traffico informatico, devono indurre i concorrenti stessi a gestire e per quanto possibile prevenire i possibili e limitati inconvenienti di malfunzionamento della piattaforma.
Applicando questi principi al caso di specie, il Tar Sicilia ha ritenuto che il concorrente non avesse assolto all'onere di attivazione tempestiva e con la dovuta diligenza ai fini della presentazione dell'offerta su piattaforma informatica. Infatti, lo stesso non ha mai generato e caricato il documento contenente l'offerta economica, e proprio per questo il sistema lungi dall'essersi bloccato ha più volte segnalato allo stesso concorrente l'impossibilità di procedere.
In sostanza, l'analisi di quanto avvenuto ha portato il Tar Sicilia a ritenere che non vi sia stato un blocco o malfunzionamento del sistema, quanto piuttosto la corretta segnalazione al concorrente dell'impossibilità di procedere a causa del mancato caricamento di un documento da parte dello stesso.
Ne consegue che la mancata presentazione dell'offerta nei termini previsti è imputabile esclusivamente al comportamento tenuto dal concorrente, non sussistendo quindi i presupposti per la rimessione in termini, che è stata legittimamente negata dall'ente appaltante.
Il Tar Campania: lo sforamento (minimale) del termine di presentazione delle offerte
La vicenda esaminata dal Tar Campania riguarda una procedura di gara telematica per l'affidamento di un appalto integrato di lavori.
La stazione appaltante aveva disposto l'esclusione di un concorrente in quanto non aveva provveduto al completo caricamento della documentazione di gara entro il termine previsto dal disciplinare.
L'esclusione veniva impugnata davanti al giudice amministrativo dal concorrente, che evidenziava come nonostante l'avvenuto caricamento della documentazione di offerta nel termine prestabilito il sistema non aveva consentito il completamento della procedura attraverso la ricezione positiva dell'invio con il tasto conferma poiché risultava superato il termine di soli otto secondi.
Secondo il ricorrente l'esiguità del ritardo rilevato avrebbe imposto all'ente appaltante di adottare il principio di proporzionalità nella valutazione dell'evento, evitando quindi di procedere all'esclusione. Il Tar Campania ha accolto il ricorso.
Il giudice amministrativo ha infatti in primo luogo osservato che nel termine indicato nel disciplinare di gara il ricorrente aveva provveduto a caricare sulla piattaforma l'intera documentazione di offerta, in adempimento agli obblighi procedurali imposti ai concorrenti.
Al riguardo, non può essere imputato al concorrente di essersi attivato per iniziare il caricamento con solo due ore di anticipo rispetto all'orario di scadenza. Infatti il disciplinare non prevedeva alcun termine iniziale, e d'altro canto il tempo residuo per completare il caricamento doveva considerarsi congruo rispetto all'ordinario funzionamento delle piattaforme informatiche.
Di conseguenza, non può essere imputato al concorrente il mancato ricevimento della conferma all'invio nel termine ultimo stabilito per la presentazione dell'offerta, poiché si tratta di un ritardo del sistema presumibilmente dovuto al notevole traffico di dati verificatosi nella fase finale della procedura di caricamento.
Peraltro, attribuire un effetto escludente a un ritardo di soli otto secondi risulta contrario al principio di proporzionalità, in quanto produce il massimo della sanzione l'esclusione dalla gara nei confronti di un concorrente che in realtà aveva completato il caricamento nei tempi dovuti, ma non era riuscito a finalizzarlo (per soli otto secondi) a causa di un rallentamento del sistema.
Il contenzioso nelle gare telematiche Le due pronunce esaminate offrono interessanti indicazioni sulle modalità di svolgimento delle gare telematiche, tanto più importanti in un momento in cui il ricorso alle stesse rappresenta la scelta ordinaria per procedere agli affidamenti.
Le stesse pronunce fanno tuttavia emergere un dato. Le gare telematiche dovrebbero accelerare e rendere più fluido lo svolgimento delle procedure di gara, anche assicurando una più efficace tracciabilità dei relativi adempimenti. Sotto questo profilo, la funzione che si immaginava potessero assolvere era anche quella di una auspicabile riduzione del contenzioso. In realtà quest'ultimo obiettivo sembra raggiunto solo in parte. Ne sono evidenza le due pronunce esaminate, che giungono a conclusioni diverse in relazione a due casi sostanzialmente analoghi.
Ciò che muta è piuttosto la natura del contenzioso, che viene a concentrarsi essenzialmente sul funzionamento (o malfunzionamento) della piattaforma informatica. Ma è tutto da verificare quanto ciò riuscirà ad incidere sulla consolidata prassi che trasforma ogni gara in una sorta di caccia all'errore e sulla disomogeneità degli orientamenti giurisprudenziali (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
---------------
  
[1] TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 01.02.2024 n. 383
10. Si può prescindere dall’esame delle eccezioni preliminari sollevate dalla difesa erariale, atteso che il ricorso è infondato e va rigettato.
Per la loro connessione logica e funzionale le censure articolate con il mezzo di tutela all’esame possono essere esaminate congiuntamente.
Osserva preliminarmente il Collegio che l’art 79, comma 5-bis, del D.lgs. 50/2016 prevedeva che "Nel caso di presentazione delle offerte attraverso mezzi di comunicazione elettronici messi a disposizione dalla stazione appaltante ai sensi dell'articolo 52, ivi incluse le piattaforme telematiche di negoziazione, qualora si verifichi un mancato funzionamento o un malfunzionamento di tali mezzi tale da impedire la corretta presentazione delle offerte, la stazione appaltante adotta i necessari provvedimenti al fine di assicurare la regolarità della procedura nel rispetto dei principi di cui all'articolo 30, anche disponendo la sospensione del termine per la ricezione delle offerte per il periodo di tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento dei mezzi e la proroga dello stesso per una durata proporzionale alla gravità del mancato funzionamento. Nei casi di sospensione e proroga di cui al primo periodo, la stazione appaltante assicura che, fino alla scadenza del termine prorogato, venga mantenuta la segretezza delle offerte inviate e sia consentito agli operatori economici che hanno già inviato l'offerta di ritirarla ed eventualmente sostituirla. La pubblicità di tale proroga avviene attraverso la tempestiva pubblicazione di apposito avviso presso l'indirizzo Internet dove sono accessibili i documenti di gara, ai sensi dell'articolo 74, comma 1, nonché attraverso ogni altro strumento che la stazione appaltante ritenga opportuno. In ogni caso, la stazione appaltante, qualora si verificano malfunzionamenti, ne dà comunicazione all'AGID ai fini dell'applicazione dell'articolo 32-bis del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, recante codice dell'amministrazione digitale".
L’art. 25, comma 2, del D.lgs. 31.03.2023 n. 36 stabilisce invece che “Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti utilizzano le piattaforme di approvvigionamento digitale per svolgere le procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, secondo le regole tecniche di cui all'articolo 26. Le piattaforme di approvvigionamento digitale non possono alterare la parità di accesso degli operatori, né impedire o limitare la partecipazione alla procedura di gara degli stessi ovvero distorcere la concorrenza, né modificare l'oggetto dell'appalto, come definito dai documenti di gara. Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti assicurano la partecipazione alla gara anche in caso di comprovato malfunzionamento, pur se temporaneo, delle piattaforme, anche eventualmente disponendo la sospensione del termine per la ricezione delle offerte per il periodo di tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento e la proroga dello stesso per una durata proporzionale alla gravità del malfunzionamento”.
L’art. 92, comma 2, lettera c), del D.lgs. n. 36/2023 stabilisce infine che i termini di presentazione delle domande di partecipazione sono prorogati “in misura adeguata e proporzionale”, nei casi di cui all'articolo 25, comma 2, terzo periodo.
Tanto premesso, alla luce delle citate disposizioni, non è revocabile in dubbio che se l'operatore economico -il quale si avvale dei mezzi di comunicazione elettronica messi a disposizione dalla stazione appaltante- non riesce a trasmettere la propria offerta entro il termine prestabilito a causa di un malfunzionamento informatico imputabile alla stazione appaltante, lo stesso ha evidentemente diritto da essere rimesso in termini per la presentazione dell'offerta.
Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che anche ove non sia possibile stabilire con certezza se vi sia stato un errore da parte del singolo operatore economico, ovvero se la trasmissione dell'offerta sia stata impedita da un vizio del sistema informatico imputabile alla stazione appaltante, le conseguenze degli esiti anormali del sistema non possono andare a detrimento dei partecipanti, stante la natura meramente strumentale del mezzo informatico (Consiglio di Stato, sezione III, 28.12.2020, n. 8348, Consiglio di Stato, sezione III, 07.01.2020, n. 86 e Consiglio di Stato, sezione V, 20.11.2019, n. 7922), nonché i principi di par condicio e di favor partecipationis.
Ne discende che il diritto alla rimessione in termini del singolo operatore economico (il quale non sia riuscito ad inviare in tempo l'offerta o la domanda di partecipazione) sorge, non soltanto in caso di comprovato malfunzionamento della piattaforma digitale della stazione appaltante, ma anche in caso di incertezza assoluta circa la causa del tardivo invio (e cioè se per colpa della stazione appaltante oppure del singolo operatore economico che non si è attivato per tempo).
In definitiva, il rischio della "causa ignota" del malfunzionamento informatico ricade sulla stazione appaltante.
Nessun diritto alla rimessione in termini può essere riconosciuto, invece, in caso di comprovata negligenza del singolo operatore economico.
In proposito, la giurisprudenza amministrativa ha più volte evocato il principio di autoresponsabilità, e ciò con specifico riguardo alla partecipazione alle procedure di evidenza pubblica che si svolgono mediante la presentazione telematica dell'offerta. In linea generale, il Consiglio di Stato ha avuto modo di statuire che ciascuno dei concorrenti "sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell'offerta e nella presentazione della documentazione" (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 25.02.2014 n. 9).
A tal proposito, la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sezione III, 02.07.2014, n. 3329, 03.07.2017, n. 3245, 03.07.2018, n. 4065 e, da ultimo, Consiglio di Stato, sezione III, 30.10.2023, n. 9325) ha elaborato il principio dell'equa ripartizione, tra soggetto partecipante e amministrazione procedente, del rischio "tecnico" di inidoneo caricamento e trasmissione dei dati su piattaforma informatica ("rischio di rete" dovuto alla presenze di sovraccarichi o di cali di performance della rete, e "rischio tecnologico", dovuto alle caratteristiche dei sistemi operativi software utilizzati dagli operatori), secondo criteri di autoresponsabilità dell'utente, sul quale grava l'onere di pronta e tempestiva attivazione delle procedure, sì da capitalizzare il tempo residuo, salvi ovviamente i malfunzionamenti del sistema imputabili al gestore della piattaforma (fermi del sistema, mancato rispetto dei livelli di servizio, etc.), per i quali invece non può che affermarsi la responsabilità di quest'ultimo.
In base a questi principi, applicabili al caso di specie in esame, sussiste "l'esigibilità, per le imprese, d'una peculiare diligenza nella trasmissione degli atti di gara, compensata dalla possibilità d'uso diretto della loro postazione informatica", mentre deve escludersi la possibilità "di predicare [...] l'accollo in capo alla stazione appaltante dei rischi derivanti dall'uso del modello informatico [...], a tutto concedere vigendo anche in questo caso le ordinarie regole di suddivisione della responsabilità per attività rischiose".
Nello specifico: "In tale chiave ricostruttiva, l'esperienza e abilità informatica dell'utente, la stima dei tempi occorrenti per il completamento delle operazioni di upload, la preliminare e attenta lettura delle istruzioni procedurali, il verificarsi di fisiologici rallentamenti conseguenti a momentanea congestione del traffico, sono tutte variabili che il partecipante ad una gara telematica deve avere presente, preventivare e "dominare" quando si accinge all'effettuazione di un'operazione così importante per la propria attività di operatore economico, non potendo il medesimo pretendere che l'amministrazione, oltre a predisporre una valida piattaforma di negoziazione operante su efficiente struttura di comunicazione, si adoperi anche per garantire il buon fine delle operazioni, qualunque sia l'ora di inizio delle stesse, prescelto dall'utente, o lo stato contingente delle altre variabili sopra solo esemplificativamente indicate" (Consiglio di Stato, sezione III, 24.11.2020 n. 7352; cfr., inoltre, Consiglio di Stato, sezione I, 24.01.2020 n. 220).
In sintesi, il meccanismo di sospensione e proroga del termine di presentazione telematica dell'offerta, già previsto dall’articolo 79, comma 5-bis, D.lgs. n. 50 del 2016 ed ora dall’art. 25, comma 2, terzo periodo, del D.lgs. 31.03.2023 n. 36 opera soltanto se (e nella misura in cui) ricorra almeno una delle due seguenti situazioni:
   a) malfunzionamento della piattaforma digitale imputabile alla stazione appaltante;
   b) incertezza assoluta circa la causa del tardivo invio dell'offerta (e cioè se per un malfunzionamento del sistema oppure per negligenza dell'operatore economico).
Viceversa, il ridetto meccanismo di sospensione e proroga non può mai operare in caso di comprovata negligenza dell'operatore economico, il quale -benché reso edotto ex ante (grazie a regole chiare e precise contenute nella lex specialis) delle modalità tecniche di presentazione telematica dell'offerta e dell'opportunità di attivarsi con congruo anticipo- non si è invece attivato per tempo.
...
  
[2] TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 01.02.2024 n. 800
4.- Le diverse censure, in considerazione degli oggettivi profili di connessione e sovrapposizione dei relativi argomenti, possono ricevere sintetica trattazione unitaria.
Il ricorso è fondato.
Il bando di gara, alla Sezione IV: Procedura, al paragrafo IV.3.3), titolato “Termine per il ricevimento delle offerte”, precisa che “le offerte dovranno pervenire mediante l’utilizzo della piattaforma telematica “Net4market” … entro il termine perentorio del 09/10/2023 ora locale: 12:00:00.”.
I fatti riportati dalla ricorrente non sono smentiti dalle amministrazioni resistenti e sono peraltro confermati da una serie di documenti allegati agli atti della causa. Pertanto sugli stessi può fondarsi la ricostruzione certa degli avvenimenti.
Il giorno 09.10.2023, la Ca. SRL, mandataria del costituendo RTI ricorrente, caricava sulla piattaforma, in ordine cronologico, i seguenti documenti:
   - alle ore 11.19.54, il file dell’offerta economica, generato dal portale e firmato digitalmente da tutti i componenti del costituendo RTI;
   - alle ore 11.20.31, la cartella .zip contenente la documentazione costituente l’offerta temporale, firmata da tutti i componenti del costituendo RTI;
   - alle ore 11.50.31, la cartella .zip contenente la documentazione amministrativa, firmata da tutti i componenti del costituendo RTI;
   - alle ore 11.58.53, la cartella .zip contenente l’offerta tecnica, firmata esclusivamente dalla mandataria, con all’interno i tre files prescritti dal disciplinare firmati digitalmente da tutti i componenti del costituendo RTI.
Risulta quindi che, prima dell’orario stabilito dal bando come termine finale, la mandataria aveva provveduto a caricare sulla piattaforma l’intera documentazione relativa alle offerte, necessaria ai fini della partecipazione, svolgendo quindi diligentemente gli adempimenti previsti dal bando.
Ebbene, non può imputarsi alla ricorrente di avere iniziato il caricamento lo stesso giorno 9, a sole due ore dall’orario di scadenza, atteso che il bando di gara non imponeva alcun termine iniziale e, in ogni caso, la scelta del momento in cui iniziare gli adempimenti è da ritenersi del tutto congrua rispetto ai tempi ordinariamente preventivabili come necessari per caricare la documentazione sulla piattaforma e per confermarla.
Né può ricadere sulla ricorrente la circostanza che il sistema non abbia ricevuto la conferma di quanto già caricato entro il termine prefissato, in quanto non possono essere a suo carico non solo le anomalie manifeste del sistema che, nel caso in esame, non sembrano essersi verificate, ma nemmeno i meri ritardi nella ricezione delle offerte. Tali ritardi sono presumibilmente riconducibili al fatto che la piattaforma, la quale ha dovuto assorbire gli allegati caricati da una pluralità di operatori economici in un ristretto arco temporale, accusando rallentamenti nella procedura di caricamento.
In altri termini, il sovraffaticamento per eccesso di dati in entrata che, verosimilmente, non ha permesso la conferma dell’avvenuto caricamento entro l’orario previsto dal bando, non può riversarsi sulla ricorrente, ciò in applicazione dei principi di par condicio e di favor partecipationis alle procedure di gara (Cons. Stato, sez. III, 07.01.2020, n. 86).
Peraltro, attribuire significato ad un ritardo di soli otto secondi si scontrerebbe col principio di proporzionalità atteso che imporrebbe la grave sanzione espulsiva nei confronti di un operatore che aveva pur sempre caricato in tempo nella piattaforma i dati utili.
In questa sede devono quindi applicarsi per analogia i consolidati principî, affermati dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui non può essere escluso dalla gara un concorrente che abbia curato il caricamento della documentazione di gara sulla piattaforma telematica entro l’orario fissato per siffatta operazione, ma non sia riuscito a finalizzare l’invio a causa di un rallentamento del sistema, non imputabile al concorrente (per i casi di malfunzionamento del sistema, cfr. Cons. Stato, 86/2020 cit.; anche Cons. Stato, sez. V, 20.11.2019, n. 7922; Sez. III, 07.07.2017, n. 3245, per ipotesi relativa ad un errore dell’impresa e non già ad un malfunzionamento del sistema).
La giurisprudenza ha anche chiarito che, se risulta impossibile stabilire con certezza se vi sia stato un errore da parte del trasmittente o, piuttosto, la trasmissione sia stata danneggiata per un vizio del sistema, il pregiudizio ricade sull’ente che ha bandito, organizzato e gestito la gara (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. III, 25.01.2013, n. 481).

EDILIZIA PRIVATA: Fascia di rispetto stradale, nessuna deroga per la recinzione dominicale.
Il Tar Milano conferma l’operato del comune per la norma restrittiva del regolamento comunale emanata in applicazione del Codice della Strada.
L’amministrazione di un comune milanese ha emesso un’ordinanza di demolizione di una recinzione di un fondo sul ciglio della strada, in quando realizzata nella fascia di rispetto stradale inedificabile, in violazione del regolamento edilizio comunale relativamente alle strade che ricadono sotto la gestione dell’ente.
L'interessato ha impugnato l'ordinanza sostenendo che la recinzione finalizzata a delimitare la proprietà allo scopo di separarla dalle altre, custodirla e difenderla da intrusioni fosse espressione di diritto dominicale, prevalente sulle norme urbanistiche in virtù dell'articolo 841 del codice civile che consente sempre al proprietario di chiudere il proprio fondo.
I giudici della II Sezione del TAR Lombardia-Milano hanno smontato la tesi del ricorrente.
«Anche le recinzioni -si legge nella sentenza 30.01.2024 n. 229- sono soggette al rispetto del vincolo stradale indipendentemente dal fatto che siano finalizzate all'esercizio dello jus escludendi alios o meno» sono soggette al rispetto della fascia di rispetto delle strade ai sensi del Codice della Strada.
I giudici ricordano che è lo stesso Codice della strada che, per quanto riguarda le strade comunali, «prevede fasce di rispetto che inibiscono le nuove costruzioni, ricostruzioni e ampliamenti e prescrizioni per la realizzazione di recinzioni e piantagioni» (articolo 18, commi 1 e 4).
È sempre l'articolo 18, comma 4, del Codice a prevedere che «le recinzioni e le piantagioni dovranno essere realizzate in conformità ai piani urbanistici e di traffico e non dovranno comunque ostacolare o ridurre, a giudizio dell'ente proprietario della strada, il campo visivo necessario a salvaguardare la sicurezza della circolazione».
Nel caso specifico, i giudici premettono che il regolamento edilizio del Comune ha previsto che «la realizzazione di recinzioni, di qualsiasi tipologia, è comunque soggetta a titolo abilitativo». E che per quanto riguarda la strada in questione si fa espresso riferimento alle fasce di rispetto stabilite dal Codice all'articolo 26 a seconda di tipo, dimensione ed ente gestore (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024).

----------------
SENTENZA
1. La ricorrente ha impugnato l’ordinanza n. 2 del 27.02.2020 del Responsabile del Settore Gestione del Territorio recante la rimozione della recinzione esistente sull’area di cui al fg. 2 mapp. 928 (parte), 926 e 485 e il pagamento della sanzione di € 1.000,00.
Contro il suddetto atto la ricorrente ha sollevato i seguenti motivi di ricorso.

   I. Violazione e falsa applicazione artt. 6 e 31 dpr n. 380/2001 – falsa applicazione art. 31 regol. edilizio - falsa applicazione art. 26, comma 4, lett. b), dpr n. 495/1992 – eccesso di potere per errata rappresentazione dei fatti – difetto di istruttoria difetto dei presupposti.
Secondo la ricorrente la posa di una recinzione -manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni– è solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale, di talché anche la presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio, nella specie, peraltro, inesistente, non può incidere (di per sé) negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell' art. 841 c.c.

   II. Violazione e falsa applicazione dell’art. 26, comma 4, lett. b), dpr n. 495/1992 - violazione artt. 6 e 10 dpr n. 380/2001.
Secondo la ricorrente l’art. 31 del Regolamento edilizio comunale ha ritenuto di estendere nel tratto interno del centro abitato la previsione in materia di distacchi di cui all’art. 26, comma 4, lett. b), che il DPR n. 495/1992 contempla, invece, per i tratti “fuori dai centri abitati” per cui sarebbe illegittimo in quanto il regolamento edilizio non può determinarsi in tema di distanze delle costruzioni dal confine stradale in maniera difforme da quanto previsto dalla norma statale.

La difesa del Comune ha chiesto l’inammissibilità ed improcedibilità per acquiescenza, tardività e mancata tempestiva impugnazione dell’art. 31 del R.E. comunale di Corbetta. In subordine ha chiesto la reiezione del ricorso.
...
2. Il ricorso non è inammissibile in quanto il Regolamento edilizio, in quanto, norma generale, può essere impugnato insieme all’atto applicativo e quindi, nel caso di specie, con l’ordinanza di demolizione in questione.
3. Nel merito il ricorso è infondato.
Il presente ricorso è stato introdotto al fine di contestare la legittimità dell’ordinanza che ha imposto la rimozione della recinzione realizzata al limite del ciglio stradale nella fascia di rispetto stradale inedificabile in violazione del regolamento edilizio comunale relativamente al rispetto della distanza dalla strada comunale (ex Strada Statale 11).
In merito occorre rilevare che la “fascia di rispetto” delle strade, secondo la classificazione di queste offerta dal relativo Codice, consiste, ai sensi dell’art. 2, co. 1, n. 22, d.lgs. n. 285/1992, nella “striscia di terreno, esterna al confine stradale, sulla quale esistono vincoli alla realizzazione, da parte dei proprietari del terreno, di costruzioni, recinzioni, piantagioni, depositi e simili”.
Quindi anche le recinzioni sono soggette al rispetto del vincolo stradale indipendentemente dal fatto che siano finalizzate all’esercizio dello jus escludendi alios o meno.
Il successivo art. 18 del Codice della Strada, relativo ai centri abitati, nel fare rinvio alle più specifiche norme del regolamento, prevede fasce di rispetto che inibiscono “le nuove costruzioni, ricostruzioni e ampliamenti” (co. 1) e prescrizioni per la realizzazione di “recinzioni e piantagioni” (co. 4).
Il comma 4 stabilisce che “Le recinzioni e le piantagioni dovranno essere realizzate in conformità ai piani urbanistici e di traffico e non dovranno comunque ostacolare o ridurre, a giudizio dell'ente proprietario della strada, il campo visivo necessario a salvaguardare la sicurezza della circolazione”.
Il Regolamento Edilizio comunale di Corbetta approvato con delibera consiliare n. 52 del 28.11.2019 ha esercitato tale competenza stabilendo all’art. 31 che: “la realizzazione di recinzioni, di qualsiasi tipologia, è comunque soggetta a titolo abilitativo. Lungo la strada ex SS 11, anche nel tratto interno al centro abitato, trova applicazione l’art. 26, comma 4, lett. b), del D.P.R. 16.12.1992, n. 495”.
Poiché la distanza della recinzione dal ciglio della strada è finalizzata a garantire il campo visivo necessario a salvaguardare la sicurezza della circolazione, deve escludersi che il Comune abbia esercitato la sua competenza in contrasto con la norma di legge.
4. In definitiva quindi il ricorso va respinto.

APPALTI: Sulla durata delle iscrizioni nel casellario Anac e sull’intrasferibilità a diversa sezione dopo la scadenza di una iscrizione obbligatoria.
---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Iscrizione nel casellario informatico – Durata massima di un anno – Derogabilità da parte di Anac - Esclusione.
La decisione dell’Anac di “spostare”, allo scadere del termine annuale di efficacia, l’iscrizione nel casellario informatico a seguito di segnalazione per dichiarazione falsa, in una diversa sezione del casellario medesimo, anziché disporne la cancellazione, è illegittima in quanto priva di un reale fondamento normativo e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia (anche sub specie di pubblicità-notizia) ab origine previsti dall’art. 38, 1° comma, lett. h), del d.lgs. n. 163 del 2006, norma comunque prevalente su disposizioni di rango regolamentare (1).
Il Consiglio di Stato ha chiarito che la norma di cui all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 ha evidentemente carattere speciale, riferendosi non a qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole ipotesi di “presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione”, peraltro ove rese “con dolo o colpa grave”.
In quanto norma speciale, è destinata a prevalere –circoscrivendone l’ambito di applicazione– su eventuali disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle fonti del diritto.
---------------
   (1) Precedenti conformi: non risultano specifici precedenti in termini. In generale, sulla durata dell’iscrizione nel casellario informatico, Cons. Stato, sez. V, 25.01.2011, n. 517; TAR per l’Abruzzo, sez. I, 15.04.2015, n. 282
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.01.2024 n. 881 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
Con il primo motivo di appello viene riproposta la censura, già dedotta nel precedente grado di giudizio, secondo cui l’impugnato diniego di cancellazione dell’annotazione del provvedimento sanzionatorio avrebbe violato l’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006.
L’originaria iscrizione nel casellario ANAC, infatti, era stata disposta ai sensi di tale ultima norma, laddove il potere sanzionatorio esercitato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione è disciplinato dalle previsioni del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio, emanato ai sensi dell’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006.
In virtù di quanto previsto dall’art. 38, comma 1-ter, cit., in particolare, l’iscrizione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1, lettera h), può essere disposta per la durata massima di un anno, decorso il quale la detta iscrizione “è cancellata e perde comunque efficacia”.
Inserendo l’iscrizione di cui trattasi, al termine del periodo interdittivo (per di più con procedura totalmente automatizzata e, dunque, senza alcuna ponderazione del caso concreto) nell’area “C” del casellario, per un periodo di tempo indefinito, l’ANAC avrebbe contestualmente violato l’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 e l’art. 45, comma 1, del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio (a mente del quale “Il termine di durata delle annotazioni inserite nel Casellario, indicato nel provvedimento finale, ai sensi dell’art. 38, comma 1-ter, articolo 40, comma 9-quater, ed articolo 48, comma 1, del Codice decorre dalla data di pubblicazione delle annotazioni stesse. Trascorso detto termine, le annotazioni perdono efficacia”), in quanto l’annotazione (iscritta in data 17.07.2020) avrebbe dovuto essere cancellata in accoglimento dell’apposita istanza presentata dalla società in data 28.09.2021, essendo decorso il termine (massimo) di un anno dall’iscrizione (oltre il quale l’Autorità è tenuta a disporre
la materiale cancellazione dell’annotazione, non potendosi limitare a spostare la stessa da una sezione all’altra del casellario, così mantenendo evidenza del periodo di interdizione già trascorso).
In ogni caso, prosegue l’appellante, anche ove di volesse ritenere che l’ANAC conservi un potere discrezionale di conservazione dell’annotazione oltre il periodo annuale indicato dall’ultimo periodo dell’art. 38, comma 1-ter cit., l’Autorità avrebbe dovuto comunque svolgere un’istruttoria specifica e rendere apposita motivazione “rafforzata” in relazione alla conservazione “ultrattiva” dell’annotazione riportata nel casellario informatico ed alla pubblica utilità della stessa.
Il motivo è fondato.
E’ pacifico in atti che il provvedimento sanzionatorio presupposto fosse stato adottato dall’ANAC ai sensi e per gli effetti dell’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006, che così prevede: “In caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che, se ritiene che siano state rese con dolo o colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, dispone l’iscrizione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1, lettera h), fino ad un anno, decorso il quale l’iscrizione è cancellata e perde comunque efficacia”.
La finalità di tale iscrizione –disposta con norma primaria di legge– è evidentemente quella di portare a conoscenza delle stazioni appaltanti l’esistenza del divieto di partecipazione alle gare pubbliche (anche in veste di subappaltatore) e, con esso, necessariamente anche le ragioni che ne stanno alla base.
La stessa legge è chiara nel prescrivere un termine massimo di efficacia di tali iscrizioni, che non può eccedere l’anno.
A tale regola primaria si conforma –per evidenti ragioni di gerarchia delle fonti giuridiche– la disciplina regolamentare in materia, data in particolare dall’art. 45, comma 1, del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio dell’ANAC, a mente del quale –come già detto– “Il termine di durata delle annotazioni inserite nel Casellario, indicato nel provvedimento finale, ai sensi dell’art. 38, comma 1-ter, articolo 40, comma 9-quater, ed articolo 48, comma 1, del Codice decorre dalla data di pubblicazione delle annotazioni stesse. Trascorso detto termine, le annotazioni perdono efficacia”.
La norma di cui all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 ha evidentemente carattere speciale, riferendosi non a qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole ipotesi di “presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione”, peraltro ove rese “con dolo o colpa grave”.
In quanto norma speciale, è destinata a prevalere –circoscrivendone l’ambito di applicazione– su eventuali disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle fonti del diritto (in quanto di natura regolamentare, quale l’art. 38 del Regolamento per la gestione del Casellario Informatico di cui alla delibera consiliare ANAC del 29.07.2020).
Nel caso di specie l’ANAC ha ritenuto motu proprio di poter “trasferire” la detta iscrizione, allo scadere del termine massimo di efficacia annuale, dalla Sezione “B” del casellario informatico alla Sezione “C” del medesimo, anziché limitarsi a cancellarla (come prescritto dalla norma di legge primaria), scelta che secondo il primo giudice troverebbe la “copertura” giuridica dell’art. 8, comma 2, lett. dd), del d.P.R. n. 207 del 2010, per cui “Nella subsezione del casellario relativa alle imprese qualificate SOA esecutrici di lavori pubblici sono inseriti i seguenti dati: […] tutte le altre notizie riguardanti le imprese che, anche indipendentemente dall'esecuzione dei lavori, sono dall'Autorità ritenute utili ai fini della tenuta del casellario, compresa la scadenza del certificato del sistema di qualità aziendale”.
Tale soluzione non può essere accolta, ove si consideri che, nel corpo del medesimo art. 8, comma 2 cit., alla lettera s) vengono già fatte oggetto di iscrizione le “falsità nelle dichiarazioni rese in merito ai requisiti e alle condizioni rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara e per l’affidamento dei subappalti”, all’uopo precisando che “il periodo annuale, ai fini dell’articolo 38, comma 1, lettera h), del codice, decorre dalla data di iscrizione nel casellario”.
Deve quindi concludersi, per ragioni di sistematicità logica, che la previsione di chiusura (dunque, di carattere generale e sussidiario) di cui alla richiamata lettera ss) possa trovare applicazione solo nel caso di fattispecie non riconducibili alle ipotesi specificamente contemplate dalle precedenti lettere del medesimo comma secondo.
Nel caso in esame tale condizione non si verifica, l’iscrizione di cui trattasi essendo pacificamente riconducibile alla diversa ipotesi contemplata dall’art. 8, comma 2, lettera s), del d.P.R. n. 207 del 2010 (ipotesi per la quale, come già detto, la norma primaria di riferimento prevede la cancellazione sic et simpliciter dell’iscrizione, una volta scaduto il termine di efficacia della misura interdittiva).
Deve quindi concludersi che la decisione dell’ANAC di “spostare”, allo scadere del termine annuale di efficacia, l’iscrizione di cui trattasi in una diversa Sezione del casellario informatico, anziché disporne la cancellazione, sia illegittima in quanto priva di un reale fondamento normativo e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia (anche sub specie di pubblicità-notizia) ab origine previsti dall’art. 38, comma primo, lettera h), del d.lgs. n. 163 del 2006, norma comunque prevalente su disposizioni di rango regolamentare (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.01.2024 n. 881 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’onere della prova in materia di domanda di sanatoria di abusi edilizi.
---------------
Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Accertamento di conformità – Onere della prova.
L’onere di provare l’esistenza dei presupposti per il rilascio del provvedimento di sanatoria, tra cui, in primis, la data dell’abuso grava sul richiedente; infatti, solo il privato può fornire, in quanto ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso, mentre l’amministrazione non può materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio (1).
---------------
   (1) Conformi: Cons. Stato, sez. VII, 29.09.2023, n. 8594 e 24.03.2023 n. 3011; Cons. Stato, sez. VI, 12.10.2020, n. 6112;
         Difformi: non risultano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 26.01.2024 n. 853 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
7. I motivi sono infondati.
7.1 Per giurisprudenza consolidata grava sul richiedente l’onere di provare l’esistenza dei presupposti per il rilascio del provvedimento di sanatoria, tra cui, in primis, la data dell’abuso. Solo il privato può, infatti, fornire, in quanto ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso, mentre l’amministrazione non può materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio (Cons. Stato, sez. VII, 29.09.2023, n. 8594 e 24.03.2023 n. 3011; sez. VI, 12.10.2020, n. 6112; sez. VII, 07.08.2023 n. 7628; id. 30.03.2023, n. 3304; sez. VI, 18.05.2021, n. 3853).
7.2 Nel caso di specie, posto che l’amministrazione ha respinto l’istanza di sanatoria perché dal fotogramma aereo del 12.07.2003 non erano visibili le opere oggetto di condono, l’interessato non ha fornito alcun elemento idoneo a smentire quanto emergente dalla documentazione agli atti del comune.
Al riguardo non assurgono a prova della realizzazione dei manufatti residenziali in data antecedente al 31.03.2003 né la concessione edilizia n. 39/1996, che ha per oggetto la costruzione di un magazzino agricolo, né la circostanza -affermata ma, mai dimostrata- che all’epoca del rilievo aerofotogrammetrico del luglio 2003 il fabbricato fosse occultato da rigogliosa vegetazione che lo sovrastava.
7.3 Correttamente pertanto il giudice di primo ha ritenuto legittimo il diniego a prescindere dall’ulteriore profilo afferente al superamento della volumetria condonabile, poiché la mancata realizzazione delle opere entro il termine di legge, che era onere del richiedente dimostrare, costituisce di per sé circostanza ostativa al condono.
Peraltro l’appellante non ha nemmeno dato la prova della sussistenza dei presupposti di cui al comma 1, lett. b), l.r. 8/11/2004, n. 12, che disciplina il caso in cui l’intera unità immobiliare oggetto di sanatoria sia adibita a prima casa del richiedente, giacché nel caso di specie è pacifico che solo una porzione del fabbricato era adibito ad abitazione dell’istante.
8. In definitiva l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 26.01.2024 n. 853 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per l’ordine di demolizione non serve il motivo di interesse pubblico. Il Consiglio di Stato ricorda la natura del provvedimento di «atto dovuto e vincolato»; e la ponderazione dell’interesse pubblico è assolta, a monte, dal legislatore.
Nessun diritto a comunicare l’avvio del procedimento prima di emettere l’ordinanza di demolizione. Nessun obbligo di indicare nell’ordinanza di demolizione il motivo di interesse pubblico al ripristino. Nessuna possibilità di invalidare l’ordinanza a causa del molto tempo trascorso tra la realizzazione dell’abuso e la procedura repressiva. Nessun obbligo di verificare, su istanza dell’interessato, la “doppia” conformità dell’opera oggetto dell’ordinanza di ripristino.
Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sul caso di un abuso realizzato in un comune della Campania, ribadisce tutte le caratteristiche dell'ordinanza di demolizione che rendono questo atto snello, potentissimo e praticamente inarrestabile.
Il caso di specie riguarda un fabbricato di due livelli a destinazione abitativa realizzato senza titolo in un'area incompatibile con tale funzione (zona agricola).
L'ordinanza di demolizione emessa dal comune a cinque anni dalla sua scoperta, da parte della polizia municipale, è stata impugnata al Tar Campania dall'interessato, il quale ha impugnato anche il diniego del comune nei confronti della richiesta, fatta successivamente, per valutare la conformità urbanistica dell'opera per la quale era stato avviato il contenzioso. Infine, a seguito del rigetto dei ricorsi del Tar, l'interessato si è rivolto al Consiglio di Stato.
Il secondo giudice, nel confermare la decisione del Tar, ha esaurientemente dimostrato l'infondatezza di tutti i motivi con i quali il ricorrente aveva attaccato la decisione del Comune. In nessun caso è stato possibile intaccare o indebolire l'efficacia di questo provvedimento repressivo, previsto dal legislatore a favore dei comuni e finalizzato al controllo e tutela del territorio.
Tanto per cominciare, l'ordinanza di demolizione di manufatti abusivi, ribadisce Palazzo Spada, «non richiede una specifica motivazione sulla ricorrenza del concreto interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato già compiuta, a monte, dal legislatore».
Il provvedimento, precisano inoltre i giudici nella sentenza 26.01.2024 n. 825, «è atto vincolato e -si ribadisce- non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione».
Neanche il passaggio del tempo toglie nulla al potere del comune, escludendo «un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi».
Quanto alla mancanza di comunicazione di avvio del procedimento, i giudici respingono decisamente anche la tesi del ricorrente secondo la quale l'ordinanza sarebbe illegittima senza la comunicazione ex articolo 7 della legge 241/1990, non prevedendo questo atto, «alcun apporto partecipativo del privato», se ci sono i presupposti di legge.
«L'attività di repressione degli abusi edilizi mediante l'ordinanza di demolizione -si ricorda-, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.02.2024).
---------------
SENTENZA
3.1. Nel merito l’appello è infondato e va respinto.
Con il primo motivo (rubricato: Error in iudicando – violazione art. 7 l. 241/1990) l’appellante sostiene che il TAR avrebbe erroneamente ritenuto superflua la preventiva comunicazione di avvio del procedimento e del funzionario responsabile, stante la natura vincolata dell’ordinanza di demolizione, in quanto il Consiglio di Stato in più occasioni avrebbe ribadito, seppur implicitamente, la necessità della preventiva interlocuzione tra la P.A. ed il privato anche in materia di ordinanza di demolizione.
3.2. La censura relativa all’illegittimità dell’ordine di demolizione per assenza della comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 l. 241/1990 non ha pregio.
L’ordinanza di demolizione costituisce infatti espressione di un potere vincolato e doveroso in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, rispetto al quale non è richiesto alcun apporto partecipativo del privato (Cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 11/05/2022, n. 3707: “L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990, considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare alcun esito diverso”; Consiglio di Stato, sez. II, 01/09/2021, n. 6181: “Al sussistere di opere abusive la pubblica amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di demolizione; per questo motivo, avendo tale provvedimento natura vincolata, non è neanche necessario che venga preceduto da comunicazione di avvio del procedimento”).
In ogni caso, trattandosi di procedimento vincolato, troverebbe applicazione l’art 21-octies, co. 2, l. 241/1990, posto che il provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato.
3.3. E’ pure infondato il secondo motivo di impugnazione (rubricato: Error in iudicando – eccesso di potere), con il quale l’appellante sostiene che sarebbe errata la sentenza nella parte in cui il giudice di I grado ha respinto il motivo di ricorso con il quale è stato evidenziato il difetto di motivazione in ordine all’interesse pubblico alla demolizione ed alla mancata valutazione della conformità urbanistica degli abusi sanzionati, e con il quale l’appellante (citando la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 781/1991 senza riportarne sinteticamente il contenuto o altra indicazione per esaminare l’attinenza della stessa alla censura) ritiene che tale onere motivazionale era sicuramente esistente.
3.3.1. Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato,
l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni della loro abusività (Ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 07/06/2021, n. 4319).
Ne consegue che non è necessario che l’amministrazione individui un interesse pubblico –diverso dalle mere esigenze di ripristino della legalità violata– idonee a giustificare l’ordine di demolizione (Consiglio di Stato, sez. VI, 17/10/2022, n. 8808: “L'ordine di demolizione di manufatti abusivi non richiede una specifica motivazione sulla ricorrenza del concreto interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato già compiuta, a monte, dal legislatore”; Consiglio di Stato sez. II, 11/01/2023, n. 360: “L'ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione”).
Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, atteso che, a fronte della realizzazione di un immobile abusivo, non è configurabile alcun affidamento del privato meritevole di tutela; l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha infatti chiarito che “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino” (Consiglio di Stato, ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
Tali principi sono stati da ultimo ribaditi dal Consiglio di Stato, sez. II, 11/01/2023, n. 360, che ha affermato che “
l'ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi".).
3.3.2. È pure infondata l’affermazione dell’erroneità della sentenza laddove respinge la censura sulla mancata valutazione della conformità urbanistica degli abusi sanzionati prima di ordinarne la demolizione.
Infatti,
la realizzazione delle opere edilizie descritte nell’ordine di demolizione in assenza del prescritto titolo edilizio, costituisce elemento sufficiente a giustificare l’adozione del provvedimento impugnato; tale circostanza impone al Comune di ordinare il ripristino dello stato dei luoghi a prescindere dall’eventuale compatibilità delle opere con gli strumenti urbanistici.
3.3.3. Secondo la costante giurisprudenza di questa Sezione,
la conformità urbanistica delle opere deve essere oggetto di valutazione da parte dell’amministrazione comunale solo nell’ipotesi in cui il privato abbia presentato un’istanza di accertamento di conformità (ex multis Consiglio di Stato sez. VI, 20/07/2021, n. 5457: “In presenza di abusi edilizi, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 e tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, del medesimo d.P.R. n. 380 cit., che obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36 che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato”).

EDILIZIA PRIVATA: Giusta il consolidato orientamento della giurisprudenza, l'omessa o imprecisa indicazione nell'ordinanza di demolizione dell'area che verrà acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per il caso di inottemperanza all'ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell'ordinanza stessa; invero, l'indicazione dell'area è requisito necessario ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria.
E’ stato osservato che “l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza fissata direttamente dalla legge, senza necessità dell'esercizio di alcun potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto quello del mero accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi; per quanto invece riguarda l'indicazione dell'area da acquisire, il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato, non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate”.
Dunque l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione costituisce un evento normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa; la mancata indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque essere colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di acquisizione.
Dunque la posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell'area, rispetto al quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza, nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.

---------------

3.4. Con il terzo motivo di impugnazione (rubricato: Error in iudicando - violazione art. 31 DPR n. 380/2001), l’appellante censura la sentenza laddove ritiene che l’indicazione dell’area da acquisire può avvenire nella fase susseguente all’accertamento dell’inottemperanza.
L’appellante sostiene che l’omessa indicazione pregiudicherebbe dal punto di vista sostanziale gli interessi del ricorrente, il quale, in primo luogo, deve essere messo in condizione di valutare, in termini di “costo-beneficio”, l’opportunità di adempiere o meno all’ordine di demolizione.
Inoltre l’esatta indicazione sarebbe necessaria, in quanto l’effetto ablatorio si verificherebbe immediatamente ed “ope legis” alla scadenza del termine legale o di quello prorogato dall’autorità competente per ottemperare all’ingiunzione a demolire, con acquisto a titolo originario della proprietà libera da eventuali pesi e vincoli preesistenti.
3.4.1. La censura non merita accoglimento.
Occorre premettere che l’articolo 31 del d.P.R. n. 380/2001 prevede al comma 3 che, "Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti previsioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita".
Con riferimento alla censura dedotta il Collegio rileva che la prospettazione di parte appellante, come rilevato nella decisione di questa Sezione 03.12.2020, n. 7672, “si pone in contrasto con un consolidato orientamento della giurisprudenza in base al quale l'omessa o imprecisa indicazione nell'ordinanza di demolizione dell'area che verrà acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per il caso di inottemperanza all'ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell'ordinanza stessa; invero, l'indicazione dell'area è requisito necessario ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria (cfr. Cons. St., sez. IV, 25 n. 5593 del 2013; Cons. St., sez. V. n. 3438 del 2014; Cons. St., sez. IV, n. 4659 del 2008; Cons. St. sez. VI, n. 1998 del 2004)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 03.12.2020, n. 7672).
E’ stato osservato che “l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza fissata direttamente dalla legge, senza necessità dell'esercizio di alcun potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto quello del mero accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi; per quanto invece riguarda l'indicazione dell'area da acquisire, il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato, non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.02.2018, n. 755).
Dunque l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione costituisce un evento normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa; la mancata indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque essere colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di acquisizione (Cons. St., sez. VI, 24/06/2020, n. 4058; Cons. St., sez. IV, n. 5593 del 2013; Cons. St., sez. V. n. 3438 del 2014; Cons. St., sez. IV, n. 4659 del 2008; Cons. St., sez. VI, n. 1998 del 2004) (Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.10.2022, n. 9068).
Dunque la posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell'area, rispetto al quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza, nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.
3.4.2. Da quanto dedotto emerge l’infondatezza delle censure proposte dalla parte appellante alle statuizioni del Giudice di prime cure in ordine alle doglianze sottoposte al suo vaglio con il ricorso principale con riferimento all’ordine di demolizione
 Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.01.2024 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

APPALTI SERVIZI: Clausola sociale, nessun obbligo di riassunzione di tutto il personale dell’appaltatore uscente.
Il Consiglio di Stato ribadisce la necessità di contemperare l’obbligo con la libertà di organizzazione dell’impresa anche nel nuovo codice.
Con la recente sentenza 25.01.2024 n. 807 del Consiglio di Stato, Sez. V, si rimarca che dall’applicazione della clausola sociale non sorge alcun obbligo di integrale riassorbimento del personale del pregresso affidatario.
L’applicazione della clausola, infatti, esige un contemperamento tra un «bilanciamento delle tutele del lavoro con l’art. 41 Cost.» ed il «principio, tipicamente pubblicistico, di buon andamento dell’azione amministrativa».
La vicenda
Il ricorrente censura l'errore della sentenza di primo grado (Tar Lazio, sez. II, n. 13442/2023) nella parte in cui non ha accolto il primo motivo del ricorso fondato sulla pretesa violazione dell'obbligo di riassorbimento del personale del pregresso gestore imposto dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
L'aggiudicatario, secondo l'appellante avrebbe sottodimensionato il riassorbimento del personale del pregresso affidatario proponendo l'assorbimento di 73 dipendenti su 181.
Il giudice, anche di secondo grado, non condivide l'assunto evidenziando, fin dalla premessa, che la stessa legge di gara non prevedeva -né avrebbe potuto prevederlo- l'esclusione in caso di mancato totale riassorbimento del personale del precedente contratto prevedendo, invece, l'estromissione solo in caso di mancata produzione del piano di riassorbimento (destinato a chiarire le dinamiche organizzative che concretamente l'operatore intende adottare sul riassorbimento, sempre eventuale).
I vincoli della clausola sociale
La censura consente al giudice d'appello di ricordare l'esatta configurazione degli obblighi che discendono dalla clausola sociale (anche nella nuova configurazione voluta dal
nuovo codice).
In primo luogo, lo stesso disciplinare di gara, correttamente, prevedeva da un lato la necessità di impegnarsi sulla stabilizzazione ma chiarendo «la necessaria armonizzazione con l'organizzazione dell'operatore economico subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto». In secondo luogo, la legge di gara indicava il contratto «preteso» dalla stazione appaltante (Ccnl Servizi di pulizia e servizi integrati/Multiservizi) ma «ferma l'applicazione», proseguiva il disciplinare, «ove più favorevole, della clausola sociale prevista dal contratto collettivo nazionale prescelto dall'aggiudicatario del contratto».
Il disciplinare quindi, rispettoso delle indicazioni del codice, salvaguardava l'autonomia imprenditoriale degli appaltatori. Nel ritenere corrette dette indicazioni, il giudice d'appello precisa che «il grado di vincolatività della clausola sociale si desume dalla regola di compatibilità espressamente declinata nel disciplinare, che richiede l'armonizzazione con l'organizzazione aziendale, rendendola attuabile con elasticità, in ragione appunto delle prerogative imprenditoriali».
L'obbligo del nuovo gestore, quindi, è solo quello di procedere prioritariamente, in caso di necessità di manodopera, nell'assorbimento «nel proprio organico» del «personale già operante alle dipendenze del fornitore uscente». Ed è proprio l'uso dell'avverbio «prioritariamente», spiega il giudice, sta a significare che «l'esigenza di assumere personale deve essere soddisfatta attingendo prioritariamente al personale alle dipendenze del gestore uscente, non obbligando invece ad acquisire personale proveniente dal gestore uscente se non necessario, così declinando l'obbligo in modo da renderlo compatibile con le scelte organizzative dell'impresa».
La clausola sociale, quindi, deve essere intesa in senso elastico non imponendo in nessun caso «la riassunzione di tutta la forza lavoro utilizzata dal gestore uscente». La portata dell'obbligo della clausola, del resto, veniva ben chiarita in una serie di riscontri ad altrettanti quesiti posti alla stazione appaltante con cui si chiariva che dalla stessa «non può derivare un obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata» laddove il concorrente risultasse «già in possesso di una propria struttura in grado di gestire autonomamente tale funzionalità, così declinando l'obbligo in modo da renderlo compatibile con le esigenze imprenditoriali».
La stazione appaltante, pertanto, ha ben chiaro l'approdo giurisprudenziale in materia prima di tutto anche comunitario (fatto proprio anche dall'Anac) secondo cui l'obbligo del riassorbimento è solo teorico e deve essere contemperato «con la libertà d'impresa e con la facoltà in essa insita di organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell'appalto (Cons. St., sez. V, 01.08.2023 n. 7444)».
La clausola sociale di assorbimento, conclude il giudice, è destinata sì ad operare nell'ipotesi di cessazione d'appalto e «subentro di imprese o società appaltatrici e risponde all'esigenza di assicurare la continuità dell'occupazione nel caso di discontinuità dell'affidatario» ma l'effetto non può essere vessatorio e tale da «condizionare la libertà economica e i principi dell'economia di mercato al fine di perseguire interessi socialmente rilevanti, come il diritto al lavoro». In difetto risulterebbe in contrasto con la stessa Costituzione italiana fin dall'articolo 1 e delle disposizioni costituzionali «che si occupano di lavoro, fra le quali gli artt. 35, 36» e 41.
E sono proprio «le esigenze di bilanciamento fra diritti costituzionalmente protetti» che «impediscono quindi di attribuire alle prerogative dei lavoratori una valenza assoluta, dovendo essere contemperate con altre esigenze di tutela, pure costituzionalmente garantite», tra queste l'autonomia imprenditoriale (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.02.2024).

URBANISTICA: La buona fede dei lottizzandi non salva la lottizzazione abusiva (e non ferma il Comune). Il Tar Palermo ha ribadito il principio, rigettando la richiesta degli interessati di sospendere il fermo dei lavori imposto dall’ente locale.
Nessuna possibilità per i lottizzandi in buona fede di fermare l’azione del Comune contro la lottizzazione abusiva.
Con una recente ordinanza, il Tar Palermo ha respinto l’istanza di alcuni lottizzandi volta a sospendere l’ordinanza dell’ente locale per fermare subito i lavori dopo la scoperta di una vasta lottizzazione abusiva (in forma sia cartolare che materiale) nel comune siciliano.
I giudici del TAR Sicilia-Palermo, Sez.   , hanno escluso nettamente qualsiasi fumus boni iuris dei richiedenti, per una serie di motivi, tutti saldamente confermati dagli orientamenti della giurisprudenza.
Gli istanti, affermano i giudici, «non possono invocare il proprio stato soggettivo al fine di escludere la legittimità del provvedimento impugnato»; e questo perché «la lottizzazione abusiva -si ricorda nell'ordinanza 25.01.2024 n. 38- prescinde dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti in buona fede, estranei alla commissione dell'illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti dell'alienante».
Strada sbarrata anche alle eventuali possibilità di sanatoria di singoli elementi (lotti o fabbricati), in quanto «non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell'area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso».
Infine, anche l'argomento legato alla circostanza che l'abuso è molto risalente nel tempo viene respinto al mittente. «Il fatto che le opere siano state realizzate in un lungo arco di tempo -affermano infatti i giudici del Tar- non incide in alcun modo sulla legittimità dell'ordine di sospensione della lottizzazione, avuto presente il menzionato carattere permanente dell'illecito» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.02.2024).
---------------
ORDINANZA
Considerato, anzitutto:
   - che secondo il condivisibile orientamento della giurisprudenza “…la lottizzazione abusiva ex art. 30 del d.P.R. n. 380 del -OMISSIS-01 prescinde dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti in buona fede, estranei alla commissione dell'illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti dell'alienante [cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.-OMISSIS-16, n. 26]” (Consiglio di Stato n. 768/-OMISSIS--OMISSIS-), sicché i ricorrenti –quali acquirenti dell’immobile– non possono invocare il proprio stato soggettivo al fine di escludere la legittimità del provvedimento impugnato;
Rilevato:
   - che dalla documentazione versata in atti dal Comune e per fatti pacifici, l’area indentificata al catasto al foglio -OMISSIS- ex part.-OMISSIS- (di estensione di 23.610 mq) ha formato oggetto di numerosi frazionamenti con conseguente edificazione, nei lotti così creatisi, di altrettanti immobili, connessi da una strada d’accesso e delimitati da un muro lungo tutto l’asse nord/sud dell’area, sicché sussiste una lottizzazione abusiva nella forma sia cartolare che materiale;
   - che, inoltre, la contestata lottizzazione abusiva –pur al sommario esame proprio della presente fase cautelare– non appare realizzata interamente in data antecedente all’introduzione della l. 47/1985;
   - che, in proposito, il Comune ha dato conto di elementi concreti che suffragano il compimento di opere e atti giuridici, nell’ambito dell’area coinvolta nella lottizzazione, successivamente all’entrata in vigore della legge predetta;
Evidenziato:
   - che l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell'ordinato assetto del territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto dall'eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio, e pertanto alcun rilievo sanante può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria (TAR Campania Salerno, sez. I – 14/11/-OMISSIS-23 n. 2172, che ha puntualizzato come “Su queste basi, non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell'area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso”);
   - che, su quest’ultimo punto, si veda in senso conforme Consiglio di Stato, sez. VI – 19/04/-OMISSIS-23 n. 3957;
   - che, in ogni caso, la natura di illecito permanente della lottizzazione abusiva (cfr. Consiglio di Stato n. 2947/-OMISSIS-21) conduce a ritenere applicabile la sanzione reale della demolizione di cui all’art. 18 l. 47/1985; in altri termini, il fatto che le opere siano state realizzate in un lungo arco di tempo non incide in alcun modo sulla legittimità dell'ordine di sospensione della lottizzazione, avuto presente il menzionato carattere permanente dell'illecito (cfr. Tar Sicilia- Palermo sent. n. 1001/-OMISSIS-23);
   - che la conseguente insanabilità si giustifica con la deviazione dagli scopi stabiliti con la pianificazione urbanistica e la lesione dell'essenziale prerogativa comunale della programmazione in materia (CGA Sicilia – 22/06/-OMISSIS-22 n. 745, ad avviso del quale “essa ha dunque una potenzialità lesiva più estesa di quella del singolo abuso edilizio poiché incide sull'interesse pubblico primario alla corretta urbanizzazione del territorio condizionando indebitamente le scelte pianificatorie future”);
Dato atto:
   - che, per costante giurisprudenza, non vi è obbligo per il Comune di procedere ad una variante urbanistica pur in presenza di zone interessate da vasti interventi abusivi (CdS, I, 14.03.-OMISSIS-22, n. 565; Id., II, 02.11.-OMISSIS--OMISSIS-, n. 6762 e 07.08.-OMISSIS-19, n. 5607);
   - che, con riguardo all’ultimo motivo, la natura di atto vincolato del provvedimento impugnato esclude la necessità di comunicazione del preavviso di rigetto;
Ritenuto:
   - che, in definitiva, non sussiste il fumus boni iuris del gravame;

EDILIZIA PRIVATA: Abuso in centro storico, prima di demolire (o monetizzare) serve il parere della Soprintendenza.
La procedura, ricorda il Consiglio di Stato chiamato a giudicare un’intricata vicenda, si applica anche agli edifici non sottoposti a vincolo.

Prima di decidere se demolire o concedere la possibilità di monetizzare un abuso edilizio su un edificio nel centro storico, il Comune deve chiedere il parere della Soprintendenza, anche se l'intervento riguarda un bene non sottoposto a tutela. E comunque, in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, benché l'acquisizione al patrimonio del Comune «operi di diritto, non è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari al fine di addivenire al trasferimento di proprietà, che necessita di un titolo; pertanto, il mancato accertamento dell'inottemperanza, unitamente peraltro all'adozione di atti e/o comportamenti dell'Amministrazione incompatibili con l'esercizio di tale potestà acquisitiva, possono escludere la colpevolezza del proprietario, non determinando il trasferimento della proprietà, ferme restando le responsabilità civili, amministrative, penali e contabili dei funzionari che non hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio secondo le scansioni temporali previste dal legislatore».

Questi principi si leggono nella lunga e densa pronuncia del Consiglio di Stato - Sez. II (sentenza 22.01.2024 n. 806) che mette la parola fine a una vicenda estremamente complessa, di cui in passato si è occupato sia il giudice ordinario (fino a una pronuncia della Corte d'Appello) sia lo stesso giudice amministrativo (con sentenze del Tar Emilia Romagna e infine dello Stesso Consiglio di Stato).
La controversia prende le mosse da un abuso edilizio, consistente in una sopraelevazione su una terrazza all'ultimo piano di un edificio (non sottoposto a tutela) nel centro storico di Modena, di cui di fatto ne è stato modificato il prospetto. L'intervento consiste nella l realizzazione di un volume di circa 14 mq con un affaccio diretto quasi in linea con il fronte dell'edificio e con due finestre, diverse per forma e collocazione rispetto a quelle del palazzo. L'intervento è stato realizzato in difformità a una istanza di risistemazione dell'immobile ottenuta nel 1983.
Successivamente, l'interessata ha chiesto la sanatoria ai sensi del condono del 1985, che gli è stata negata dal Comune, il quale nel 1990 ha emesso una ordinanza di demolizione, mai formalmente revocata. Ne è seguito un primo contenzioso, che si concluso sfavorevolmente al proponente: sia il Tar Emilia Romagna che il Consiglio di Stato, infatti, respingono, rispettivamente, ricorso e appello dell'interessato. L'abuso viene confermato anche dal giudice ordinario, con sentenze del Tribunale e della Corte d'Appello.
Tuttavia, questi giudizi non incidono in alcun modo sulla realtà: né il proprietario procede alla rimessa in pristino, né le opere vengono demolite dal Comune, il quale non procede neanche all'acquisizione del bene. Si apre invece una interlocuzione tra il proprietario e il Comune, ad esito della quale vengono emanati due successivi provvedimenti, nel 2019 e poi nel 2022, con i quali il Comune concede alla proprietaria la sanatoria dell'abuso previa monetizzazione, in alternativa alla demolizione.
A questo punto inizia il secondo contenzioso perché il provvedimento viene impugnato dai condomini dell'edificio. Il Tar Emilia Romagna accoglie il ricorso.
Da ultimo, il Consiglio di Stato, ad esito di una attenta ricostruzione e una approfondita analisi dei vari profili del caso, respinge l'appello e annulla i provvedimenti del Comune, con però una diversa motivazione rispetto al Tar. In questo secondo contenzioso lo stesso Co
mune di Modena si è costituito ad adiuvandum a fianco dell'interessata.
A rendere complicata la vicenda è anche la classificazione dell'intervento edilizio oggetto della controversia, che il Tar inquadra come nuova costruzione e che invece il Consiglio di Stato riconduce alla ristrutturazione edilizia. Il Tar respinge il ricorso perché ritiene che il Comune abbia violato l'articolo 31 del Testo unico edilizia, cioè quello che riguarda gli interventi senza permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali. L'articolo 31 prevede appunto la procedura dell'acquisizione del bene al patrimonio comunale, in caso mancata rimessa in pristino da parte dell'interessato (cui può eventualmente seguire una demolizione volontaria da parte del proprietario negoziata con il Comune).
Anche il Consiglio di Stato respinge l'appello ma guarda invece all'articolo 33, quello sugli interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità. Per questa fattispecie, come è noto, è prevista la rimessa in pristino ma non l'acquisizione da parte del comune in caso di inottemperanza. Di fatto, attraverso due percorsi argomentativi diversi, i due giudici arrivano alla medesima conclusione. Nel primo caso, il Tar respinge il ricorso perché -muovendosi nella logica dell'acquisizione del bene al patrimonio comunale ex articolo 31- conclude che «la fiscalizzazione non avrebbe potuto intervenire essendo il bene ormai passato alla proprietà pubblica».
Il Consiglio di Stato -muovendosi invece nella logica della regolarizzazione ex articolo 33- pizzica il comune nel mancato adempimento previsto dal comma 4 dell'articolo, bypassando il parere obbligatorio e vincolante da richiedere alla Soprintendenza, previsto anche nel caso di edifici non vincolati.
Infatti, ricordano i giudici della Seconda Sezione di Palazzo Spada, in caso di regolarizzazione di opere di ristrutturazione edilizia, «eseguite su immobili, anche non vincolati, ubicati nei centri storici, la individuazione della tipologia di sanzione da applicare, reale o pecuniaria, spetta all'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali ed ambientali, che si esprime mediante un parere vincolante. Tale tipologia di atto, per il suo contenuto, ha valenza sostanzialmente decisoria, il che implica che il Comune deve attenersi a quanto stabilito dalla suddetta amministrazione. Esclusivamente nel caso in cui il parere non venga reso entro il termine previsto, la competenza si trasferisce all'amministrazione comunale». Il comune invece ha fatto tutto in casa, attraverso la commissione sulla qualità del paesaggio, in difformità dalla legge.
«È proprio il legislatore -sottolinea Palazzo Spada- ad avere preteso, giusta il potenziale impatto di un intervento demolitorio, anche singolo, all'interno di un centro storico, che la scelta (di ripristino, solo se tecnicamente possibile, ovvero di mantenimento, a prescindere dalla fattibilità) sia rimessa all'Autorità preposta alla tutela di un vincolo, ancorché formalmente non imposto.
D'altro canto, la affermata insanabilità dell'opera di cui all'originario provvedimento del 1989, si fonda proprio sulla assimilazione, quanto meno con riferimento al regime degli illeciti, tra regime vincolistico e regime di inedificabilità imposto dalla disciplina urbanistica».
«Introducendo un autonomo concetto giuridico, anziché pratico/tecnico, di impossibilità demolitoria, invece, e nel contempo avocando ad un proprio organismo consultivo l'espressione della scelta tra demolizione e monetizzazione, sulla base di un giudizio di valore che non tiene alcun conto dei precedenti giudicati sul punto -concludono i giudici- il Comune di Modena ha violato l'art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001».
«Applicando la regola generale, infatti, avrebbe dovuto far verificare dai propri uffici tecnici la fattibilità del ripristino; applicando invece quella specifica dettata per i centri storici, previa istruttoria finalizzata comunque ad accertare la fattibilità tecnica del ripristino, avrebbe dovuto acquisire il preventivo parere della Soprintendenza, quale unico soggetto munito della richiesta terzietà per evitare la demolizione, seppure concretamente eseguibile, a tutela dell'assetto complessivo dei luoghi. Tertium non datur» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sopraelevazione, c’è l’interesse ad agire in giudizio del condòmino. Il Consiglio di Stato l’ha individuato nella tutela del valore architettonico dell’edificio
La tutela del valore architettonico dell’edificio condominiale, “astrattamente pregiudicata da qualsivoglia ipotesi di sopraelevazione”, integra sicuramente l’interesse ad agire del condomino contro provvedimenti che invece ne legittimano il mantenimento.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.01.2024 n. 806 (Pres. Cirillo, Est. Manzione) con una complessa decisione che ha toccato almeno tre punti su cui, si legge in una nota del Cds, “non esistono precedenti negli esatti termini”.
Il requisito della vicinitas, quale condizione della legittimazione ad agire, spiega il Collegio, è intrinseco nella qualità di condomino ma non assorbe, neppure in tale peculiare ipotesi, quello dell’interesse ad agire, che va dimostrato in concreto, anche in corso di causa; esso, tuttavia -prosegue-, sussiste ogniqualvolta l’intervento contestato sia una sopraelevazione, e il condomino lamenti il pregiudizio all’aspetto architettonico dell’edificio, giusta l’operatività in tali ipotesi dell’art. 1127, commi 2 e 3, c.c.
Nel caso affrontato l’intervento era consistito in una sopraelevazione contro la quale alcuni condomini avevano proposto ricorso al giudice civile ex art. 1127 c.c. La Corte di Appello di Bologna, confermando sul punto la pronuncia di primo grado, ha ritenuto corretto il paradigma normativo invocato, in quanto intervenendo sul lastrico solare con una chiusura la signora l’ha “inglobato” nel proprio appartamento.
Il Collegio condivide la ricostruzione operata dal giudice civile. L’incremento di volumetria, cioè, è stato realizzato sì sulla propria esclusiva di una parte, ma effettuando una sopraelevazione, la cui realizzazione soggiace comunque ai limiti e alle condizioni di cui ai commi 2 e 3 del richiamato art. 1127 c.c.
Pur non essendo stato ritenuto provato il pregiudizio statico riveniente all’intero edificio, è stata al riguardo dichiarata «la discontinuità con la linea orizzontale superiore del fabbricato, […] arretrata rispetto alla facciata condominiale» nonché connotata dalla presenza di «due finestre di forma e finiture diverse da quelle esistenti nei piani inferiori e disallineate rispetto alle stesse, determinando un quid disarmonico rispetto al preesistente a scapito del pregio estetico del condominio nel suo aspetto architettonico».
Il Consiglio di Stato pone anche altri punti fermi. Benché la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, spiega il Collegio, in caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione dell’abuso edilizio, operi «di diritto», non è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari al fine di addivenire al trasferimento di proprietà, che necessita di un titolo; pertanto, il mancato accertamento dell’inottemperanza, unitamente peraltro all’adozione di atti e/o comportamenti dell’Amministrazione incompatibili con l’esercizio di tale potestà acquisitiva, possono escludere la colpevolezza del proprietario, non determinando il trasferimento della proprietà, ferme restando le responsabilità –civili, amministrative, penali e contabili– dei funzionari che non hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio secondo le scansioni temporali previste dal legislatore.
Inoltre, lo stato legittimo dell’immobile, chiarisce la decisione, è altra cosa rispetto alla sua consistenza originaria e va desunto dall’ultimo titolo di legittimazione rilasciato; qualora un titolo edilizio esista e sia proprio lo “scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria ad attivare il procedimento sanzionatorio, non è certo possibile riferirsi a una ipotetica situazione preesistente al titolo stesso, salvo introdurre una forma di improprio e generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute medio tempore, legittimate o meno (articolo NT+Diritto del 30.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Conseguenze della mancata demolizione di un immobile abusivo.
In linea generale il proprietario non ha più alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se coinvolgerlo ulteriormente nella stessa.
Quanto alla possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1, del medesimo T.u.e., consente la presentazione della relativa istanza «fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e dunque prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in pristino ovvero -nel caso in cui ciò non sia possibile- prima dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli articoli 33 e 34.
Le possibili variabili a tale -condiviso- schema ricostruttivo generale conseguono alle difficoltà dei Comuni di dare seguito alle sanzioni ripristinatorie, come dimostrato dalla sempre denunciata scarsa incidenza casistica degli abusi concretamente demoliti rispetto a quelli effettivamente accertati. Nella prassi, cioè, accade sovente che i provvedimenti ripristinatori rimangano lettera morta per incapacità, semplice inerzia, ovvero addirittura scelta consapevole dell’amministrazione procedente.
La meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi enunciati finirebbe dunque per determinare un incredibile quantitativo di situazioni nelle quali, a prescindere da qualsivoglia analisi del caso concreto, lo stato di diritto non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche. Vero è che la formulazione della norma non sembra lasciare spazio a momenti interruttivi della sequenza procedimentale che consegue all’avvenuta adozione dell’ingiunzione a demolire.
Si ritiene tuttavia che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile condizione sospensiva, da ravvisare nel formale accertamento dell’inottemperanza, notificato «all’interessato» (art. 31, comma 4).
L’applicazione della sanzione ablatoria, peraltro, in ragione della sua massima afflittività, presuppone necessariamente l’apertura di una parentesi accertativa/informativa che da un lato consente all’amministrazione di verificare l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del nudo proprietario, estraneo e finanche inconsapevole della prima fase del procedimento.
Essa risponde dunque ad esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche di risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea, seppure tardiva, soddisfa pienamente e a costo zero le esigenze di buon governo del territorio dell’Amministrazione vigilante
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.01.2024 n. 806 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sull’interesse del condomino ad agire in giudizio contro un abuso edilizio.
---------------
Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Giustizia amministrativa – Condominio – Interesse al ricorso.
Il requisito della vicinitas, quale condizione della legittimazione ad agire, è intrinseco nella qualità di condomino ma non assorbe, neppure in tale peculiare ipotesi, quello dell’interesse ad agire, che va dimostrato in concreto, anche in corso di causa.
Esso, tuttavia, sussiste ogniqualvolta l’intervento contestato sia una sopraelevazione, e il condòmino lamenti il pregiudizio all’aspetto architettonico dell’edificio, giusta l’operatività in tali ipotesi dell’art. 1127, commi 2 e 3, c.c. operatività dell’art. 1127 c.c. (1).

---------------
Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Acquisizione al patrimonio del comune – Inottemperanza – Accertamento.
Benché la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, in caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione dell’abuso edilizio, operi «di diritto», non è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari al fine di addivenire al trasferimento di proprietà, che necessita di un titolo.
Pertanto, il mancato accertamento dell’inottemperanza, unitamente peraltro all’adozione di atti e/o comportamenti dell’Amministrazione incompatibili con l’esercizio di tale potestà acquisitiva, possono escludere la colpevolezza del proprietario, non determinando il trasferimento della proprietà, ferme restando le responsabilità –civili, amministrative, penali e contabili– dei funzionari che non hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio secondo le scansioni temporali previste dal legislatore (2)

---------------
Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Accertamento – Titolo edilizio.
Lo stato legittimo dell’immobile è altra cosa rispetto alla sua consistenza originaria e va desunto dall’ultimo titolo di legittimazione rilasciato.
Qualora un titolo edilizio esista e sia proprio lo “scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria ad attivare il procedimento sanzionatorio, non è certo possibile riferirsi ad una ipotetica situazione preesistente al titolo stesso, salvo introdurre una forma di improprio e generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute medio tempore, legittimate o meno (3).

---------------
   (1) Non risultano precedenti negli esatti termini.
   (2) Non risultano precedenti negli esatti termini.
   (3) Non risultano precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.01.2024 n. 806 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
10. La vicenda di cui è causa, resa ancor più complessa dall’evidente conflittualità sottesa alla stessa e dal profluvio argomentativo di tutte le parti (da ultimo, la memoria di replica delle appellate supera finanche i previsti limiti dimensionali), interseca diverse questioni di diritto con riferimento alle quali appare opportuno una preliminare ricostruzione giuridica.
Oggetto di impugnativa sono due provvedimenti di c.d. fiscalizzazione di un abuso edilizio, la cui sussistenza è incontestata tra le parti, ancorché non ne sia condiviso l’inquadramento, essendone dubbia la riconducibilità al paradigma della “nuova opera” o della “ristrutturazione edilizia”, in entrambi i casi sine titulo, ovvero, al più, in totale difformità da quanto avallato con l’unico posseduto, vale a dire l’autorizzazione edilizia n. 1461 del 1983 per «risanamento e modifiche di un appartamento al 4° piano di un fabbricato civile».
Il secondo provvedimento, di sostanziale conferma del precedente, consegue alla dichiarata necessità di ottemperare al giudicato cautelare favorevole alle ricorrenti in primo grado, previa acquisizione, peraltro, di documentazione tecnica che il Comune ha ritenuto satisfattiva dell’avvenuto rispetto dei requisiti imposti dalla normativa antisismica.
11. Il primo giudice, nel tentativo di mettere ordine nel reticolo delle contrapposte argomentazioni di parte, e soprattutto nel disordinato sviluppo procedimentale seguito dagli uffici comunali, ha infine motivato l’accoglimento del ricorso sul solo scrutinio positivo della doglianza contenuta al punto 3.1 dei motivi aggiunti, relativi alla invocata inapplicabilità agli interventi di “nuova costruzione” dell’istituto di cui all’art. 33, comma 4, del T.u.e.
Nello sviluppo della motivazione, tuttavia, ha dato altresì atto della fondatezza di ulteriori rilievi avanzati dalle ricorrenti in particolare con il ricorso principale, seppure in verità senza preoccuparsi troppo della coerenza narrativa della ricostruzione del quadro normativo proposta. Da qui il riferimento all’avvenuta acquisizione del bene al patrimonio del Comune, giusta la colpevole inottemperanza all’ingiunzione a demolire, non potendo la condotta della proprietaria essere “scriminata” dai documentati tentativi di appianare le problematiche di natura civilistica sottese alla vicenda.
Con riferimento poi alle censure riguardanti il primo atto, ma superate dal contenuto del secondo (lesione del contraddittorio, violazione o erronea applicazione della l.r. n. 39 del 2004), dando atto che esse sono state «depotenziate, alla luce del rinnovato esercizio dell’iter procedimentale e del nuovo provvedimento», ha dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse.
Alcune ulteriori questioni invece, o in quanto «aventi natura logicamente subordinata» o perché divenute irrilevanti (ad esempio, il rispetto delle norme in materia sismica, l’incongruità motivazionale, la disparità di trattamento), sono state assorbite.
Infine, «sull’applicazione della sanzione di 20.000 € (asseritamente dovuta ex art. 31 comma 4-bis)» ha ritenuto di non potersi pronunciare «trattandosi di attività amministrativa consequenziale e non ancora esercitata».
12. Il Collegio ritiene dunque utile innanzi tutto chiarire che il perimetro della controversia si concentra essenzialmente sul provvedimento del Comune di Modena del 2022, che in quanto confermativo del precedente, ne replica il contenuto (e quindi i vizi), ampliandoli, ma nel contempo ne elimina alcuni in precedenza presenti.
12.1. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se esso sia stato adottato o meno a seguito di una nuova istruttoria e di una nuova ponderazione degli interessi.
In tale seconda ipotesi, va dunque richiamato l’insegnamento giurisprudenziale per il quale «ogni nuovo provvedimento innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, anche di conferma propria (che si ha quando la pubblica amministrazione, sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente provvedimento) ed anche se frutto di un riesame non spontaneo, ma indotto da un provvedimento del Giudice amministrativo, che tuttavia rifletta nuove valutazioni dell'Amministrazione e implichi il definitivo superamento di quelle poste a base di un provvedimento impugnato giurisdizionalmente, comporta la sopravvenienza di carenza di interesse del ricorrente alla coltivazione del relativo gravame» (v. Cons. Stato, sez. VI, 15.01.2018, n. 195, che, a sua volta, richiama Cons. Stato, III, 02.09.2013, n. 4358 e sez. IV, 25.06.2013, n. 3457).
13. Da un confronto meramente testuale tra la determina del 2019 e quella del 2022 risultano chiari gli elementi di diversificazione e di approfondimento sopravvenuto, a partire dal mutato richiamo alla cornice normativa di riferimento, abbandonando il riferimento alla legislazione regionale per ricondurre la scelta solo sotto l’egida dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Da qui, l’effettiva inutilità della riproposizione da parte delle appellate delle censure facenti leva sulla contestata errata applicazione di tale legislazione regionale.
13.1. Vero è che nei casi di riedizione del potere in mera ottemperanza di una sentenza, si configura un comportamento attuativo necessitato dalla volontà di non vedersi esposto ad un’esecuzione coattiva sotto il controllo e la vigilanza del giudice (Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2011, n. 1757; Cons. Stato, sez. IV, 02.01.2019, n. 16).
Nel caso di specie tuttavia l’adozione non in maniera spontanea, ma in esecuzione della decisione cautelare del giudice, del nuovo atto regolante la vicenda da parte dell’Amministrazione, non dà allo stesso rilevanza provvisoria, in attesa cioè che una sentenza di merito definitiva accerti se quello originariamente impugnato sia o meno legittimo.
Al contrario, da esso emerge chiaramente che l’Amministrazione, a seguito della decisione del giudice, ha sostituito il provvedimento la cui esecutività è stata sospesa in sede giurisdizionale con un nuovo provvedimento frutto di una rinnovata valutazione degli interessi coinvolti, così adeguandosi al suo pronunciamento senza attendere il giudicato, innovando rispetto all’assetto di interessi già pregiudizievole per il privato.
In sintesi, seppure il dirigente abbia richiamato espressamente in premessa l’ordinanza n. 186/2022 del Tar per l’Emilia Romagna, se ne è poi discostato radicalmente, avendo da subito rimarcato che «non si è verificato alcun effetto ablatorio del manufatto in questione a favore del Comune di Modena visti gli intendimenti reiteratamente espressi dalla sig.ra Ma. di dare corso all’ordinanza con il corretto obiettivo di ripristinare uno stato dei luoghi conforme alla categoria del restauro propria dell’immobile, e non di creare un “quid novi” inconciliabile con tale categoria».
In senso diametralmente opposto la richiamata ordinanza, esprimendosi sul fumus dell’istanza, dà atto che «in buona sostanza, l’effetto ablatorio in favore del Comune appare essersi verificato ope legis con l’inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all’ingiunzione, mentre è irrilevante la mancata adozione di un atto di ricognizione della consistenza immobiliare oggetto di trasferimento (il quale costituisce viceversa titolo necessario per l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari del trasferimento dell’immobile)», invocando anche la copiosa giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia.
14. Sempre in limine litis, alterando la sistematica seguita nello sviluppo dell’appello, il Collegio ritiene opportuno scrutinare il quarto motivo di gravame, con il quale la signora Si.Ma. lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente l’interesse ad agire delle condòmine, asseritamente identificandolo nella mera affermazione di tale specifico status.
15. In materia di impugnazione dei titoli edilizi, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 22 del 2021, risolvendo un contrasto giurisprudenziale sulle condizioni dell’azione impugnatoria da parte di chi si ritenga leso da un titolo rilasciato a terzi, ha precisato che la mera c.d. vicinitas, intesa come vicinanza fisica della propria proprietà rispetto a quella oggetto dell’intervento edilizio contestato, non basta a dimostrare l’esistenza di un concreto ed attuale interesse a ricorrere, dovendosi affermare la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione ad agire e l’interesse al ricorso.
Il Giudice è tenuto dunque ad accertare anche d’ufficio la sussistenza di entrambe le condizioni dell’azione, verificando se esiste un vantaggio concreto ed attuale che il ricorrente potrebbe effettivamente trarre dalla caducazione del titolo edilizio contestato, tenuto conto delle specifiche censure articolate in atti e concedendogli la possibilità di precisarlo e comprovarlo in corso di causa, in modo da evitare il compimento di attività giurisdizionali inutili, in contrasto con l’interesse pubblico all’efficienza ed efficacia del processo ex artt. 111 Cost., 6 e 13 CEDU e 47 Carta UE.
15.1. Quanto detto non subisce deroghe neppure laddove ad agire sia un condomino, in relazione ad interventi che non interessino, o non interessino direttamente, parti comuni dell’edificio, seppure evidentemente la peculiarità del contesto renda la vicinitas per così dire ontologicamente intrinseca alla relativa qualifica.
Come di recente affermato anche dalla Sezione, ad esempio, laddove le conseguenze dannose dell’intervento siano già state oggetto di pronuncia risarcitoria favorevole, l’interesse è venuto meno, al fine di evitare un’indebita locupletatio del terzo rispetto alla censurata attività edificatoria altrui (Cons. Stato, sez. II, 17.10.2022, n. 8841).
15.2. Nel caso di specie tuttavia l’intervento è consistito nella sopraelevazione dell’edificio, con riferimento alla quale le odierne appellate non a caso hanno proposto ricorso innanzi al giudice civile ex art. 1127 c.c.
La Corte di Appello di Bologna, confermando sul punto la pronuncia di primo grado, ha ritenuto corretto il paradigma normativo invocato, in quanto intervenendo sul lastrico solare con una chiusura la signora Si.Ma. l’ha “inglobato” nel proprio appartamento.
E in effetti, quale che ne sia l’inquadramento tipologico sotto il profilo edilizio e a prescindere dalla contestata efficacia di giudicato di tali affermazioni da parte della difesa civica, giusta l’estraneità del Comune di Modena a ridetto contenzioso, il Collegio condivide la ricostruzione dei fatti di causa operata dal giudice civile. L’incremento di volumetria, cioè, è stato realizzato sì sulla propria esclusiva di una parte, ma effettuando una sopraelevazione, la cui realizzazione soggiace comunque ai limiti e alle condizioni di cui ai commi 2 e 3 del richiamato art. 1127 c.c.
Pur non essendo stato ritenuto provato il pregiudizio statico riveniente all’intero edificio, è stata al riguardo dichiarata «la discontinuità con la linea orizzontale superiore del fabbricato, […] arretrata rispetto alla facciata condominiale» nonché connotata dalla presenza di «due finestre di forma e finiture diverse da quelle esistenti nei piani inferiori e disallineate rispetto alle stesse, determinando un quid disarmonico rispetto al preesistente a scapito del pregio estetico del condominio nel suo aspetto architettonico».
Il riferimento alle finestre, quindi, cui l’appellante vorrebbe circoscrivere la portata del giudicato civile, è solo esemplificativo, oltre che rafforzativo, della generale disarmonia prodotta, quanto meno ad avviso del giudice civile.
15.3. La tutela, dunque, del valore architettonico dell’edificio condominiale, astrattamente pregiudicata da qualsivoglia ipotesi di sopraelevazione, integra sicuramente l’interesse ad agire avverso provvedimenti che ne legittimano il mantenimento, siccome accaduto nel caso di specie.
15.4. Va pertanto respinto il quarto motivo di appello.
16. D’altro canto e in senso diametralmente opposto, la sentenza impugnata ha ritenuto meritevole di apprezzamento la tesi contenuta nei motivi 2.1, 2.2 e 2.5 del ricorso introduttivo, laddove le appellate allora ricorrenti lamentano il difetto di legittimazione a chiedere una sanatoria da parte dell’appellante, essendo ormai intervenuta l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio indisponibile del Comune, e alla luce del giudicato formatosi sulla compromissione e peggioramento del decoro architettonico del palazzo.
La questione, ripresa nel motivo aggiunto 3.1, è infine più correttamente ricondotta non alla legittimazione ad avanzare richieste di qualunque genere al Comune di Modena -cui spettava l’onere di dichiararne se del caso l’improcedibilità- bensì alla ritenuta violazione, nell’adozione degli atti impugnati, dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, che essendo riferito alle ipotesi di ristrutturazione abusiva, non avrebbe potuto trovare applicazione in caso di “nuova costruzione”, quale quella in esame.
17. Il Collegio ritiene utile premettere una sintetica ricostruzione dei principi posti a base degli istituti giuridici a vario titolo e con finalità opposte evocati da tutte le parti in causa, in maniera peraltro spesso confusa, sì da attingere indistintamente elementi dall’uno e dall’altro, seppure si tratti di categorie autonome e per nulla fungibili.
18. L’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, prevede, per i soli casi di opera eseguita in assenza di permesso di costruire, ovvero in variazione essenziale o totale difformità dallo stesso, quale conseguenza della mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, un’automatica fattispecie acquisitiva al patrimonio del comune dell’opera abusiva e della relativa area di sedime.
Sull’automatismo del relativo meccanismo acquisitivo si è di recente espressa anche l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai cui principi occorre fare integrale rinvio, seppure con talune precisazioni integrative (Cons. Stato, A.P., 11.10.2023, n. 16).
18.1. Come affermato dal giudice delle leggi con riferimento all’omologa previsione contenuta nell’art. 15, comma 3, della l. 28.01.1977, n. 10, «l’acquisizione, a titolo gratuito, dell’area sulla quale insiste la costruzione abusiva al patrimonio indisponibile del comune rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale difformità od in assenza della concessione e, poi, non adempie l’obbligo di demolire l’opera stessa» (Corte cost., ordinanza n. 82 del 15.02.1991).
La natura sanzionatoria autonoma dell’acquisizione al patrimonio, da sempre riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa (da ultimo, v. ex multis C.G.A.R.S., 25.03.2022, n. 373, nonché Cons. Stato, sez. II, 20.01.2023, n. 714), ha trovato d’altro canto conferma con l’aggiunta al predetto art. 31 dei commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, per effetto dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), della legge 11.11.2014, n. 164, di conversione, con modifiche, del d.l. 12.09.2014, n. 133, che hanno previsto un’ulteriore e autonoma sanzione per il medesimo illecito, ovvero la corresponsione di una somma di danaro compresa tra euro duemila (2.000/00) e euro ventimila (20.000/00), i cui proventi sono a destinazione vincolata alle spese per rimessione in pristino e acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico. Sanzione aggiuntiva della quale le appellate lamentano la mancata irrogazione.
Sul punto, come detto, il primo giudice ha ritenuto di non pronunciarsi, essendo il relativo potere ancora esercitabile dal Comune di Modena, così dando ulteriormente per scontato che l’intera fattispecie sia da ricondurre all’interno della cornice delineata dall’art. 31 e non dall’art. 33 del T.u.e.
18.2. L’ordine di demolizione e l’atto di acquisizione al patrimonio comunale costituiscono dunque due distinte sanzioni, che rappresentano «la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi dapprima esegue un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di demolirla» (Corte cost., n. 140 del 2018, § 3.5.1.1.).
Mentre la sanzione disposta con l’ordinanza di demolizione ha natura riparatoria ed ha per oggetto le opere abusive, per cui l’individuazione del suo destinatario comporta l’accertamento di chi sia obbligato propter rem a demolire e prescinde da qualsiasi valutazione sulla imputabilità e sullo stato soggettivo (dolo, colpa) del titolare del bene; invece, l’acquisizione gratuita, quale conseguenza dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e della relativa omissione, ha natura afflittiva (così come la correlata sanzione pecuniaria).
18.3. Le scansioni procedurali sintetizzate dall’Adunanza plenaria risultano dunque essere le seguenti: «[…] il responsabile dell’illecito, il proprietario ed i suoi aventi causa hanno sempre il dovere di rimuoverne le conseguenze, sicché vanno distinte le seguenti fasi temporali:
   a) fino a quando scade il termine fissato nell’ordinanza di demolizione, questi hanno il dovere di effettuare la demolizione, che, se viene posta in essere, evita il trasferimento della proprietà al patrimonio pubblico;
   b) qualora il termine per demolire scada infruttuosamente, i destinatari dell’ordinanza di demolizione commettono un secondo illecito di natura omissiva, che comporta, da un lato, la perdita ipso iure della proprietà del bene con la conseguente e connessa irrogazione della sanzione pecuniaria e, dall’altro, la novazione oggettiva dell’obbligo propter rem, perché all’obbligo di demolire il bene si sostituisce l’obbligo di rimborsare l’Amministrazione, per le spese da essa anticipate per demolire le opere abusive entrate nel suo patrimonio, risultanti contra ius (qualora essa non abbia inteso eccezionalmente utilizzare il bene ai sensi dell’art. 31, comma 5, del d.P.R.n. 380 del 2001);
   c) decorso il termine per demolire, qualora l’Amministrazione non decida di conservare il bene, resta la possibilità di un’ulteriore interlocuzione con il privato per un adempimento tardivo dell’ordine di demolire, che non comporta il sorgere di un diritto di quest’ultimo alla ‘retrocessione’ del bene, né fa venire meno la sanzione pecuniaria irrogata, ma può evitargli, da un lato, la perdita dell’ulteriore proprietà sino a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita se non è già stata individuata in sede di ordinanza di demolizione, nonché gli eventuali maggiori costi derivanti dalla demolizione in danno
».
19. In linea generale, quindi, il proprietario non ha più alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se coinvolgerlo ulteriormente nella stessa.
Quanto alla possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1, del medesimo T.u.e., consente la presentazione della relativa istanza «fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e dunque prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in pristino ovvero -nel caso in cui ciò non sia possibile- prima dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli articoli 33 e 34.
20. Le possibili variabili a tale -condiviso- schema ricostruttivo generale conseguono alle difficoltà dei Comuni di dare seguito alle sanzioni ripristinatorie, come dimostrato dalla sempre denunciata scarsa incidenza casistica degli abusi concretamente demoliti rispetto a quelli effettivamente accertati.
Nella prassi, cioè, accade sovente che i provvedimenti ripristinatori rimangano lettera morta per incapacità, semplice inerzia, ovvero addirittura scelta consapevole dell’amministrazione procedente. La meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi enunciati finirebbe dunque per determinare un incredibile quantitativo di situazioni nelle quali, a prescindere da qualsivoglia analisi del caso concreto, lo stato di diritto non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche.
21. Vero è che la formulazione della norma non sembra lasciare spazio a momenti interruttivi della sequenza procedimentale che consegue all’avvenuta adozione dell’ingiunzione a demolire. Il Collegio ritiene tuttavia che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile condizione sospensiva, da ravvisare nel formale accertamento dell’inottemperanza, notificato «all’interessato» (art. 31, comma 4).
21.1. L’applicazione della sanzione ablatoria, peraltro, in ragione della sua massima afflittività, presuppone necessariamente l’apertura di una parentesi accertativa/informativa che da un lato consente all’amministrazione di verificare l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del nudo proprietario, estraneo e finanche inconsapevole della prima fase del procedimento.
Essa risponde dunque ad esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche di risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea, seppure tardiva, soddisfa pienamente e a costo zero le esigenze di buon governo del territorio dell’Amministrazione vigilante.
21.2. Il rispetto di tali scansioni procedurali, dunque, lungi dal costituire baluardo meramente formale strumentalmente invocato per procrastinare, ovvero scongiurare, la demolizione dell’abuso, costituisce il giusto punto di incontro fra i contrapposti interessi tutelati dal legislatore, ovvero la salvaguardia dell’ordinato sviluppo del territorio, di cui il previo titolo edilizio costituisce garanzia primaria, e la tutela della proprietà, destinata comunque a recedere laddove il titolare non sacrifichi al suo mantenimento il doveroso ripristino spontaneo dello stato dei luoghi.
Il che poi, sotto altro concorrente profilo, conduce a non svalutare il valore del verbale del sopralluogo, in genere demandato alla Polizia municipale, che constata l’omessa demolizione del manufatto abusivo.
Per pacifica giurisprudenza esso costituisce un mero atto istruttorio endoprocedimentale che precede il provvedimento vero e proprio costituente titolo «per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente»; ma a detto verbale di sopralluogo deve essere attribuito anche il valore corrispondente, mutatis mutandis, al verbale di contestazione dell’illecito ex art. 14 della l. n. 689 del 1981, stante che è solo a far data dallo stesso che il proprietario viene messo in condizione di chiarire la propria posizione, scongiurando l’effetto acquisitivo (ma non, ovviamente, quello demolitorio).
Solo così è possibile recuperare quel necessario elemento di raccordo tra i due snodi che tipicamente connotano ogni procedimento sanzionatorio, ovvero la fase affidata agli organi di vigilanza, deputata all’acquisizione di elementi istruttori, e la successiva, avente natura lato sensu contenziosa e decisoria, preordinata all’adozione, da parte dell’autorità titolare della potestà sanzionatoria, del provvedimento di irrogazione della stessa.
21.3. Nel contempo, le ricordate esigenze di certezza del diritto non possono tradursi in un effetto traslativo destinato a rimanere meramente virtuale ove non seguito, cioè, dai necessari e doverosi adempimenti formali.
Ritiene dunque il Collegio che l’operatività “di diritto” dell’effetto acquisitivo allo scadere dei 90 giorni dall’ingiunzione demolitoria vada intesa esclusivamente a favore del Comune, ponendo il proprietario in una situazione di mera soggezione rispetto alle scelte del primo, che non gli consente più di demolire spontaneamente, salvo il primo non glielo consenta, espressamente o tacitamente, non addivenendo alla formazione del titolo sempre necessario per dare luogo ad un cambio di proprietà.
21.4. È evidente al riguardo che ciò non esclude le eventuali responsabilità, penali, amministrativo-contabili e/o civili conseguente alla sostanziale rimessione in termini operata dal Comune nel momento in cui non dà seguito al procedimento sanzionatorio. Trattasi tuttavia di vicende estranee al perimetro del giudizio e comunque inidonee ad inficiare ex se il successivo procedimento amministrativo.
22. Ulteriore corollario di tali scelte gestionali è costituito dalla potenziale incidenza delle stesse sulla valutazione della “colpevolezza” del soggetto tenuto a rimuovere l’abuso. Anche a tale riguardo, va detto che l’Adunanza plenaria, nella pronuncia poc’anzi richiamata, seppure quasi come un obiter, ha individuato quale unica ipotesi di esclusione della imputabilità (non della colpevolezza, quindi) il caso, in verità alquanto di scuola, della «malattia completamente invalidante» ( § 19.6, della pronuncia n. 16 del 2023).
23. Ritiene il Collegio che se è lo stesso Comune ad aprire un dialogo con la proprietà, accedendo alle relative proposte e di fatto operando continue rimessioni in termini rispetto a quello normativamente previsto per l’ottemperanza, ridetta colpevolezza non può che essere esclusa.
23.1. Nel caso in esame, l’Amministrazione da un lato non ha mai inteso annullare in autotutela l’ordinanza del 1990 - revocata, a distanza di oltre trenta anni, con i provvedimenti impugnati; ma dall’altro non vi ha dato mai alcun concreto seguito, come avrebbe potuto –recte, dovuto– fare una volta passata in giudicato la sentenza n. 1507/2012 di questo Consiglio di Stato, che ha confermato la legittimità della denegata sanatoria.
Manca, dunque, un vero accertamento di inottemperanza: l’ammissione della stessa per tabulas nelle richieste di parte, dapprima di riesame, indi di sanatoria/legittimazione di una diversa modalità costruttiva, infine di fiscalizzazione, non è stata in alcun modo valutata dal Comune in relazione alla tempistica entro la quale l’abuso avrebbe dovuto essere demolito. Finanche la nota del 21.05.2014, di riscontro alla richiesta di parte del 02.04.2014, invocata dalle appellate a conferma delle proprie tesi, conferma la scelta del Comune di non dare seguito alla sanzione originariamente inflitta.
È vero, infatti, che in tale occasione il dirigente ha dichiarato non decaduto «nessun ordine di demolizione causa del parere della Commissione per qualità architettonica e il paesaggio del 14/03/2014 ove, a fronte di una Sua volontaria demolizione di quanto realizzato abusivamente. È stato proposto di valutare la possibilità di realizzare (dopo la demolizione dell’abuso), una struttura di tipo “ferro-finestra” per consentire il godimento del terrazzo prospiciente su piazza Pomposa»; salvo poi sollecitare la stipula di un accordo sostitutivo di provvedimento ex art. 11 della l. n. 241 del 1990, con ciò riconducendo il problema del mantenimento o meno dello status quo al previo avallo degli altri condomini, non alle questioni ostative di natura urbanistica.
Lo stesso è a dire della successiva comunicazione del 30.07.2015, che in maniera ancora più ambigua “concede” «ulteriori 90 giorni, dal ricevimento della presente, per dar corso all’esecuzione dell’ordinanza di demolizione del 01.03.1990», sull’assunto che non è stato dato riscontro all’invito precedente.
La nota peraltro preannuncia, in caso di ulteriore inottemperanza, non la futura acquisizione del bene e dell’area di sedime, ma l’irrogazione aggiuntiva della (sola) sanzione di cui all’art. 31, comma 4-bis, del T.u.e., «in considerazione del fatto che l’abuso ricade nelle aree di cui all’art. 27, comma 2, del citato D.P.R. 380/2001», senza peraltro precisare l’ipotizzata tipologia del vincolo, con ciò rafforzando tuttavia l’originario inquadramento dell’illecito nella fattispecie più grave.
24. Sotto tale profilo, dunque, è meritevole di positiva valutazione la contestata acquisizione del bene alla proprietà comunale (secondo motivo di appello, laddove si contestano i capi da 1.6 a 1.8, pag. 28-29), ripreso anche dal Comune di Modena, con argomentazione maggiormente perspicua.
25. Il Tar per l’Emilia Romagna, tuttavia, dopo essersi dilungato sulla tematica dell’automatica acquisizione del bene al patrimonio comunale, vi giustappone quella della ritenuta inapplicabilità alla fattispecie dell’istituto della fiscalizzazione.
26. Con il termine “fiscalizzazione” dell’abuso, funzionale ad evidenziare sinteticamente e già a livello definitorio la sua sostanziale monetizzazione, si intende un rimedio alternativo eccezionalmente concesso in luogo della demolizione.
In particolare, si può accedere alla fiscalizzazione sia in caso di mancanza, totale difformità o variazione essenziale dal titolo riferito ad ristrutturazione edilizia (art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001); sia a fronte di accertata difformità solo parziale dal permesso di costruire (art. 34, comma 2, e 2-bis, che ne ha esteso l’applicabilità anche agli interventi soggetti a s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire di cui all’art. 23, comma 01); sia infine all’esito di un annullamento, giudiziale o in autotutela, del titolo stesso (art. 38).
Ma non nell’ipotesi, più grave, di avvenuta realizzazione di una “nuova opera” in assenza di permesso di costruire o in totale difformità o variazione essenziale dallo stesso (art. 31).
27. Sul piano dei presupposti oggettivi, mentre nel caso di variazione essenziale o totale difformità ovvero di illiceità dell’intervento sopravvenuta all’annullamento del titolo si fa riferimento all’impossibilità di esecuzione, il cui accertamento motivato è demandato espressamente, almeno nella prima ipotesi, ai competenti uffici tecnici comunali (art. 33, comma 2); laddove si tratti di parziale difformità la stessa è limitata alla verifica dell’impatto sulla «parte eseguita in conformità», che non deve ricavarne pregiudizio.
27.1. Ad avviso del Collegio tale differenza, apparentemente minimale, costituisce un ulteriore tassello a riprova della proporzionalità del quadro delle reazioni dell’ordinamento rispetto al diverso disvalore degli illeciti: ferma restando la priorità sempre e comunque accordata all’opzione ripristinatoria, l’impossibilità di addivenirvi è affidata a più stringenti esigenze complessive di staticità e sicurezza della costruzione nel caso della variazione essenziale o totale difformità, mentre è circoscritta alla sussistenza di esigenze di salvaguardia in quanto tale della parte “buona” del manufatto, in caso di difformità parziale dal titolo, prescindendo, solo in tale ultima ipotesi, dalla tipologia di intervento effettuato (che dunque può anche non essere una ristrutturazione).
27.2. Con riferimento agli immobili non vincolati ma ricompresi nelle zone omogenee A di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, la norma prevede un’ulteriore “variabile” procedimentale, ovvero la necessità del previo «parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria» a cura dell’«amministrazione competente alla tutela dei beni culturali ed ambientali».
28. Se si eccettua il caso dell’avvenuta caducazione del titolo, è dunque evidente che la fiscalizzazione costituisce un “castigo” alternativo alla demolizione solo laddove l’abuso sia per così dire parte di un tutto, che comunque il legislatore consente eccezionalmente di preservare: ciò avviene tipicamente sia nel caso in cui ci si discosti in maniera minimale dalle indicazioni del permesso di costruire, sia in quelle in cui, benché la divergenza sia corposa, si tratta comunque di un intervento su patrimonio edilizio preesistente.
29. Certo è che essa si basa su presupposti del tutto diversi da quelli che portano all’acquisizione del bene al patrimonio indisponibile quale conseguenza dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire: e ciò per l’evidente ragione che la maggior gravità di queste ultime non consentono mai di tollerare il mantenimento in loco di situazioni di illecito permanente ritenute radicalmente in contrasto con esigenze di buon governo del territorio. Laddove ciò avvenga, infatti, deve trattarsi di una scelta funzionale all’interesse pubblico deliberato dall’organo legislativo del Comune, e successiva all’acquisizione della proprietà alla mano pubblica (art. 31, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001).
29.1. Rileva ancora il Collegio come tale eterogeneità contenutistica trovi piena conferma nelle differenze di declinazione dei relativi procedimenti sanzionatori: gli artt. 33 e 34 del T.u.e. non prevedono affatto la notifica dell’accertamento di inottemperanza per l’evidente ragione che ad essa non consegue la perdita della proprietà. L’iter si ricongiunge in tratti omogenei con riferimento alla demolizione, che nei casi più gravi è successiva all’acquisizione dell’opera, ma grava pur sempre sul Comune, seppure a spese dei responsabili dell’abuso.
30. La sentenza impugnata, in verità in assenza di una specifica censura sul punto, inquadra l’intervento come “nuova costruzione” e coerentemente ritiene non applicabile l’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non riferibile a ridetta tipologia di intervento edilizio, salvo poi precisare che in ogni caso la fiscalizzazione non avrebbe potuto intervenire essendo il bene ormai passato alla proprietà pubblica.
Su siffatto inquadramento «il Comune era privo di margini di apprezzamento, avendola il giudice amministrativo già qualificata come “nuova costruzione” (cfr. sentenza irrevocabile sez. II - 11/7/2003, par. 1-d)». Esso inoltre contrasterebbe con la giurisprudenza, richiamata allo scopo, che «[…] ritiene che debba essere classificata come nuova costruzione, non pertinenziale, anche una tettoia “che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa o di elevazioni dell’opera” (cfr. Tar Calabria-Reggio Calabria- 23/01/2023 n. 96, che evoca Consiglio di Stato sez. IV – 02/03/2018 n. 1309)».
31. Il Collegio non condivide la ricostruzione, ritenendo di accedere al riguardo alla diversa prospettazione fornita in merito dalla difesa civica.
Le argomentazioni dell’appellante, invece, in quanto fondate essenzialmente sulla ribadita attendibilità della documentazione concernente la preesistenza di un granaio che si sarebbe andato a ripristinare, già ritenuta inconferente sia dal Comune (con atti non impugnati), sia dal giudice civile, si palesano in parte qua prive di pregio.
D’altro canto, laddove l’Amministrazione avesse voluto rivedere anche le proprie originarie posizioni negative al riguardo, avrebbe dovuto rieditare tutti i precedenti dinieghi, a far data da quello del 30 ottobre 1989, per contro mai messo in discussione.
32. Il provvedimento datato 22.08.2022, oggetto di motivi aggiunti di ricorso, diversamente dal precedente, del 17.06.2019, inquadra espressamente l’opera «
nella categoria di intervento della ristrutturazione edilizia, nell’accezione di cui alle lett. d), comma 1, art. 31 Legge n. 457/1978, ora lett. d), comma 1, art. 3 DPR 380/2001 e lett. c), comma 1, art. 10 DPR 380/2001».
33. Il Collegio ritiene che l’inquadramento dell’abuso come ristrutturazione edilizia sine titulo, in quanto neppure fatta oggetto di censure di merito, non fosse in alcun modo preclusa dal precedente giudicato amministrativo.
La scarna motivazione ricavabile dalle sentenze del Tar per l’Emilia Romagna n. 755 del 1990 e n. 756 del 1990, confermate dall’altrettanto sintetica pronuncia del Consiglio di Stato n. 5707 del 2012, infatti, pare piuttosto arrestarsi ai limiti della relativa questione, non prendendo una vera e propria posizione in termini di inquadramento sistematico.
Nella prima, in particolare, avente ad oggetto proprio il diniego di sanatoria del 30.10.1989, il richiamo è all’art. 14 delle allora vigenti n.t.a. che vietano «ogni costruzione, anche di carattere provvisorio», così creando quel vincolo di inedificabilità assoluta sull’immobile ostativo al rilascio della sanatoria ex art. 33, lett. a) della l. n. 47 del 1985.
Analoga argomentazione è contenuta nella sentenza del Consiglio di Stato, ove in maggior dettaglio si precisa come la «sostanziale sopraelevazione dell’edificio e […] costruzione di un nuovo vano» implica l’operatività del richiamato vincolo di inedificabilità, che seppure contenuto nella pianificazione urbanistica, esclude la condonabilità ai sensi della norma poc’anzi richiamata.
La disciplina urbanistica, cioè, ammettendo sul fabbricato esclusivamente il risanamento conservativo, non consentiva alcun tipo di incremento volumetrico, automaticamente riconducendo lo stesso a “nuova” costruzione, come tale vietata. La dicitura “nuova costruzione”, cioè, pare effettivamente utilizzata in accezione atecnica, comunque sufficiente a motivare la reiezione di quello specifico ricorso.
34. D’altro canto, al momento della sua realizzazione era operante la sola previsione di cui all’art. 31 della l. n. 457 del 1978 -non a caso richiamato esso pure nelle premesse all’atto impugnato nella versione del 2022- che ha per la prima volta avocato alla potestà statale ambiti lasciati fino ad allora alla libera interpretazione delle norme tecniche e dei regolamenti edilizi comunali.
Va peraltro ricordato che già dalla seconda metà degli anni ´80 -ferma restando la definizione di legge- si era riscontrata finanche una frattura fra l’orientamento della giustizia amministrativa e quello della giustizia penale in quanto la prima riconosceva la possibilità nella ristrutturazione di aggiungere anche un quid novi e cioè incrementi volumetrici dell’edificio preesistente, laddove la seconda lo negava in maniera tassativa.
34.1. D’altro canto proprio la ristrutturazione edilizia, la cui definizione è ora contenuta nella lettera d) del comma 2 dell’articolo 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha subito nel tempo una storia travagliatissima, tanto da costringere l’interprete ad una faticosa opera di “ortopedia” e lettura sinottica delle diverse disposizioni che si sono succedute nel tempo al fine di stabilire quali fra gli interventi rientranti nella detta definizione siano oggi subordinati a permesso di costruire e quali possano invece essere realizzati con semplice s.c.i.a.
La norma, in verità, nella sua formulazione originaria, riprendeva e precisava in chiave fortemente limitativa- in quanto imponeva la «fedele ricostruzione» con «identicità» di «sagoma, volume, sedime e materiali»- quella del 1978, tant’è che da subito è stata oggetto di novelle caratterizzate da aperture sempre più sviluppate.
34.2. Da ultimo, con la legge di conversione 15.07.2022, n. 91, del decreto legge 17.05.2022, n. 50, c.d. decreto “Aiuti”, vi sono state ricomprese anche le tipologie di interventi demo-ricostruttivi “non fedeli” ricadenti in area vincolata che il legislatore aveva nelle precedenti modifiche continuato a riservare alla diversa categoria della nuova costruzione.
35. Una volta ammesso dunque l’inquadramento della fattispecie come ristrutturazione edilizia, viene meno qualsivoglia astratta possibilità di ipotizzare la perdita della proprietà, che comunque il Comune espressamente esclude nell’atto impugnato, in maniera tuzioristica, attribuendosi la scelta di avere valutato favorevolmente il fattivo contributo della proprietaria, escludendone la volontaria e quindi colpevole inottemperanza.
36. Il Collegio non ritiene comunque di addivenire ad una soluzione diversa da quella propugnata dal primo giudice, ancorché mutandone la motivazione, giusta il sostanziale sviamento da parte del Comune dal potere sanzionatorio del quale è titolare in materia urbanistico-edilizia.
37. Prive di pregio si palesano innanzi tutto le ulteriori censure dell’appellante, atte a valorizzare il contenuto dei vari pareri della Commissione comunale: essi, infatti, non solo «urtano frontalmente», come riportato dal Tar contro le statuizioni del giudice civile sul nocumento estetico al fabbricato; ma soprattutto attengono ad un mero giudizio di valore, basato cioè sulla personale opinione di quell’organo, privo di specifica competenza in materia di tutela vincolistica, circa l’opportunità di non modificare lo stato dei luoghi, in base ad un costrutto, più empirico che giuridico, che nel dubbio tende a considerare il rimedio (ovvero la demolizione) peggiore del male (la conservazione dell’illecito).
Anche a non voler considerare l’innegabile incoerenza evolutiva degli stessi, che hanno valutato senza soluzione di continuità richieste di riesame di un procedimento sanzionatorio ormai concluso, proposte edificatorie alternative alla demolizione, ovvero (ri)proposte sub specie di s.c.i.a. (laddove per dare esecuzione ad una demolizione non è evidentemente necessario alcun titolo, né è pensabile inserire in tale fase una anomala legittimazione sanante di porzione di illecito, in deroga alla -per quanto consta in atti- immutata disciplina urbanistica sul punto), essi non attengono agli aspetti tecnico-strutturali dell’edificio.
Trattasi cioè di una valutazione “a tavolino” che nulla ha a che vedere con il doveroso accertamento dell’impossibilità, sotto il profilo tecnico, di addivenire a demolizione, richiesto dalla norma in termini generali. La circostanza che manchi un’indicazione espressa in tal senso, non significa che alla disposizione possa attribuirsi un senso diverso da quello fatto palese dal sistema, per come sopra delineato, che vede nella monetizzazione dell’abuso un rimedio di natura eccezionale e derogatoria alla normalità del ripristino.
Non a caso, la differenza sostanziale tra le varie ipotesi di fiscalizzazione degli abusi va ravvisata negli effetti della stessa sulla regolarità dell’opera, sanata solo caso in cui essa consegua all’annullamento del titolo edilizio, cui parte della dottrina accomuna al più le “monetizzazioni” pure alternative alla demolizione di cui agli artt. 36-37 del T.u.e. (v. Cons. Stato, A.P., 07.09.2020, n. 17).
Nelle rimanenti ipotesi invece, in assenza di indicazione da parte del legislatore analoga a quella contenuta nell’art. 38, comma 2, del T.u.e, dopo non poche oscillazioni interpretative, la giurisprudenza è attestata nell’escludere la portata sanante del pagamento della sanzione, ravvisandovi piuttosto una sorta di tolleranza formalizzata di una situazione non conforme ad ordinamento, come tale da circoscrivere a situazioni di effettiva e oggettiva impossibilità di ripristino.
37. D’altro canto, neppure attingendo alla ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 33 può salvaguardarsi il procedimento seguito.
Va infatti ricordato che in caso di opere eseguite su immobili vincolati (comma 3) non è ammessa alcuna fiscalizzazione, dovendo l’amministrazione competente a vigilare sull’osservanza del vincolo ordinare sempre la restituzione in pristino, indicando criteri e modalità per la relativa effettuazione.
Nel caso invece di opere eseguite su immobili, anche non vincolati, ubicati nei centri storici, la individuazione della tipologia di sanzione da applicare, reale o pecuniaria, spetta all’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali ed ambientali, che si esprime mediante un parere vincolante.
Tale tipologia di atto, per il suo contenuto, ha valenza sostanzialmente decisoria, il che implica che il Comune deve attenersi a quanto stabilito dalla suddetta amministrazione. Esclusivamente nel caso in cui il parere non venga reso entro il termine previsto, la competenza si trasferisce all’amministrazione comunale.
37.1. Anche a voler ritenere la richiesta da parte del dirigente comunale del tutto sganciata da una preventiva valutazione tecnica di fattibilità, comunque condizionante il successivo parere, dalla stessa non è certo possibile prescindere laddove si addivenga ad una decisione tutta interna al Comune, possibile solo dopo avere interpellato le Soprintendenze.
38. Il Collegio ben conosce al riguardo il diverso orientamento (invero risalente) del Consiglio di Stato secondo il quale in mancanza di uno specifico regime vincolistico sul bene, l’intervento della Soprintendenza per i beni storici e paesaggistici non potrebbe ammettersi se non nei casi e nei limiti previsti dalla legge (Cons. Stato, sez. VI, 24.02.2014, n. 855).
Quanto detto sia in ragione dell’immediato superamento dello stesso da altro di senso diametralmente opposto (Cons. Stato, sez. VI, 10.03.2014, n. 1084), cui il Collegio aderisce, sia in quanto nel caso di specie è proprio il legislatore ad avere preteso, giusta il potenziale impatto di un intervento demolitorio, anche singolo, all’interno di un centro storico, che la scelta (di ripristino, solo se tecnicamente possibile, ovvero di mantenimento, a prescindere dalla fattibilità) sia rimessa all’Autorità preposta alla tutela di un vincolo, ancorché formalmente non imposto.
D’altro canto, la affermata insanabilità dell’opera di cui all’originario provvedimento del 1989, si fonda proprio sulla assimilazione, quanto meno con riferimento al regime degli illeciti, tra regime vincolistico e regime di inedificabilità imposto dalla disciplina urbanistica.
38.1. Introducendo un autonomo concetto giuridico, anziché pratico/tecnico, di impossibilità demolitoria, invece, e nel contempo avocando ad un proprio organismo consultivo l’espressione della scelta tra demolizione e monetizzazione, sulla base di un giudizio di valore che non tiene alcun conto dei precedenti giudicati sul punto, il Comune di Modena ha violato l’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, come lamentato dalle appellate nei motivi 2.4 e 2.5 del ricorso di primo grado (riproposti come motivo aggiunto 3.0, che richiama gli originari 2.4 e 2.5, nonché, in quanto fonte di vizio autonomo, nei motivi aggiunti 3.2 e 3.5).
Applicando la regola generale, infatti, avrebbe dovuto far verificare dai propri uffici tecnici la fattibilità del ripristino; applicando invece quella specifica dettata per i centri storici, previa istruttoria finalizzata comunque ad accertare la fattibilità tecnica del ripristino, avrebbe dovuto acquisire il preventivo parere della Soprintendenza, quale unico soggetto munito della richiesta terzietà per evitare la demolizione, seppure concretamente eseguibile, a tutela dell’assetto complessivo dei luoghi. Tertium non datur.
39. Né infine a diverse conclusioni può condurre l’enfatizzata difficoltà di individuazione dello “stato legittimato preesistente” stante che la relativa dizione non può far retroagire ad libitum l’individuazione della consistenza di un immobile, finendo per consentire la eventuale stratificazione di abusi edilizi che si sono succeduti nel tempo dopo l’originaria edificazione del manufatto principale.
40. Tale indebita lettura dello “stato legittimato” contrasta peraltro anche con la definizione datane di recente dal legislatore.
40.1. Lo “stato legittimo” dell’immobile, infatti, è oggi declinato nel comma 1-bis, inserito nell’art. 9-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 dal d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120 -dunque dopo l’adozione del primo provvedimento impugnato, ma prima del successivo– che lo individua in «[…] quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l'ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia».
La disposizione, già sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, è stata ritenuta rispettosa del riparto costituzionale in materia edilizia in quanto si limita ad individuare, in termini generali, la documentazione idonea allo scopo, definendo i tratti di un paradigma le cui funzioni –comprovate dai lavori preparatori– sono quelle di semplificare l’azione amministrativa nel settore, di agevolare i controlli pubblici sulla regolarità dell’attività edilizio-urbanistica e di assicurare la certezza nella circolazione dei diritti su beni immobili.
«Il contenuto prescrittivo di ampio respiro e le finalità generali perseguite dalla norma depongono a favore della sua qualifica in termini di principio fondamentale della materia, ciò che trova conferma nella sua stessa collocazione topografica nell’ambito delle “Disposizioni generali” del Titolo II della Parte I t.u. edilizia, dedicato ai “Titoli abilitativi”» (Corte cost., 14.09.2022, n. 217).
40.2. Lo “stato legittimo dell’immobile”, dunque, riguarda una sua condizione permanente, preesistente alla stessa entrata in vigore della disposizione, da riferire a opere realizzate prima del 1967, ovvero in epoca ancor più risalente, nei centri urbani poi dotatisi di un regolamento che richiedeva la licenza edilizia per l’edificazione, o per cui esiste solo un principio di prova di un titolo edilizio, il cui originale o la cui copia non è più rintracciabile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.03.2023, n. 3006; sez. II, 15.09.2023, n. 8339).
40.3. Laddove tuttavia, come nella specie, un titolo edilizio esiste ed è proprio lo “scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria che ha cagionato l’attivazione del procedimento sanzionatorio, è di tutta evidenza che “scavalcarlo”, cercando di immaginare la situazione allo stesso preesistente non è in alcun modo ipotizzabile, salvo introdurre una forma di improprio e generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute medio tempore, legittimate o meno.
41. Il Comune di Modena, facendo leva sulla mancata descrizione di tale “fantomatico” stato dei luoghi legittimato, cui ricondurre il ripristino della copertura, nell’ambito dell’ingiunzione a demolire del 1990, lo ha elevato a elemento essenziale della stessa. Con ciò pretermettendo che nella specie l’abuso non è consistito nella realizzazione di un’opera ex novo, bensì conseguito al rigetto di una sanatoria: ed è il contenuto di tale richiesta ad indicare, partendo dallo stato di fatto che si pretendeva di legittimare, lo sconfinamento rispetto al titolo rilasciato (l’autorizzazione del 1983).
Va dunque condivisa l’affermazione del Tar per l’Emilia Romagna laddove evidenzia che la controversa consistenza del palazzo negli anni 1926/1927 non inficia la certa realizzazione nel 1983 di una copertura dapprima inesistente, tant’è che la proprietà aveva informato del relativo progetto l’assemblea condominiale, subordinandone la realizzazione all’avallo comunale.
42. All’accoglimento delle (correttamente) riproposte censure di cui ai motivi aggiunti 3.0 e 3.5, non esaminate dal primo giudice, consegue la conferma della sentenza del Tar per l’Emilia Romagna, n. 67 del 06.02.2023, con diversa motivazione, e il conseguente annullamento dei provvedimenti del Comune di Modena del 17.06.2019 e del 22.08.2022.
Essi infatti sono stati adottati in violazione dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, non risultando accertata dagli uffici tecnici comunali l’impossibilità della demolizione, presupposto indefettibile della fiscalizzazione dell’abuso, in alcun modo surrogabile da giudizi di valore espressi dalla competente Commissione sulla qualità architettonica e il paesaggio, giusta la competenza in merito della Sola Soprintendenza (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.01.2024 n. 806 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Natura e presupposti della revoca di un beneficio economico già concesso.
---------------
Contributi e finanziamenti – Atto amministrativo – Revoca – Autotutela - Sanzione.
La revoca di un beneficio economico è espressione del potere di vigilanza accordato alla p.a. preposta alla relativa elargizione e, al pari della decadenza disposta dal G.S.E. in materia di energie alternative, ha tratti comuni con l’autotutela e con l’omonimo atto sanzionatorio ma se ne distingue in ragione di tale esplicitata finalizzazione (1).
---------------
Contributi e finanziamenti – Atto amministrativo – Procedimento in genere – Correttezza e buona fede – Revoca – Termine.
La reciprocità degli obblighi di correttezza tra privato e p.a. impone al primo di fornire le informazioni richieste in maniera chiara ed esaustiva ma non consente alla seconda di intervenire sine die contestando la validità di documentazione il cui controllo avrebbe potuto essere effettuato nell’immediato.
Il potere di controllo è infatti strumentale alla corretta elargizione di danaro pubblico, ma senza perdere di vista la finalità del beneficio di incentivare determinate iniziative in quanto rispondenti a finalità di pubblico interesse, spesso oggetto di tutela anche a livello eurounitario.
Pertanto, ove esercitato senza tenere conto delle aspettative generate nel privato che ha fatto affidamento sulla correttezza dell’operato della p.a., che pur essendo in condizione di farlo, non gli ha eccepito alcunché, adottando anche atti o tenendo comportamenti indicativi di una valutazione positiva dell’iniziativa, esso è affetto da sviamento rispetto alle finalità pubbliche per le quali è stato conferito (2).

---------------
   (1) Conformi: Cons. Stato, Ad. plen., n. 18 del 2020.
         Difformi: non risultano precedenti difformi.
   (2) Non risultano precedenti in termini
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.01.2024 n. 688 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
8. Nel merito, l’appello è fondato per le ragioni di seguito esplicitate.
9. Innanzi tutto, il Collegio ritiene necessario inquadrare il provvedimento adottato, denominato di “revoca” di un beneficio economico in precedenza concesso, ancorché non ancora erogato.
10. In relazione a tale ambito, di regola con il relativo nomen iuris il legislatore indica l’atto caducatorio, distinto dall’esercizio della vera e propria autotutela, col quale si dà attuazione al potere di vigilanza conferito strumentalmente all’amministrazione preposta all’elargizione di risorse pubbliche per finalità via via individuate come meritevoli dalla normativa di settore.
I tratti distintivi della decadenza dagli incentivi per le energie rinnovabili disposta dalla Società gestrice dei relativi servizi (G.S.E.), in qualche modo contenutisticamente assimilabile, sono stati individuati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, distinguendoli per un verso dall’irrogazione della sanzione e per l’altro, appunto, dall’annullamento d’ufficio ex art. 21-novies della l. n. 241 del 1990 (Cons. Stato, A.P., 11.09.2020, n. 18).
La revoca, infatti, consegue alla riscontrata necessità da parte della p.a. concedente di procedere al recupero o alla mancata liquidazione in concreto di erogazioni in generale, in particolare se si tratta di agevolazioni di diritto UE, erroneamente accordate in assenza del presupposto che le legittimava ab origine.
Trattasi cioè dell’esercizio di un potere vincolato, che elide ex tunc il beneficio assentito sine titulo, sulla base del dato oggettivo della riscontrata violazione della normativa di regolazione del settore senza che ne rilevi lo stato soggettivo del beneficiario, emergendo quindi preminente l’esigenza per la pubblica amministrazione che neppure deve motivare specificamente le ulteriori ragioni d’interesse pubblico concreto e attuale o di comparazione con quello del debitore, anche quando questi sia in buona fede, circostanza destinata caso mai ad assumere rilievo in relazione al quomodo del recupero, non certo nell’an (cfr., in argomento, Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2018, n. 6659 e 30.05.2017, n. 2614).
9.1. L’esercizio di tale potere, cioè, in quanto privo di spazi di discrezionalità perché non rivolto al riesame della legittimità di una precedente determinazione amministrativa di carattere provvedimentale, ma finalizzato al controllo circa la veridicità e la completezza delle dichiarazioni formulate da un privato nell’ambito di un procedimento volto ad attribuire sovvenzioni pubbliche, esula in radice dalle caratteristiche proprie degli atti di autotutela e dall’applicabilità dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
A maggior ragione, non è configurabile alcun affidamento in capo al privato che abbia formulato dichiarazioni incomplete o non rispondenti all’effettivo stato dell’impianto e delle sue componenti, pur in assenza di ogni valenza penalistica di tale condotta.
10. Nelle procedure ad evidenza pubblica, infatti, quale che ne sia l’oggetto specifico, la completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché consente, anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità, la celere decisione in ordine all’ammissione del privato, in particolare se operatore economico, per il quale il fattore tempo assume rilievo anche in termini concorrenziali, alla selezione.
11. Il procedimento configura cioè in capo al singolo obblighi di correttezza, specificati con il richiamo alla clausola generale della buona fede, della solidarietà e dell’autoresponsabilità, che rinvengono il loro fondamento sostanziale negli artt. 2 e 97 della Costituzione e che impongono che egli assolva oneri di cooperazione, quale appunto è il dovere di fornire informazioni non reticenti e complete, di compilare moduli, di presentare la prescritta documentazione, ecc., di regola secondo il paradigma della dichiarazione sostitutiva di cui al d.P.R. n. 445/2000.
Conseguentemente, ove l’adempimento informativo, per come esplicitato a monte, sia stato evaso in maniera non corretta o non veritiera, tale mancanza non può formare oggetto di domanda d’integrazione o di richiesta di acquisizione a carico della P.A. in base al cd. “obbligo di soccorso” ex art. 6 della l. n. 241/1990, prima ancora che in base alla legislazione speciale sulla contrattualistica pubblica.
12. Rileva tuttavia il Collegio come tali principi non possano non incontrare un limite nelle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche, e, soprattutto, nell’affidamento che il privato in buona fede ripone sulla correttezza dell’operato della p.a.
Lo stillicidio di richieste istruttorie che caratterizza troppo spesso la prassi operativa delle amministrazioni pubbliche, finanche laddove un mero screening preventivo della domanda ne consentirebbe da subito l’inquadramento in termini di adeguatezza e completezza, è d’altro canto alla base del lamentato fallimento di tutti i tentativi di semplificazione posti in atto dal legislatore, stante che è proprio su tale rilievo, vero o presunto, che si fonda la mancata decorrenza, ad esempio, dei tempi di controllo della regolarità di una s.c.i.a. ovvero di maturazione di un silenzio-assenso.
13. Vero è che laddove le verifiche attengano all’erogazione di risorse pubbliche il particolare rigore richiesto non può che risolversi in una maggior tolleranza in ordine alle tempistiche di verifica. Ma è evidente che le stesse, finanche nel caso in cui ammesse sine die dalla legislazione di settore (si pensi, ad esempio, a quanto prescritto, sempre in materia di incentivi in ambito energetico, dall’art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011, per come interpretato dalla già richiamata pronuncia dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato), non possono consentire ad libitum adempimenti meramente formali riducibili a semplici riscontri empirici, quali quelli consistenti nella “spunta” delle produzioni, ovvero nella verifica di rispondenza delle stesse ad ulteriori prescrizioni esteriori.
Ne consegue che, ad esempio, la carenza di allegazioni documentali non espressamente richieste e rivelatesi rilevanti ex post per supportare le dichiarazioni dell’istante, non può essere utilizzata a distanza di tempo per confutarne le deduzioni in quanto non documentate nella maniera pretesa.
Ciò laddove manchi una esplicitazione comprensibile ed inequivoca nel senso della loro necessità, ovvero laddove il comportamento dell’Amministrazione successivo al loro dichiarato scrutinio abbia confortato l’utente nel senso della efficacia/regolarità delle indicazioni fornite, rafforzandone l’affidamento. In tale ultima ipotesi, infatti, se non sono stati avanzati dubbi o richieste di chiarimenti ulteriori, per non tenere conto di quelli che le sono stati forniti l’amministrazione dovrà evidentemente motivarne la obiettiva inadeguatezza.
14. In altri termini, la ricerca del doveroso punto di equilibrio tra tutela dell’erario e affidamento del privato che sulla base della preventivata acquisizione di risorse ha concretamente investito in un’attività imprenditoriale, confidando nel recupero ancorché parziale delle spese affrontate, risiede nella declinazione di un efficace sistema di controlli e verifiche da parte dell’amministrazione. Esso cioè deve essere volto a scongiurare o quantomeno attenuare gli effetti gravemente afflittivi dei provvedimenti di decadenza/revoca sin da subito, ovvero in un tempo ragionevole necessario per l’effettuazione di verifiche di esclusiva natura documentale, adottabili, in quanto non presupponenti complesse verifiche ispettive, ad esempio circa la rispondenza dello stato dei luoghi a quanto dichiarato dall’istante.
Salvo evidentemente, come già precisato, l’ipotesi in cui emerga la non veridicità delle affermazioni del privato richiedente, che non può fondarvi alcun affidamento rispetto al conseguimento di un beneficio pubblico formalmente già concesso (Cons. Stato, A.P., 29.11.2021, n. 21), per superare la tutela dello stesso è sempre necessaria una qualche motivazione dell’interesse pubblico.
14. In sostanza, nel caso di esercizio del potere di disporre la decadenza o la revoca per assenza dei necessari presupposti degli incentivi, il legittimo affidamento presuppone che la causa di illegittimità o irregolarità -che ha portato all’esercizio del suddetto potere- non sia nota o comunque conoscibile sulla base dell’ordinaria diligenza dal privato che confida nella stabilità degli atti posti in essere dall’amministrazione.
Nel caso di specie, la cronologia delle fasi procedimentali, una volta esclusa la declaratoria di circostanze false, depone nel senso della necessità di dare rilievo a tale affidamento, ingenerato proprio dalle modalità dei controlli posti in essere dalla Regione Calabria.
Lo sviluppo del procedimento in senso formalmente rassicurante, infatti, conseguito proprio ad approfondimenti specifici sul punctum pruriens della controversia (la dimostrata disponibilità della titolarità del bene in conformità alle clausole contrattuali) non consente di ritenere il privato assoggettato ad libitum a ripensamenti circa la completezza ed adeguatezza dell’istruttoria effettuata.
15. A conferma di tale conclusione si pone da ultimo la modifica normativa apportata all’art. 1 della l. 07.08.1990, n. 241, mediante l’inserimento del comma 2-bis ad opera della l. 11.09.2020, n. 120, di conversione del d.l. 16.07.2020, n. 76, ai sensi del quale «i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede».
La disposizione ha legificato espressamente, rafforzandone la preesistente positivizzazione, anche alla luce dei principi di derivazione europea, il dovere di comportamento di buona fede da parte dell’amministrazione quale fondamento giustificante il formarsi di legittime aspettative in capo al privato. Quanto detto non senza ribadire che il dovere di collaborazione e buona fede è bilaterale, ponendosi un obbligo di diligenza anche in capo al privato, il cui affidamento deve quindi necessariamente risultare incolpevole, come più volte precisato.
16. A conclusioni favorevoli all’appellante può tuttavia giungersi a maggior ragione ove si acceda alla tesi che nel caso di specie la Regione Calabria abbia esercitato il proprio potere di autotutela sub specie di annullamento d’ufficio, cui consegue da un punto di vista fattuale, prima che giuridico, la “revoca” del contributo concesso.
17. In generale, va da sé, infatti, che nell’esplicare l’attività di controllo sulla correttezza dei presupposti di erogazione dei benefici economici, l’Amministrazione si avveda di un proprio precedente errore valutativo, al quale intenda porre rimedio. Il confine tra i due istituti (revoca quale conseguenza dei poteri di controllo postumo del possesso dei requisiti e annullamento d’ufficio della concessione degli stessi) nella prassi non è affatto netto, stante che le amministrazioni tendono ad utilizzare le ragioni del secondo per supportare il primo, superando i limiti, di tempo e di contenuto, sottesi all’esercizio dell’autotutela.
18. È chiaro infatti che ove si attinga alla categoria concettuale dell’annullamento d’ufficio, occorre anche garantire il rispetto di tutti i presupposti cui il legislatore ne condiziona l’utilizzabilità, quali in primo luogo il rispetto di un termine «ragionevole», da ultimo quantificato in dodici mesi dall’adozione dell’atto, indi la esplicitata comparazione tra l’interesse pubblico all’annullamento e quello al mantenimento del provvedimento ampliativo della sfera giuridica del destinatario dello stesso.
19. La sentenza impugnata, pur omettendo totalmente l’essenziale passaggio sistematico sotteso all’inquadramento del provvedimento avversato, pare ricondurlo a ridetta categoria concettuale, giusta l’insistito richiamo ai principi di cui all’art. 21-octies, comma 2 e art. 21-novies.
A ben guardare, anzi, la affermata natura necessitata dell’atto, tale da rendere inutile qualsiasi apporto contributivo da parte del destinatario, evoca ancor più specificamente quella species dell’autotutela comunemente denominata come “doverosa” ancorché parziale, che trova fondamento proprio nella riscontrata falsità delle dichiarazioni del richiedente l’atto annullato (sul punto, si veda Cons. Stato, sez. II, 02.11.2023, n. 9415, ai cui principi si intende fare integrale richiamo).
Ma anche in tale specifica ipotesi, l’attenuazione dell’onere motivazionale consegue proprio alla richiamata falsità, di per sé sufficiente ad esplicitare il pubblico interesse alla rimozione dell’atto. Come pure precisato dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, infatti, l’erronea prospettazione, da parte del privato, delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare una sua posizione di affidamento, con la conseguenza che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte (Cons. Stato, A.P. 17.10.2017, n. 8).
«L’interesse pubblico all’eliminazione, ai sensi dell’ art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 , di un titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa, a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo, non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione procedente» (così TAR Salerno, sez. II, 05.01.2021, n. 18, richiamata da Cons. Stato, sez. VI, 06.07.2023, n. 6615).
20. Nel caso di specie, tuttavia, il provvedimento impugnato non reca alcun richiamo a tale presunta falsità, introdotta nel procedimento di primo grado dalla difesa della regione ed avallata dal Tar per la Calabria, con ciò dando luogo ad un’inammissibile integrazione postuma della motivazione dell’atto impugnato, basata esclusivamente sulla asserita violazione formale dell’art. 4 dell’avviso pubblico. Sicché neppure potrebbe dirsi soddisfatto quel minimo di obbligo motivazionale che consente, in ragione della gravità dei presupposti dell’esercizio dell’autotutela, di limitarsi a tale emblematico richiamo.
21. A ben guardare, anzi, la Società ha da subito documentato la propria (ritenuta) disponibilità del fabbricato giusta la scrittura privata allegata alla domanda, nonché ribadito tale impostazione reiterando la produzione documentale in riscontro alla specifica richiesta di integrazione istruttoria avente ad oggetto proprio la produzione del «titolo di proprietà» (richiesta della Regione del 27.07.2015, riscontrata il 24.08.2015).
In alcun modo, dunque, ha artefatto la descrizione della propria situazione in concreto riferita al bene, o, peggio ancora, falsificato la documentazione de qua. Il Collegio non rileva infatti l’adombrata divergenza tra il negozio prodotto nel corso di procedimento e quello acquisito successivamente dall’Agenzia delle Entrate competente per territorio, debitamente interpellata in merito – che peraltro, ove sussistente, avrebbe dovuto risolversi in un’informativa alla competente Procura della Repubblica, di cui non è traccia in atti.
L’unica differenza “grafica”, infatti, riguarda l’assenza del timbro a secco recante la data di protocollazione in entrata da parte di ridetta Agenzia nella produzione procedimentale (04.10.2014), che tuttavia sembra piuttosto da ascrivere ad un’omissione dell’ufficio, dato che coincidono sia il numero di protocollo che il nominativo della funzionaria.
Individuare in tale carenza “grafica” un intento truffaldino su un elemento che avrebbe potuto essere riscontrato immediatamente coinvolgendo l’Agenzia delle entrate, senza attendere di esservi indotti dall’esposto successivo, non solo non appare plausibile, ma neppure risulta da un qualche passaggio narrativo nell’atto impugnato.
22. Degna di rilievo appare piuttosto la rettifica informativa da parte dell’Agenzia, che nel trasmettere la certificazione dell’iscrizione al Comune, ne corregge l’indicato codice identificativo per tipologia di operazione compiuta, riportandolo alla registrazione di un preliminare di vendita e non di un acquisto definitivo, come rappresentato dall’amministrazione.
Ciò conferma ulteriormente o un’istruttoria negligente, e come tale non recuperabile in maniera postuma a discapito del beneficiario di buona fede senza evidenziarne i passaggi motivazionali, ovvero, più plausibilmente, la ritenuta coerenza originaria dell’atto prodotto con le finalità della clausola, salvo valorizzarne, ex post, la diversa stesura letterale, per come “attenzionata” dall’associazione denunciante.
22.1. Vero è che la scrittura privata del luglio 2014 presenta molteplici profili di ambiguità contenutistica, stante che in alcuni passaggi parla di vera e propria vendita, utilizzando il relativo verbo all’indicativo presente («vendono», appunto), in altri si pronuncia al futuro laddove parla di «fabbricato promesso in vendita» ovvero del prezzo per la «futura vendita». E tuttavia nessun chiarimento né sulla sua esatta portata, né sulla sua avvenuta registrazione è stato richiesto dalla Regione fino all’attivazione del procedimento di revoca.
23. Il Collegio ritiene superflua un’esegesi puntuale della portata letterale dell’art. 4 del bando, in particolare ove incentrata, come pure pretenderebbe l’appellante, sull’esatta estensione dell’ambito oggettivo della sua operatività, tratto dalla terminologia (sicuramente non rispondente alla lettera al quadro definitorio riveniente dal d.P.R. n. 380 del 2001, Testo unico dell’edilizia) con la quale vengono individuati gli interventi oggetto delle progettualità presentate (rispettivamente, nuova costruzione e ricostruzione previa demolizione alla lettera a) e recupero alla lettera b).
Ciò che viceversa appare dirimente nel caso di specie è che
24. Ciò in quanto, come ampiamente chiarito, la Regione Calabria non solo non ha eccepito alcunché in sede di scrutinio originario della domanda; ma neppure lo ha fatto all’esito dell’istruttoria mirata sul punto. I successivi controlli, egualmente con esito positivo, sono successivi a tale integrazione documentale: in particolare l’approvazione del QTE risale al 02.11.2015, quando cioè qualsivoglia dubbio residuo avrebbe dovuto essere necessariamente chiarito.
In tale atto peraltro nel richiamare nuovamente l’art. 14 dell’avviso, laddove si ricorda che l’erogazione delle somme concesse è subordinata alla verifica del possesso dei requisiti di ammissibilità, la Regione fa opportuno riferimento alle sole anomalie riscontrate in sede di esecuzione dei lavori per controllare la rispondenza tra quanto dichiarato negli elaborati progettuali e quanto effettivamente realizzato.
Ciò non poteva non far presumere esaurito il controllo di tipo documentale, con il supporto peraltro di apposita commissione nominata all’uopo a supporto del RUP, e quindi doverosa la motivazione delle ragioni sottese alla sua riedizione, alla luce dell’affidamento nel frattempo ingenerato nella controparte e del contenuto delle osservazioni presentate in risposta alla comunicazione di avvio del procedimento.
25. A conclusioni non dissimili deve pervenirsi laddove si acceda alla diversa tesi dell’avvenuto esercizio del potere di annullamento d’ufficio. Una volta escluso, in quanto né esplicitato in motivazione, né dimostrato in atti, che vi sia stata una falsificazione documentale per la quale va ribadito l’obbligo di informativa all’Autorità giudiziaria ordinaria, non possono trovare applicazione le agevolazioni procedurali sottese all’esercizio dell’autotutela doverosa, che peraltro non implicano, come chiarito, la totale assenza dell’onere motivazionale.
La discrezionalità intrinseca dell’annullamento in autotutela, dunque, non consente di derubricare a mero vizio di forma la mancata valutazione delle osservazioni di parte conseguite a inoltro del preavviso, stante che le stesse attengono proprio alla adeguatezza della produzione documentale, sia in termini formali, sia per la loro ravvisata non ostatività, alla luce della ratio della clausola e della sua lettura necessariamente orientata a principi di massima partecipazione, intrinseci alla tipologia di selezione in atto.
Le (presunte) sopravvenienza fattuali, ovvero l’esposto dell’associazione e i riscontri avuti circa l’obiettività dello stesso dall’Agenzia delle entrate, nulla aggiungono alla qualificazione delle dichiarazioni dell’Impresa come false.
26. Anche senza approfondire lo scrutinio di lamentata illegittimità della clausola contrattuale stessa, infatti, se letta nell’accezione propugnata dalla Regione, certo è che il documentato e comunicato avvio dei lavori riferito ad un’opera, riconosciuta come di interesse pubblico, dimostra per tabulas l’avvenuto soddisfacimento di quella acquisizione di disponibilità che la norma voleva garantire, ove non fosse sufficiente allo scopo l’avvenuta registrazione dell’atto nell’ottobre del 2014, cioè a distanza di poco più di due mesi dalla scadenza del termine di presentazione della domanda. Le esigenze di par condicio sottese invece al formale rispetto della clausola restrittivamente intesa non essendo state fatte valere a tempo debito avrebbero dovuto essere espresse nella motivazione dell’atto in comparazione con l’interesse dell’operatore economico alla conservazione degli effetti del beneficio ottenuto.
27. Vuoi, dunque, che la Regione Calabria abbia fatto uso del proprio potere di controllo delle dichiarazioni di parte (non motivando la diversa valutazione della adeguatezza dimostrata per acta et facta conludentia fino a quel momento); vuoi che abbia provveduto ad annullare la concessione in autotutela ex art. 21-novies (come sembrerebbe ipotizzare il primo giudice, seppure omettendo un preliminare inquadramento dell’atto impugnato), l’atto impugnato non dà alcun conto dell’interesse pubblico sotteso alla scelta oggetto di gravame, in comparazione con la posizione del privato che nel frattempo, contando sulla correttezza dell’operato dell’amministrazione, ha dato avvio, con l’avallo della stessa e delle altre amministrazioni coinvolte nel procedimento, ad un investimento economico di consistenza tutt’affatto esigua.
L’atto, cioè, per la parte in cui non dimostra di essere supportato da imperative esigenze egualmente rivolte al raggiungimento di predetti obiettivi, appare suscettibile di concretare non solo una lesione dell’affidamento del privato investitore, ma anche un non consentito sviamento dalle finalità d’interesse pubblico generale affidate alla Regione resistente quale soggetto gestore della misura in esame.
Di tali finalità, infatti, l’amministrazione deve tenere conto anche nell’esercizio del potere di controllo, che seppure intrinsecamente orientato a garantire la corretta elargizione di risorse economiche, non può intervenire con tempistiche e modalità che rischiano di vanificarla, esponendo il privato investitore non all’alea che connota qualsiasi iniziativa imprenditoriale, ma a quella, aggiuntiva, che conseguirebbe alla legittimazione postuma del rilievo di qualsivoglia carenza formale o procedurale in qualsiasi momento, quand’anche fosse possibile per l’Amministrazione rilevarla da subito, ovvero in un “tempo ragionevole”.
28. A quanto sopra detto consegue l’accoglimento del gravame e, per l’effetto, in riforma della sentenza del Tar per la Calabria, n. 360 del 2018, del ricorso di primo grado, con conseguente annullamento del provvedimento di revoca dei finanziamenti concessi e in parte qua della modifica della relativa graduatoria, oggetto di motivi aggiunti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.01.2024 n. 688 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Il consigliere comunale è obbligato ad astenersi in caso di conflitto di interessi.
L’atto assunto in violazione dell’obbligo di astensione è annullabile in toto e non solo per la parte eventuale del provvedimento che riguardi il solo componente incompatibile.
Il Consiglio di Stato, Sez. VII con la sentenza 22.01.2024 n. 652, si è pronunciato sul conflitto di interessi cui possono incorrere i consiglieri comunali.
Il fatto
Un cittadino aveva impugnato dinanzi al Tar la deliberazione del consiglio comunale relativa all'approvazione di una variante allo strumento urbanistico comunale e aveva eccepito che il provvedimento consiliare sarebbe stato approvato con la partecipazione di un consigliere in situazione di conflitto di interessi, in quanto stretto parente di proprietari terrieri interessati dal progetto di variante strutturale e beneficiari della più favorevole classificazione ad area residenziale di completamento.
Il Tar Piemonte ha ritenuto la censura inammissibile per carenza di interesse, sostenendo che anche se sussistesse il conflitto non inciderebbe sulle valutazioni espresse in relazione all'area dell'appellante. La sentenza, impugnata dinanzi al Consiglio di Stato, è stata integralmente riformata nel merito e nell'eccezione.
La decisione
Il Consiglio di Stato non ha condiviso la tesi del giudice di primo grado, in quanto, in tema di conflitto di interessi degli amministratori locali, deve ritenersi che l'obbligo di astensione ricorre per il solo fatto che i consiglieri comunali siano portatori di interessi divergenti rispetto a quello generale affidato all'organo di cui fanno parte. Inoltre, i soggetti interessati alle deliberazioni assunte dagli organi collegiali di cui fanno parte devono evitare di partecipare perché possono condizionare nel complesso la formazione della volontà assembleare, sicché è irrilevante l'esito della prova di resistenza.
Ne consegue che l'atto assunto in violazione dell'obbligo di astensione è annullabile in toto e non solo per la parte eventuale del provvedimento che riguardi il solo componente incompatibile. Infine, a tutela dell'immagine dell'amministrazione, rileva anche il conflitto di interessi potenziale.
Conclusioni
Nella fattispecie viene in rilievo una disposizione di carattere speciale, oggi contenuta nell'articolo 78 del Tuel, ma che, nel suo nucleo essenziale, è anteriore alla stessa Costituzione, risultando enunciata già nel Rd 148/1915 (articolo 290).
Essa sancisce espressamente l'obbligo per gli amministratori locali di astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri e di parenti e affini sino al quarto grado.
Tale obbligo non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
L'obbligo di astensione è espressione di una regola generale ed inderogabile, di ordine pubblico, applicabile quindi anche al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla legge (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
---------------
SENTENZA
1. L’appello è fondato per le ragioni di seguito esposte.
2. Ai fini dell’accoglimento dell’appello, valenza dirimente riveste l’esame delle deduzioni incentrate sul conflitto di interessi, contestato in ricorso in relazione alla partecipazione alla deliberazione del consiglio comunale n. 14 del 2011 –avente ad oggetto “esame osservazioni alla variante strutturale al P.R.G.I. anno 2008 - adozione elaborati modificati a seguito di accoglimento delle osservazioni”–, di una consigliera che avrebbe avuto l’obbligo di astenersi in quanto suoi stretti congiunti (segnatamente la madre e la nonna, i cui nominativi sono specificamente indicati) sono proprietari di terreni, ricompresi nella medesima zona e limitrofi a quelli dell’odierno appellante, interessati dal progetto pianificatorio, con previsioni migliorative.
2.1. Come esposto nella narrativa in fatto, con la sentenza impugnata la sopra indicata censura è stata dichiarata inammissibile per carenza di interesse, sostenendosi che anche ove sussistesse il conflitto non inciderebbe sulle valutazioni espresse in relazione all’area dell’appellante.
2.3. Tale statuizione non può essere condivisa.
2.4. Nella fattispecie viene in rilievo una disposizione di carattere speciale, oggi compendiata nell’art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 (testo unico enti locali, t.u.e.l.) ma che, nel suo nucleo essenziale, è anteriore alla stessa Costituzione, risultando enunciata già nel r.d. n. 148 del 1915 (art. 290).
Essa sancisce espressamente l’obbligo per gli amministratori locali di astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri e di parenti e affini sino al quarto grado.
Tale obbligo “non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.
2.5. La giurisprudenza ha da tempo affermato che l’obbligo di astensione “è espressione di una regola generale ed inderogabile, di ordine pubblico, applicabile quindi anche al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla legge” (Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 2826 del 2003).
2.6. Le condizioni più stringenti sancite dalla disposizione contenuta nell’art. 78, comma 2, del t.u.e.l. per i regolamenti e gli atti generali –essendo richiesta una “correlazione immediata e diretta” con l’interesse in conflitto– rispondono tuttavia ad un’esigenza di carattere pratico poiché, in un contesto geografico delimitato, è evenienza molto frequente che gli amministratori locali abbiano un qualche generico interesse nelle fattispecie sulle quali sono chiamati a deliberare. 
2.7. Sussistendo una obiettiva situazione di conflitto, è poi ininfluente che l’amministratore, o il funzionario, abbiano proceduto in modo imparziale ovvero che non sussista prova del condizionamento eventualmente subito (Cons. Stato, sez. V, 12.06.2009, n. 3744; successivamente, sez. V, sentenza n. 5465 del 2014.)
2.8. Inoltre (cfr., Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 2970 del 2008):
   a) l’obbligo di astensione ricorre per il solo fatto che i membri del collegio amministrativo siano portatori di interessi divergenti rispetto a quello generale affidato alle cure dell’organo di cui fanno parte, risultando irrilevante, a tal fine, la circostanza che la votazione non avrebbe potuto avere altro apprezzabile esito, che la scelta sia stata in concreto la più utile e la più opportuna per lo stesso interesse pubblico, ovvero che non sia stato dimostrato il fine specifico di realizzare l’interesse privato o il concreto pregiudizio dell'amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.05.2003, n. 2826);
   b) i soggetti interessati alle deliberazioni assunte dagli organi collegiali di cui fanno parte devono evitare di partecipare finanche alla discussione, potendo condizionare nel complesso la formazione della volontà assembleare, sicché è irrilevante l’esito della prova di resistenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.10.1998, n. 1291);
   c) l’atto assunto in violazione dell’obbligo di astensione è annullabile in toto e non solo per la parte eventuale del provvedimento che riguardi il solo componente incompatibile (cfr. sez. IV, 21.06.2007, n. 3385);
   d) a tutela dell’immagine dell’amministrazione, rileva anche il conflitto di interessi potenziale, come evidenziato anche dalla giurisprudenza costituzionale e civile (cfr. Corte cost. 28.05.1975, n. 129; Cass. 16.09.2002, n. 13507).
2.9. L’appellante ha prodotto nel giudizio di primo grado evidenze a sostegno della sussistenza di una correlazione immediata e diretta, obiettivamente apprezzabile, tra il contenuto della deliberazione e gli interessi del consigliere comunale indicato in ricorso, tale da imporre un suo dovere di astensione.
Gli elementi prodotti, lungi dall’essere connotati da genericità, risultano sufficienti tenuto, peraltro, conto della circostanza che gli stessi sono rimasti insuperati, non avendo l’amministrazione comunale appellata prodotto alcunché, in quanto non costituita né nel giudizio di primo grado né nel presente giudizio di appello.
2.10. L’accoglimento della censura sopra indicata riveste, come sopra anticipato, carattere dirimente ai fini dell’accoglimento dell’appello e, dunque, della riforma della sentenza impugnata.

EDILIZIA PRIVATA: Condono, agli edifici rurali non si possono applicare le regole dettate per le case. Il Tar Campania accoglie il ricorso del proprietario contro il Comune. In questi casi si possono considerare ultimati anche gli immobili non rifiniti.
Nel caso di istanze di condono per fabbricati rurali non può applicarsi la disciplina che riguarda gli immobili a uso residenziale che (ai fini del condono) impone l’obbligo del completamento funzionale.

Con questa motivazione il TAR Campania (Sez. II di Salerno), con la sentenza 22.01.2024 n. 236, ha accolto il ricorso di una persona contro il Comune di Positano che aveva respinto due istanze di condono e due istanze di accertamento di compatibilità paesaggistica e ordinato la demolizione di due livelli di un fabbricato.
La vicenda inizia quando la proprietaria della struttura impugna l'ordinanza del 2020 con cui il Comune di Positano ha respinto due istanze di condono edilizio presentate nel 1986 e 2004, «nonché due istanze di accertamento di compatibilità paesaggistica ed ordinato la demolizione di due livelli di un fabbricato della superficie complessiva di 167,24 metri quadri».
Alla base dell'intero provvedimento, come si legge nella sentenza «vi è il diniego della prima domanda di condono, presentata ai sensi della legge n. 47/1985».
Il diniego si basa sulla duplice considerazione: «l'immobile ha uso produttivo e non risulta completato funzionalmente, così come previsto dall'art. 31, comma 2, della predetta legge, ma realizzato solo nel rustico e nella copertura». 
Inoltre «l'istanza risulta dolosamente infedele in quanto risultano presenti due unità immobiliari a destinazione residenziale aventi una superficie complessiva di metri quadri 160,08 ed un volume lordo di mc. 579,00, ubicate al piano primo e secondo sottostrada di un fabbricato articolato su cinque livelli, in luogo dell'abuso richiesto in condono corrispondente ad un unico manufatto a destinazione agricola avente una superficie coperta di metri quadri 167,24 con un volume definito di mc. 562,56».
Per i giudici il ricorso è fondato e va accolto.
«Quanto al primo motivo di rigetto -scrivono- va rilevato che l'opera abusiva risulta rappresentata come manufatto connesso con la conduzione agricola articolato su due livelli e, dunque, come fabbricato rurale, astrattamente suscettibile di uso abitativo, ove ne possegga le caratteristiche».
Pertanto, sottolineano i giudici «non può applicarsi la disciplina riguardante gli immobili ad uso non residenziale che, ai fini del condono, impone l'obbligo del completamento funzionale». Risultato: «Ne consegue che, ai sensi dell'art. 31 della legge 28.02.1985 n. 47, deve considerarsi ultimato l'edificio realizzato senza titolo abilitativo in zona agricola e mancante delle rifiniture, della pavimentazione e degli infissi, laddove risulti eseguito il rustico ed ultimata la copertura».
Quanto al secondo motivo, «nella domanda di condono non è dato ravvisare alcuna falsità, ma tutt'a più una imprecisione, avendo la ricorrente rappresentato l'esistenza di un manufatto ... articolato su due livelli ed essendo irrilevante, ai fini della condonabilità dell'opera, l'eventuale (per altro, modesto) scarto esistente tra le dimensioni indicate e quelle reali. Il Comune è dunque tenuto a rivalutare l'istanza, partendo dalle considerazioni svolte nella presente decisione».
Ricorso accolto, spese compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 30.01.2024).
---------------
SENTENZA
La ricorrente impugna l’ordinanza n. 10275 del 20.08.2020, ord. n. 46, con cui il Comune di Positano ha respinto due istanze di condono edilizio presentate l’01.04.1986 ed il 19.11.2004, nonché due istanze di accertamento di compatibilità paesaggistica ed ordinato la demolizione di due livelli di un fabbricato sito in via ... n. 124, della superficie complessiva di mq. 167,24.
Alla base dell’intero provvedimento vi è il diniego della prima domanda di condono, presentata ai sensi della legge n. 47/1985.
Detto diniego si basa sulla duplice considerazione che:
   a) l’immobile ha uso produttivo e non risulta completato funzionalmente, così come previsto dall’art. 31, comma 2, della predetta legge, ma realizzato solo nel rustico e nella copertura;
   b) “l’istanza risulta dolosamente infedele in quanto risultano presenti due unità immobiliari a destinazione residenziale aventi una superficie complessiva di mq. 160,08 ed un volume lordo di mc. 579,00, ubicate al piano primo e secondo sottostrada di un fabbricato articolato su cinque livelli, in luogo dell’abuso richiesto in condono corrispondente ad un unico manufatto a destinazione agricola avente una superficie coperta di mq. 167,24 con un volume definito di mc. 562,56”.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Ed invero, quanto al primo motivo di rigetto va rilevato che l’opera abusiva risulta rappresentata come “manufatto connesso con la conduzione agricola articolato su due livelli” e, dunque, come fabbricato rurale, astrattamente suscettibile di uso abitativo, ove ne possegga le caratteristiche.
Pertanto, non può applicarsi la disciplina riguardante gli immobili ad uso non residenziale che, ai fini del condono, impone l’obbligo del completamento funzionale.
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 31 della legge 28.02.1985 n. 47, deve considerarsi ultimato l’edificio realizzato senza titolo abilitativo in zona agricola e mancante delle rifiniture, della pavimentazione e degli infissi, laddove risulti eseguito il rustico ed ultimata la copertura (cfr. TAR Umbria 06.11.2008, n. 702).
Quanto al secondo motivo, nella domanda di condono non è dato ravvisare alcuna falsità, ma tutt’a più una imprecisione, avendo la ricorrente rappresentato l’esistenza di un “manufatto … articolato su due livelli” ed essendo irrilevante, ai fini della condonabilità dell’opera, l’eventuale (per altro, modesto) scarto esistente tra le dimensioni indicate e quelle reali.
Il Comune è dunque tenuto a rivalutare l’istanza, partendo dalle considerazioni svolte nella presente decisione.

TRIBUTI: Niente riduzione dell’Imu per il fabbricato senza agibilità. Nel caso di specie si è trattato di unità ultimate per le quali dovevano ancora essere messi i titoli abilitanti in sanatoria e il certificato di abitabilità.
Un fabbricato nuovo che non ha l’agibilità non è inagibile e per questo non ha diritto alla riduzione dell’Imu
.
Lo afferma la quinta sezione civile della Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza sentenza 18.01.2024 n. 1955.
La riduzione
Una società di costruzioni ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza con cui la Commissione tributaria regionale aveva respinto l'appello avverso la sentenza della Commissione provinciale in rigetto del ricorso proposto avverso un avviso di accertamento Imu.
Lamenta l'erronea esclusione della sussistenza dei presupposti per l'applicazione della riduzione d'imposta del 50% per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, prevista dall'articolo 8, comma 1, del Dlgs 504/1992, il quale affida l'accertamento della inagibilità o inabitabilità all'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario o, in alternativa, a una dichiarazione sostitutiva del contribuente.
Afferma la Suprema corte che, ai fini dell'applicazione della riduzione, devono considerarsi inagibili o inabitabili, e di fatto non utilizzati, i fabbricati per i quali vengano a mancare i requisiti di cui all'articolo 24, comma 1, del Dpr 380/2001, in base al quale la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati e, ove previsto, di rispetto degli obblighi di infrastrutturazione digitale, nonché la conformità dell'opera al progetto presentato e la sua agibilità sono attestati mediante segnalazione certificata.
Talché si tratta di immobili che presentino un degrado fisico sopravvenuto (fabbricato diroccato, pericolante, fatiscente) o un'obsolescenza funzionale, strutturale e tecnologica non superabile con interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
I presupposti
Partendo dall'assunto che in materia fiscale le norme che stabiliscono esenzioni o agevolazioni sono di stretta interpretazione è quindi non c'è spazio per ricorrere al criterio analogico o all'interpretazione estensiva della norma oltre i casi e le condizioni dalle stesse espressamente considerati, i giudici della V sezione rilevano che
   - da una parte l'iscrizione nel catasto edilizio dell'unità immobiliare costituisce di per sé presupposto sufficiente perché sia considerata fabbricato e di conseguenza assoggettabile all'imposta;
   - dall'altra l'inagibilità (che consente la riduzione d'imposta) è correlata alla temporanea impossibilità di utilizzo dell'immobile, intesa come situazione intrinseca di degrado dello stesso, superabile con interventi di manutenzione straordinaria, e non come qualità giuridica superabile con il rilascio del certificato di abitabilità, che non costituisce presupposto per l'applicazione dell'imposta.
Nel caso di specie si è trattato di immobili non inagibili o inabitabili, ma di unità ultimate per le quali dovevano ancora essere messi i titoli abilitanti in sanatoria e il certificato di abitabilità, per cui la Corte territoriale ha correttamente escluso l'applicazione della riduzione prevista dalla norma sopra citata.
La Cassazione quindi ritiene ben fondata la motivazione della sentenza di primo grado in ordine alla mancata applicazione della richiesta riduzione d'imposta, rigettando integralmente il ricorso (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024).
---------------
SENTENZA
1.1. con il primo motivo la Società denuncia ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione di norme di diritto («art. 8, I comma, del d.lgs. 504/1992 afferente alla riduzione del 50% del tributo IMU per l’anno 2013, relativamente ad immobili invenduti ex artt. 2, I comma, lett. A), del d.lgs. 504/1992, 2, V comma-bis, del d.l. 102/2013, ... art. 1, comma 747, lettera B), della l. 160/2019, ... art. 13, III comma, lett. B), del d.l. 201/2011») per avere la Commissione tributaria regionale erroneamente escluso la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della riduzione d’imposta prevista dalle citate disposizioni, secondo cui «la base imponibile è ridotta del 50% per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati», sebbene Roma Capitale fosse già a conoscenza, con riguardo agli immobili tassati del mancato rilascio, da parte del medesimo Ente territoriale, delle concessioni edilizie in sanatoria, il che aveva impedito di ottenere il relativo certificato di agibilità/abitabilità ed aveva precluso alla Società, impresa di costruzioni per la vendita, la vendita dei suddetti immobili;
1.2. la doglianza è infondata;
1.3. va premesso che l’art. 13 del d.l. n. 201/2011 prevede, per quanto qui di interesse, quanto segue: «3. La base imponibile dell'imposta municipale propria è costituita dal valore dell'immobile determinato ai sensi dell'articolo 5, commi 1, 3, 5 e 6 del decreto legislativo 30.12.1992, n. 504, e dei commi 4 e 5 del presente articolo. La base imponibile è ridotta del 50 per cento: ... b) per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, limitatamente al periodo dell'anno durante il quale sussistono dette condizioni. L’inagibilità o inabitabilità è accertata dall'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario, che allega idonea documentazione alla dichiarazione. In alternativa, il contribuente ha facoltà di presentare una dichiarazione sostitutiva ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, rispetto a quanto previsto dal periodo precedente. Agli effetti dell'applicazione della riduzione alla metà della base imponibile, i comuni possono disciplinare le caratteristiche di fatiscenza sopravvenuta del fabbricato, non superabile con interventi di manutenzione»;
1.4. come già affermato, anche recentemente, da questa Corte (cfr. Cass. n. 5804 del 24/02/2023; Cass. n. 29966 del 19/11/2019 in motiv. anche se con riferimento all’ICI)
ai fini dell'applicazione della riduzione de qua devono considerarsi inagibili o inabitabili, e di fatto non utilizzati, i fabbricati per i quali vengano a mancare i requisiti di cui all'articolo 24, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e quindi nello specifico gli immobili che presentino un degrado fisico sopravvenuto (fabbricato diroccato, pericolante, fatiscente) o un’obsolescenza funzionale, strutturale e tecnologica (cfr. in tal senso, Cass. n. 29966/2019 cit. in motiv., che definisce condizione di inagibilità e inabitabilità in cui versi l’immobile l’«obiettiva inidoneità alla sua utilizzazione a causa dell'obsolescenza o cattiva manutenzione dello stesso o della presenza di carenze intrinseche»), non superabile con interventi di manutenzione, ordinaria o straordinaria;
1.5. tale interpretazione della norma non solo risulta aderente alla lettera della norma ma trova conferma nel costante indirizzo giurisprudenziale (cfr. Cass. nn. 15407/2017, 4333/2016, 2925/2013, 5933/2013) in materia fiscale secondo il quale
le norme che stabiliscono esenzioni o agevolazioni sono di stretta interpretazione ai sensi dell'art 14 preleggi sicché non vi è spazio per ricorrere al criterio analogico o all'interpretazione estensiva della norma oltre i casi e le condizioni dalle stesse espressamente considerati;
1.6. va peraltro evidenziato, con riguardo alla lamentata mancanza del certificato di abitabilità degli immobili, che tale certificato non attesta alcuna agibilità dello stesso, ma la sola idoneità igienico-sanitaria del manufatto atta a consentirne l'uso, che non incide, però, sulla sua esistenza (in particolare, ai fini fiscali);
1.7. pertanto,
   - da una parte,
l'iscrizione nel catasto edilizio dell'unità immobiliare costituisce di per sé presupposto sufficiente perché l'unità sia considerata fabbricato e, di conseguenza, assoggettabile all'imposta prevista, laddove per i fabbricati di nuova costruzione, come nel caso in esame, i criteri alternativi dell'ultimazione dei lavori o di utilizzazione del fabbricato assumono rilievo solo per l'ipotesi in cui il fabbricato di nuova costruzione non sia ancora iscritto in catasto (cfr. Cass. n. 24924/2008), mentre,
   - d'altra parte,
l'inagibilità (che consente la riduzione d'imposta) è correlata alla temporanea impossibilità di utilizzo dell'immobile, intesa come situazione intrinseca di degrado dello stesso, superabile con interventi di manutenzione straordinaria, e non come qualità giuridica superabile con il rilascio del certificato di abitabilità (secondo Cass. n. 5372/2009 «...il rilascio del certificato di abitabilità non costituisce presupposto per l'applicazione dell'imposta, non potendosi desumere il contrario dal tenore dell'art. 8, comma 1, del citato decreto, che si riferisce esclusivamente all'ipotesi di fabbricati dichiarati inagibili e inabitabili a seguito di perizia dell'ufficio tecnico comunale, e di fatto non utilizzati»; conf. Cass. n. 12936/2019);
1.8. la Commissione tributaria regionale, nell'affermare che non era «applicabile la invocata disposizione di cui all'articolo 8 d.lgs. 504/1992, poiché, in disparte la mancanza di accertamenti tecnici che comprovino lo stato di fatiscenza dedotto, in realtà non vengono in considerazione immobili inagibili o inabitabili, ma piuttosto unità immobiliari di fatto ultimate per le quali devono ancora essere emessi i titoli abilitanti in sanatoria e il certificato di abitabilità», ha correttamente escluso l'applicazione al caso concreto della disciplina agevolatrice prevista dalle norme dianzi citate;

EDILIZIA PRIVATA: Scavo per la fibra ottica, non si può negare l’autorizzazione per mancata concertazione senza interventi concomitanti. Nel caso in cui la motivazione dell’atto non documenti l’esigenza di coordinare l’intervento con altri lavori stradali concomitanti o quanto meno programmati dall’ente.
In relazione alla posa di infrastrutture digitali per lo sviluppo della fibra ottica è illegittimo il provvedimento dell’ente locale che nega l’autorizzazione all’intervento di scavi sulla sede stradale per mancata concertazione ex articolo 3 del Dm 01.10.2013, nel caso in cui la motivazione dell’atto non documenti l’esigenza di coordinare l’intervento con altri lavori stradali concomitanti o quanto meno programmati dall’ente stesso.

È quanto affermato dal TAR Campania-Napoli, Sez. VII, con la sentenza 18.01.2024 n. 479.
Il fatto
Nell'aprile 2023 una società inoltrava a un Comune un'istanza di autorizzazione per scavi e opere civili ex articolo 49 del Dlgs 259/2003, nell'ambito di un progetto per la realizzazione di un'infrastruttura di rete a banda ultra-larga in fibra ottica sull'intero territorio nazionale.
Stante l'assenza di riscontro entro i termini da parte della Pa, la società notificava all'ente un'autocertificazione attestante l'intervenuta formazione del silenzio-assenso. Al che il Comune, in esito alla successiva corrispondenza con l'impresa, negava l'autorizzazione all'intervento oggetto dell'istanza e non dava corso al rilascio dell'ordinanza viabilistica necessaria allo svolgimento dei lavori, disponendo altresì l'annullamento in autotutela del silenzio-assenso di cui sopra.
Nello specifico, il provvedimento dell'ente giustificava tale annullamento con la motivazione secondo cui la programmazione degli interventi non è avvenuta in accordo con questa amministrazione, quale gestore delle strade, giusto articolo 3, comma 6, del Dm 01.10.2013, con l'effetto che l'intervento proposto risulta «in contrasto con le previsioni () di salvaguardia della sicurezza stradale» di cui al medesimo articolo.
In effetti, la normativa addotta dal Comune si addice al caso di specie in quanto il Dm 01.10.2013 disciplina i criteri e gli aspetti generali per il posizionamento delle infrastrutture digitali, indicando le modalità d'intervento e le metodologie di scavo a limitato impatto ambientale da utilizzare per favorire lo sviluppo digitale sul territorio nazionale.
In tale contesto la società interessata ha chiamato in giudizio il Comune e il Tar adito, in accoglimento della domanda della ricorrente, ha annullato il provvedimento adottato dall'ente locale.
La ratio della normativa
Questo perché, scrivono i giudici, «la motivazione addotta dal Comune difetta di qualsivoglia indicazione circa il necessario presupposto fattuale, consistente nello svolgimento (o almeno nella programmazione) di concomitanti lavori stradali da parte dell'ente locale».
Il collegio ha osservato, infatti, che soltanto nell'ipotesi di una pluralità di interventi in corso o comunque programmati l'articolo 3 del Dm 01.10.2013 ha previsto oltretutto a livello di raccomandazione e non di obbligo una concertazione con l'ente gestore della strada allo scopo di coordinare l'esecuzione degli interventi, compatibilmente con le rispettive esigenze temporali.
In secondo luogo, la Sezione ha rilevato che né dalla comunicazione di avvio del procedimento di annullamento, né dalla corrispondenza intercorsa tra il Comune e l'impresa è dato evincere che l'intervento oggetto dell'istanza sia suscettibile di pregiudicare gli interessi prioritari tutelati dal Dm 01.10.2013, ossia la sicurezza stradale della circolazione, dei lavoratori e degli utenti della strada, nonché la salvaguardia dell'infrastruttura da realizzare (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.02.2024).
---------------
SENTENZA
6 - Nel merito, la domanda di annullamento avente ad oggetto il diniego di autorizzazione emesso dal Comune il 07/07/2023 è meritevole di accoglimento.
Ai sensi del comma 7 dell’art. 49 (ex art. 88) del d.lgs. n. 259/2003 (Opere civili, scavi ed occupazione di suolo pubblico), “Trascorso il termine di trenta giorni dalla presentazione della domanda, senza che l'amministrazione abbia concluso il procedimento con un provvedimento espresso ovvero abbia indetto un'apposita conferenza di servizi, la medesima si intende in ogni caso accolta”.
Il provvedimento impugnato (emesso il 07/07/2023), pertanto, è intervenuto a fronte di un provvedimento autorizzativo ormai formatosi per silenzio-assenso (sull’istanza di Op.Fi. s.p.a. pervenuta il 05/04/2023) e va, pertanto, annullato.
7 - Stessa sorte segue il provvedimento di autotutela emesso dal Comune di San Nicola la Strada il 05/10/2023.
Al riguardo si rammenta che: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi [ora, dodici] dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
E’ stato affermato che “Il giudizio sulla valutazione dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio si scompone in una triplice verifica in ordine: a) alla competenza in capo all’autorità che procede all’annullamento; b) al termine entro cui il potere è stato esercitato; c) ai presupposti del suo esercizio (cause di illegittimità, ragioni di interesse pubblico all’annullamento, comparazione tra gli interessi pubblici e privati dei soggetti destinatari e di quelli comunque interessati)” - Tar Lazio, Roma, sez. II, sent. 09/04/2021.
Questi presupposti, com’è noto, debbono ricorrere cumulativamente, nel senso che l’illegittimità del provvedimento è condizione necessaria, ma non sufficiente, per procedere al suo annullamento, subordinato all’esistenza di ragioni di interesse pubblico diverse e ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità violata, nonché al decorso di un lasso di tempo “ragionevole” dall’adozione dell’atto da annullare.
Ed ancora: “Il presupposto per un legittimo esercizio del potere di annullamento d'ufficio non può ricondursi al mero ripristino della legalità, occorrendo dare conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione dell'atto; occorre, inoltre, una comparazione tra detto interesse pubblico e l'entità del sacrificio imposto all'interesse privato, tanto più quando, in ragione del tempo trascorso, l'interessato abbia maturato un legittimo affidamento alla conservazione del bene della vita. Tuttavia, l'annullamento d'ufficio che intervenga entro breve tempo dall'adozione del provvedimento annullabile, quando le situazioni giuridiche coinvolte non si siano consolidate, è soggetto a un obbligo di motivazione attenuato” (cfr TAR Lazio-Roma, sez. III, 21/12/2018, n. 12485, Tar Puglia, Lecce, 06/06/2008, n. 1680; anche Tar Campania-Salerno, n. 1304, 25/5/2016).
7.1 - Tanto premesso, si osserva che la motivazione del provvedimento di secondo grado impugnato si incentra, come anticipato, sulla violazione dell’art. 3 del d.m. 01/10/2013 (“Criteri e aspetti generali per il posizionamento delle infrastrutture digitali”), che dispone:
   “1. Le infrastrutture digitali sono installate nel rispetto di quanto disciplinato nel decreto legislativo del 30.04.1992, n. 285 «Nuovo Codice della Strada», nel decreto del Presidente della Repubblica 16.12.1992, n. 495 «Regolamento di esecuzione ed attuazione del Nuovo Codice della Strada», e successive modificazioni, con particolare riferimento alle disposizioni relative alla regolarità e sicurezza della circolazione stradale ed alla tutela dell'infrastruttura stradale, nel rispetto di tutte le altre norme vigenti che disciplinano la sicurezza dei lavoratori nei cantieri stradali, nonché nel decreto legislativo 01.08.2003, n. 259 «Codice delle comunicazioni elettroniche».
   2. La posa delle infrastrutture digitali, qualunque tecnica di scavo sia utilizzata e per i diversi ambiti individuati, deve avvenire, secondo quanto disciplinato dal presente decreto, che risulta improntato al principio di contemperare l'interesse nazionale allo sviluppo delle infrastrutture digitali con quello di preservare la sicurezza stradale della circolazione, sia durante i lavori sia per tutta la vita utile dell'infrastruttura stradale, di arrecare il minor danno possibile al complesso dell'infrastruttura salvaguardando i vincoli presenti, di contenere qualsiasi cedimento del corpo stradale, di preservare la sicurezza dei lavoratori e degli utenti stradali, di facilitare la circolazione veicolare e ridurre la quantità di materiale di risulta.
   3. Le infrastrutture digitali sono installate prioritariamente negli alloggiamenti già disponibili ed appositamente predisposti nelle sedi delle infrastrutture stradali, o comunque nei manufatti quali cunicoli, pozzetti, cavidotti e intercapedini, già utilizzati per il passaggio di altri sottoservizi, purché ciò risulti compatibile con le rispettive specifiche norme di settore.
   4. In assenza di alloggiamenti disponibili di cui al comma 3, la posa delle infrastrutture digitali, qualunque tecnica di scavo sia utilizzata, deve prevedere un'idonea struttura di contenimento, tale da consentire in modo agevole l'inserimento e/o lo sfilamento di cavi, in caso di manutenzioni o guasti, al fine di evitare ulteriori successive alterazioni e danneggiamenti alla sovrastruttura stradale.
   5. Qualunque tecnica di scavo sia utilizzata, devono essere adottati tutti i possibili accorgimenti al fine di evitare i cedimenti del corpo stradale che devono essere risanati secondo le specifiche riportate negli articoli 7, 8 e 9.
   6. Al fine di ridurre complessivamente i disagi alla circolazione stradale derivanti da interventi ripetuti sulla sede stradale, nonché di ridurre tempi e costi per la posa delle infrastrutture digitali, la programmazione dei relativi lavori di installazione avviene preferibilmente in coordinamento con gli eventuali interventi di lavori stradali programmati dall'Ente gestore della strada, compatibilmente con le rispettive esigenze temporali. In tal caso l'Ente operatore, previo specifico accordo con l'Ente gestore della strada in fase autorizzativa del progetto di cui all'art. 12, provvede a sostenere soltanto gli oneri derivanti dall'installazione delle strutture di contenimento delle infrastrutture digitali
”.
7.2 - Orbene, stando a quanto esternato dal Comune, l’illegittimità dell’assenso deriverebbe dalla mancata “concertazione” tra Op.Fi. s.p.a. e Comune degli interventi programmati, ciò che porrebbe i lavori in contrasto con la previsione del comma 6 dell’art. 3 cit..
La motivazione addotta dal Comune difetta, tuttavia, di qualsivoglia indicazione circa il necessario presupposto fattuale, consistente nello svolgimento (o almeno nella programmazione) di concomitanti lavori stradali da parte dell’ente locale, la cui esistenza non è proprio allegata nell’atto (prima ancora che comprovata). È solo per tale ipotesi, infatti, che il legislatore, al fine di ridurre i disagi alla circolazione e tempi e costi dell’intervento, raccomanda (e neppure impone, stando all’utilizzo dell’avverbio “preferibilmente” e comunque facendo salva la compatibilità “con le rispettive esigenze temporali”) di coordinare gli interventi.
D’altro canto, neanche dalla lettura della comunicazione di avvio del procedimento di annullamento è dato evincere, nello specifico, in che termini l’intervento progettato da Op.Fi. s.p.a. (per quanto di notevole consistenza), collida con quelli che la norma di riferimento (art. 3 d.m. cit.) indica come interessi da contemperare (sicurezza stradale della circolazione, dei lavoratori e degli utenti della strada, salvaguardia dell’infrastruttura).
7.3 - In mancanza, poi, della previa emissione di un atto autorizzativo “con prescrizioni”, parimenti inconfigurabile si rivela la violazione del comma 4 dell’art. 12 del cd. “decreto scavi” (“Obblighi dell’ente operatore: 4. L'Ente operatore deve osservare ed ottemperare eventuali ulteriori prescrizioni impartite dall'Ente gestore della strada in fase autorizzativa, dettate da ragioni di sicurezza della circolazione stradale ed in funzione della tipologia dell'opera da realizzare”), oggetto di contestazione nella comunicazione di avvio del procedimento, integralmente richiamata nel provvedimento conclusivo.
In conclusione, non emergendo –con riferimento all’assenso tacito formatosi sull’istanza della ricorrente- i profili di illegittimità enunciati dal Comune, il provvedimento di ritiro dell’atto tacito di assenso va caducato.
7.4 - L’acclarata formazione del silenzio-assenso determina la illegittimità anche della nota a firma del Comandante della Polizia Municipale, sorretta dal solo presupposto dell’intervenuto avvio del procedimento di annullamento di autotutela del silenzio-assenso.
7.5 – Va, invece, dichiarato inammissibile il gravame proposto avverso la comunicazione di avvio del procedimento (prot. n. 23298 del 14.09.2023), trattandosi di atto endoprocedimentale privo di autonoma lesività.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti responsabili per non avere assunto tutte le iniziative necessarie al collocamento in ferie del personale.
Il divieto di monetizzazione per dipendenti e dirigenti pubblici non è stato infatti abrogato né disapplicato dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea 18.01.2024 n. C-218/22.
I dirigenti sono impegnati, in relazione alla responsabilità in caso di monetizzazione delle ferie, ad assumere tutte le iniziative perché i dipendenti ne fruiscano. Il divieto di monetizzazione delle ferie dei dipendenti e dei dirigenti pubblici non è stato infatti abrogato né disapplicato dalla sentenza 18.01.2024 - C-218/22 della Corte di Giustizia Europea  (Nt+ Enti locali & edilizia del 22 gennaio).
Questa indicazione si applica in particolare per la maturazione di responsabilità amministrativa e contabile in capo ai dirigenti che non danno applicazione alle sue indicazioni.
Per cui, sulla base dei principi dettati dal legislatore nazionale e dalla giurisprudenza comunitaria, i dipendenti e dirigenti pubblici hanno diritto alla monetizzazione delle ferie non godute, tranne che l'ente dimostri che ciò è stato provocato esclusivamente dalla scelta del lavoratore, ma nulla esclude che in questo caso possa maturare responsabilità in capo al dirigente per non avere assunto tutte le iniziative necessarie per il collocamento in ferie del personale, anche nella fase finale del rapporto di lavoro, cioè prima del collocamento in quiescenza.
L'articolo 5, comma 8, quarto periodo, del Dl 95/2012 stabilisce che il divieto di monetizzazione delle ferie all'atto della conclusione del rapporto di lavoro è sanzionato sia con il vincolo al «recupero delle somme indebitamente erogate», sia con la maturazione di «responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile». La giurisprudenza comunitaria non si è occupata di questo aspetto. Essa ha stabilito che le amministrazioni devono assumere tutte le iniziative per fare fruire le ferie ai propri dipendenti. Questo principio è stato ribadito dalla citata sentenza della Corte di Giustizia Europea, ma era già stato reso in modo consolidato dalla stessa, anche con riferimento ai dirigenti.
Questi principi hanno radicalmente modificato la impostazione data in precedenza dalla nostra giurisprudenza, che stabiliva il diritto alla monetizzazione delle ferie, in particolare per i dirigenti, solamente nel caso in cui il lavoratore dimostrava di avere richiesto le stesse e che l'ente aveva rigettato tali istanze per esigenze di servizio.
Con la giurisprudenza comunitaria si è quindi sostanzialmente ribaltato l'onere della prova: non è il dipendente a dovere dimostrare che la mancata fruizione delle ferie è stato provocato dal rigetto da parte dell'amministrazione, ma è essa a dovere dimostrare di avere assunto tutte le necessarie iniziative per la fruizione delle stesse da parte del dipendente.
Su questa base, nel caso in cui un ente venga condannato alla monetizzazione delle ferie, non viene meno il dettato sanzionatorio del decreto legge n. 95/2012, quindi la maturazione di responsabilità amministrativa contabile da parte dei dirigenti competenti nel caso in cui l'ente debba sobbarcarsi l'onere in questione. Ricordiamo peraltro che, a seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro, nelle pubbliche amministrazioni sono state assegnati ai dirigenti i poteri e le capacità del privato datore di lavoro.
Da questa scelta legislativa deriva la conseguenza che i dirigenti possono collocare anche d'autorità i propri dipendenti in ferie, soprattutto nel caso in cui essi non le richiedano. Questa possibilità è da considerare ulteriormente rafforzata nel caso in cui il dipendente violi le previsioni del d.lgs. n. 66/2003, per le quali si deve godere di almeno 2 settimane di ferie nel corso dell'anno e di altre 2 entro i 18 mesi successivi a quello di maturazione delle stesse.
E le previsioni del CCNL per cui le ferie maturate nel corso dell'anno non godute devono esserlo entro i primi 6 mesi di quello successivo, a prescindere che il mancato godimento sia stato provocato dalla mancata richiesta o dal rinvio per esigenze di servizio (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 30.01.2024).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Rilevanza penale dei rumori provocati in ambito condominiale.
Il bene giuridico tutelato dalla contravvenzione di cui all'art. 659 c.p. è costituito, come emerge dallo stesso nomen della rubrica, dallo svolgimento delle attività e del riposo delle persone che il legislatore intende presidiare da indiscriminate attività di disturbo, le quali, tuttavia, non possono essere identificate, proprio in ragione del plurale figurante nella norma, in un singolo soggetto, pur infastidito in ragione della prossimità della fonte sonora a quella del suo luogo di lavoro o della sua abitazione, bensì da un numero indeterminato di persone le quali soltanto consentono di individuare, al di là della vastità dell'area interessata dalle emissioni o dall’entità del numero dei soggetti lesi, un pregiudizio inferto all’ordine pubblico nella specifica accezione della pubblica quiete.
Ciò non toglie che possa trattarsi di soggetti annoverabili in un ambito ristretto, come avviene in un condominio costituito da più palazzine o da più appartamenti ubicati in uno stesso stabile, ma in tal caso è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio, configurandosi, altrimenti, soltanto un illecito civile foriero di un eventuale risarcimento del danno e non certamente una condotta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 659 cod. pen.
E se è ben vero che non vale ad escludere la configurabilità del reato la circostanza che solo alcuni dei soggetti potenzialmente lesi dalle emissioni sonore se ne siano lamentati, occorre ciò nondimeno in tal caso l’accertamento sia dell'idoneità delle stesse ad arrecare disturbo non solamente a un singolo ma a un gruppo più vasto di condomini residenti in appartamenti diversamente ubicati nell’edificio, sia della loro diffusività in concreto, tale da superare i limiti della normale tollerabilità di emissioni provenienti da immobili contigui
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.01.2024 n. 2071 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
---------------
Il ricorso deve ritenersi meritevole di accoglimento.
A dispetto della anodina enunciazione, posta a chiusura della pur diffusa motivazione spesa dal Tribunale tarantino, secondo cui i rumori provenienti dall’abitazione degli imputati “erano stati percepiti anche da altri condomini”, tuttavia non emerge da alcun precedente passaggio della sentenza impugnata, contenente la disamina delle acquisite risultanze istruttorie, in qual modo fossero interessati dalla fonte sonora, costituita da rumori dei tacchi delle scarpe, così come da spostamenti di sedie o trascinamento di mobili sul pavimento che avvenivano pressoché quotidianamente specie nelle primissime ore del mattino, soggetti diversi dalle due condòmine residenti nell’appartamento posto al secondo piano, sottostante a quello dei coniugi Ma..
Occorre considerare che il bene giuridico tutelato dalla contravvenzione in esame è costituito, come emerge dallo stesso nomen della rubrica, dallo svolgimento delle attività e del riposo delle persone che il legislatore intende presidiare da indiscriminate attività di disturbo, le quali, tuttavia, non possono essere identificate, proprio in ragione del plurale figurante nella norma, in un singolo soggetto, pur infastidito in ragione della prossimità della fonte sonora a quella del suo luogo di lavoro o della sua abitazione, bensì da un numero indeterminato di persone le quali soltanto consentono di individuare, al di là della vastità dell'area interessata dalle emissioni o dall’entità del numero dei soggetti lesi, un pregiudizio inferto all’ordine pubblico nella specifica accezione della pubblica quiete.
Ciò non toglie che possa trattarsi di soggetti annoverabili in un ambito ristretto, come avviene in un condominio costituito da più palazzine o da più appartamenti ubicati in uno stesso stabile, ma in tal caso è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio, configurandosi, altrimenti, soltanto un illecito civile foriero di un eventuale risarcimento del danno e non certamente una condotta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 659 cod. pen. (cfr. Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013, Vírgillito, Rv. 257345, secondo cui perché sussista la contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio; nonché Sez. 1, n. 47298 del 29/11/2011, Iori, Rv. 251406; Sez. 1, n. 18517 del 17/03/2010, Oppong, Rv. 247062; Sez. 1, n. 1406 del 12/12/1997, Costantini, Rv. 209694).
E se è ben vero che non vale ad escludere la configurabilità del reato la circostanza che solo alcuni dei soggetti potenzialmente lesi dalle emissioni sonore se ne siano lamentati, occorre ciò nondimeno in tal caso l’accertamento sia dell'idoneità delle stesse ad arrecare disturbo non solamente a un singolo ma a un gruppo più vasto di condomini residenti in appartamenti diversamente ubicati nell’edificio, sia della loro diffusività in concreto, tale da superare i limiti della normale tollerabilità di emissioni provenienti da immobili contigui (cfr. in termini Sez. 3, Sentenza n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273216).
Ciò premesso, il ragionamento probatorio svolto dal giudice di merito si sviluppa intorno alle dichiarazioni rese dalla sola Emanuela Pulpito, abitante nell’appartamento sottostante a quello degli imputati, che riferisce di rumori provenienti al mattino preso dal piano di sopra che, avuto riguardo alle loro stesse caratteristiche, sono privi della potenzialità diffusiva idonea ad integrare la rilevanza penale del fatto.
E’ evidente infatti che il ticchettio dei tacchi delle scarpe così come lo strusciamento dei mobili sul pavimento, per quanto foriero di disturbo per gli abitanti al piano inferiore in ragione del piano di calpestio dell’uno coincidente con il soffitto dell’altro, non possano propagarsi oltre l’unità immobiliare del piano inferiore, risultando pertanto insuscettibili di concreta percezione da parte degli altri soggetti residenti nella zona o comunque anche solo di altri condomini abitanti in appartamenti ubicati nel medesimo edificio condominiale.
D’altra parte le suddette dichiarazioni non risultano accompagnate a quelle di nessun altro condomino dello stabile, né corroborate da eventuali denunce o lagnanze di altri soggetti ivi residenti, neppure risultando essere stato effettuato alcun accertamento concreto vuoi con l’acquisizione di deposizioni di altri testi aliunde residenti, vuoi tramite perizia, vuoi per effetto di altri elementi di fatto globalmente valutati in ordine al superamento dei limiti della normale tollerabilità.
In difetto del necessario nesso di consequenzialità logica tra il disturbo arrecato alle condomine del piano sottostante e il disturbo alla pubblica quiete, mancano pertanto gli elementi fondanti l’affermazione di responsabilità dei prevenuti, tenuto conto che le lamentele del singolo possono al più configurare un illecito civile ai sensi dell’art. 844 cod. civ., ma non valgono ad integrare la materialità della contravvenzione de qua che si perfeziona quando le emissioni abbiano l’effetto di arrecare disturbo a una cerchia più ampia di persone, anche a prescindere da quelle che se ne siano in concreto lamentate.
Come infatti chiarito da questa stessa Corte «in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra:
   A) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, della legge 26.10.1995, n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia;
   B) il reato di cui al comma 1 dell'art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete;
   C) il reato di cui al comma 2 dell'art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995
» (così Sez. 3, n. 56430 del 18/07/2017, Vazzana, Rv. 273605, nonché il più recente arresto di questa stessa Sezione menzionato dalla difesa n. 49467 del 28.10.2022, non mass.).
Fuoriuscendosi nel caso di specie dalle ipotesi sub A e sub C, neppure menzionate nell’editto accusatorio, difetta quanto all’ipotesi di cui all’art. 659 primo comma cod. pen. il disturbo alla pubblica quiete, ricorrente solo allorquando il rumore molesto è percepito o comunque è percepibile da un numero indistinto di persone e non già, come accertato nel presente processo, dai componenti, anche a prescindere dalla mancata escussione della teste Ta., di un solo nucleo familiare residente nella medesima unità abitativa.
Non potendo pertanto ritenersi il fatto criminoso sussistente ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, stante la rinuncia di entrambi i ricorrenti alla prescrizione. Consegue all’epilogo decisorio anche la revoca delle statuizioni civili.

APPALTI: Sottosoglia, esclusione automatica solo con richiamo negli atti di gara.
Il Tar Campania sulle offerte anomale nel nuovo codice: bisogna indicare anche il metodo matematico di determinazione della soglia di anomalia.
Con l’ordinanza 16.01.2024 n. 133 il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, prende in considerazione le disposizioni codicistiche, confermate rispetto a quanto già previsto dai decreti legge emergenza (in particolare il Dl 76/2020, art. 1, comma 3), tra le più rilevanti ovvero l’esclusione automatica nel sottosoglia in caso di appalto –lavori o servizi- da aggiudicarsi al minor prezzo privo di interesse transfrontaliero (in caso di competizione con almeno 5 partecipanti).
La richiesta del provvedimento cautelare
La ricorrente chiede al giudice la sospensione dell'efficacia del provvedimento di esclusione per anomalia dell'offerta mai ricevuto. La particolarità del caso preso in esame è che, nonostante la chiara previsione del nuovo codice con l'art. 54 e quindi dell'esclusione automatica dell'offerta anomala, la stazione appaltante stabiliva che avrebbe proceduto alla verifica della potenziale anomalia ai sensi dell'art. 110, comma 2, del codice.
Il giudice, ritenendo fondato il c.d. periculum vitae per il ricorrente, sospende l'efficacia del provvedimento di esclusione fornendo delle condivisibili indicazioni circa l'applicabilità delle nuove norme in tema di esclusione automatica.
Più nel dettaglio nell'ordinanza si rileva che la sussistenza del fumus si basa sulla mancata indicazione «nella lettera di invito () e nel bando di gara/capitolato tecnico» dell'esclusione automatica delle offerte anomale, ai sensi dell' art. 54, comma 1, del nuovo codice dei contratti.
Operando in quest'ambito, rimarca il giudice, la stazione appaltante risulterebbe obbligata nel caso di aggiudicazione al minor prezzo con appalto nel sottosoglia europea privo di interesse transfrontaliero «in deroga a quanto previsto dall'articolo 110» con esplicitazione negli atti di gara - all'esclusione automatica delle offerte che risultassero anomale, qualora il numero delle stesse ammesse sia pari o superiore a cinque.
Altro obbligo della stazione appaltante, definito non surrogabile precisa il giudice, è la necessità di individuare, sempre negli atti di gara il metodo per l'individuazione delle offerte anomale, scelto fra quelli descritti nell'allegato II.2, ovvero lo selezionano in sede di valutazione delle offerte tramite sorteggio tra i metodi compatibili dell'allegato II.2»)».
Questo dettaglio non risultava conosciuto dall'operatore (in realtà neppure il contenuto del provvedimento adottato) che, pertanto ha beneficiato della sospensione dell'efficacia del provvedimento di esclusione dalla procedura di gara.
Il nuovo codice
La lettura espressa nell'ordinanza, in tema di obblighi del Rup della stazione appaltane a procedere, nel caso specifico, con l'esclusione automatica emerge anche dalla relazione tecnica che accompagna il nuovo codice. In questa si legge, infatti, che «ove i contratti di importo inferiore alle soglie di rilevanza europea relativi ad appalti di lavori o servizi siano aggiudicati con il criterio del prezzo più basso e non presentino un interesse transfrontaliero certo, le stazioni appaltanti, in deroga all'art. 110, prevedono negli atti di gara l'esclusione automatica delle offerte che risultino anomale, qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque».
Secondo gli estensori, la previsione rispecchierebbe «la disciplina già contenuta nell'art. 1, comma 3, ultimo periodo, del decreto-legge n. 76/2020, che diviene, con la disposizione in esame, disciplina a regime e non più transitoria».
Gli estensori privilegiano, quindi, una decisione automatica di esclusione in luogo di una, lunga, previa valutazione di congruità sulla convenienza economica determina da ribassi spesso frutto di comportamenti strumentali. Il giudice ricorda che la stessa Direttiva Europea 2014/2024, «fornisce indicazioni chiare sulla gestione del rischio di anomalia delle offerte imponendo alle stazioni appaltanti di valutare questo rischio e fornendo agli operatori economici la possibilità di presentare i loro giustificativi».
Per effetto di tale pregiudiziale la scelta degli estensori viene limitata al sottosoglia comunitario per cui si è deciso di mantenere un sistema di esclusione automatica, ma limitatamente a quelle situazioni con un numero di offerte sufficientemente elevato (almeno cinque) per cui il processo di valutazione dell'anomalia sia più lungo e costoso per le stazioni appaltanti in ragione della maggior complessità intrinseca dei contratti (quindi, per appalti di lavori e servizi, ma non di forniture).
La disciplina dell'art. 54, per la sua portata generale, è applicabile alle ipotesi di procedura negoziata, ma anche al caso in cui si ricorra alla procedura ordinaria, nel caso previsto dall'art. 50, comma 1, lett. d). Si esclude invece esplicitamente, per fugare ogni dubbio, l'affidamento diretto con richiesta di più preventivi (comma 1, secondo periodo).
L'aspetto, però, di maggior delicatezza sembra essere determinata dal comma 2 dell'articolo che «contiene la parte più innovativa della disposizione», rappresentata dalla introduzione dell'obbligo per le stazioni appaltanti di prevedere negli atti di indizione della procedura da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso (e quindi fin dall'avviso a manifestare interesse o nel bando purché non determinato da interesse transfrontaliero), oltre alla opzione per l'esclusione automatica delle offerte, anche il metodo matematico di determinazione della soglia di anomalia, individuato a scelta delle medesime stazioni appaltanti tra uno dei tre indicati nell'allegato II.2.
Questa precisazione, effettivamente, rappresenta anche la debolezza della previsione visto che la sua mancata previsione/richiamo non può condurre ad esclusione automatica salvo che si affermi, ufficialmente, che l'articolo 54 è eteroingrativo (imponendosi, quindi, alla stazione appaltante in caso di omesso richiamo negli atti di gara) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Per realizzare la mansarda serve sempre il permesso edilizio.
Il Consiglio di Stato esclude le tesi che vorrebbero qualificare l’opera come una manutenzione o una ristrutturazione edilizia
Il residente di un comune campano ha presentato una Scia in sanatoria, versando 516 euro di sanzione, per regolarizzare un intervento considerato «alla stregua di un intervento di ristrutturazione o di manutenzione della copertura del preesistente piano primo mansardato».
Intervento che ha portato alla realizzazione di uno spazio abitabile di 500 mq. Sulla base dei riscontri effettuati nel cantiere dai vigili urbani il comune ha emesso un'ordinanza di demolizione ritenendo che gli interventi fossero privi del necessario titolo edilizio.
L'interessato ha impugnato l'ordinanza al Tar, sostenendo che stava eseguendo «mere opere di manutenzione consistenti nel rifacimento parziale della copertura del primo piano». Il Tar ha invece dato credito al rapporto dei vigili urbani che hanno descritto nel dettaglio una «sopraelevazione» tesa a realizzare appunto «una mansarda a quota di piano primo di un fabbricato preesistente».
Il Consiglio di Stato - Sez. VII, nella sentenza 15.01.2024 n. 488, non ha potuto che respingere l'appello, ricordando che «la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l'intervento rientra nella nozione di nuova costruzione».
Pertanto, nel caso specifico, concludono i giudici della VII Sezione di Palazzo Spada, «la realizzazione di una mansarda a quota di piano primo di un fabbricato preesistente di 500 mq non può qualificarsi come ristrutturazione edilizia perché comporta la creazione di nuovi volumi» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.01.2024).
---------------
SENTENZA
6. Le censure sono infondate.
6.1 La descrizione delle opere contenuta nell’ordinanza di demolizione e nel verbale di sequestro datato 13.08.2015 smentisce la tesi difensiva secondo cui si tratterebbe di mere opere di manutenzione consistenti nel rifacimento parziale della copertura del primo piano oggetto di SCIA in sanatoria presentata in data 14.10.2015.
6.2 Per contro, le opere abusive accertate in sede di sopralluogo dei Vigili Urbani consistevano in una “sopraelevazione realizzata in legno, tegole di copertura, a falde inclinate, grondaia perimetrale, pali e travi in legno, parziale chiusura perimetrale con tavelle, guaina di calpestio. Alla stessa si accede con torrino scala. La detta sopraelevazione è di circa mq. 500 (cinquecento) con altezza di colmo ml 3,50 ed altezza laterale di circa ml 2,50 il tutto in corso di realizzazione”.
6.3 Come osservato dal giudice di primo grado,
è evidente che la realizzazione di una sopraelevazione per una superficie e un’altezza pari a quelli accertate non può essere considerata alla stregua di un intervento di ristrutturazione o di manutenzione della copertura del preesistente piano primo mansardato.
6.4 Per giurisprudenza costante,
la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione (Cons. Stato Sez. VI, 13.01.2021, n. 423).
Ne discende che
la realizzazione di una mansarda a quota di piano primo di un fabbricato preesistente di 500 mq non può qualificarsi come ristrutturazione edilizia perché comporta la creazione di nuovi volumi (Cons. Stato sez. VII 01.08.2023, n. 7453).
7. A diverse conclusioni non conducono né la perizia giurata a firma del geom. Be.Fr. (in diparte i profili di inammissibilità della medesima in quanto depositata solo in appello, sub doc. n. 2) né la sentenza penale di assoluzione emessa dal Tribunale di Napoli nei confronti del signor -OMISSIS- e citata da parte appellante.
7.1 Da un lato, la perizia giurata, pretermettendo totalmente lo stato di fatto così come accertato nel verbale di sequestro, si limita a richiamare la perizia tecnica e gli elaborati grafici allegati all’istanza di concessione in sanatoria nonché la descrizione delle opere contenuta nella SCIA in sanatoria presentata il 14.10.2015, concludendo che “gli interventi sopra descritti non hanno comportato alcun aumento di superficie e volumetria rispetto a quella esistente e assentita con C.E. in sanatoria”.
7.2 La relazione tecnica, fondandosi sul mero confronto tra le opere oggetto di concessione in sanatoria e le opere sopravvenute così come descritte dall’istante nella SCIA presentata, non è idonea a smentire le circostanze di fatto accertate dagli operatori di Polizia Municipale i quali hanno anche puntualizzato che le opere erano ancora “in corso di realizzazione” al momento del sopralluogo (13.08.2015).
7.3 Dall’altro lato, la sentenza n. -OMISSIS- non reca alcun accertamento, suscettibile di efficacia extrapenale (art. 654 c.p.p.), in ordine all’affermata legittimità delle opere realizzate poiché si limita ad assolvere il signor -OMISSIS- dal reato di cui all’art. 44, lett. b), d.p.r. 380/2001 unicamente per la mancata prova che l’imputato fosse proprietario dell’immobile o committente delle opere abusivamente realizzate, come confermato anche dal fatto che era stata la signora -OMISSIS-, in qualità di proprietaria, a presentare la SCIA in sanatoria (pag. 3 sentenza n. -OMISSIS-, doc. 1 allegato alla memoria di primo grado del 30.01.2019).
7.4 Le considerazioni sopra svolte confermano, pertanto, la legittimità dell’ordinanza di demolizione poiché avente ad oggetto opere integranti una nuova costruzione per le quali è necessario il permesso di costruire.

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento, considerando che la partecipazione del privato al procedimento non potrebbe determinare alcun esito diverso.
Invero, l’ordine di demolizione è atto vincolato e di carattere reale e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, atteso che non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare.
La presenza del manufatto abusivo comporta, infatti, una lesione permanente ai valori tutelati dalla Costituzione e l’eventuale connivenza o la mancata conoscenza della loro esistenza da parte degli organi comunali non incide sul dovere di disporne la demolizione.
---------------

8. La natura vincolata dell’ordine di demolizione determina l’infondatezza delle censure relative alla violazione dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento e al difetto di motivazione in ordine all’interesse pubblico perseguito in comparazione con quello del privato.
8.1 Sotto il primo profilo, in disparte la circostanza che gli appellanti si limitano a contestare l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento senza specificare quale apporto partecipativo avrebbero potuto fornire per superare le riscontrate illegittimità, è dirimente osservare che l’ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento, considerando che la partecipazione del privato al procedimento non potrebbe determinare alcun esito diverso (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 11.05.2022, n. 3707; sez. II, 01.09.2021, n. 6181).
8.2 Sotto il secondo profilo, si richiama l’orientamento della giurisprudenza che, nel solco dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 9/2017 e ribaditi di recente dall’Adunanza Plenaria n. 16/2023, ha costantemente rilevato che l’ordine di demolizione è atto vincolato e di carattere reale e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (cfr., ex multis, Cons. Stato sez. II, 11.01.2023, n. 360; sez. VI, 17.10.2022, n. 8808).
8.3 Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, atteso che non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare (Ad. Plen. 9/2017, sez. II, 11.01.2023, n. 360; sez. VI, 26.09.2022, n. 8264).
La presenza del manufatto abusivo comporta, infatti, una lesione permanente ai valori tutelati dalla Costituzione e l’eventuale connivenza o la mancata conoscenza della loro esistenza da parte degli organi comunali non incide sul dovere di disporne la demolizione (Ad. Plen. 16/2023).
9. Alla luce delle sopra esposte considerazioni, l’appello deve essere respinto in quanto infondato (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 15.01.2024 n. 488, no - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Controversie inerenti la mobilità interna.
Il TAR Lazio-Latina, Sez. I, con sentenza 13.01.2024 n. 32 ha ricordato che
le controversie che hanno a oggetto la contestazione degli atti di mobilità interna (trasferimento ad altra unità organizzativa), anche quando impugnati congiuntamente all'atto programmatorio presupposto (Piao), sono di competenza del giudice ordinario.
Infatti, in questi casi, l'interesse personale, diretto, concreto e attuale ad agire azionato e dunque il petitum sostanziale del ricorso non è costituito da una generica ed astratta pretesa alla legalità della gestione delle risorse umane da parte dell'ente datore di lavoro, bensì dalla volontà del ricorrente di conservare l'assegnazione precedentemente ottenuta e, quindi, di far valere una situazione giuridica soggettiva legata al rapporto di lavoro in essere con l'amministrazione, sotto il profilo del diritto alla sede di servizio
 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.02.2024).
---------------
SENTENZA
2. – Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, come da eccezione sollevata dal Comune di Gaeta, venendo in questione una vicenda contenziosa inerente la gestione privatistica del rapporto di lavoro di un dipendente comunale, sotto il profilo del suo trasferimento da un ufficio dell’ente ad un altro.
Infatti, ai sensi dell’art. 63, comma 1, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, “1. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L’impugnazione davanti al giudice amministrativo dell’atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo”.
Sul punto, costituisce ormai ius receptum che, dopo l’approvazione della graduatoria finale del concorso pubblico, “si apre la fase esecutiva nella quale si configurano attività che attengono allo svolgimento privatistico del rapporto di lavoro” (TAR Lazio, Roma, sez. V, 14.12.2023 n. 18972; sez. I, 28.03.2023 n. 5327; TAR Sardegna, sez. I, 08.09.2020 n. 483); nel contesto di tale fase i comportamenti e le determinazioni dell’Amministrazione sono espressione del potere negoziale che la stessa esercita nella veste e con la capacità del privato datore di lavoro (Cass. civ., sez. un., 07.07.2014 n. 15428; sez. un., 23.09.2013 n. 21671; sez. un., 06.07.2006 n. 15342).
Inoltre, osserva il collegio che “la giurisdizione deve essere determinata sulla base della domanda, dovendosi guardare, ai fini del riparto […] tra giudice ordinario e giudice amministrativo, non già alla prospettazione compiuta dalle parti, bensì al petitum sostanziale, da identificare, non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, quanto, soprattutto, in funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, da individuarsi con riguardo ai fatti allegati” (Cass. civ., sez. un., 22.09.2022 n. 27748; TAR Lazio, Roma, sez. V, 14.12.2023 n. 18972).
Ebbene, nella vicenda che ci occupa -OMISSIS- non ha impugnato soltanto il PIAO civico, ma anche e soprattutto le note municipali prot. n.-OMISSIS- del 30.01.2023 e prot. n. -OMISSIS- del 02.02.2023, con le quali è stato concretamente disposto il suo trasferimento ad altra unità organizzativa, rispetto alle quali il suddetto piano costituisce un atto amministrativo presupposto.
In tal senso, l’interesse personale, diretto, concreto ed attuale ad agire azionato in questa sede dal ricorrente –e dunque il petitum sostanziale del ricorso– non è costituito da una generica ed astratta pretesa alla legalità della gestione delle risorse umane del Comune resistente, bensì nella volontà di -OMISSIS- di conservare l’assegnazione precedentemente ottenuta e, quindi, di far valere una situazione giuridica soggettiva legata al rapporto di lavoro in essere con l’Amministrazione civica, sotto il profilo del diritto alla sede di servizio.
Sul punto, giurisprudenza che il collegio intende condividere ha già affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia relativa all’assegnazione del dipendente a una diversa unità organizzativa nel rispetto della categoria e del profilo professionale di appartenenza, in quanto gestita con i poteri del privato datore di lavoro e non comportante alcuna modificazione del rapporto di impiego tra le parti (TAR Marche, sez. I, 07.03.2014 n. 327).
Pertanto, atteso che le citate note dirigenziali del 30.01.2023 e del 02.02.2023, cioè gli atti direttamente lesivi della posizione del ricorrente, sono state assunte con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro, ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, la cognizione sull’eventuale esistenza di patologie che ne inficino la legittimità è devoluta al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, ai sensi dell’art. 63, d.lgs. n. 165 cit., cui è anche attribuito il potere di disapplicare eventualmente il PIAO in quanto atto amministrativo presupposto rilevante.
È, dunque, innanzi al giudice ordinario che -OMISSIS- potrà riproporre la domanda nei termini di legge, ai sensi degli artt. 59, l. 18.06.2009 n. 69 e 11 cod. proc. amm. e secondo i principi affermati dalle sentenze della Corte costituzionale 12.03.2007 n. 77 e della Corte di cassazione, sezioni unite, 22.02.2007 n. 4109.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Depuratore comunale e responsabilità del sindaco.
La decisione consapevole di fare funzionare e gestire un impianto fognario difettoso, implica una condotta positiva di disturbo e molestia a livello igienico e non una mera condotta omissiva dell’adozione di cautele idonee ad impedire il versamento.
Quello di cui all’articolo 674 cod. pen. è reato di pericolo per la cui integrazione non occorre un effettivo nocumento alle persone, essendo sufficiente «l'attitudine a cagionare effetti dannosi», sussistente nel caso di uno scarico di acque altamente tossiche e maleodoranti, avvenuto in luogo pubblico (fattispecie relativa alla condotta di un sindaco il quale non aveva evitato che i reflui provenienti dall’impianto di depurazione comunale finissero in mare in assenza di idonea depurazione, così imbrattando le acque marine)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.01.2024 n. 1451 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
---------------
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Quanto al primo profilo, mediante il quale è stata lamentata la errata applicazione dell'art. 674 cod. pen., a causa della affermazione della idoneità lesiva della condotta nonostante il mancato accertamento della dannosità per le persone di quanto sversato in mare, occorre premettere i principi della giurisprudenza, che questo Collegio richiama ritenendoli pienamente condivisibili.
2.1. La Corte ha reiteratamente affermato (Sez. 3, n. 49213 del 06/11/2014, Ingianni) che l’ipotesi contravvenzionale in esame è qualificata come reato di pericolo, cosicché per la sua configurazione è necessaria esclusivamente l'astratta attitudine delle cose gettate o versate a cagionare effetti dannosi ed è sufficiente la colpa, configurabile in tutti i casi in cui venga riscontrata l'attivazione di impianti pericolosi ovvero venga accertata la colposa omissione di cautele atte ad impedire il verificarsi della situazione di pericolo.
Ancòra, Sez. 3, n. 46237 del 30/10/2013, Semplici, ha precisato che è necessario e sufficiente accertare «la potenziale offensività del rifiuto o del refluo e che il getto avvenga in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato di comune o altrui uso (cfr. Cass. sez. 3, sentenza n. 25037 del 25/05/2011 Ud. dep. 22/06/2011 Rv. 250618; cfr. anche, con riferimento alla normativa preesistente, Sez. 1, sentenza n. 13278 del 10/11/1998 Ud, dep. 17/12/1998 Rv. 211869)», allargando altresì, nel tempo, l’ambito della nozione di «molestia», ravvisata ad esempio anche in caso di «mutevole colorazione del mare» causata dai reflui di un impianto di depurazione comunale, risultando palese ed intrinseco il turbamento che suscita nella comunità la visione del mare di un colore diverso da quello suo proprio (Sez. 3, n. 10034 del 07/01/2014, Calabrò, secondo cui «costituisce molestia anche il fatto di arrecare alle persone preoccupazione ed allarme circa eventuali danni alla salute»).
Si è poi precisato che «la decisione consapevole di fare funzionare e gestire un impianto fognario difettoso, implica una condotta positiva di disturbo e molestia a livello igienico e non una mera condotta omissiva dell’adozione di cautele idonee ad impedire il versamento» (Sez. 3, n. 48406 del 18/10/2019, Livello, Rv. 278259 – 01; Sez. 3, n. 6419 del 07/11/2007, Costanzach, Rv. 239058 – 01).
Recentemente, la Corte (Sez. 3, n. 21034 del 05/05/2022, Ali Spa, n.m.), ha chiarito che quello di cui all’articolo 674 cod. pen. è reato di pericolo per la cui integrazione non occorre un effettivo nocumento alle persone, essendo sufficiente «l'attitudine a cagionare effetti dannosi», precisando che non può non essere ricompresa una situazione, ove esiste uno scarico di acque altamente tossiche e maleodoranti, avvenuto in luogo pubblico.
2.2. Per quanto concerne il merito del ricorso, il Collegio osserva come nella giurisprudenza consolidata della Corte (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 – 01; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 - 01), in caso di c.d. «doppia conforme», ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione. Le motivazioni dei due provvedimenti in questo caso (v. Sez. 1, n. 8868 dell’08/08/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 05/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145) si integrano a formare un corpo unico.
Si è dunque, anche nel caso di specie, in presenza di «doppia conforme», con il conseguente obbligo per il ricorrente di confrontarsi in maniera puntuale con i contenuti delle due sentenze, circostanza, nel caso di specie, non sussistente.
Ciò premesso, il motivo è in parte qua inammissibile, essendo volto, peraltro in modo generico, privo di confronto critico con la motivazione della sentenza impugnata, a censurare sul piano del merito un accertamento di fatto, in ordine a detta idoneità lesiva dei reflui, di cui è stata accertata la presenza in mare nel corso di reiterate ispezioni ed analisi effettuate nel corso degli anni, che hanno evidenziato il superamento dei parametri COD e BOD, oltre l’assenza di misuratori di portata, pozzetti di ispezione e registri di carico e scarico dei rifiuti prodotti e smaltiti (pag. 6-7 sentenza di primo grado).
A ciò il Collegio aggiunge che non vi è dubbio che il mare territoriale (v. Sez. U. Civili, n. 2735 del 02/02/2017, Rv. 642419 - 02) sia una res communis omnium, rispetto al quale sussiste un diritto di uso comune a tutti i componenti della collettività uti cives, ragion per cui l’immissione in mare di sostanze inquinanti in misura superiore ai limiti consentiti cagiona un concreto pericolo di cagionare effetti dannosi alla salute nei confronti di un numero indeterminato di persone.
3. Del pari inammissibili sono le censure che si ricollegano alla qualifica di sindaco del ricorrente.
3.1. In ordine alla posizione del sindaco e alle responsabilità che ad essa conseguono, il Collegio premette che secondo la giurisprudenza della Corte il d.lgs. n. 267 del 2000, art. 107, comma 1, stabilisce che ai dirigenti degli enti locali spetta la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti, che devono uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo (v. Sez. 3, n. 37544 del 27/06/2013, Fasulo, Rv. 256638 – 01).
La richiamata disposizione è stata più volte oggetto di esame da parte della giurisprudenza di questa Corte con specifico riferimento alla materia dei rifiuti, contigua rispetto a quella oggetto del presente procedimento.
Si è infatti chiarito che
gli organi di governo, in base alla disciplina sugli enti locali, hanno un dovere di controllo limitato al corretto esercizio della funzione di programmazione generale (e, quanto al sindaco, dei compiti di ufficiale del governo), restando esclusa la responsabilità del sindaco per situazioni derivanti da problemi di carattere tecnico-operativo, ancorché non meramente esecutivo, riguardanti difficoltà meramente contingenti e di ordinaria amministrazione nonché la sorveglianza dell'operato del personale dipendente, che restano di competenza del dirigente amministrativo di settore (Sez. 3 n. 23855, 07.05.2002, conf. Sez. 3 n. 8530, 04.03.2002).
Tuttavia, questa Corte (Sez. 3, n. 2478 del 09/10/2007, dep. 2008, Gissi, Rv. 238593 – 01) ha precisato che,
se è vero che l'art. 107 TUEL prevede la delega ai dirigenti amministrativi dell'ente di autonomi poteri organizzativi, permane comunque in capo al sindaco, quale figura politicamente ed amministrativamente apicale del comune, il dovere di controllo sul corretto esercizio delle attività autorizzate (in tal senso Cass. Sez. 3, n. 28674 del 2004 Rv. 229293).
Egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente (Sez. 3, n. 37544 del 27/06/2013, Rv. 256638; Sez. 3, n. 18024 del 30/03/2023, Di Palma, n.m.).
Sussistono, quindi, da un lato, delle attribuzioni dirette del sindaco (quale quella di programmazione e, in materia di rifiuti, quella di ordinanza); dall’altro, un obbligo generale di vigilanza e controllo, a fronte di situazioni particolarmente gravi e reiterate nel tempo, quale quella in esame.
3.2. Nel caso di specie, le due conformi pronunce di merito sottolineano la risalenza nel tempo del problema, la sua gravità e la sua perduranza.
A pagina 7 della sentenza di primo grado si chiarisce, ad esempio, che le deposizioni dei testi Sa. (ARPA), Ar. e Ad. (Capitaneria di Porto) e i certificati di analisi in atti, evidenziavano i superamenti dei limiti tabellari per i parametri COD e BOD anche nel 2015, 2016 e 2018, ossia anche dopo l’elezione del Vi..
Analogamente, a pag. 4-5 della prima sentenza si dà conto di come nel 2018 si sia verificato un corposo carteggio tra la Regione e il Comune sul tema, sia stata fissata una conferenza di servizi, e di come nella nota del 18.05.2018 (ossia quando il vinci ricopriva la carica di sindaco) la Regione esprimesse rilievi critici proprio sulle «scelte operate dal RUP Geom. Sa. e dal sindaco del Comune di Saponara».
A fronte di tale, precisa, motivazione, il ricorrente da un lato omette di indicare in modo preciso quali interventi avrebbe posto in essere per fronteggiare il problema (essi sono solo genericamente indicati a pag. 2 del ricorso) e, dall’altro, omette di confrontarsi con i dati precisi offerti dalle due sentenze, da cui emerge la prosecuzione dell’inquinamento ben oltre la data di assunzione della carica sindacale e la comunicazione nelle sedi istituzionali di tale perduranza.
Ed infatti, a fronte di una motivazione precisa sia in ordine alla prosecuzione delle criticità dopo l’assunzione della carica sindacale da parte del ricorrente, certificate da rapporti analitici e debitamente rappresentate anche in conferenza di servizi, che alla precisa comunicazione di tali criticità agli organi comunali, il ricorso si limita ad una generica censura di tipo «contestativo», senza opporre una critica precisa che «attacchi» i motivi del provvedimento impugnato, risultando così inammissibile per difetto di specificità estrinseca.

APPALTI: Manodopera, mai ribassabili le spese individuate come «incomprimibili» nel bando.
Resta la possibilità di giustificare che il ribasso complessivo dell’importo derivi da una più efficiente organizzazione aziendale: il ragionamento del Tar Campania compatibile con le disposizioni del nuovo codice.

Il giudice campano (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 11.01.2024 n. 147) viene chiamato a verificare la legittimità di un provvedimento di esclusione determinato dal non consentito ribasso degli oneri della manodopera (e sicurezza) indicati dalla stazione appaltante riguardo ad un appalto bandito sotto l’egida del pregresso codice.
La sentenza contiene, però, indicazioni utili anche in relazione al nuovo impianto normativo.
La questione
Il ricorrente impugna la propria esclusione in relazione ad un appalto di servizi pulizia, manutenzione e custodia dell'area cimiteriale, fondata, in particolare, su un ribasso «abnorme» rispetto ai soli importi ribassabili ovvero la sola parte composta «dalle spese per i materiali e le attrezzature, per 5.844,15, il rimborso spese generali, per 7.017,77 e l'utile d'impresa, pari ad 5.380,29».
In questo modo la percentuale del ribasso determinava praticamente l'azzeramento di queste voci (raggiungendo la soglia del 92,77). Evidentemente, l'offerta è stata considerata anomala e inaccettabili le stesse giustificazioni.
Da qui, la censura del ricorrente che ha strutturato il proprio ricorso evidenziando che la stazione appaltante avrebbe dovuto applicare la percentuale di ribasso non alla sola componente del costo dell'appalto preso in considerazione (che si potrebbero sintetizzare come spese generali e la percentuale di utile) ma anche alle altre componenti ovvero «l'importo per il costo del personale, pari ad 38.961 e quello per la sicurezza, pari ad 1.980, per complessivi 40.941,00».
In pratica, la stazione appaltante avrebbe dovuto prendere in considerazione (applicare il ribasso offerto), secondo la ricorrente, anche questi importi e, in questo modo, la percentuale di ribasso si sarebbe attesta sul 28,95% risultando non anomala.
La sentenza
Il Tar si sofferma, dapprima, sul procedimento di verifica della potenziale anomalia dell'offerta evidenziando che l'analisi -che deve essere presidiata dal Rup-, «costituisca espressione della discrezionalità tecnica, di cui l'amministrazione è titolare per il conseguimento e la cura dell'interesse pubblico ad essa affidato dalla legge (Consiglio di Stato sez. V, 14.06.2021, n. 4620, cfr. Consiglio di Stato sez. V, 01.06.2021, n. 4209)».
Le risultanze del procedimento, quindi, sono sottratte ad un «sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento dei fatti». Giungendo, quindi, alla parte centrale della censura la possibilità o meno di ribassare il costo della manodopera-, in sentenza si rileva che «qualora la lex specialis di gara abbia nettamente distinto una parte del valore del contratto di appalto come spesa incomprimibile (quella afferente al costo del personale) ed abbia specificato, con riferimento alla restante parte della base d'asta, l'offerta del massimo ribasso, solo su questo costo l'operatore sia legittimato a proporre la sua offerta in ribasso».
Ed è ciò che è effettivamente avvenuto con la gara di in cui, la stazione appaltante, ha evidenziato i costi incomprimibili come richiesto dalla pregressa disciplina e, in modo più chiaro, con l'attuale codice-, richiedendo il ribasso solo sulla parte «comprimibile» e su questa «i singoli concorrenti avrebbero dovuto operare il ribasso». Il ribasso offerto, invece, secondo la pretesa della ricorrente, incideva anche sugli oneri della manodopera e sugli oneri della sicurezza violando le prescrizioni della legge di gara.
Pertanto la decisione, sul procedimento di verifica della potenziale anomalia, è tutt'altro che privo di fondamento illogico.
Il ragionamento espresso, prima dalla stazione appaltante e poi confermato dal giudice, pare coerente anche con il nuovo disposto contenuto nel comma 14 dell'articolo 41 del nuovo codice in cui per i soli contratti di lavori e servizi, «per determinare l'importo posto a base di gara, la stazione appaltante o l'ente concedente individua nei documenti di gara i costi della manodopera» che, con gli oneri della sicurezza, devono essere «scorporati dall'importo assoggettato al ribasso». Fermo restando la possibilità, da intendersi in senso generale, dell'operatore economico «di dimostrare che il ribasso complessivo dell'importo deriva da una più efficiente organizzazione aziendale».
Una corretta interpretazione impone quindi alla stazione appaltante di specificare, come anche avviene nel bando tipo n. 1/2023 dell'Anac, che gli oneri della manodopera non sono ribassabili direttamente ma qualora, si potrebbe dire in via indiretta, si incida anche su questi, l'offerente solo per questo non può essere escluso ma deve essere chiamato a certificare l'esistenza di una maggiore «efficienza» rispetto al modello richiesto dalla stazione appaltante con la legge di gara (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Beni culturali, anche orti e case rustiche possono essere soggetti a vincolo. Lo segnala una sentenza del Tar Liguria rigettando il ricorso dei proprietari
Un frutteto, un orto e una casa rustica possono essere dichiarati beni culturali.
È quanto statuisce il TAR Liguria (Sez. I con sentenza 11.01.2024 n. 16) che ha confermato la legittimità di un decreto del Presidente della Commissione Regionale per il patrimonio culturale della Liguria che ha qualificato tali beni come soggetti a vincolo culturale.
La sentenza è interessante perché, oltre ad affrontare il tema sempre molto complicato della presunzione di vincolo dei beni appartenenti ad enti pubblici ribadisce l'ampia discrezionalità di cui dispone il Ministero dei Beni Culturali nella valutazione della presenza o meno di interesse culturale e sostiene che la valutazione connessa ai beni appartenenti ad un ente pubblico afferisce alla verifica di un interesse culturale minore.
Andando con ordine, la vicenda da cui scaturisce la pronuncia riguarda un compendio immobiliare di proprietà della Siae che, in qualità di ente pubblico economico, intendendo procedere alla sua vendita ha chiesto l'attivazione della verifica di interesse culturale del compendio, ai sensi dell'articolo 12 del Codice dei Beni Culturali.
La verifica è terminata con la dichiarazione di vincolo, contestata dagli attuali proprietari avanti al Tar sulla base di motivazioni volte a confutare la ricostruzione ministeriale di sussistenza di effettivo interesse culturale. Il Tar ha rigettato la richiesta sulla base di molteplici argomentazioni, di cui la principale è la ampia discrezionalità della scelta dell'amministrazione. Infatti, secondo i giudici liguri, le valutazioni sottese alla dichiarazione di interesse culturale sono molto ampie, attraversano diversi campi del sapere e si basano su un apprezzamento delle qualità di un bene connotato da una grande discrezionalità tecnica.
Il giudizio che presiede alla dichiarazione di interesse culturale, e quindi all'imposizione di un vincolo, implica l'applicazione di cognizioni specialistiche proprie di settori scientifici della storia, dell'arte, dell'architettura, dell'archeologia e di altre discipline caratterizzate da canoni elastici e mobili e, quindi, da grandi margini di opinabilità.
Queste considerazioni quindi portano a considerare che anche beni che tradizionalmente non vengono ricondotti al novero dei beni culturali (come un frutteto, un orto o un bene rustico) possono validamente presentare un interesse culturale che non può essere escluso a priori. Per esempio, in relazione ai terreni oggetto di giudizio, l'interesse culturale nasce dal fatto che essi presentano una stretta connessione con un bene cinquecentesco (oggetto di vincolo precedentemente) sia dal punto di vista morfologico che storico testimoniale.
Questo basta a considerare la legittimità della dichiarazione di vincolo, anche in ragione del fatto che secondo il Tar la discrezionalità del Ministero in caso di beni appartenenti ad enti pubblici è anche maggiore rispetto alle valutazioni che sono condotte sui beni dei privati. Infatti, mentre per i beni del demanio o del patrimonio pubblico l'articolo 10, comma 1, lett. A), del Codice dei Beni Culturali postula la sussistenza di un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico quindi per dirla con le parole del Tar la sussistenza di un interesse semplice, per i beni di proprietà privata l'art. 10, comma 3, richiede il riscontro di un interesse particolarmente importante o eccezionale.
Questo costituirebbe, quindi, un ulteriore motivo a supporto della legittimità del decreto di vincolo la cui valutazione era chiamata ad accertare un interesse semplice data la natura giuridica della Siae.
Si ricorda, sul punto che per costante giurisprudenza la valutazione dell'amministrazione può essere censurata soltanto se la decisione risulti in contrasto con la realtà fattuale, ovvero sia irragionevole, incoerente o inattendibile sotto il profilo tecnico, ponendosi al di fuori della naturale ed intrinseca opinabilità del sapere che definisce il carattere culturale del bene (Cons. St., sez. VI, 30.08.2023, n. 8074; Cons. St., sez. VI, 04.09.2020, n. 5357; Cons. St., sez. VI, 14.10.2015, n. 4747) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.01.2024).
---------------
SENTENZA
3. Tanto premesso, gli atti impugnati non risultano affetti dai vizi censurati con il I) mezzo di gravame.
Occorre rammentare che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 10, comma 1, lett. a), e 12 del d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali), tutti i beni mobili e immobili di proprietà di soggetti pubblici o di enti privati non lucrativi, realizzati da autore non più vivente ed esistenti da oltre settant’anni, sono sottoposti ad una misura di salvaguardia, consistente nell’applicazione del vincolo di tutela sino al compimento della verifica circa la sussistenza o meno di uno specifico interesse culturale (artistico, storico, archeologico o etnoantropologico).
Come rilevato in dottrina, si tratta di una presunzione iuris tantum di culturalità, per cui tali beni sono provvisoriamente soggetti al sistema codicistico di protezione fino allo scrutinio ad hoc dell’interesse culturale da parte degli organi competenti, d’ufficio o su istanza degli enti proprietari: in caso di verifica positiva, il bene rimane definitivamente vincolato; diversamente, l’esito negativo dell’accertamento comporta la fuoriuscita del cespite dal regime di tutela (in argomento cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 12.02.2015, n. 769; TAR Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 13.01.2017, n. 28).
3.1. Ciò posto, contrariamente a quanto argomentato da SIAE e dai signori Bo., il rustico è stato verosimilmente costruito anteriormente al 1950 ed è, pertanto, un bene ultrasettantennale, con conseguente operatività della richiamata disciplina.
In proposito, non è significativa la circostanza che l’unità immobiliare sia stata per la prima volta iscritta in catasto nel 1959, poiché in passato accadeva sovente che i piccoli fabbricati rurali non venissero accatastati al momento della loro realizzazione (v. sul punto TAR Liguria, sez. I, 18.05.2022, n. 395; TAR Liguria, sez. I, 28.09.2020, n. 642).
Per contro, dalla documentazione versata in atti emergono plurimi indizi della risalenza della costruzione ad un periodo antecedente al 1959 e, in generale, agli anni ’50:
   - nel rogito notarile di compravendita stipulato fra SIAE ed i signori Bo., all’art. 9, la procuratrice speciale della parte venditrice ha dichiarato che il manufatto è stato edificato anteriormente al 1942 (v. doc. 1 interventori);
   - nella relazione di regolarità edilizia e catastale richiamata nel prefato atto notarile l’ing. Ol., in qualità di tecnico di SIAE, ha rappresentato che il rustico è stato originariamente realizzato quale manufatto di servizio per la conduzione del fondo agricolo e, in seguito, utilizzato come dependance della villa per il personale di sorveglianza; ha aggiunto che, probabilmente, è stato eretto dopo il 1940 e che ha assunto la consistenza attuale prima del 1967 (v. produzione interventori del 10.07.2023);
   - nel 1959 Fr.Ci. era morto da tempo (essendo mancato il 20.11.1950), mentre Ro.La. aveva ottantadue anni, in quanto nata il 01.08.1877 (v. atto di donazione rep. n. 61952 notaio Ca. di Genova). Ora, appare poco plausibile che una donna ultraottuagenaria intraprenda l’edificazione di un nuovo fabbricato, viepiù se si considera che, quasi sicuramente, nel 1959 la vedova del musicista aveva già maturato la decisione di donare il compendio immobiliare a SIAE o, comunque, stava vagliando tale opzione; viceversa, è assai probabile che il manufatto sia stato accatastato in tale momento proprio per procedere alla liberalità in favore dell’ente ricorrente.
3.2. In secondo luogo, si rivela manifestamente infondato l’assunto secondo cui l’avversato decreto di vincolo sarebbe stato emanato senza accertare previamente l’interesse culturale dei beni.
Come dimostrato dall’Amministrazione resistente, infatti, il procedimento di verifica di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 42/2004 è stato correttamente esperito, secondo l’iter divisato dagli artt. 40, 41 e 47 del d.p.c.m. n. 169 del 02.12.2019.
In particolare, come accennato (supra, § 2), la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio ha svolto l’istruttoria ed ha proposto alla Commissione per il patrimonio culturale della Liguria il riconoscimento dell’interesse per il terreno-frutteto lato ovest, il rustico a monte ed il terreno-orto a nord-est, esprimendosi invece in senso contrario per le due unità immobiliari facenti parte dell’edificio a schiera a ponente della villa (v. nota Soprintendente in data 03.08.2021 e relativi allegati, sub doc. 4 resistente).
La Commissione regionale ha accolto la proposta soprintendentizia (v. verbale CO.RE.PA.CU. del 04.08.2021, sub doc. 4 resistente) e, con il decreto in questa sede impugnato, il Segretario regionale del Ministero della Cultura, nella sua qualità di Presidente della predetta Commissione, ha dichiarato l’interesse culturale dei beni in parola.
3.3. Infine, la mancata inclusione delle pertinenze nella dichiarazione di interesse culturale del 2001, avente ad oggetto esclusivamente “Villa Cilea con giardino”, non configura una situazione di affidamento tutelabile.
Come si è detto, infatti, tutti i beni ultrasettantennali appartenenti ad Amministrazioni ed enti pubblici sono soggetti a protezione ex lege, che viene meno soltanto all’esito negativo della procedura di verifica dell’interesse culturale prevista dall’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
Dunque, poiché per i beni in discussione non era mai stata compiuta la valutazione di interesse culturale (cfr. doc. 3 resistente), il relativo potere non si è consumato: onde l’eventuale convinzione soggettiva di SIAE circa l’avvenuta maturazione di una preclusione all’imposizione del vincolo culturale costituisce il frutto di un errore di diritto, insuscettibile di fondare un legittimo affidamento.
Tale conclusione risulta viepiù avvalorata dal fatto che il decreto del 2001 è stato emanato sotto l’egida del previgente d.lgs. n. 490/1999, il quale non contemplava il meccanismo della presunzione di interesse culturale, ma si basava sulla predisposizione di elenchi descrittivi dei beni da parte degli stessi enti pubblici proprietari.
Pertanto, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non solo il provvedimento del 2001 non ha escluso il rilievo culturale delle pertinenze di “Villa Cilea” (e, quindi, con l’atto del 2021 l’Amministrazione non ha compiuto alcun revirement), ma, anzi, nel primo decreto di vincolo risulta precisato che l’esplicitazione del carattere storico-artistico dell’edificio padronale veniva effettuata nelle more della compilazione, a cura di SIAE, della lista di tutti i propri beni culturali, rispondendo all’esigenza di sottoporre immediatamente a tutela la villa (all’evidente scopo di evitare che potesse “sfuggire” alla protezione, a causa di una catalogazione non esaustiva).
In altri termini, l’interesse culturale dei beni immobili in contestazione non è mai stato disconosciuto dal Ministero della Cultura e, quindi, al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004 i beni medesimi sono passati in regime di tutela provvisoria, poi sfociata nel provvedimento definitivo odiernamente oppugnato (per un caso simile cfr. Cons. St., sez. VI, 08.03.2023, n. 2482).
4. Si rivelano inaccoglibili anche le doglianze mosse con il II) motivo del ricorso.
4.1. L’Amministrazione può assoggettare a tutela culturale i beni di proprietà di un ente pubblico in uno spettro di situazioni più ampio rispetto all’ipotesi di cespiti appartenenti a privati: infatti, per i beni del demanio e del patrimonio pubblico l’art. 10, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 postula la sussistenza di un “interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”, vale a dire di un interesse culturale, per così dire, semplice; diversamente, per quelli in proprietà privata l’art. 10, comma 3, richiede il riscontro di un interesse “particolarmente importante” o “eccezionale” (sul punto v. Cons. St., sez. VI, 08.03.2023, n. 2482, cit.).
Orbene, alla data della contestata dichiarazione di interesse culturale, SIAE era titolare del diritto dominicale sul rustico e sul podere limitrofo, avendo stipulato con il signor Bo. soltanto il contratto preliminare, che, come noto, produce effetti meramente obbligatori. Pertanto, il provvedimento di vincolo non può reputarsi sproporzionato, giacché è stato lo stesso legislatore che, nel delineare i tratti del potere conformativo attribuito all’Autorità tutoria, ha stabilito di fare scattare la tutela dei beni degli enti pubblici in presenza di un interesse culturale di minore intensità rispetto a quello prescritto per i beni privati.
4.2. Secondo l’elaborazione pretoria, la nozione di bene culturale non si presta ad una definizione tassativa e puntuale, ma costituisce un concetto aperto, il cui contenuto viene riempito dalle elaborazioni di diversi campi del sapere, afferenti alle scienze non esatte.
In ragione delle peculiarità epistemologiche insite nell’apprezzamento della qualitas culturale di un bene, il giudizio che presiede alla dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnica, poiché implica l’applicazione di cognizioni specialistiche proprie di settori scientifici della storia, dell’arte, dell’architettura, dell’archeologia e di altre discipline caratterizzate da canoni elastici e mobili e, quindi, da lati margini di opinabilità.
Ne consegue che la valutazione dell’Amministrazione può essere censurata soltanto se la decisione risulti in contrasto con la realtà fattuale, ovvero sia irragionevole, incoerente o inattendibile sotto il profilo tecnico, ponendosi al di fuori della naturale ed intrinseca opinabilità del sapere che definisce il carattere culturale del bene (in argomento cfr., ex aliis, Cons. St., sez. VI, 30.08.2023, n. 8074; Cons. St., sez. VI, 04.09.2020, n. 5357; Cons. St., sez. VI, 14.10.2015, n. 4747).
Alla stregua delle tracciate coordinate ermeneutiche, ritiene il Collegio che il giudizio dell’Amministrazione resistente circa la valenza culturale di tutti i beni facenti parte del compendio immobiliare dei Cilea (con l’unica eccezione della casa in cui viveva la governante) si basi su dati oggettivi, risponda ai criteri delle scienze storiche ed artistiche, nonché risulti ragionevole e congruo.
Invero, la relazione allegata al decreto di vincolo (doc. 3 ricorrente) illustra, con adeguato corredo motivazionale, il valore culturale della tenuta terriera composta dall’edificio principale, dai terreni pertinenziali e dal fabbricato minore a monte. In proposito, appaiono particolarmente significativi i seguenti passaggi della relazione storico-artistica:
   - la dimora nobiliare denominata “Villa Cilea” è costituita da una “massiccia struttura architettonica…a parallelepipedo”: la villa presenta un nucleo originario presumibilmente cinquecentesco, come si evince dalla presenza di volte e peducci nelle coperture delle sale, ed è stata ristrutturata ed ampliata nella seconda metà del XIX secolo; le numerose stanze sono abbellite da affreschi ottocenteschi, alcuni dei quali opera dell’importante pittore Luigi De Servi. Nella residenza varazzina, di proprietà della famiglia Lavarello dalla seconda metà del 1800, il compositore e la consorte vissero dal loro matrimonio nel 1909 fino alla morte, animando un “vivace salotto intellettuale frequentato da artisti e uomini di cultura”;
   - “i terreni di pertinenza, posti sui lati ovest, nord ed est, mantengono tra loro, e con l’edificio stesso, una strettissima connessione sia dal punto di vista morfologico (come chiaramente leggibile nel rilievo planimetrico della proprietà, che evidenza come tutte le porzioni siano ancora armonicamente tra loro collegate), che storico testimoniale (ad esempio, la presenza di una porzione residuale di sistemazione a limonaia nel terreno ad est, o il sistema di percorsi progettato per superare il dislivello con il terreno ad ovest)”;
   - anche il fabbricato di servizio, che insiste sul terreno a nord “in diretta corrispondenza visiva con la Villa”, costituisce memoria della tenuta agricola, alla cui gestione era strumentale: invero, seppure alla fine dell’Ottocento il tracciato ferroviario ha tagliato in due il fondo, “le porzioni residuali di terreno…costituiscono ancora un elemento unitario con la Villa, da preservare sia in termini di testimonianza di quel paesaggio agrario di villa ormai quasi del tutto scomparso…sia in termini di risorsa ambientale”;
   - pertanto, “la Villa, unitamente al giardino che la circonda su tre lati verso mare e ai terreni di pertinenza, nonostante i mutamenti urbanistici intervenuti nell’area e un uso, anche incongruo, in epoca recente di alcune porzioni di terreno, costituisce, nel suo complesso, un rilevante esempio di villa suburbana d’impianto ligure caratterizzata da una forte relazione con il paesaggio di mare in cui è immersa”.
Dunque, l’Autorità preposta alla tutela del patrimonio culturale ha descritto le caratteristiche della villa, con le sue peculiarità architettoniche ed artistiche ed il contesto storico di riferimento, nonché la consistenza dell’intero compendio, evidenziando la connessione morfologica e funzionale tra l’edificio padronale e le altre porzioni immobiliari: l’Amministrazione ha, quindi, delineato in modo puntuale e secondo i pertinenti criteri tecnici la rilevanza ed il significato di “Villa Cilea” e delle sue pertinenze.
Per contro, non appaiono meritevoli di condivisione le critiche levate dalla ricorrente e dagli interventori, giacché:
   - il fatto che il rustico non presenti i medesimi caratteri tipologici della villa non scalfisce le considerazioni dell’organo tutorio in merito all’interesse culturale dell’intero complesso immobiliare, in quanto testimonianza storica di una tenuta ligure suburbana, degna di particolare considerazione perché fu residenza del maestro Cilea e della moglie. È parimenti irrilevante che l’area a nord-est, acquistata nel 2022 dai signori Bo., non ospitasse un parco in senso stretto (id est un vasto giardino con piante ornamentali), bensì un terreno coltivato ad ortaggi ed un lungo pergolato con vigneto, giacché, come dato atto dallo stesso perito degli interventori, la villa svolgeva anche funzione di presidio agricolo del territorio (cfr. pagg. 4 e 22 della relazione dell’arch. Be. in data 24.03.2023, sub doc. 3 interventori): donde la legittimità della decisione dell’Amministrazione di tutelare, insieme alla dimora padronale, anche le sue pertinenze, quali vestigia di un paesaggio agreste a ridosso del mare oggi introvabile;
   - rappresenta un’opinione meramente soggettiva, inammissibilmente patrocinata come alternativa alla valutazione dell’Autorità tutoria, la tesi attorea secondo cui la costruzione della ferrovia (a fine ’800) e, successivamente, la demolizione della galleria con la sovrastante terrazza (intorno al 1950), con trasformazione del sedime in una strada urbana, avrebbero comportato il venir meno dell’originario nesso tra la villa ed i cespiti a monte, i quali risulterebbero ormai suddivisi in due parti distinte e disomogenee. In realtà, appare assolutamente attendibile l’apprezzamento della resistente secondo cui il collegamento tra le suddette porzioni del compendio sia stato fisicamente conservato attraverso la passerella pedonale che mette in comunicazione la villa con l’area a settentrione (rustico e podere), come si evince dalla documentazione fotografica in atti (v. doc. 11 ricorrente, nonché le fotografie a pag. 8 della relazione dell’Amministrazione descrittiva dello stato dei luoghi e le fotografie inserite quali tavole nn. 10-11 nella relazione dell’arch. Be. in data 24.03.2023; cfr., altresì, le fotografie della proprietà Bo. a pagg. 7-8 della relazione dell’Amministrazione, raffiguranti il vialetto che attraversa il terreno piantumato con alberi ed ortaggi, costituendo traccia dell’asse del preesistente pergolato);
   - l’assunto per cui il fabbricato rurale ed il terreno non sarebbero fruiti da oltre un secolo come, rispettivamente, manufatto di servizio ed orto retrostante alla villa è smentito dall’atto notarile con cui la vedova Cilea, nel febbraio 1960, cedette gli immobili a SIAE: invero, la donazione in blocco dei beni costituenti la tenuta, con riserva dell’usufrutto non solo sulla villa ma sull’intero fondo, dimostra che, ancora a tale data, tutte le porzioni costituivano un unicum (e verosimilmente rimasero tali almeno fino alla morte della donante usufruttuaria, avvenuta nel 1970).
Infine, si rivela fuori fuoco l’argomento dell’esponente secondo cui difetterebbero i requisiti elaborati dalla giurisprudenza per qualificare gli immobili come pertinenze urbanistiche della villa, vale a dire il collegamento con l’edificio principale, la mancanza di un autonomo valore di mercato e la modestia delle dimensioni.
Infatti, la nozione urbanistico-edilizia di pertinenzialità copre un ambito assai circoscritto e, pertanto, non coincide con quella civilistica di destinazione durevole a servizio o ad ornamento del bene principale ex art. 817 cod. civ. (cfr. TAR Liguria, sez. I, 29.08.2020, n. 596), né, a fortiori, con la nozione rilevante ai fini della tutela del patrimonio culturale, che si configura ancora più lata, ai sensi dell’art. 9 Cost. (cfr. Cons. St., sez. VI, 11.11.2019, n. 7715).
E ciò a prescindere dalla circostanza che il legame strumentale ed ornamentale delle varie porzioni immobiliari con la dimora padronale, esistente al tempo in cui il luogo era abitato dai coniugi Cilea, risulta tuttora leggibile, come ben lumeggiato nella relazione storico-artistica.

PUBBLICO IMPIEGO: I compensi professionali dell’avvocato pubblico sono parte della retribuzione. I regolamenti che disciplinano l’erogazione degli onorari vanno redatti nel rispetto della legge.
La Sezione lavoro del TRIBUNALE civile di Latina, con sentenza 11.01.2024 n. 11, ha stabilito il principio di diritto secondo il quale i compensi professionali, percepiti dagli avvocati, dipendenti di una Pubblica amministrazione, non possono essere esclusi dal trattamento economico complessivo percepito in virtù del rapporto di lavoro.
Il fatto
Dinanzi al Tribunale di Latina, in funzione di giudice del lavoro, viene proposta la domanda di annullamento e/o revoca di un decreto ingiuntivo emesso dallo stesso Tribunale, con il quale è stato ingiunto al Comune di Latina di pagare in favore di un avvocato, in servizio presso l'avvocatura comunale, una somma di danaro a titolo di compensi professionali maturati per lo svolgimento delle attività defensionali in costanza di rapporto di lavoro.
Il Comune opponente ritiene di non dover corrispondere detta somma in base al vigente Regolamento dell'Avvocatura comunale in quanto i compensi professionali erano stati espressamente esclusi dalle voci che compongono il trattamento economico complessivo annuale dell'Avvocato Dirigente.
La decisione
Il Tribunale di Latina ha ritenuto che i compensi professionali, maturati dagli avvocati pubblici, non possano restare al di fuori del trattamento economico complessivo, a differenza di quanto regolamentato dal Comune datore di lavoro, la cui posizione è in contrasto con la fonte normativa di primo grado ovvero l'articolo 9 del Dl 90/2014 convertito dalla legge 114/2014.
Il decreto Renzi ha chiarito che i compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo. Tali compensi, sia per spese compensate che per spese recuperate, possono essere corrisposti in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo.
Il giudice del lavoro ha disapplicato il regolamento comunale contestato dall'avvocato dipendente, nella parte in cui prevede l'esclusione dei compensi professionali dal computo del trattamento annuo complessivo proprio per il netto contrasto dello stesso con il citato articolo 9 del Dl 90/2014.
Conclusioni
Il giudice del lavoro nel condividere le cadenze argomentative espresse in materia dalla giurisprudenza ordinaria e amministrativa secondo cui il fatto che il legislatore, all'articolo 9, comma 7, del Dl 90/2014 abbia utilizzato proprio la locuzione trattamento economico, per di più rafforzata dall'aggettivo complessivo, non lascia spazio a dubbi sul fatto che in esso vadano ricompresi anche gli onorari.
Qualora il legislatore avesse inteso far riferimento solo a una porzione del trattamento economico dell'avvocato dipendente avrebbe utilizzato una differente locuzione come trattamento economico fondamentale o fare riferimento ad altre nozioni specifiche quali quelle di retribuzione ordinaria o stipendio tabellare ovvero in alternativa avrebbe ancora potuto espressamente escludere i compensi professionali dalla nozione di trattamento economico rilevante ai fini della determinazione del tetto.
I regolamenti che disciplinano l'erogazione dei compensi professionali vanno redatti nel rispetto della legge e debbono collocarsi nel perimetro normativo ben delineato dal legislatore (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024).

PUBBLICO IMPIEGO: Consulta: l’irretroattività della norma peggiorativa si estende anche ai contratti pubblici.
La Corte costituzionale ha affermato che il principio è “generale” e non vale solo per il diritto penale. Ed ha bocciato la Finanziaria 2001 nella parte in cui -retroattivamente- escludeva l’operatività delle maggiorazioni Ria dei dipendenti pubblici per il triennio 1991-1993.
Il principio di non retroattività della legge costituisce un fondamentale valore di civiltà giuridica, anche al di là della materia penale.

È questo l’importante approdo teorico cui giunge la Corte costituzionale, con la sentenza 11.01.2024 n. 4 (redattore Marco D’Alberti) affrontando il caso di una norma peggiorativa rispetto al precedente regime economico in materia di anzianità dei dipendenti pubblici.
La Consulta ha infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 51, comma 3, della legge 23.12.2000, n. 388, che era intervenuto, in via retroattiva, per escludere l'operatività di maggiorazioni alla retribuzione individuale di anzianità dei dipendenti pubblici in relazione al triennio 1991-1993, a fronte di un orientamento giurisprudenziale che stava invece riconoscendo a tali dipendenti il diritto ad ottenere il menzionato beneficio economico dalle amministrazioni di appartenenza.
Il Consiglio di Stato, che ha poi rimesso la questione alla Consulta, doveva infatti decidere sull'appello contro la sentenza del Tar Lazio (n. 9255/2014), che aveva respinto il ricorso proposto da seicentocinquantotto dipendenti del Ministero della difesa per il riconoscimento di maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità (RIA), ai sensi dell'articolo 9, commi 4 e 5, del Dpr 17.01.1990, n. 44 maturate nel 1991, 1992 e 1993, facendo valere la proroga al 31.12.1993 disposta dalla legge 14.11.1992, n. 438.
Il Tar Lazio (sentenza n. 9255 del 2014) aveva rigettato le pretese dando atto della sopravvenienza, nelle more del giudizio, della legge n. 388 del 2000 che ha espressamente escluso che la proroga al 31.12.1993 dell'intera disciplina contenuta nel d.P.R. n. 44 del 1990 potesse estendere anche il termine per la maturazione dell'anzianità di servizio ai fini dell'ottenimento della maggiorazione della RIA.
La sentenza odierna ha innanzitutto chiarito che
il controllo di costituzionalità delle leggi retroattive diviene ancor più stringente qualora l'intervento legislativo incida su giudizi ancora in corso, specialmente nel caso in cui sia coinvolta nel processo un'amministrazione pubblica, essendo precluso al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio.
Al fine di verificare se l'intervento legislativo retroattivo sia effettivamente preordinato a condizionare l'esito di giudizi pendenti, la Corte costituzionale è chiamata a svolgere in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte EDU uno scrutinio che assicuri una particolare estensione e intensità del controllo sul corretto uso del potere legislativo, tenendo conto delle concrete tempistiche e modalità dell'intervento del legislatore.
Inoltre, nelle motivazioni si è chiarito che
solo imperative ragioni di interesse generale possono consentire un'interferenza del legislatore su giudizi in corso e che i principi dello stato di diritto e del giusto processo impongono che tali ragioni siano trattate con il massimo grado di circospezione possibile.
E, prosegue la decisione, nel caso in esame non emerge, né dai lavori preparatori, né dalle relazioni tecnica e illustrativa, alcuna ulteriore ragione giustificatrice dell'intervento legislativo retroattivo rispetto all'esigenza di assicurare un risparmio della spesa pubblica, in considerazione di orientamenti giurisprudenziali che stavano riconoscendo tutela alle pretese economiche dei dipendenti nei confronti delle amministrazioni pubbliche di appartenenza.
Di qui la sua illegittimità costituzionale per violazione tra l'altro dei principi della certezza del diritto e dell'equo processo, di cui agli artt. 3, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU.
La sentenza ribadisce e rafforza la costruzione di una solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU e fra la Corte costituzionale e la Corte di Strasburgo, nell'ottica di un rapporto di integrazione reciproca (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.01.2024).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La terzietà dell'Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD).
«Il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell'ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicché lo stesso non va confuso con la imparzialità dell'organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare.
Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi che si pongono a confronto
».

È quanto ricordato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nell'ordinanza 10.01.2024 n. 1016, evidenziando il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i procedimenti disciplinari (articoli 55 e 55-bis del Dlgs 165/2001).
In estrema sintesi, l'interpretazione dell'art. 55-bis, comma 2, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo, ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.02.2024).
---------------
ORDINANZA
3. I due motivi, da trattare congiuntamente, per la loro stretta connessione, sono infondati e il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
3.1. La Corte territoriale si è attenuta ai principi più volte affermati in questa sede di legittimità, laddove ha osservato che «Le argomentazioni dell’appellante … configurano l’UPD come organo terzo di garanzia del pubblico dipendente secondo una prospettazione che non si riscontra nell’interpretazione di tale norma come data dalla giurisprudenza» (pag. 5 della motivazione).
In termini generali, si deve qui ricordare che «Il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicché lo stesso non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare.
Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi che si pongono a confronto
» (Cass. n. 1753/2017, ex multis).
Si aggiunga che «Il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i procedimenti disciplinari, stabilito dall’art. 55, co. 1, e 55-bis, co. 4 (ora co. 2) d.lgs. 165/2001 va riferito al principio di terzietà … senza attribuire natura imperativa riflessa al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell’U.P.D.» (Cass. n. 20721/2019, ex multis).
In estrema sintesi, «l’interpretazione dell'art. 55-bis, comma 4, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici» (Cass. n. 3467/2019; conf., ex multis, Cass. n. 19672/2019).
3.2. In tale contesto, non può essere condivisa la tesi di parte ricorrente secondo cui l’indicazione dell’Ufficio I quale «ufficio competente per i procedimenti disciplinari» (contenuta nella circolare n. 11 del 09.10.2010) non avrebbe potuto essere ritenuta sufficiente quale adempimento dell’obbligo di individuazione di cui all’art. 55-bis, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Infatti, la disposizione di legge, in base alla sua ratio, come sopra riportata, non richiede la costituzione di un apposito ufficio, che si occupi esclusivamente dei procedimenti disciplinari, né l’individuazione esplicita di una determinata figura quale responsabile dell’ufficio o di altre figure quali componenti di un obbligo necessariamente collegiale.
Dalla sentenza impugnata risulta che la sanzione per cui è causa venne adottata dal Direttore dell’Ufficio I, ovverosia dalla figura di vertice dell’ufficio individuato come UPD, il che rappresenta la più ragionevole attuazione della previsione generica contenuta nell’atto di individuazione e la migliore garanzia di difesa per l’incolpato.
3.3. Allo stesso modo, la necessaria terzietà dell’UPD non può essere intesa in senso talmente rigoroso da considerare un vizio –e tanto meno un vizio a pena di nullità della sanzione– il fatto che l’atto di incolpazione sia stato emesso, in temporanea assenza del direttore dell’Ufficio I e del suo vicario, da un dirigente di grado superiore in funzione di sostituzione gerarchica.
Si tratta comunque di un soggetto non appartenente alla struttura nella quale opera il ricorrente, sicché, a prescindere da qualsiasi valutazione sulla legittimità della sostituzione, non vi è motivo di pensare –né il ricorrente ha in qualche modo allegato– che il suo intervento abbia impedito all’incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa.
3.4. Infine, non coglie nel segno la censura relativa alla pretesa non corrispondenza tra la struttura prevista per l’organo giudicante, asseritamente collegiale, e l’emissione del provvedimento disciplinare da una singola persona fisica.
Infatti, manca la necessaria premessa dell’individuazione di una norma procedimentale che prevedesse la composizione collegiale dell’organo giudicante. Mancanza cui il ricorrente pretende di rimediare desumendo la regola della collegialità dal semplice fatto (da lui allegato e non contestato dal MAECI) che alla sua audizione erano presenti tre esponenti dell’Ufficio I. Il che però evidentemente non basta per dire che le tre persone fossero tutte componenti dell’organo giudicante e che fossero presenti a tale titolo, piuttosto che con una mera funzione di assistenza al direttore dell’Ufficio I.

EDILIZIA PRIVATA: Permessi, illegittimo il ripensamento della Pa in autotutela dopo 12 mesi. Il principio emerge dalla sentenza con cui il Tar Lazio ha accolto il ricorso di un proprietario.
L’annullamento in autotutela di un provvedimento autorizzativo edilizio deve avvenire in tempi ragionevoli e, comunque, non oltre i 12 mesi
.

È quanto emerge dalla sentenza 09.01.2024 n. 378 con cui è stato accolto il ricorso di una persona dal TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, contro il Comune di Montefiascone.
La vicenda ha origine quando il Comune di Montefiascone dispone l'annullamento in autotutela dei titoli edilizi relativi all'immobile del ricorrente «in quanto tutti rilasciati in assenza di autorizzazione paesaggistica». Dal Comune anche l'ordinanza di demolizione dell'immobile e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi. C'è quindi il ricorso al Tar. 
Nella ricostruzione della vicenda si ripercorre il percorso che inizia con l'acquisto dell'immobile nel 2003 «unitamente alla concessione edilizia» del 2002 e della variante del 31 dicembre dello stesso anno «rilasciate dal Comune per la costruzione sul terreno medesimo di un fabbricato residenziale ed agricolo». A marzo del 2023 il Comune notifica la comunicazione di «avvio del procedimento avente per oggetto: presunte violazioni alla normativa urbanistica edilizia». A seguire l'ordinanza e quindi il ricorso.
A sostegno delle proprie domande, il proprietario, evidenzia «che il Comune non gli aveva mai comunicato l'avvio del procedimento di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, essendosi limitato ad informarlo, con nota del 07.03.2023, solo dell'esistenza di controlli di natura edilizia ed urbanistica».
Oltre a sottolineare che «la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica avrebbe potuto condizionare, al più, l'efficacia del titolo edilizio, non potendo la sua assenza costituire causa di invalidità del titolo medesimo» ha anche rimarcato che «l'annullamento d'ufficio dei precedenti titoli edilizi era viziato per essere intervenuto successivamente al termine di legge previsto dall'art. 21-nonies L. n. 241/1990 e decorrente, nel caso di specie, dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, senza alcuna spiegazione da parte dell'amministrazione circa le eventuali ragioni del superamento di tale termine».
Per i giudici il ricorso è fondato, in particolare nella parte in cui «si censura la tardività dell'annullamento in autotutela».
«È noto infatti che, ai sensi dell'art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990 (nella sua versione vigente dal 31.07.2021 da ultimo modificata dall'articolo 63, co., D.L. 31.05.2021, n. 77, convertito con modificazioni dalla L. 29.07.2021, n. 108) -scrivono i giudici-, Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo».
Risultato: «Il provvedimento di annullamento in autotutela dei suddetti titoli edilizi si appalesa pertanto illegittimo e deve essere annullato, senza tuttavia che ciò comporti alcun effetto sulle difformità, accertate con la medesima ordinanza, rispetto agli atti autorizzativi». Ricorso accolto (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.01.2024).
---------------
SENTENZA
1. Con ordinanza n. 2 del 29.03.2023, il Comune di Montefiascone disponeva l’annullamento in autotutela dei titoli edilizi relativi all’immobile distinto in catasto al foglio 53, p.lla 526, e, segnatamente, della c.e. n. 51 del 13.02.1997, del p.d.c. n. 373 del 19.12.2001, del p.d.c. n. 269 del 10.10.2002, del p.d.c. n. 342 del 31.12.2002, in quanto tutti rilasciati in assenza di autorizzazione paesaggistica (ex art. 146 D.Lgs. n. 42/2004). Ordinava altresì la demolizione dell’immobile e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
Nella medesima ordinanza, peraltro, il Comune rilevava talune difformità (accertate nel sopralluogo del 13.07.2022) rispetto all’ultimo titolo edilizio costituito dal p.d.c. n. 342 del 31.12.2002.
2. Con ricorso notificato all’amministrazione resistente in data 05.06.2023 e depositato in data 30.06.2023, il ricorrente allegava:
   - di avere acquistato, in data 14.01.2003 (con atto a rogito del notaio Adriano Castaldi, rep. n. 6485, racc. n. 2933), da Mocini Marisa il terreno ubicato nel Comune di Montefiascone e distinto in catasto al foglio n. 53, p.lle 417 (ex 384/b), 418 (ex 384/c) e 422 (ex 385/c), unitamente alla concessione edilizia n. 269 del 10.10.2002 ed alla successiva concessione in variante n. 342 del 31.12.2002, rilasciate dal Comune per la costruzione sul terreno medesimo di un fabbricato residenziale ed agricolo;
   - che, in data 07.03.2023, il Comune di Montefiascone gli notificava una comunicazione di avvio del procedimento avente per oggetto: “presunte violazioni alla normativa urbanistica edilizia relativamente a fabbricato sito in Loc. Cerchiare distinto al N.C.E.U. Fg. 53 P.lla 526 di proprietà del Sig. Ch.Ma.”;
   - in data 29.03.2023 il Comune emetteva la suddetta ordinanza n. 2, impugnata;
   - che, in data 03.05.2023, l’arch. Vi.Bi., in qualità di tecnico-progettista, destinatario della suddetta ordinanza n. 2/2023, proponeva un’istanza di revoca dell’ordinanza medesima, sulla base dei motivi ivi indicati;
   - che, con nota prot. n. 11540 dell’08.05.2023, il Comune riscontrava la suddetta richiesta di revoca, confermando l’ordinanza in questione.
Tanto premesso, chiedeva l’annullamento della suddetta ordinanza n. 2 del 29.03.2023 e della suddetta nota prot. n. 11540 dell’08.05.2023; nonché, in via subordinata, la condanna del Comune a risarcire il danno cagionatogli, determinato nella somma di € 139.644,25, oltre interessi e rivalutazione (ovvero nella diversa somma, maggiore o minore, accertata in corso di causa), a titolo di danno patrimoniale, oltre ad un’ulteriore somma corrispondente al 10% del danno patrimoniale, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., a titolo di danno non patrimoniale.
A sostegno delle proprie domande, proponeva i seguenti motivi di ricorso.

   2.1. “Violazione degli artt. 7 e 8, L. n. 241/1990. – Circa la natura discrezionale e mai vincolata dei procedimenti di autotutela. – Circa l’omessa specificazione dell’oggetto del procedimento. – Eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione carente”.
Evidenziava il ricorrente che il Comune non gli aveva mai comunicato l’avvio del procedimento di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi, essendosi limitato ad informarlo, con nota del 07.03.2023, solo dell’esistenza di controlli di natura edilizia ed urbanistica.
Argomentava che il Comune aveva erroneamente ritenuto di poter ridurre il provvedimento in questione ad attività vincolata, ignorando che il potere di autotutela soggiace alla più ampia valutazione discrezionale dell’amministrazione.

   2.2. “Violazione dell’art. 21-nonies, D.P.R. n. 380/2001. – Eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione carente. – Violazione degli artt. 9-bis e 31, D.P.R. n. 380/2001”.
Deduceva il ricorrente che il provvedimento di autotutela era viziato dall’assenza di tutti i requisiti che condizionano il potere di annullamento d’ufficio (illegittimità del provvedimento ampliativo della sfera giuridica privata; termine ragionevole, non superiore a dodici mesi; sussistenza delle ragioni di interesse pubblico; comparazione con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati).
Argomentava, in particolare, che la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica avrebbe potuto condizionare, al più, l’efficacia del titolo edilizio, non potendo la sua assenza costituire causa di invalidità del titolo medesimo.
Illustrava, inoltre, che l’annullamento d’ufficio dei precedenti titoli edilizi era viziato per essere intervenuto successivamente al termine di legge previsto dall’art. 21-nonies L. n. 241/1990 e decorrente, nel caso di specie, dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, senza alcuna spiegazione da parte dell’amministrazione circa le eventuali ragioni del superamento di tale termine.
Evidenziava ancora che il Comune non aveva motivato circa le ragioni di interesse pubblico sottese al ritiro in autotutela, omettendo di comparare l’interesse pubblico con gli interessi dei privati destinatari del provvedimento in autotutela.
Aggiungeva che, se l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata avesse realmente costituito l’obiettivo essenziale dell’azione amministrativa, il Comune avrebbe dovuto sperimentare la possibilità di sottoporre i permessi di costruire e le concessioni edilizie a valutazione paesaggistica, anziché optare per l’annullamento dei titoli edilizi.
...
6. Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Ritiene in particolare il Collegio la fondatezza del secondo motivo, nella parte in cui si censura la tardività dell’annullamento in autotutela.
È noto infatti che, ai sensi dell’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990 (nella sua versione –vigente dal 31.07.2021– da ultimo modificata dall'articolo 63, co., D.L. 31.05.2021, n. 77, convertito con modificazioni dalla L. 29.07.2021, n. 108), «Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo».
La giurisprudenza ha anche chiarito che «
È illegittimo l'annullamento d'ufficio di un permesso di costruire in sanatoria -adottato anteriormente alla riforma dell'art. 21-nonies, l. n. 241/1990, operata dalla l. n. 124/2015- emanato oltre il termine di diciotto mesi a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, in assenza di condotte integranti i presupposti giuridici che autorizzano il superamento di tale termine.
Infatti, il temine di diciotto mesi, se, per un verso, non può applicarsi in via retroattiva -nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 124/2015- per un altro verso, non può che cominciare a decorrere dalla entrata in vigore della nuova disposizione anche in relazione a provvedimenti emanati anteriormente. In ogni caso, quanto al rispetto del parametro della ragionevolezza del termine, la novella vale come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell'osservanza di tale regola
» (Consiglio di Stato, sez. VI, 15.06.2020, n. 3787).
Applicando analogamente al caso di specie il principio giurisprudenziale innanzi enunciato, si osserva che la novella del citato art. 21-nonies è entrata in vigore il 31.07.2021, mentre il provvedimento impugnato è stato emanato in data 21.03.2023, ben oltre il suddetto termine di 12 mesi, e senza alcuna motivazione sulle eventuali ragioni di tale superamento.
Il provvedimento di annullamento in autotutela dei suddetti titoli edilizi si appalesa pertanto illegittimo e deve essere annullato, senza tuttavia che ciò comporti alcun effetto sulle difformità, accertate con la medesima ordinanza, rispetto agli atti autorizzativi.
Tali difformità infatti restano sottoposte al regime previsto dalla legge per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità da esso.

EDILIZIA PRIVATA: La natura rigidamente vincolata dell’ordine di demolizione comporta, sul piano del quantum di motivazione richiesto, che l’amministrazione non debba esplicitare le ragioni di pubblico interesse sottese all’intervento repressivo, né compiere alcuna comparazione con l’interesse privato sacrificato e ciò anche qualora sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso.
A fronte di un’attività edilizia posta in essere sine titulo, infatti, la prolungata inerzia dell’amministrazione non può certo determinare il radicarsi in capo al privato, il quale non è stato destinatario di alcun provvedimento favorevole, di una posizione di legittimo affidamento meritevole di tutela.
Né assume alcuna rilevanza l’eventuale diverso trattamento riservato ai proprietari di fondi limitrofi, peraltro dedotto in termini assolutamente generici, costituendo principio generale quello per cui il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento non può essere invocato per ottenere il risultato di un’equiparazione ad una situazione illegittima o illegittimamente trattata.
---------------
Va disattesa la censura concernente l’omessa comunicazione di avvio del procedimento dovendosi, sul punto, richiamare il granitico orientamento giurisprudenziale che esclude la necessarietà di tale comunicazione per il provvedimento con il quale viene disposta la demolizione di un’opera priva di titolo edilizio, “trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di diposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge”.
---------------

3.3. Restano dunque da esaminare le doglianze relative a pretesi vizi propri del provvedimento sanzionatorio (lett. c) dei motivi di ricorso rubricata “Sui vizi propri del provvedimento impugnato”), che vanno anch’esse disattese.
3.3.1. Palesemente infondata è la prima censura, con cui il ricorrente deduce il difetto di motivazione e la violazione del principio del legittimo affidamento, per aver il Comune adottato l’ingiunzione a demolire a distanza di un lungo lasso di tempo e senza indicare “il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Vale osservare, in proposito, che la natura rigidamente vincolata dell’ordine di demolizione comporta, sul piano del quantum di motivazione richiesto, che l’amministrazione non debba esplicitare le ragioni di pubblico interesse sottese all’intervento repressivo, né compiere alcuna comparazione con l’interesse privato sacrificato e ciò anche qualora sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso (cfr., tra le moltissime, Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9, i cui principi sono stati di recente ribaditi da Ad. Plen. 11.10.2023, n. 16; Cons. St., Sez. VI, 05.01.2024, n. 236; Cons. St., Sez. VII, 02.11.2023, n. -OMISSIS-31; TAR Lazio, Sez. II-quater, 04.12.2023, n. 18165; id., 30.12.2023, n. 20019).
A fronte di un’attività edilizia posta in essere sine titulo, infatti, la prolungata inerzia dell’amministrazione non può certo determinare il radicarsi in capo al privato, il quale non è stato destinatario di alcun provvedimento favorevole, di una posizione di legittimo affidamento meritevole di tutela.
Né assume alcuna rilevanza l’eventuale diverso trattamento riservato ai proprietari di fondi limitrofi, peraltro dedotto in termini assolutamente generici, costituendo principio generale quello per cui il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento non può essere invocato per ottenere il risultato di un’equiparazione ad una situazione illegittima o illegittimamente trattata (cfr. Cons. St., Sez. VII, 28.08.2023, n. 8003; TAR Lazio, Sez. II-quater, 14.06.2021, n. 7058).
...
3.3.3. Va, infine, disattesa anche la terza censura, concernente l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, dovendosi sul punto richiamare il granitico orientamento giurisprudenziale, ampiamente condiviso dalla Sezione (cfr., ex multis, TAR Lazio, Sez. II-quater, 22.12.2023, n. 19525; id., 25.01.2023, n. 1283; id., 30.11.2022, n. 15976), che esclude la necessarietà di tale comunicazione per il provvedimento con il quale viene disposta la demolizione di un’opera priva di titolo edilizio, “trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di diposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge” (così Cons. St., Sez. VII, 21.08.2023, n. 7832; cfr. anche, ex plurimis, tra le più recenti, Cons. St., Sez. VI, 22.12.2023, n. 11137; Cons. St., Sez. VII, 12.12.2023, n. 10722) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 08.01.2024 n. 288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze, 1444 derogabile solo in caso di gruppi di edifici previsti in un piano particolareggiato. La Cassazione precisa che la deroga prevista dall’art. 9, comma 3, non può valere per un solo fabbricato inserito in un contesto edificato.
«Agli effetti dell'art. 9, comma 3, del d.m. n. 1444 del 1968, sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi di tale norma soltanto a condizione che sia stato approvato un apposito piano particolareggiato o di lottizzazione esteso alla intera zona, finalizzato a rendere esecutive le previsioni dello strumento urbanistico generale, contenente le disposizioni planivolumetriche degli edifici previsti nella medesima zona e avente ad oggetto la realizzazione contestuale di gruppi di edifici, e cioè di una pluralità di nuovi fAbbricati, rimanendo perciò estranea a tale fattispecie l'ipotesi della realizzazione di un unico nuovo fabbricato che si sia inserito nel contesto di un isolato già edificato».
In attesa che veda la luce il nuovo Testo unico edilizia, cui sta lavorando il governo insieme ai vari portatori di interesse, la questione delle distanze legali resta, come è noto, saldamente ancorata ai paletti fissati dal Dm 1444, le cui possibilità di deroga da parte delle Regioni sono altrettanto saldamente contenute entro precisi limiti.

Con l'ordinanza 04.01.2024 n. 236 la Corte di Cassazione, Sez. II civile, è entrata nel merito di una deroga consentita dalla stessa norma statale.
Prendendo spunto da una controversia sorta in un comune calabrese, i giudici della II Sezione civile hanno colto l'occasione di chiarire la differenza tra l'inserimento di più edifici (previsti dal piano particolareggiato) e la realizzazione di un singolo fabbricato.
Il Tribunale di Reggio Calabria ha condannato la società immobiliare che aveva realizzato un edificio costruito in zona B per la violazione delle distanze legali -intimando la demolizione o l'arretramento- in quanto non riconducibile (diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente) alla deroga prevista nell'articolo 9, comma 3, del 1444.
L'appello è stato respinto dalla Corte d'appello. L'esito negativo è stato confermato dalla Corte di Cassazione.
Nella sua difesa, la società immobiliare si è ancorata alla deroga prevista al comma 3 dell'articolo 9, secondo cui «sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
La norma richiamata, spiegano i giudici della Cassazione, «riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata. Nel caso in esame, la Corte d'appello ha negato che si fosse in presenza di un gruppo di edifici inclusi in un medesimo piano particolareggiato, ovvero di costruzioni facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata».
Più chiaramente, specificano i giudici, «l'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 444/1968 contempla, quale ipotesi di deroga alle distanze minime tra fabbricati, la realizzazione contestuale di gruppi di edifici e cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi estranea al caso in esame, in cui si è avuta la realizzazione di un unico nuovo edificio che si è inserito nel contesto di un isolato già edificato» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.01.2024).

APPALTI: Alle procedure di affidamento di contratti finanziati con le risorse del PNRR indette successivamente al 01.07.2023 si applica il nuovo Codice dei contratti pubblici.
---------------
CONTRATTI pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione- Appalti PNRR-Normativa applicabile.
E’ soggetta alla disciplina di cui al d.lgs. n. 36 del 2023 la procedura di gara avviata nel mese di agosto del 2023, come è desumibile dai seguenti articoli del predetto decreto legislativo:
   - 229, comma 2, secondo cui “le disposizioni del codice, con i relativi allegati, acquistano efficacia il 01.07.2023”;
   - 226, comma 2, lett. a), il quale prevede che, “a decorrere dalla data in cui il codice acquista efficacia ai sensi dell’art. 229, comma 2, le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016 continuano ad applicarsi esclusivamente ai procedimenti in corso. A tal fine, per procedimenti in corso si intendono: a) le procedure e i contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati prima della data in cui il codice acquista efficacia”;
   - 225, comma 8, che stabilisce che “in relazione alle procedure di affidamento e ai contratti riguardanti investimenti pubblici, anche suddivisi in lotti, finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR e dal PNC, nonché dai programmi cofinanziati dai fondi strutturali dell’Unione europea, ivi comprese le infrastrutture di supporto ad essi connesse, anche se non finanziate con dette risorse, si applicano, anche dopo il 01.07.2023, le disposizioni di cui al decreto-legge n. 77 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 108 del 2021, al decreto-legge 24.02.2023, n. 13, nonché le specifiche disposizioni legislative finalizzate a semplificare e agevolare la realizzazione degli obiettivi stabiliti dal PNRR, dal PNC nonché dal Piano nazionale integrato per l'energia e il clima 2030 di cui al regolamento (UE) 2018/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11.12.2018”.
Con particolare riferimento a tale ultima disposizione, il collegio rileva che essa si limita a stabilire la perdurante vigenza delle sole norme speciali in materia di appalti PNRR (tra cui gli artt. 47 e ss. del d. l. n. 77 del 2021) ma non anche degli istituti del d.lgs. n. 50 del 2016 in esso sporadicamente richiamati; la contraria opzione ermeneutica, seguita dalla circolare del MIT del 12/07/2023 (richiamata dalla “premessa” del disciplinare di gara), collide con il ricordato disposto del comma 2 dell’art. 226 del d.lgs. n. 36 del 2023, che sancisce l’abrogazione del d.lgs. n. 50 del 2016 a decorrere dal 01.07.2023 senza alcuna eccezione, e con il comma 5 della medesima disposizione, secondo cui “ogni richiamo in disposizioni legislative, regolamentari o amministrative vigenti al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 del 2016, o al codice dei contratti pubblici vigente alla data di entrata in vigore del codice, si intende riferito alle corrispondenti disposizioni del codice o, in mancanza, ai principi desumibili dal codice stesso”
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 03.01.2024 n. 134 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La Sezione non ignora il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere va di regola documentato con riferimento alla titolarità di aree direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo scopo di evitare che un eccessivo allargamento della legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse.
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in discorso (i.e. di zonizzazione acustica), quindi, non si presta ad una risposta univoca, in ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato impugnato con riferimento alla classificazione acustica impressa ad un'area industriale di proprietà della ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo l'impresa programmare l'attività produttiva secondo parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la destinazione e l'utilizzo dell'area.
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una classificazione negativa, è stato affermato che, anche in materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima.
---------------

5. Con il quinto motivo deduce ulteriore difetto assoluto di motivazione. Errata applicazione art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001. Ulteriore eccesso di potere.
Evidenzia che la zonizzazione era stata effettuata senza fornire alcuna motivazione, risultando insufficiente il richiamo all’art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001.
5.1. Ritiene il Collegio di superare il profilo di inammissibilità dell'impugnazione del Piano di zonizzazione acustica per assenza di lesività.
Ed invero, la Sezione non ignora il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere va di regola documentato con riferimento alla titolarità di aree direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo scopo di evitare che un eccessivo allargamento della legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2004, nr. 5516).
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in discorso, quindi, non si presta ad una risposta univoca, in ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato impugnato con riferimento alla classificazione acustica impressa ad un'area industriale di proprietà della ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo l'impresa programmare l'attività produttiva secondo parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la destinazione e l'utilizzo dell'area (Cons. Stato, Sez. II, 01.06.2022, n. 4501).
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una classificazione negativa, è stato affermato che, anche in materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima (Cons. Stato, Sez. IV, 31.12.2009, n. 9301) (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 02.01.2024 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rumore. Regolamentazione emissione dei rumori da parte dei Comuni.
L’art. 6, comma 3, della l. 27/10/1995, n. 447, prevede che: “i comuni il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico, hanno la facoltà di individuare limiti di esposizione al rumore inferiori a quelli determinati ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. a), secondo gli indirizzi determinati dalla regione di appartenenza, ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. f) …”.
La citata norma consente (e non obbliga) i Comuni, il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico, ambientale e turistico, di attuare una più specifica regolamentazione dell'emissione dei rumori, e, in questo ambito, di disciplinare l'esercizio di professioni, mestieri ed attività rumorose anche con l'istituzione di fasce orarie in cui soltanto possano essere espletati, e di prendere così in considerazione, oltre al dato oggettivo del superamento di una certa soglia di rumorosità, anche gli effetti negativi di quest'ultima sulle occupazioni o sul riposo delle persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o privata.
La norma in commento consente e non obbliga i Comuni ad individuare una più specifica regolazione delle immissioni, fermo restano l’impossibilità di diminuire i limiti di emissione sonora prescritti dalla citata normativa
(Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 02.01.2024 n. 42 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
---------------
5. Con il quinto motivo deduce ulteriore difetto assoluto di motivazione. Errata applicazione art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001. Ulteriore eccesso di potere.
Evidenzia che la zonizzazione era stata effettuata senza fornire alcuna motivazione, risultando insufficiente il richiamo all’art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001.
5.1. Ritiene il Collegio di superare il profilo di inammissibilità dell'impugnazione del Piano di zonizzazione acustica per assenza di lesività.
Ed invero, la Sezione non ignora il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere va di regola documentato con riferimento alla titolarità di aree direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo scopo di evitare che un eccessivo allargamento della legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2004, nr. 5516).
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in discorso, quindi, non si presta ad una risposta univoca, in ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato impugnato con riferimento alla classificazione acustica impressa ad un'area industriale di proprietà della ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo l'impresa programmare l'attività produttiva secondo parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la destinazione e l'utilizzo dell'area (Cons. Stato, Sez. II, 01.06.2022, n. 4501).
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una classificazione negativa, è stato affermato che, anche in materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima (Cons. Stato, Sez. IV, 31.12.2009, n. 9301).
5.2. L’appello deve essere, tuttavia, respinto.
L'onere della classificazione acustica del territorio spetta ex lege ai Comuni, che esprimono una funzione lato sensu pianificatoria, inserita in un nucleo particolarmente ampio di discrezionalità amministrativa, sicché l'ambito del sindacato del giudice amministrativo si presenta ristretto e sostanzialmente limitato ad un riscontro ab externo del rispetto dei canoni di logicità formale (Cons. Stato, Sez. IV, 11.01.2018, n. 135).
Il sindacato giurisdizionale sul piano di classificazione acustica, come per gli altri atti di pianificazione del territorio, incontra necessariamente precisi limiti al fine di non sconfinare nel merito delle scelte discrezionali adottate dall'amministrazione; tale sindacato è ammesso, infatti, nei soli casi di gravi illogicità, irrazionalità ovvero travisamenti sintomatici della sussistenza del vizio di eccesso di potere (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 31.12.2009, n. 9301).
Non si tratta, quindi, di sindacare il merito di scelte opinabili, ma di verificare se queste scelte siano assistite da una credibilità razionale supportata da valide leggi scientifiche e correttamente applicate al caso di specie (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.07.2023, n. 6451; id. Sez. III, 11.12.2020, n. 7097).
In proposito giova richiamare quanto affermato da questo Consiglio (Cons. Stato, Sez. IV, 12.12.2019, n. 8443), secondo cui in materia di zonizzazione acustica del territorio, le scelte dell'amministrazione non possono sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione urbanistica, ma devono tener conto del disegno urbanistico voluto dal pianificatore, ovverosia delle preesistenti destinazioni d'uso del territorio.
Ciò rileva sotto un duplice aspetto.
Da un lato, rileva l'interesse pubblico generale alla conservazione del disegno di governo del territorio programmato dal pianificatore, il quale riflette un ben preciso interesse della comunità ad un certo utilizzo del proprio territorio, sul quale la medesima è stanziata.
Da un altro lato, rileva l'interesse dei privati alla conservazione delle potenzialità connesse alla titolarità dei diritti sui beni immobili e derivanti dalle pregresse e già effettuate scelte di pianificazione, le quali devono poter essere attuate pro futuro, avendo una natura tipicamente programmatoria.
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, non può essere dato rilievo esclusivo agli usi effettivi "in atto" sul territorio, perché essi si limitano a rappresentare (staticamente) la realtà dell'uso del territorio, trascurando l'aspetto dinamico del suo governo.
Ed è su tale dinamicità che si regge, invece, la ratio della disciplina legislativa statale e di quella regionale, entrambe sostanzialmente rivolte a perseguire l'obiettivo del contemperamento tra due interessi generali: quello della pianificazione urbanistica e quello della tutela dall'inquinamento acustico.
5.3. Il Piano di cui trattasi, a pag. 22 e ss., una volta riepilogati i criteri in base ai quali si è proceduto alla zonizzazione acustica del territorio Comunale, assegna le classi acustiche alle diverse aree del territorio. Più segnatamente:
   - “le aree ricadenti nelle classi II, III e IV presentano delle caratteristiche intermedie rispetto alle aree di cui sopra (n.d.r. aree ricadenti nelle classi I e V). Sono aree prevalentemente residenziali (classe II), aree di tipo misto (classe III) aree di intensa attività umana (classe IV)”;
   - “per l’individuazione delle classi II, III e IV non è sufficiente la sola analisi dello strumento urbanistico, che non riesce a dare questo quadro completo del reale assetto del territorio delle classi II, III e IV, è quindi il risultato di una analisi di vari fattori (“analisi parametrica”) a cui si rimanda (da pag. 25 a pag. 35 del Piano di Classificazione Acustica), quali la densità abitativa, la presenza di attività produttive, la presenza di servizi, ovvero di parametri o indici i cui valori possono essere ricavati dai dati ISTAT”;
   - “attraverso questa analisi parametrica è possibile attribuire alla stessa classe acustica porzioni di territorio con caratteristiche di utilizzo assai differenti; l’attribuzione di aree ad una stessa classe acustica presuppone identità di requisiti acustici, non necessariamente identità di paramenti urbanistici. Le classi acustiche, infatti, a differenza della zona di PRG, non presentano una correlazione univoca con le destinazioni d’uso delle relative porzioni di territorio”.
Nel Piano di Classificazione Acustica, dunque, il Comune di Ponza ha tenuto conto delle peculiari aree di interesse naturalistico presenti sull’isola (si veda pag. n. 30 del Piano).
5.4. L’appellante afferma che alla Piazza Giancos non poteva essere attribuita la classe acustica III e IV (quest’ultima nel periodo estivo), in quanto trattasi di un’area che sarebbe circondata da villini residenziali, confinante con il mare e attraversata da una strada a traffico locale che peraltro viene limitato (con ordinanza comunale) nel periodo estivo.
Tuttavia, come precisato dalla Commissione Acustica nei verbali di riunione del 27.11.2014 e del 05.03.2015, l’area in argomento, è attraversata dalla viabilità principale e di collegamento sia con la località Santa Maria, sia con l’abitato della località Le Forna. Inoltre, la piazza di cui trattasi si trova a meno di 1 km dal Porto di Ponza e costituisce un luogo intensamente frequentato nel periodo estivo dai numerosi turisti che affollano l’isola in quanto situata in pieno centro urbano.
Dagli stessi verbali si evince che l’attribuzione a Piazza Giancos della classe acustica III nel periodo invernale e della classe acustica IV nel periodo estivo è stata motivata in quanto “risponde ai requisiti di equilibrio tra le esigenze di chi risiede e quelle proprie del sistema turistico locale e pertanto la classe II aree destinate ad uno prevalentemente residenziale non risulta pertinente. Inoltre l’area è attraversata dalla viabilità principale e di collegamento con la località Santa Maria, nonché con l’abitato di Le Forna. Si fa presente infine che le attività ludiche nel periodo estivo risultano regolate dalla attuale normativa su pubblici spettacoli e il rispetto della quiete pubblica”.
5.5. L’art. 6, comma 3, della l. 27/10/1995, n. 447, prevede che: “i comuni il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico, hanno la facoltà di individuare limiti di esposizione al rumore inferiori a quelli determinati ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera a), secondo gli indirizzi determinati dalla regione di appartenenza, ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera f) …”.
La citata norma consente (e non obbliga) i Comuni, il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico, ambientale e turistico, di attuare una più specifica regolamentazione dell'emissione dei rumori, e, in questo ambito, di disciplinare l'esercizio di professioni, mestieri ed attività rumorose anche con l'istituzione di fasce orarie in cui soltanto possano essere espletati, e di prendere così in considerazione, oltre al dato oggettivo del superamento di una certa soglia di rumorosità, anche gli effetti negativi di quest'ultima sulle occupazioni o sul riposo delle persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o privata (Cons. St., Sez. V, 28.02.2011, n. 1265).
Quanto sopra, fermo restando i limiti all’immissioni sonore previste dalla l. n. 447 del 1995, i quali non possono comunque essere diminuiti (Cass. civile, sez. I, 01/09/2006, n. 18953).
Non si può, pertanto, configurare la paventata violazione di legge in quanto la norma in commento consente e non obbliga i Comuni ad individuare una più specifica regolazione delle immissioni, fermo restano l’impossibilità di diminuire i limiti di emissione sonora prescritti dalla citata normativa.
5.6. Né sono stati forniti elementi per affermare che le impugnate scelte dell’amministrazione sarebbero il frutto di una ritorsione del Comune, a seguito di precedenti azioni giudiziarie intercorse tra le parti.
L’appello deve essere, pertanto, respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Impianto di recupero dei rifiuti proveniente dalla raccolta differenziata e contributo di costruzione.
L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che il contributo di costruzione non è dovuto: “... c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Va evidenziato il carattere eccezionale e derogatorio delle ipotesi di concessione edilizia gratuita, a fronte del principio generale che è, invece, quello della sua onerosità, cosicché l’esenzione dal contributo concessorio riguarda ipotesi tassative e da interpretare in senso restrittivo. Per poter beneficare della esenzione dal contributo di costruzione debbono concorrere requisiti di carattere oggettivo e soggettivo.
Nel caso di specie (impianto di recupero dei rifiuti proveniente dalla raccolta differenziata) viene in rilievo un impianto di proprietà della società appellante, realizzato per l’esercizio di un’attività imprenditoriale, che solo indirettamente assolve anche ad una finalità di interesse generale.
Sono proprio la natura privata dell’impianto della società appellante e il fine lucrativo da questa perseguito ad evidenziare la mancanza del requisito soggettivo che la giurisprudenza ha individuato, accanto a quello oggettivo, per poter beneficiare dell’esenzione dal contributo di costruzione
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2023 n. 11239 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
---------------
8. Con il primo motivo, la società appellante deduce: error in judicando per violazione degli artt. 16 e 17 del d.P.R. n. 380/2001, degli artt. 208 e 266 del d.lgs. n. 152/2006 e del d.lgs. n. 847/1964; omessa pronuncia; difetto di motivazione.
8.1. Dopo aver richiamato l’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001, la società appellante evidenzia che la predetta norma prevede l’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione in due ipotesi:
   a) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti;
   b) per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici.
Contesta quindi le conclusioni del giudice di prime cure che ha ritenuto che, venendo in rilievo l’ampliamento di un impianto industriale di proprietà privata, nel caso di specie mancherebbe sia il requisito soggettivo, sia il requisito della destinazione dell’opera all’utilizzo dell’intera collettività, con la conseguenza che la società non potrebbe beneficiare della esenzione dal contributo concessorio di cui all’art. 17, terzo comma, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
8.2. Sostiene che la sentenza sia viziata per essersi il giudice pronunciato extra petita.
Fa rilevare che il primo motivo di ricorso di primo grado era incentrato sulla violazione dell’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 sotto diverso profilo, in quanto l’esonero dal pagamento degli oneri è riconosciuto dal legislatore anche in favore dei privati che realizzino direttamente le opere di urbanizzazione; sul punto, invece, il Tar Lecce non si sarebbe pronunciato.
Evidenzia inoltre che nella sentenza impugnata il giudice di primo grado ha ritenuto che l’impianto della Un.Se. s.n.c. non potesse, tuttavia, essere considerato “un’opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di previsioni localizzative già contemplate dagli strumenti urbanistici, ma invece di un’opera assentita (in accoglimento di apposita istanza presentata dal soggetto privato interessato) in variante “puntuale” al Programma di Fabbricazione vigente nel Comune di San Marzano di San Giuseppe, ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998 n. 447”.
Di contro, sostiene che l’impianto della Un.Se., per espressa definizione normativa, deve considerarsi un’opera di urbanizzazione.
La legge n. 847/1964 prevede, all’art. 1, lett. c), che le opere di urbanizzazione secondaria sono indicate al successivo articolo 4; detto articolo, alla lett. g), individua quale opera di urbanizzazione secondaria i centri sociali e le attrezzature culturali e sanitarie.
L’art. 266, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 (T.U. ambientale) stabilisce espressamente che “Nelle attrezzature sanitarie di cui all’articolo 4, comma 2, lettera g), della legge 29.09.1964, n. 847, sono ricomprese le opere, le costruzioni e gli impianti destinati allo smaltimento, al riciclaggio o alla distruzione dei rifiuti urbani, speciali, pericolosi, solidi e liquidi, alla bonifica di aree inquinate”.
Essendo quello della appellante un impianto di recupero dei rifiuti proveniente dalla raccolta differenziata esso dovrebbe essere considerato come opera di urbanizzazione secondaria.
8.3. Richiama, altresì, l’art. 208 del d.lgs. n. 152/2006, a norma del quale l’approvazione del progetto costituisce variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza e indifferibilità dei lavori.
La previsione normativa secondo la quale l’approvazione del progetto di realizzazione di un impianto di recupero e/o smaltimento rifiuti costituisca anche variante allo strumento urbanistico, troverebbe la sua ratio nella inesistenza di previsioni di piano urbanistico comunale che individuino le aree destinate alla realizzazione di impianti di recupero e/o smaltimento rifiuti.
La predetta previsione normativa permette la localizzazione dei predetti impianti anche in una zona che, secondo le previsioni urbanistiche, non la tollererebbe, subordinatamente al riscontro ed alla valutazione di compatibilità in concreto da parte dell’amministrazione.
Fa rilevare inoltre che l’impianto Un.Se. oggetto del presente giudizio non è stato approvato ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 447/1998, bensì ai sensi dell’art. 208 del T.U. dell’Ambiente.
8.4. Il motivo è infondato.
8.5. L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che il contributo di costruzione non è dovuto: “... c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato il carattere eccezionale e derogatorio delle ipotesi di concessione edilizia gratuita, a fronte del principio generale che è, invece, quello della sua onerosità, cosicché l’esenzione dal contributo concessorio riguarda ipotesi tassative e da interpretare in senso restrittivo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, n. 2921 del 2021; Sez. IV, n. 3405 del 2020; Sez. V, n. 51 del 2006).
8.6. Recentemente questa Sezione ha avuto modo di ribadire che per poter beneficare della esenzione dal contributo di costruzione debbono concorrere requisiti di carattere oggettivo e soggettivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 17.05.2023 n. 4907).
Nel caso di specie viene in rilievo un impianto di proprietà della società appellante, realizzato per l’esercizio di un’attività imprenditoriale, che solo indirettamente assolve anche ad una finalità di interesse generale.
Sono proprio la natura privata dell’impianto della società appellante e il fine lucrativo da questa perseguito ad evidenziare la mancanza del requisito soggettivo che la giurisprudenza ha individuato, accanto a quello oggettivo, per poter beneficiare dell’esenzione dal contributo di costruzione.
8.7. Gli elementi sopra richiamati impediscono di considerare un soggetto privato, quale l’odierna appellante, alla stregua di una longa manus dell’ente pubblico, anche in ragione della mancanza di un vincolo giuridico idoneo a sancire il necessario legame con l’ente istituzionalmente competente che la giurisprudenza ha individuato, ad esempio, nella presenza di un provvedimento concessorio nel caso di soggetto privato concessionario di opera pubblica.
In una fattispecie quale quella dedotta in giudizio lo sgravio sarebbe privo di giustificazione poiché il beneficio in questione se, da un lato, trova, in via generale, il suo fondamento nella meritevolezza della finalità di interesse pubblico perseguita, dall’altro, non può al contempo risolversi in una agevolazione per chi, svolgendo attività di impresa per fini di lucro, beneficerebbe in tal modo della eliminazione di un costo di produzione, conseguendo conseguentemente un maggior guadagno.
Ciò quanto meno in una ipotesi -come quella in contestazione- in cui l’opera è primariamente finalizzata a consentire una attività commerciale e, solo indirettamente, assolve ad una finalità di interesse pubblico che comunque non rappresenta la causa principale che muove il soggetto attuatore il quale riveste una posizione giuridica soggettiva contrapposta rispetto a quella del Comune.

CONSIGLIERI COMUNALI: Consiglieri comunali, vietate le richieste d’accesso agli atti «esplorative».
Il diritto di visionare atti e documenti non può tradursi in strategie ostruzionistiche: compete al richiedente la selezione del materiale di proprio effettivo interesse e utilità
Secondo il TAR Lombardia-Milano (Sez. I - sentenza 29.12.2023 n. 3222) il diritto del consigliere comunale di visionare atti e documenti non può tradursi in strategie ostruzionistiche: compete al richiedente la selezione del materiale di proprio effettivo interesse e utilità. Diversamente la richiesta va respinta.
Nella vicenda il consigliere aveva formulato richiesta di accesso a ben 678 documenti. E l'Amministrazione aveva rigettato la sua richiesta.
Per il consigliere il rifiuto di consegnare gli atti richiesti era ingiustificato poiché l'amministrazione non disponeva di alcuna valutazione discrezionale in ordine alla verifica della sussistenza di un suo interesse all'accesso; doveva invece prendere atto della mera circostanza che il richiedente era un consigliere comunale in carica e che intendeva esercitare il suo ruolo di controllo in pieno.
Ecco perché gli doveva essere consegnato tutto quanto richiesto. E ciò soprattutto perché i documenti in questione non risultavano pubblicati nella pagina Amministrazione Trasparente del sito web dell'ente e quindi non erano consultabili. Ma il Tar lombardo non ha condiviso il punto di vista del consigliere coinvolto.
I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. L'accesso agli atti esercitato dal consigliere comunale ha natura e caratteri diversi rispetto alle altre forme di accesso, esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle sue funzioni.
Ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Tuttavia per il Tar milanese tali prerogative non sono assolute e vanno bilanciate con l'imprescindibile esigenza di non bloccare la macchina amministrativa.
Su queste basi se per un verso sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle sue funzioni; per altro verso compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse. Attività propedeutica connaturata alle modalità dell'accesso, che non può mai avere finalità solo esplorative sebbene il diritto sia esercitato da soggetto cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata.
Né può valere la possibilità di soddisfare tale esigenza in modo semplificato mediante l'utilizzo di mezzi informatici in quanto in ogni caso sussiste il limite funzionale imposto dalla legge a tutela dell'ordinato svolgimento dei servizi pubblici (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.02.2024).
---------------
SENTENZA
3. Venendo al merito il ricorso è infondato.
3.1 L’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recita: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
3.2 In primo luogo occorre precisare che
secondo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.08.2020 n. 5032) l’accesso agli atti esercitato dal consigliere comunale ai sensi dell’art. 43 d.lgs. n. 267 del 2000 ha natura e caratteri diversi rispetto alle altre forme di accesso, esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle sue funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
3.3 Per tali ragioni,
da un lato sul consigliere comunale non può gravare (e ciò sin da prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’istituto dell’accesso civico generalizzato) alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici, sull’esercizio delle sue funzioni; d’altra parte dal termine «utili», contenuto nell’articolo 43 d.lgs. n. 267 del 2000, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei Consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni.
3.4 Venendo al caso di specie, benché il Consorzio in questione, in quanto ente partecipato rientri tra gli enti dipendenti dal Comune di Monza, e quindi sia soggetto all’accesso dei consiglieri comunali, l’istanza è infondata.
Infatti
la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.08.2020 n. 5032) ha chiarito che l’unico limite all’accesso del consigliere comunale è configurabile, in termini generali, “nell’ipotesi in cui lo stesso si traduca in strategie ostruzionistiche o di paralisi dell’attività amministrativa con istanze che, a causa della loro continuità e numerosità, determinino un aggravio notevole del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull’attività dell’amministrazione (Cons. Stato, IV, 12.02.2013, n. 846)” (Cons. Stato, V, 02.03.2018, n. 1298)”.
Nel caso di specie
il grande numero di atti richiesti, estesi all’intera attività dell’ente, costituisce un atto di controllo generalizzato del Consorzio che fuoriesce dalle funzioni svolte dal consigliere comunale, il quale esercita l’accesso per “l’espletamento del proprio mandato”. In tale ambito rientra la possibilità di richiedere il testo integrale degli atti e documenti in possesso dell’ente, ma non rientra la possibilità di richiedere in sostanza tutti gli atti prodotti dall’ente, volendo altrimenti il consigliere sostituirsi agli organi dello stesso ente nello svolgimento dei controlli sull’ente stesso.
Compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse, attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che non può mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia esercitato da soggetto cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata. Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a fondamento del contestato diniego, secondo cui il rilascio di tutte le determine e tutti i contratti prodotti dal Consorzio negli ultimi due anni si traduce in un accesso generalizzato e indiscriminato a tutta l’attività dell’ente stesso.
Né in senso opposto può valere la possibilità di soddisfare tale esigenza in modo semplificato mediante l’utilizzo di mezzi informatici, in quanto il limite imposto dalla legge non è solo funzionale all’ordinato svolgimento dei servizi ma attiene anche al corretto rapporto tra ente dipendente e componenti di un organo dell’ente vigilante.

Va rigettato da ultimo il profilo di gravame con cui si lamenta la violazione dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990 per omessa notifica del preavviso di rigetto; tanto, in applicazione della irrilevanza dell’apporto procedimentale ai sensi dell’art. 21-octies della L. n. 241/1990.
Secondo consolidati approdi giurisprudenziali,
l’istituto partecipativo pretermesso va interpretato non in senso formalistico, ma avendo riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza abbia causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione, sicché il mancato o l'incompleto preavviso di rigetto non comporta l'automatica illegittimità del provvedimento finale, quando, come nella fattispecie in esame, il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale di un provvedimento, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (Consiglio di Stato, Sez. II, n. 1081/2020).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIA casa il sindacalista che sparla sui social.
Licenziato il sindacalista che sparla dell'azienda sui social network. I post del rappresentante dei lavoratori su Facebook non hanno alcuna seria finalità divulgativa e sono inutilmente volgari: risulta escluso il legittimo diritto di critica nei confronti del datore laddove le espressioni utilizzate sono finalizzate soltanto a ledere il decoro e la reputazione dell'impresa e del suo fondatore.

Così la Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro, nell'ordinanza 22.12.2023 n. 35922.
Libertà costituzionale
Diventa definitiva la decisione che ritiene sussistente la giusta causa nel recesso datoriale. Il sindacalista come lavoratore è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione dei colleghi, ma come rappresentante dei colleghi si pone su di un piano paritetico con il datore: la tutela degli interessi collettivi dei lavoratori è una libertà garantita dall'articolo 39 della Costituzione e non può essere subordinata alla volontà dell'azienda.
Nessun dubbio, poi, che a ogni lavoratore sia garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore. Ma ciò non consente di ledere l'immagine dell'azienda sul piano morale facendo riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati.
Correttezza formale
I post del sindacalista danno l'idea che in azienda si respiri un «clima torbido»: agitano lo spettro di pressioni e minacce contro chi si iscrive alla sua organizzazione, che diversamente dalle altre «non si fa corrompere». E annunciano lo showdowntutta la m. viene a galla?»).
Soprattutto contengono epiteti offensivi e frasi volgari, del tutto gratuite, nei confronti del vertice e del fondatore della società. All'epoca, poi, il profilo Facebook del lavoratore è aperto: i messaggi sono dunque visibili a tutti.
Anche l'attività sindacale incontra i limiti della correttezza formale imposti dall'esigenza di tutelare la persona umana, anch'essa garantita dalla Costituzione: il lavoratore può essere sanzionato in via disciplinare se all'impresa o ai dirigenti sono attribuite qualità apertamente disonorevoli o rivolti riferimenti denigratori non provati (articolo ItaliaOggi del 03.01.2024).

ATTI AMMINISTRATIVIIl sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che consentono di attestare con certezza l’avvenuta ricezione della comunicazione da parte del destinatario.
Questa Corte, a proposito di una notifica eseguita tramite PEC ad un indirizzo di posta elettronica ordinaria (notifica dichiarata nulla e non inesistente) ha precisato che “con l’invio a casella e-mail ordinaria vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia pervenuta presso l’indirizzo di posta certificata del destinatario” e che la “ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare notifica a mezzo Pec non (è) sostituibile, con validi effetti legali, da eventuali forme meno rigorose di analoga documentazione della posta mail ordinaria”.
---------------

11. Sul tema della richiesta di audizione, occorre considerare che il sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che consentono di attestare con certezza l’avvenuta ricezione della comunicazione da parte del destinatario.
12. Questa Corte, a proposito di una notifica eseguita tramite PEC ad un indirizzo di posta elettronica ordinaria (notifica dichiarata nulla e non inesistente) ha precisato che “con l’invio a casella e-mail ordinaria vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia pervenuta presso l’indirizzo di posta certificata del destinatario” e che la “ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare notifica a mezzo Pec non (è) sostituibile, con validi effetti legali, da eventuali forme meno rigorose di analoga documentazione della posta mail ordinaria” (Cass. sentenza 31.05.2023 n. 15345, in motivazione pag. 7-8, § 3.5)
13. Non possono invocarsi, in relazione alla trasmissione tramite e-mail, i principi enunciati a proposito della spedizione di una raccomandata o di un telegramma (secondo cui “La produzione in giudizio di un telegramma, o di una lettera raccomandata, anche in mancanza dell'avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione, attestata dall'ufficio postale attraverso la relativa ricevuta, dalla quale consegue la presunzione dell'arrivo dell'atto al destinatario e della sua conoscenza ai sensi dell'art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della suddetta spedizione e sull'ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico”, Cass. ordinanza 10.01.2019 n. 511), in ragione della non equiparabilità dei sistemi di gestione dei rispettivi servizi (servizio di posta elettronica e servizio postale).
Neppure è pertinente il richiamo alle pronunce sulle comunicazioni inoltrate a mezzo telefax (secondo cui “Una volta dimostrato l'avvenuto corretto inoltro del documento a mezzo telefax al numero corrispondente a quello del destinatario, deve presumersene il conseguente ricevimento e la piena conoscenza da parte di costui, restando, pertanto, a suo carico l'onere di dedurre e dimostrare eventuali elementi idonei a confutare l'avvenuta ricezione”, v. Cass. sentenza 24.05.20198 n. 14251; n. 18679 del 2017; n. 349 del 2013), dato il diverso modo di operare di quest’ultimo meccanismo, che consente al mittente di verificare la avvenuta trasmissione con successo al numero di fax corrispondente a quello del destinatario (in tal senso, Cass. n. 349 del 2013 cit.).
14. Difetta quindi la prova, nel caso di specie, della ricezione da parte della società della richiesta di audizione inviata tramite e-mail, risultando insufficiente la avvenuta dimostrazione dell’invio della richiesta medesima; dal che discende l’insussistenza del vizio di violazione dell’art. 7 St. lav. e dell’art. 1335 c.c. (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 22.12.2023 n. 35922).

EDILIZIA PRIVATA: Ricalcolo degli oneri, termini differenti per urbanizzazione e costo di costruzione. Il Consiglio di Stato chiarisce che il termine decennale per il Comune parte in un caso dal rilascio del permesso, nell’altro dalla fine dei lavori.
Fin quando perdura il diritto del Comune di ri-conteggiare l’importo del contributo di costruzione?

Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 19.12.2023 n. 11022, ritorna su un argomento molto articolato e controverso (tanto da necessitare di una pronuncia dell’Adunanza Plenaria nel 2018) per chiarire che il termine di prescrizione decennale entro cui il Comune può far valere un diritto al riconteggio è diverso a seconda che si tratti della quota relativa a oneri di urbanizzazione o a quella afferente il costo di costruzione.
Ma andiamo con ordine: il contributo di costruzione è la prestazione patrimoniale imposta dalla legge a fronte del rilascio di un permesso di costruire ed è disciplinato dall'articolo 16 del Testo Unico dell'Edilizia, che lo definisce come il contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, enucleando così le due principali voci di costo che lo compongono.
Il conteggio del contributo avviene sulla base di parametri regolamentari e tabellari prestabiliti (regionali o comunali) e può essere rideterminato solo in caso di errori di calcolo da parte del Comune. Il termine per l'accertamento di eventuali errori di calcolo è di dieci anni (termine ordinario di prescrizione), decorso il quale non è più possibile richiedere una rettifica. Ma qual è il momento da cui inizia a decorrere il termine?
Il termine di dieci anni scatta quando il diritto di credito del Comune diventa esigibile, ossia può essere fatto valere e, per individuare il momento di decorrenza, occorre tenere distinte le due voci del contributo sopra indicate (oneri e costo). Infatti, la peculiarità della prescrizione connessa al contributo di costruzione sta nel fatto che sono due i momenti in cui il relativo credito diviene esigibile, essendo differenti i momenti di esigibilità della quota afferente agli oneri di urbanizzazione e di quella relativa al costo di costruzione.
La prima è regolata dal comma 2, del TUE che lo La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata: il credito è esigibile quindi al rilascio del permesso. La seconda trova la sua disciplina nell'art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001 che stabilisce la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione.
Pertanto, come affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento, la prescrizione decennale del diritto di credito, in caso di errore nel calcolo al momento del rilascio del permesso di costruire, decorre differentemente a seconda che si tratti della quota oneri o della quota costo. Nel primo caso i dieci anni vanno contati dal momento del rilascio del permesso, nel secondo dal termine di fine lavori (o in quello più breve, se la quota inerente il costo è stata versata prima).
Si tratta di due momenti che possono divergere anche di molto: infatti, la conclusione dei lavori può avvenire anche a distanza di un quinquennio (a volte anche di più, se i termini vengono prorogati) rispetto al momento del rilascio del titolo.
Si tratta quindi di valutazioni non immediate, che necessitano di analisi puntuali della storia autorizzativa di un determinato cantiere, valutando le date di comunicazione di fine lavori, se vi sono state proroghe, se sono intervenute varianti e di quale natura ecc, restando inteso che questa indagine puntuale dovrà essere eseguita solo per la seconda parte del contributo, atteso che l'identificazione del termine di decorrenza decennale è molto più semplice per la voce oneri, corrispondente alla data di rilascio del titolo (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Ricalcolo degli oneri concessori, i 10 anni per la prescrizione decorrono dalla fine lavori.
Palazzo Spada riforma una sentenza del Tar Puglia che aveva indicato invece come dies a quo il giorno del rilascio del titolo. Confermata l’irretroattività delle tariffe.
Una controversia con al centro il costo di costruzione richiesto da un Comune pugliese, relativamente al rilascio del permesso edilizio per una nuova costruzione, offre al Consiglio di Stato (Sez. IV - sentenza 19.12.2023 n. 11022) l’occasione per precisare due questioni importanti -il termine da cui decorrono i 10 anni per la prescrizione e l’irretroattività delle tariffe- rettificando le conclusioni del Tar Puglia.
La questione verte sulla rideterminazione del contributo al costo di costruzione da parte del Comune a distanza di anni dal pagamento versato dall'operatore economico e corrispondente alla somma inizialmente calcolata dall'Ente.
Nella vicenda specifica, i momenti rilevanti ai fini della valutazione del Consiglio di Stato sono i seguenti:
   - il 14.12.2006 il Comune informa l'interessato circa l'esito positivo della pratica edilizia e invita al pagamento di 14.270 euro di oneri concessori (immediatamente versati);
   - il 15.01.2007 il Comune rilascia il permesso di costruire; il 14.05.2009 il Comune rilascia un permesso di costruire in variante senza alcuna richiesta di ulteriori oneri (ritenendo che le variazioni fossero entro la fascia di esonero del 20% di modifica rispetto al progetto originario);
   - il 02.03.2017 il Comune dice che si era sbagliato nel calcolo e chiede all'interessato una integrazione di quasi 28.400 euro, calcolata in base alle delibere regionali entrate in vigore tra il 2006 e il 2010).
L'impresa impugna quest'ultimo provvedimento al Tar e avvia il contenzioso. Il Tar Puglia accoglie il ricorso dell'impresa ritenendo fondato un motivo ritenuto dirimente dai giudici, e cioè che il credito del Comune fosse caduto in prescrizione, essendo passati più di 10 anni tra la data del rilascio del permesso di costruire (15.01.2007) e la richiesta di integrazione in base al nuovo calcolo (02.03.2017).
I giudici della IV Sezione del Consiglio di Stato, contestano questa conclusione, e individuano un diverso termine
da cui far decorrere i 10 anni per la prescrizione. Il nuovo termine viene individuato nel 20.06.2009, che coincide con la data di ultimazione dei lavori.
La sentenza spiega che «il termine di prescrizione -per effetto del combinato disposto di cui agli artt. 2935 c.c. e 16, co. 3, d.p.r. n. 280 del 2001- inizia a decorrere da quando il diritto diventa definitivamente esigibile, ossia scaduti i sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione, ovvero dalla comunicazione della fine dei lavori».
«In altri termini -si legge sempre nella pronuncia n. 11022/2023 del 19.12.scorso- la Sezione ritiene di potere affermare il principio per cui la prescrizione del diritto di credito sotteso alla riscossione degli oneri concessori è decennale, con la differenza che il diritto diventa esigibile e pertanto il termine di prescrizione inizia a decorrere:
   i) per gli oneri urbanizzazione, dal momento in cui viene rilasciato o comunque si forma il titolo edilizio;
   ii) per il costo di costruzione, dalla comunicazione al comune della fine dei lavori, giusta il disposto dell'art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001
».
In conclusione, Palazzo Spada accoglie l'appello del Comune pugliese, di cui viene riconosciuto l'errore nel calcolo, sempre però nel rispetto della non retroattività delle tariffe, che vanno sempre applicate, ratione temporis, a quelle «vigenti al momento della comunicazione di fine lavori», cioè, nel caso specifico, sempre alla data del 20.06.2009 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 10.01.2024).
---------------
SENTENZA
8. L’appello è fondato, nei sensi che seguono.
9. Il quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento in tema di contributo di costruzione e di interruzione della prescrizione è riassumibile come segue.
9.1. L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 30.08.2018, n. 12, ha affermato i seguenti principi:
   a)
gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di attività autoritativa;
   b)
la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento;
   c)
l’amministrazione comunale, nel richiedere i detti importi con atti non aventi natura autoritativa, agisce quindi secondo le norme di diritto privato, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, ma si deve escludere l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa fattispecie, in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà luogo alla semplice rettifica;
   d)
la tutela dell’affidamento e il principio della buona fede, che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione nell’attuazione del rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione ad una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, la predeterminazione e l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, rendono vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con l’ordinaria diligenza richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta all’attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal Comune.
9.2 In tema di contributo di costruzione, fatto salvo quanto si dirà appresso, la giurisprudenza amministrativa ha, inoltre, affermato che:
   a)
il dies a quo per il decorso del periodo di tempo ai fini della prescrizione decennale, coincide con la data di rilascio del titolo edilizio;
   b)
il contributo di costruzione può essere rideterminato solo in caso di errori di quantificazione (calcolo) da parte del Comune, è inoltre necessario che il ricalcolo sia effettuato secondo la tariffa vigente al momento del rilascio del permesso di costruire (Cons. Stato, sentenza n. 18/2018);
   c)
dal momento del rilascio del titolo abilitativo, il Comune ha dieci anni di tempo per accertare eventuali errori di calcolo e chiedere una integrazione del contributo;
   d)
si applica, quindi, il termine ordinario per la prescrizione, decorso il quale non è più possibile richiedere una rettifica;
   e)
il contributo di costruzione previsto dall’art. 16, comma 9, t.u., è determinato periodicamente dalle Regioni per i nuovi edifici, mentre il Comune è competente a definire il costo per i soli edifici esistenti (art. 16, comma 10, t.u.), per cui:
         i)
i costi-base fissati con delibera regionale si applicano direttamente;
         ii)
le delibere con cui i Comuni determinino i costi in misura differente da quanto deciso dalla Regione, avvalendosi di facoltà previste da leggi regionali, hanno carattere eventuale e non condizionano l’immediata vigenza e operatività del costo-base fissato dalla Regione;
         iii)
tali delibere si applicano comunque solo ai nuovi permessi, ma solo per la parte di incremento o diminuzione rispetto al costo-base fissato con atto regionale; in altri termini, nel caso di contributo di costruzione per nuove costruzioni, il principio di irretroattività delle delibere comunali sopravvenute opera sì, ma solo per il costo in aumento o in riduzione (Cons. Stato, sez. IV, n. 2821/2017).
9.3) Sul piano più strettamente normativo, vengono in rilievo, invece, le seguenti norme:
   a)
art. 2943 c.c., secondo cui la prescrizione è interrotta, oltre che dalla notificazione dell’atto con cui si inizia un giudizio o dalla domanda proposta nel corso di un giudizio, anche da ogni atto che valga a costituire in mora il debitore;
   b)
art. 1219 c.c., ai sensi del quale la costituzione in mora deve consistere in una intimazione o richiesta fatta per iscritto;
   c)
art. 16, comma 2, d.P.R. 380/2001 a mente del quale “La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata”;
   d)
art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001 giusta il quale “La quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione”.
10. Sulla scorta del prefato quadro giurisprudenziale e normativo è possibile dunque affermare che:
   a) le pretese economiche avanzate da parte appellante (afferenti il costo di costruzione) hanno consistenza di diritti soggettivi;
   b) conseguentemente, deve escludersi l’applicazione della disciplina sull’annullamento o revoca in autotutela degli atti amministrativi,
   c) tali pretese, inerenti al costo di costruzione, sono soggette alla prescrizione ordinaria decennale, allo stesso modo che per gli oneri di urbanizzazione;
   d) il legislatore garantisce che la prescrizione non opera qualora sopraggiunga una causa che faccia venire meno l'inerzia del titolare, presupposto stesso dell'istituto. È idoneo, pertanto, a interrompere la prescrizione qualsiasi atto stragiudiziale che individui la persona del debitore e contenga la richiesta scritta di adempiere (v. Corte di Cassazione, ordinanza 10.03.2022 n. 7835).
11. Nel caso di specie:
   - il permesso di costruire n. 2/2007 veniva rilasciato il 15.01.2007;
   - la società corrispondeva i relativi oneri concessori per il rilascio del suddetto titolo edilizio;
   - in data 14.05.2009, con provvedimento n. 8/2009, il comune rilasciava alla società il permesso di costruire in variante al titolo edilizio n. 2/2007;
   - con nota prot. n. 685/17 del 02.03.2017, notificata il successivo 07.03.2017, il Comune –sul presupposto che il permesso del 2007 è stato “assorbito e sostituito, mediante il rilascio alla medesima società, del successivo permesso di costruire n. 08/2009, in variante al precedente, in esecuzione del quale l’intervento edilizio è stato realizzato e completato”– richiedeva alla appellata una integrazione del costo di costruzione pari ad € 28.384,04.
Conseguentemente può affermarsi che:
   - la variante del 2009, in ragione di quanto assentito (si veda la documentazione depositata agli atti dal comune), ha natura sostanziale con le conseguenze anche in ordine alla decorrenza del termine di prescrizione;
   - trattandosi di questione afferente il costo di costruzione, il termine di prescrizione –per effetto del combinato disposto di cui agli artt. 2935 c.c. e 16, co. 3, d.p.r. n. 280 del 2001– inizia a decorrere da quando il diritto diventa definitivamente esigibile, ossia scaduti i sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione, ovvero dalla comunicazione della fine dei lavori.
12. In altri termini, sul punto, la Sezione ritiene di potere affermare il principio per cui
la prescrizione del diritto di credito sotteso alla riscossione degli oneri concessori è decennale, con la differenza che il diritto diventa esigibile e pertanto il termine di prescrizione inizia a decorrere:
   i) per gli oneri urbanizzazione, dal momento in cui viene rilasciato o comunque si forma il titolo edilizio;
   ii) per il costo di costruzione, dalla comunicazione al comune della fine dei lavori, giusta il disposto dell’art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001.

13. Ebbene, nel caso di specie consta che la comunicazione di ultimazione dei lavori sia stata effettuata in data 20.06.2009, con la conseguenza che alla data del 07.03.2017 (di notifica del provvedimento di ricalcolo) il termine prescrizionale non poteva ritenersi ancora decorso.
14. Va solo soggiunto che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio
il contributo previsto dall’art. 16 t.u. è suscettibile di rideterminazione in due casi:
   a) quando intervenga la scadenza del permesso di costruire con un suo rinnovo o una variante al titolo edilizio che incrementi il carico urbanistico
(cfr. sez. IV, 27.04.2012, n. 2471; sez. IV, n. 1504/2015, cit.), come avvenuto nel caso di specie;
   b) quando, nell’adozione del provvedimento di determinazione, vi sia stato un errore nel calcolo del contributo rispetto alla situazione di fatto e alla disciplina vigente al momento (cfr. sez. IV, n. 6033/2012, cit.).
Nel caso di specie non v’è dubbio che il comune sia anche incorso in un errore di calcolo con l’atto del 2009, errore che poi ha proceduto a rettificare senza aver ancora consumato il termine di prescrizione.
15. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello è fondato nei limiti ora indicati e salvo quanto ora si preciserà a seguito dei motivi riproposti con la memoria di costituzione della parte appellata.

EDILIZIA PRIVATA: Abusi, sanzioni possibili anche senza parere della commissione edilizia. Lo ha precisato il Consiglio di Stato respingendo il ricorso di un proprietario.
L’omessa acquisizione del parere della commissione edilizia comunale non inficia l’adozione di provvedimenti sanzionatori di opere abusive, neppure in sede di rigetto di istanze di condono o sanatoria, atteso che tale parere non è obbligatorio. Milita in tal senso l’art. 4, comma 2, del Testo unico edilizia, che attribuisce ai comuni la «facoltà» di istituire la commissione edilizia, e che assegna ad essa il ruolo di « organo consultivo». Ciò fermo restando che l'art. del 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire) del suddetto decreto non prevede l'acquisizione del parere della commissione prima dell'emissione della sanzione pecuniaria in luogo del ripristino.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato -Sez. VI- con la sentenza 15.12.2023 n. 10871 che ha confermato la pronuncia del Tar Veneto n. 759/2019.

L'antefatto

La ricorrente aveva proposto ricorso al Tar del Veneto contro il provvedimento con cui il Comune di Mogliano Veneto le aveva intimato, in luogo del ripristino, il pagamento della somma di 30.872,00, quale sanzione amministrativa per opere abusive realizzate su un immobile di proprietà, deducendone l'illegittimità per violazione dell'articolo 93, comma 1, ultimo periodo, della legge regionale 27.06.1985, n. 61, secondo cui: «Il provvedimento di demolizione o di irrogazione delle sanzioni è emanato dal Sindaco, rispettivamente con ordinanza o con ingiunzione, previo parere della Commissione Edilizia Comunale».
Ricorso che il Tar aveva dichiarato infondato e in parte inammissibile.
La sentenza del Consiglio di Stato
Dinanzi al Consiglio di Stato la ricorrente aveva riproposto quanto sostenuto nel primo grado di giudizio ed evidenziato che la sanzione pecuniaria non risultava correttamente commisurata al valore dell'immobile quale derivante dall'abuso. Tesi che non colto nel segno.
L'Alto Collegio ha confermato l'orientamento secondo il quale:
   - il parere reso dalla commissione edilizia sulla domanda di condono è un atto «meramente endoprocedimentale non necessario, tanto da non essere considerato, in quanto tale, oggetto di autonoma impugnazione» (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4208 del 2016);
   - nel procedimento per la concessione in sanatoria, il parere della commissione edilizia comunale «non è obbligatorio, tenuto conto dell'assenza di una specifica previsione al riguardo e della specialità del procedimento in questione rispetto a quello ordinario di rilascio della concessione edilizia
» (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 6042 del 2013; cfr. di recente Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza n. 504 del 2020, che ritiene tale parere «non necessario e comunque ininfluente in mancanza dei presupposti per accedere al condono»);
   - l'articolo 4, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel rendere facoltativa per i comuni l'istituzione della commissione edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in materia del territorio al quale deve sottostare la normativa regionale, con la conseguenza che la norma regionale, laddove preveda l'obbligatorietà del parere deve intendersi implicitamente abrogata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 6042 del 2013).
L'orientamento è condiviso dai Tribunali amministrativi regionali. Basta citare, inter alia, la giurisprudenza del Tar Campania- Napoli (sentenze: n. 2103/2015; n. 1399/2015; n. 17938/2010; 2010, n. 17398/2012) e del Tar Puglia-Lecce (sentenza n. 1666 del 2012), secondo cui:
   - le sanzioni per opere edilizie abusive, costituendo un atto dovuto in presenza di presupposti stabiliti dalla legge, non necessitano della preventiva acquisizione del parere della commissione edilizia;
   - non è necessario il parere della commissione edilizia comunale, sia in tema di provvedimenti sanzionatori come in tema di decisioni su istanze di sanatoria (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 12.02.2024).
---------------
SENTENZA
9. Con la seconda censura, gli appellanti deducono l’error in iudicando in cui sarebbe incorso il Tribunale adito, nella parte in cui ha ritenuto infondato il primo motivo ricorso, relativo alla omessa acquisizione del parere della Commissione Edilizia Comunale.
Ciò in quanto, l’art. 93 della L.R. n. 16 del 2003, vigente all’epoca dei fatti, prevedeva che qualsiasi provvedimento repressivo di abuso, fosse esso l’ordine di demolizione ovvero l’applicazione della sanzione pecuniaria, dovesse essere preceduto dal parere della Commissione Edilizia Comunale.
9.1. La doglianza è infondata.
A tale proposito è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo cui il parere reso dalla Commissione Edilizia sulla domanda di condono è un atto meramente endoprocedimentale non necessario, tanto da non essere considerato, in quanto tale, oggetto di autonoma impugnazione (Cons. Stato, sez. IV, n. 4208 del 2016).
In ogni caso, laddove non acquisito, la mancanza dello stesso non vizia l’adozione di atti repressivi di abusi edilizi, neppure ai fini del rigetto di istanze di condono o sanatoria, non essendo un atto presupposto ai fini dell’adozione (Cons. Stato, sez. IV, n. 4962 del 2016).
Pertanto, nel procedimento per la concessione in sanatoria, il parere della Commissione Edilizia Comunale non è obbligatorio (essendo al più facoltativo), tenuto conto dell’assenza di una specifica previsione al riguardo e della specialità del procedimento in questione rispetto a quello ordinario di rilascio della concessione edilizia, sicché la mancanza di tale parere non è censurabile (Cons. Stato, sez. VI, n. 6042 del 2013; Cons. Stato, sez. VI, n. 2038 del 2012).
Né si può predicare che il giudicante abbia omesso di tenere conto della peculiarità della normativa regionale veneta, tenuto conto che l’art. 4 d.P.R. n. 380 del 2001, nel rendere per i comuni facoltativa l’istituzione della Commissione Edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in materia di governo del territorio, al quale deve sottostare la normativa regionale, ai sensi dell’art. 117 Cost. (Cons. Stato, sez. IV, n. 4783 del 2008).
Al riguardo è già stato affermato che le norme regionali in materia devono essere interpretate in senso costituzionalmente coerente con i principi generali introdotti dal predetto Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia n. 380 (Cons. Stato, sez. IV, n. 4793 del 2008), per cui la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la norma legislativa regionale, laddove prevede l’obbligatorietà del parere della Commissione Edilizia, deve intendersi implicitamente abrogata (Cons. Stato, sez. VI, n. 6042 del 2013).
Nondimeno, l’Amministrazione ha osservato che la Commissione Edilizia Comunale, come evidenziato nella relazione del Funzionario Comunale Ing. Cu., rilasciata in ossequio all’ordinanza del TAR Veneto n. 847 del 2018, si è in effetti pronunciata in due occasioni sulla sanzione poi irrogata alla ricorrente, e nella seduta del 02.05.2002 si è espressa dando: “parere favorevole” alla sanatoria ordinaria “limitatamente alle varianti interne e spostamenti di volumetria”, mentre ha espresso “parere non favorevole per quanto riguarda l’innalzamento della struttura di copertura e della valesana, in quanto in contrasto con l’art. 11 N.T.A. P.R.G.”; la Commissione Edilizia Comunale, infatti, ha concluso “vista la perizia asseverata prodotta dalla Ditta, dalla quale si evince la compromissione della parte conforme nel caso di demolizione della parte difforme, ritiene di procedere all’irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 93 L.R. 61/1985”.

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità assoluta.
Il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici.
Esso ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica e si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.12.2023 n. 10798 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).

VARIEredi risarciti anche se la vittima non indossava cinture di sicurezza.
Risarcimento pieno agli eredi anche se la vittima non indossava la cintura di sicurezza al momento dell'incidente stradale. E ciò perché con ogni probabilità sarebbe morta ugualmente, anche se avesse utilizzato il dispositivo di protezione: il giudice del merito, dunque, non può ridurre il ristoro del danno patito in prima persona dai familiari del de cuius senza verificare l'effettiva incidenza che ha avuto sull'evento-morte la trasgressione della regola cautelare ascritta alla vittima.

Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 12.12.2023 n. 34625.
Accolto il ricorso di vedova, figli e nipoti della vittima: sbaglia la Corte d'appello ad accogliere in parte il gravame dell'assicurazione addebitando all'interessato il 20% della colpa nel sinistro perché non indossava la cintura. In sede penale è accertata la responsabilità dell'altro conducente per omicidio colposo, aggravato dallo stato di ebbrezza.
Trova ingresso la censura che fa leva sulla consulenza tecnica svolta dal pm nel processo penale: nello scontro l'auto della vittima si deforma al punto che l'abitacolo si contrae, rendendo «inevitabile la compressione del torace» da parte del volante; l'uomo, insomma, sarebbe deceduto «con altissima probabilità» anche indossando la cintura.
È vero: il risarcimento ai congiunti superstiti deve essere ridotto in misura corrispondente alla percentuale di colpa ascrivibile al de cuius. Ma la condotta della vittima deve risultare colposa per essere apprezzata come concausa del danno patito dagli eredi, riducendo quindi il risarcimento.
E per ritenersi tale deve aver effettivamente inciso sulla dinamica del sinistro: il che si verifica solo quando l'evento-morte è il concretizzarsi del rischio specifico che l'osservanza della regola cautelare tendeva a evitare.
Insomma: è integrata la violazione dell'art. 2054 Cc denunciata dagli eredi perché la Corte d'appello si accontenta della violazione dell'art. 172 Cds senza verificare se e quanto l'inosservanza dell'obbligo d'indossare la cintura abbia inciso sulla morte, valutando l'attendibilità delle prove utilizzate. Parola al rinvio (articolo ItaliaOggi del 05.01.2024).

APPALTI: Criterio di aggiudicazione per gli appalti con caratteristiche standardizzate e ad alta intensità di manodopera: la parola alla Corte di giustizia UE.
La V sezione del Consiglio di Stato sottopone alla valutazione pregiudiziale della Corte di giustizia UE la disciplina dettata dall’art. 95 del codice dei contratti pubblici del 2016, che vieta il criterio di aggiudicazione del minor prezzo per gli appalti ad alta intensità di manodopera, anche nell’ipotesi in cui si tratti di appalto con caratteristiche standardizzate per il quale risulti accertato, in concreto, che le istanze di tutela dei lavoratori sono state rispettate.
---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalti ad alta intensità di manodopera – Contemporanea sussistenza delle caratteristiche standardizzate – Criterio di aggiudicazione – Minor prezzo – Esclusione – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia UE la seguente questione pregiudiziale:
   se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli artt. 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché il principio euro-unitario di proporzionalità e l’art. 67, paragrafo 2, della direttiva 2014/24/UE ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’art. 95, commi 3, lett. a), e 4, lett. b), del dlgs 18.04.2016, n. 50, nonché nell’art. 50, comma 1, del medesimo dlgs, come anche derivante dal principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 21.05.2019, n. 8, secondo la quale, in caso di appalti aventi ad oggetto servizi con caratteristiche standardizzate ed al contempo ad alta intensità di manodopera, è vietata all’amministrazione aggiudicatrice la previsione, quale criterio di aggiudicazione, di quello del minor prezzo, anche nell’ipotesi in cui la legge di gara abbia cura di prevedere il ribasso sul solo aggio o utile potenziale di impresa, con salvezza dei costi per la manodopera. (1)

---------------
   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, la V sezione del Consiglio di Stato interroga la Corte di giustizia UE circa la compatibilità, con il diritto euro-unitario, della previsione nazionale, contenuta nell’art. 95 del d.lgs. n. 50 del 2016, che vieta il criterio di aggiudicazione del minor prezzo per gli appalti ad alta intensità di manodopera, anche laddove si tratti di servizi con caratteristiche standardizzate (connotati, cioè, come afferma l’ordinanza in epigrafe, “da elevata ripetitività e priv[i] di elementi personalizzabili”) e anche nell’ipotesi in cui non sussistano dubbi in ordine all’effettivo raggiungimento dell’obiettivo che la norma, nell’imporre il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ha inteso perseguire (la tutela delle garanzie dei lavoratori).
La controversia portata al giudizio della V sezione è stata originata da un appalto bandito dal Ministero della difesa per il servizio di manovalanza, connessa ai trasporti, per le esigenze centrali e periferiche dell’amministrazione.
Trattandosi di servizio con caratteristiche standardizzate, il disciplinare aveva stabilito il criterio di aggiudicazione del minor prezzo (mediante ribasso sull’aggio posto a base di gara): ciò, sulla base dell’art. 95, comma 4, lettera b), del codice del 2016, a norma del quale tale criterio “può” essere utilizzato, per l’appunto, “per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta intensità di manodopera…”.
La ratio di questa previsione –come non manca di evidenziare la sezione V, con l’ordinanza in epigrafe– risiede in ragioni di economicità e speditezza nella procedura, posto che si ha a che fare con prestazioni connotate da elevata ripetitività per le quali “è difficilmente immaginabile un apporto del concorrente tale da alterare l’aspettativa a una prestazione uniforme” ed è quindi ridondante la previsione di un confronto competitivo sulla migliore qualità tecnica delle varie offerte.
Su ricorso dell’impresa seconda classificata, il Tar per il Lazio, sez. I-bis, con sentenza 11.04.2023, n. 6259, ha annullato l’intera gara, rilevando la violazione della norma menzionata, nella parte in cui essa (a seguito di integrazione introdotta con il decreto-legge n. 32 del 2019, convertito in legge n. 55 del 2019) stabilisce l’eccezione per gli appalti ad alta intensità di manodopera, imponendo dunque per questi ultimi il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, pur se in presenza delle caratteristiche standardizzate.
Nello stesso senso si pone anche la previsione del comma precedente a quello poc’anzi citato, a norma del quale (lettera a) “Sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo: a) i contratti relativi […] ai servizi ad alta intensità di manodopera”, come definiti art. 50, comma 1, secondo periodo, del codice stesso (“I servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell'importo totale del contratto”).
Per tali contratti la stessa norma impone l’inserimento, nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti, di “specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato” e pone, quale condizione indefettibile, l’applicazione dei contratti collettivi di settore: dal che si apprezza la ratio perseguita dal legislatore italiano, che è quella di prevenire facili situazioni di sfruttamento dei lavoratori proprio mediante la necessaria comparazione qualitativa delle offerte, escludendo la possibilità di aggiudicare l’appalto sulla base del solo ribasso.
   II. – L’impresa aggiudicataria, vistasi annullata l’intera gara dal Tar, ha dunque proposto appello al Consiglio di Stato, sottoponendo al giudice di secondo grado il possibile contrasto della normativa italiana con i principi del diritto UE, nella parte in cui si rende necessario il ricorso al (ben più impegnativo) criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa pur laddove l’appalto, anche se connotato da alta intensità della manodopera, risulti regolato in modo tale da non far sorgere dubbi sul rispetto delle garanzie dei lavoratori.
Il collegio accoglie favorevolmente la prospettazione della parte e solleva la relativa questione pregiudiziale, argomentando, in sintesi, quanto segue:
      a) l’art. 95, comma 4, lettera b), del d.lgs. n. 50 del 2016 stabilisce un’apposita eccezione alla generale facoltà, per l’amministrazione, di prevedere il criterio del minor prezzo per i servizi e le forniture aventi caratteristiche standardizzate: l’eccezione (come già detto) riguarda i servizi ad alta intensità di manodopera per i quali, come conferma il comma 3, lettera a), non può prescindersi dalla previsione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa;
      b) l’Adunanza plenaria, con sentenza 21.05.2019, n. 8 (in Foro it., 2019, III, 365, in Urb. appalti, 2019, 631, con nota di PAGANI, in Guida al dir., 2019, 26, 82, con nota di PONTE, ed in Riv. corte conti, 2019, 3, 294, con nota di LONGHI, nonché oggetto della News US n. 64 del 29.05.2019, alla quale si rimanda per i necessari approfondimenti), ha evidenziato che:
         b1) la ratio dell’imposizione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per gli affidamenti di servizi ad alta intensità di manodopera, è quella di perseguire gli obiettivi –preminenti, secondo la Costituzione e il diritto UE, nel settore dei contratti pubblici– di tutela del lavoro;
         b2) detti obiettivi non possono essere sacrificati alle esigenze di carattere tecnico e alle determinazioni discrezionali dell’amministrazione; di conseguenza, ancor prima che ciò fosse chiarito dal legislatore con la (di poco) successiva novella del 2019, l’Adunanza plenaria ha affermato il principio di diritto secondo cui “gli appalti di servizi ad alta intensità di manodopera ai sensi degli artt. 50, comma 1, e 95, comma 3, lett. a), del codice dei contratti pubblici sono comunque aggiudicati con il criterio del miglior rapporto qualità/prezzo, quand’anche gli stessi abbiano anche caratteristiche standardizzate ai sensi del comma 4, lett. b), del medesimo codice”;
      c) proprio in applicazione di tale principio, nel caso di specie, il Tar per il Lazio ha accolto il ricorso proposto dalla seconda classificata, annullando l’intera gara;
      d) tuttavia, nel caso di specie, l’appalto bandito dal Ministero della difesa presenta le seguenti caratteristiche:
         d1) per un verso, esso riguarda operazioni meramente materiali e di movimentazione di colli, che sono ripetitive e standardizzate, per cui non si apprezza alcuna effettiva necessità di far luogo all’acquisizione di offerte tecniche differenziate, ciò che comporterebbe un inutile aggravio della procedura di gara;
         d2) per altro verso, il ribasso in sede di offerta doveva avvenire, da parte degli offerenti, non su un prezzo base comprensivo dei costi della manodopera, quanto piuttosto, esclusivamente, sull’aggio, da calcolarsi già al netto dei costi della manodopera;
         d3) il ribasso, quindi, poteva avvenire solo sull’utile potenziale di impresa, con invarianza dei costi per la manodopera: ciò che lascia, dunque, intatte le garanzie connesse alle necessarie tutele dei lavoratori impiegati nell’appalto;
      e) nell’ordinamento UE sono rinvenibili, in proposito, i seguenti indicatori normativi:
         e1) anzitutto, vi è l’art. 67, paragrafo 2, ultimo capoverso, della direttiva 2014/24/UE, a norma del quale “Gli Stati membri possono prevedere che le amministrazioni aggiudicatrici non possano usare solo il prezzo o il costo come unico criterio di aggiudicazione o limitarne l'uso a determinate categorie di amministrazioni aggiudicatrici o a determinati tipi di appalto”;
         e2) tale previsione –osserva il collegio rimettente– andrebbe letta conformemente al principio di proporzionalità, che è un principio generale del diritto dell’Unione, secondo il quale le norme stabilite dagli Stati membri, nell’ambito dell’attuazione delle disposizioni della direttiva 2014/24/UE, non dovrebbero andare oltre quanto necessario per raggiungere gli scopi perseguiti da quest’ultima;
         e3) l’obiettivo di favorire la migliore qualità delle prestazioni costituisce, parimenti, un’indicazione fondamentale del diritto UE, specialmente alla luce di quanto afferma il Considerando n. 92 della direttiva menzionata, in base al quale “Le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero essere incoraggiate a scegliere criteri di aggiudicazione che consentano loro di ottenere lavori, forniture e servizi di alta qualità che rispondano al meglio alle loro necessità”;
         e4) in tale contesto, non può dimenticarsi la risoluzione del 25.10.2011, sulla modernizzazione degli appalti pubblici (2011/2048(INI)), prodromica all’approvazione delle direttive del 2014, con la quale il Parlamento europeo, pur ritenendo che “il criterio del prezzo più basso non debba più essere il criterio determinante per l’aggiudicazione di appalti e che sia necessario sostituirlo in via generale con quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa in termini di benefici economici, sociali e ambientali, tenendo conto dei costi dell’intero ciclo di vita dei beni, servizi o lavori di cui trattasi”, sottolineava, comunque, “che una simile soluzione non esclude il criterio del prezzo più basso quale criterio decisivo in caso di beni o servizi altamente standardizzati”;
      f) nel trasporre dette indicazioni nel diritto interno, il legislatore italiano ha bensì sancito il divieto di utilizzare il criterio del prezzo più basso per la specifica tipologia dei servizi ad alta intensità di manodopera (art. 95, comma 4, lettera b, del d.lgs. n. 50 del 2016), ma ciò anche nell’ipotesi in cui l’appalto presenti, al contempo, caratteristiche standardizzate, laddove cioè non rilevano gli aspetti qualitativi delle prestazioni; simile previsione, tuttavia, appare eccedere quanto necessario per conseguire gli obiettivi, prima ricordati, perseguiti dalla direttiva e si pone, pertanto, in contrasto con il principio di proporzionalità;
      g) tale ultimo principio, nel caso di specie, assume particolare pregnanza alla luce:
         g1) sia delle previsioni della legge di gara, che stabilivano come criterio di aggiudicazione quello del maggior ribasso, da calcolarsi esclusivamente sull’aggio, con salvezza dei costi per la manodopera;
         g2) sia del fatto che il rispetto delle condizioni economiche e di sicurezza del lavoro è già stato accertato dalla stazione appaltante, in sede di subprocedimento di verifica dell’anomalia delle offerte, nonché dallo stesso Giudice nazionale (essendo già stati respinti –con parallela sentenza non definitiva della medesima Sezione– i motivi, introdotti dal ricorrente fin dal primo grado, e riproposti con appello incidentale, con i quali era stata revocata in dubbio la legittimità dell’offerta dell’aggiudicataria proprio in relazione alla violazione dei minimi salariali);
      h) i vantaggi tipici, collegati alla tutela dei lavoratori, che normalmente derivano dall’impiego del criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa (oggetto di indiscusso favor nella disciplina UE), appaiono pertanto ugualmente raggiunti; e ciò, proprio all’esito dell’accertamento, in sede amministrativa e giurisdizionale, che non si è avuta alcuna violazione delle tutele che devono assistere le prestazioni di lavoro;
      i) a giudizio del Collegio, pertanto, appare sproporzionato l’obbligo della previsione del criterio di aggiudicazione del miglior rapporto qualità/prezzo, non venendo in considerazione possibili aspetti di miglioramento tecnico che avrebbero potuto, in tesi, caratterizzare le offerte aventi ad oggetto prestazioni standardizzate; in definitiva, la preferenza del diritto UE per il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa pare non sposarsi, nella fattispecie de qua, con le ragioni che dovrebbero sostenerlo, con la conseguenza che l’imposizione di quel criterio appare misura palesemente eccessiva, sproporzionata ed ingiustificata.
   III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
      j) nell’affermare il principio secondo cui “Gli appalti di servizi ad alta intensità di manodopera ai sensi degli artt. 50, comma 1, e 95, comma 3, lett. a), del codice dei contratti pubblici sono comunque aggiudicati con il criterio del miglior rapporto qualità/prezzo, quand’anche gli stessi abbiano anche caratteristiche standardizzate ai sensi del comma 4, lett. b), del medesimo codice”, poi recepito dal legislatore nazionale con le previsioni del decreto-legge n. n. 32 del 2019, come convertito), l’Adunanza plenaria, nella richiamata sentenza n. 8 del 2019, ha tra l’altro osservato che:
         j1) il ricorso a criteri di aggiudicazione degli appalti pubblici basati non sul solo prezzo, e quindi non orientati in via esclusiva a fare conseguire all’amministrazione risparmi di spesa, ma idonei a selezionare le offerte anche sul piano qualitativo, può essere funzionale, tra le altre ipotesi, alla tutela delle condizioni economiche e di sicurezza del lavoro;
         j2) il ricorso a criteri in grado di valorizzare aspetti di carattere qualitativo è motivato dall’esigenza di assicurare una competizione non ristretta al solo prezzo, foriera del rischio di ribassi eccessivi e di una compressione dei costi per l’impresa aggiudicataria che possa andare a scapito delle condizioni di sicurezza sui luoghi di lavoro e dei costo per la manodopera, in contrasto con gli obiettivi di coesione sociale propri degli obiettivi di “crescita inclusiva” enunciati in sede europea;
         j3) nella medesima direzione convergono imperativi di matrice costituzionale, espressi dal principio secondo cui l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto “con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41, comma 2, Cost.), finalizzato a conciliare le esigenze della crescita economica, per la quale l’intervento pubblico mediante l’affidamento di contratti d’appalto costituisce un rilevante fattore, con quelle di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e delle loro condizioni contrattuali;
         j4) il comma 3 dell’art. 95 del d.lgs. n. 50 del 2016 si pone ad un punto di convergenza di valori espressi in sede costituzionale e facoltà riconosciute a livello europeo ai legislatori nazionali, per la realizzazione dei quali nel codice dei contratti pubblici il criterio di aggiudicazione del miglior rapporto qualità/prezzo è stato elevato a criterio unico ed inderogabile di aggiudicazione per appalti di servizi in cui la componente della manodopera abbia rilievo preponderante;
      k) sui criteri di aggiudicazione nel codice appalti del 2016, cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 26.04.2018, n. 4 (in Urbanistica e appalti, 2018, 6, 785, con nota di MEALE, nonché oggetto della News US in data 10.05.2018), che ha statuito, con un importante obiter dictum, quanto segue: “è noto che il d.lgs. n. 163/2006 (come anche la legislazione antecedente) si fondava sul principio dell’equiordinazione dei metodi di aggiudicazione, la cui scelta restava rimessa alla responsabile discrezionalità della stazione appaltante (art. 81, commi 1 e 2 del predetto d.lgs. 12.04.2006, n. 163) mentre il nuovo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50 [...] ha introdotto all’art. 95 una rilevante novità sistematica (sulla scorta del considerando 89 della direttiva 24/2014, laddove si afferma che l’offerta ‘economicamente’ più vantaggiosa è ‘sempre’ quella che assicura il miglior rapporto tra qualità e prezzo), esprimendo un indiscutibile favor per il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e prevedendo un ‘sistema di gerarchia’ tra i metodi di aggiudicazione”;
      l) sui criteri di aggiudicazione, in dottrina, per un’ampia ricostruzione, anche in chiave storica, delle ragioni che hanno indotto il legislatore del 2016 a considerare tassativo il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso (come eccezione, cioè, rispetto alla regola ordinaria della selezione dell’offerta che presenta il miglior rapporto qualità-prezzo), cfr.:
         l1) R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1330 ss., la quale individua tali ragioni, in particolare, nelle seguenti: “promozione delle qualità delle prestazioni, tutela dell’ambiente, esigenze sociali volte a evitare l’impiego di manodopera a basso costo o sotto costo”;
         l2) L. GILI, La nuova offerta economicamente più vantaggiosa e la discrezionalità amministrativa a più fasi, in Urbanistica e appalti, 2017, 24 ss., specificamente a commento dell’art. 95 del d.lgs. n. 50 del 2016, anche alla luce delle Linee guida n. 2 del 21.09.2016, dell’ANAC (concernenti proprio il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e la connessa discrezionalità rimessa alla stazione appaltante);
      m) le richiamate Linee guida, in particolare, hanno precisato che:
         m1) per prestazioni “a caratteristiche standardizzate” devono ritenersi quelle che non sono modificabili su richiesta della stazione appaltante oppure rispondono a determinate norme nazionali, europee o internazionali;
         m2) sono ad “elevata ripetitività” quelle prestazioni che soddisfano esigenze generiche e ricorrenti, connesse alla normale operatività delle stazioni appaltanti, richiedendo approvvigionamenti frequenti al fine di assicurare la continuità della prestazione;
         m3) le stesse Linee guida hanno anche precisato che la ratio delle due ipotesi di aggiudicazione al minor prezzo, di cui all’art. 95, comma 4, lettere b) e c), del codice del 2016, sarebbe quella di consentire alla stazione appaltante di evitare oneri, in termini di tempi e costi, di un confronto concorrenziale basato sul miglior rapporto qualità e prezzo, quando i benefici derivanti da tale confronto sono nulli o ridotti (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 05.12.2023 n. 10530 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio-assenso scatta anche se l’attività del privato non è conforme alla norma. Pure in assenza dei requisiti di validità della domanda fissati dalla legge e delle condizioni per ottenere legittimamente il provvedimento espresso.
Il silenzio-assenso nei confronti della Pubblica amministrazione (anche nella materia edilizia) si rafforza sempre di più e vale anche nei casi in cui l’attività del privato non sia conforme alle norme.

Con la sentenza 30.11.2023 n. 10383 della IV Sez., il Consiglio di Stato consolida la svolta operata nel 2022 (sentenza n. 5746) per cui anche in edilizia vale il silenzio-assenso previsto dall'articolo 20 della legge 241/1990 con il solo decorso del termine a disposizione della Pa per provvedere sull'istanza del privato. E questo, pur in assenza dei requisiti di validità della domanda fissati dalla legge e delle condizioni per ottenere legittimamente il provvedimento espresso.
In tale ultimo caso la Pa dovrà piuttosto adottare, in autotutela, un provvedimento di annullamento del silenzio illegittimamente formatosi osservando, tuttavia, i relativi presupposti previsti dall'articolo 21-nones della legge 241/1990 e cioè il termine massimo di dodici mesi per provvedere e soprattutto l'interesse pubblico alla rimozione di quello che è ormai un atto formatosi. Risulterebbe invece illegittimo l'atto con cui la Pa, tardivamente, ritenga l'istanza del privato priva dei requisiti di validità previsti dalla normativa di settore.
In altre parole, perché si formi il silenzio-assenso invocato, per il privato sarà sufficiente soltanto il decorso del termine assegnato all'ente dalla normativa di riferimento per determinarsi in relazione al tipo di istanza del privato, anche in presenza di una domanda non conforme a legge.
Sarà comunque necessario che l'istanza sia aderente al modello normativo astratto prefigurato dal modello normativo astratto prefigurato dal legislatore. Questo, in nome della semplificazione amministrativa e dello snellimento burocratico, ritenuti una delle cause di mancanza di certezza dei tempi per l'avvio di un'attività del privato, specie di quelle produttive. Ma anche nell'ottica del principio di leale collaborazione, legittimo affidamento e buona fede cui sono informate le relazioni tra cittadini, operatori economici e Pubblica amministrazione ai sensi dell'articolo 1, comma 2-bis, della legge 241/1990, come modificato dal decreto legge Semplificazioni 76/2020.
Insomma, il silenzio-assenso è un principio generale posto a tutela della celerità dell'azione amministrativa e della semplificazione dei rapporti con i cittadini, principio che risponde a quello di buon andamento previsto dall'articolo 97 della Costituzione, e la cui applicazione non può essere subordinata alla preventiva verifica, da parte della Pa, della ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo richiesto.
Non si tratta quindi di valutare se la domanda, in astratto, sia assentibile in quanto in possesso di tutti i requisiti ma piuttosto se la domanda possieda quel minimum di elementi essenziali per il suo esame e non rappresenti erroneamente i fatti. In tali condizioni è l'Amministrazione che deve concludere il procedimento nei tempi prefissati dalla legge.
Già in precedenza, i giudici di Palazzo Spada avevano motivato la nuova tesi sulla base di una serie di indici normativi e cioè: l'espressa previsione di cui all'articolo 21-nonies, comma 1 della legge 241/1990 dell'annullabilità d'ufficio anche nel caso in cui il «provvedimento si sia formato ai sensi dell'art. 20», che presuppone evidentemente che la violazione di legge non incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva (secondo i canoni generali) in termini di illegittimità dell'atto; l'articolo 2, comma 8-bis, della legge n. 241 del 1990 (introdotto dal decreto-legge n. 76 del 2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020), nella parte in cui afferma che «Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, [] sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall'articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni», conferma che, decorso il termine, all'Amministrazione residua soltanto il potere di autotutela; l'articolo 20, comma 2-bis, prevedendo che «Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale a provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso, l'amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica, un'attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell'intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo», stabilisce, al fine di ovviare alle perduranti incertezze circa il regime di formazione del silenzio-assenso, che il privato ha diritto ad un'attestazione che deve dare unicamente conto dell'inutile decorso dei termini del procedimento (in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie rimaste inevase e di provvedimenti di diniego tempestivamente intervenuti); l'abrogazione dell'articolo 21, comma 2, della legge n. 241 del 1990 che assoggettava a sanzione coloro che avessero dato corso all'attività secondo il modulo del silenzio-assenso, «in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in area tutelata, sì al silenzio-assenso se c’è l’ok paesaggistico.
Il Consiglio di Stato conferma la decisione del Tar Toscana censurando un comune che aveva preteso l’attivazione della conferenza di servizi.
Il proprietario di un edificio nel comune di Monte Argentario ha chiesto il rilascio del permesso di costruire per un intervento in variante a un precedente intervento già assentito. Insieme alla richiesta il proprietario ha presentato anche la relativa autorizzazione paesaggistica, ottenuta dal Comune stesso. Decorso il termine per il silenzio-assenso, il proprietario ha chiesto il rilascio della relativa attestazione (ex articolo 20 del Dpr 380).
A quel punto il Comune ha comunicato all'interessato il diniego del permesso di costruire, sostenendo che «in presenza di beni insistenti in area vincolata il silenzio-assenso non può formarsi, nemmeno nel caso in cui le autorizzazioni e i nulla osta necessari siano stati già acquisiti» e che invece si sarebbe dovuta attivare una conferenza di servizi. Da qui il ricorso al Tar da parte dell'interessato.
Il primo giudice ha accolto il ricorso e ha annullato gli atti del Comune con la pronuncia n. 79/2023. I giudici della III Sezione del Tar Toscana hanno osservato che effettivamente il comma 8 dell'articolo 20 del Dpr 380 «prevede la formazione del silenzio-assenso sulle domande di rilascio del permesso di costruire, fatti salvi i casi in cui, per la presenza di vincoli, la pratica edilizia debba essere corredata da autorizzazioni e nulla osta, per l'acquisizione dei quali si prevede l'attivazione di una conferenza di servizi ex art. 14 della l. n. 241/1990».
Tuttavia, i giudici rilevano anche che «nel caso in esame la domanda di permesso di costruire in variante presentata dal ricorrente è stata corredata da tutti i documenti prescritti dalla legge». Lo stesso richiedente, infatti, aveva ottenuto dal Comune l'autorizzazione paesaggistica «con la quale si attesta la compatibilità paesaggistica e ambientale dell'intervento con il vincolo operante sull'area».
«Non occorreva quindi acquisire alcun ulteriore atto di assenso, da parte di altre amministrazioni», conclude il Tar. Peraltro, aggiungono i giudici, «l'indizione di una conferenza di servizi, in tale contesto, non solo non avrebbe avuto alcuna utilità, ma avrebbe determinato un ingiustificato aggravamento del procedimento, in evidente contrasto con la finalità di semplificazione propria degli istituti e degli strumenti previsti dal legislatore di cui si è dato conto».
La sentenza del Tar Toscana è stata confermata anche il Consiglio di Stato -Sez. IV- che, con la sentenza 21.11.2023 n. 9969 ha respinto l'appello del Comune di Monte Argentario.
A fronte del previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, dicono i giudici di Palazzo Spada «il diniego comunale di attestazione sull'assunto della assoluta inconfigurabilità del silenzio-assenso per il solo fatto della pertinenza dell'intervento ad area soggetta a vincolo rappresenta una errata applicazione del comma 8 dell'articolo 20 del Dpr 380 e una illegittima limitazione dell'operatività dell'istituto del silenzio-assenso, che producono l'effetto abnorme di frustrare le finalità di semplificazione e di accelerazione dell'agire amministrativo alla base della stessa disposizione normativa citata, nonché le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche all'origine delle più recenti modifiche apportate ad essa ed alla legge n. 241 del 1990».
«Non può, peraltro, diversamente opinarsi -concludono i giudici- invocando sia la disciplina speciale scandita nella legge n. 47 del 1985 in materia di condono sia la dequotazione della funzione della conferenza di servizi richiamata dall'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, il cui modulo procedimentale trova la sua ragion d'essere nella concreta necessità di acquisire assensi e nulla osta di altri enti affidatari di interessi pubblici coinvolti nell'azione amministrativa».
Particolarmente severo il giudizio sull'operato del Comune. Quest'ultimo, rilevano i giudici, «ha basato il diniego di attestazione esclusivamente sull'inapplicabilità del silenzio-assenso in presenza di vincoli, senza fare alcun cenno ad altri possibili ostacoli alla realizzazione dell'intervento di cui all'istanza di permesso in variante, come la contrarietà al regolamento comunale, mentre le eventuali ragioni di contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia avrebbero dovuto essere da esso attentamente valutate entro il termine previsto dalla legge per la conclusione del procedimento, rappresentando ora, per come esposte, in mancanza di qualsiasi esercizio del potere di autotutela contro il provvedimento formatosi per silentium, un'inammissibile motivazione postuma» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.11.2023).

ATTI AMMINISTRATIVI: Concorsi, diritto d’accesso alle videoregistrazioni degli orali in meeting room. In quanto documento informatico detenuto da una Pa e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere.
La nozione di documento amministrativo ai sensi della storica disciplina sull’accesso agli atti ricomprende anche le riproduzioni audio o audiovideo della prova orale di un pubblico concorso nel caso in cui siano state effettuate.

A ciò conseguendo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 17.11.2023 n. 9896 che essendo la prova orale riconducibile al procedimento selettivo, la sua riproduzione deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una Pa e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere. E senza che possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di documenti non aventi a oggetto un tradizionale atto o incartamento formato dalla Pa.
Per il massimo giudice amministrativo la normativa è infatti assolutamente esplicita nel riferirsi a documentazione che sia anche solo detenuta e non necessariamente compilata dalla Pa.
Peraltro, a ben vedere, le prove concorsuali orali sono certamente atti del procedimento selettivo al pari delle prove scritte; pertanto, così come è consentito l'accesso a queste ultime, allo stesso modo non si vede perché non debbano esserlo anche a quelle orali, qualora siano state videoregistrate o comunque memorizzate.
Il ricorrente in qualità di lavoratore socialmente utile della cosiddetta platea storica aveva partecipato alle prove selettive da bando. Nella vicenda il disciplinare della procedura concorsuale riservata ai Lsu aveva attribuito a un istituto in controllo pubblico il compito di assistere le amministrazioni interessate nello svolgimento delle procedure concorsuali; mettendo a disposizione delle Commissioni esaminatrici il portale delle candidature e apposite meeting room (stanze virtuali) per lo svolgimento della prova orale.
Fornendo, oltre all'assistenza per la prova, anche un manuale d'uso della procedura telematica secondo quanto previsto dal formulario tecnico della procedura selettiva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
Secondo il Consiglio di Stato anche con riferimento alle riproduzioni audio e video delle prove orali, sussiste l'interesse concreto del candidato di accedervi per specifiche esigenze difensive; dovendo peraltro riconoscersi nella maggioranza dei casi l'inesistenza di motivi ostativi all'ostensione.
Su queste basi il giudice amministrativo ha pertanto consentito al ricorrente di accedere -a sue spese- a un campione significativo delle riproduzioni audio e audiovideo delle prove orali dei candidati collocati utilmente in graduatoria; che tuttavia egli stesso dovrà indicare, fino a un numero massimo di dieci prove d'esame, alle Amministrazioni intimate e detenenti la documentazione.
A giudizio del Collegio di palazzo Spada la speciale documentazione in argomento non ottenuta dall'interessato con le istanze presentate alla Pa non può essere sottratta all'accesso richiesto, sussistendo l'evidente collegamento tra l'interesse alla conoscenza del candidato che richiede la visione e la documentazione oggetto della relativa istanza (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 09.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: M. Esposito, Diritto di panorama, godere di una bella vista da casa è un diritto inviolabile: ecco come puoi difenderlo e in quali casi.
Il diritto di panorama consente al proprietario dell’immobile di godere della vista panoramica dalla propria abitazione. Vediamo come funziona e quali differenze esistono rispetto al diritto di veduta.
È noto che le abitazioni che hanno una veduta panoramica sono generalmente più apprezzate, tanto da avere un valore maggiore anche sul mercato immobiliare.
In quest’ottica, il c.d. “diritto di panorama” non solo esiste, ma può essere tutelato dal proprietario dell’abitazione ogniqualvolta –soprattutto in contesti urbani– subisca delle limitazioni derivanti, ad esempio, dalla costruzione di edifici vicini o dalla presenza di alberature.
Ma andiamo con ordine.
Il nostro Codice Civile, in realtà, non riconosce espressamente il diritto di panorama: si tratta, infatti, di una figura di elaborazione giurisprudenziale.
L’origine del diritto di panorama può essere ricondotta, infatti, ad una interpretazione “estensiva” dell’art. 907 c.c. che regola il diritto di veduta, ossia il diritto del proprietario di un fondo (termine, questo, che ricomprende anche le abitazioni) di affacciarsi su quello del vicino senza incontrare ostacoli prima di una determinata distanza (c.d. distanza legale).
Viceversa, il diritto di panorama è decisamente più ampio: è il diritto di guardare verso l’orizzonte senza incontrare ostacolo alcuno in modo da avere –appunto– pieno godimento del panorama.
Il diritto di panorama, al pari del diritto di veduta, si configura come una servitù negativa.
In generale, l’art. 1027 c.c. definisce la servitù come il peso o la limitazione imposta ad un fondo, detto servente, per l’utilità di un altro fondo, detto dominante, che appartiene ad un’altra persona.
In particolare, poi, la “servitù negativa” derivante dal diritto di panorama (e di veduta) implica che il proprietario del fondo dominante ha il potere di vietare al proprietario del fondo servente la realizzazione di opere permanenti che possano pregiudicare la particolare visuale e attrattiva dell’immobile.
Come sopra accennato, il diritto di panorama è di creazione giurisprudenziale. È necessario, quindi, prendere le mosse dalle sentenze che lo hanno riconosciuto al fine di individuare i requisiti necessari per la sua esistenza.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile con la recente ordinanza 22.06.2023 n. 17922, ha ribadito che il diritto di panorama, inteso come servitù negativa, può essere acquistato
   (i) per contratto,
   (ii) per destinazione del padre di famiglia e
   (iii) per usucapione,
necessitando ai fini dell’accertamento della sua costituzione “non solo della destinazione conferita dall’originario unico proprietario o dell’esercizio ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, ma anche della dimostrazione di opere visibili e permanenti ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta”.
Quindi, come ci si può tutelare in presenza di costruzioni e/o alberature che ledano il diritto di panorama?
Innanzitutto il titolare del diritto di panorama (proprietario del fondo dominante) potrà richiedere al proprietario del fondo servente di rispettare il proprio diritto, invitandolo a far cessare la turbativa (ad esempio, potando o spostando gli alberi che ostacolano il panorama).
In assenza di uno spontaneo riscontro, tuttavia, l’unica strada da intraprendere rimane quella giudiziale.
In tal senso, l’art. 1079 c.c. prevede che “il titolare della servitù può farne riconoscere in giudizio l'esistenza contro chi ne contesta l'esercizio e può far cessare gli eventuali impedimenti e turbative. Può anche chiedere la rimessione delle cose in pristino, oltre al risarcimento dei danni”.
L’onere probatorio, quindi, è posto a carico del proprietario del fondo dominante che dovrà dimostrare sia l’esistenza del diritto di panorama, sia l’esistenza sul fondo servente di opere permanenti e visibili ulteriori che pregiudicano il godimento della vista panoramica.
...
Articoli correlati
Art. 907 Codice Civile - Distanza delle costruzioni dalle vedute
Art. 1027 Codice Civile - Contenuto del diritto
Art. 1079 Codice Civile - Accertamento della servitù e altri provvedimenti di tutela
(03.02.2024 - tratto da e link a www.brocardi.it).
---------------
ORDINANZA
3.– Con il secondo motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della violazione o falsa applicazione degli artt. 1058 e 1061 c.c. nonché dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto integrata la lesione di un non meglio specificato diritto alla vista del panorama –diritto di servitù ben distinto da quello di veduta–, pur essendo mancato, in entrambi i gradi di giudizio, qualsiasi accertamento in ordine ai fatti costitutivi di tale presunta servitù, sia quanto alla sua costituzione per contratto, sia quanto alla sua costituzione per usucapione o per destinazione del padre di famiglia.
Obietta, ancora, l’istante che, a monte, non sarebbero stati mai nemmeno allegati i fatti costitutivi di tale servitù di panorama a cura della Cu., non esistendo alcun titolo, né negoziale né di altro tipo, da cui si potesse ricavare l’esistenza di una simile servitù.
D’altronde, secondo la ricorrente, l’esistenza della servitù di panorama non si sarebbe potuta desumere dalla particolare amenità del luogo in cui si trovava la proprietà Cu., ovvero Positano, una delle più belle e caratteristiche località della costiera amalfitana.
Osserva, in ultimo, l’istante che, in ordine al ben distinto diritto di veduta, sarebbe già passata in giudicato l’affermazione circa l’inesistenza della violazione di cui all’art. 907 c.c.
3.1.– La doglianza è fondata.
Ora, la panoramicità del luogo consiste in una situazione di fatto derivante dalla bellezza dell’ambiente e dalla visuale che si gode da un certo posto, che può trovare tutela nella servitù altius non tollendi, non anche nella servitù di veduta, che garantisce il diritto affatto diverso di guardare e di affacciarsi sul fondo vicino (Cass. Sez. 2, Ordinanza 14.05.2019 n. 12793; Sez. 1, Sentenza 26.05.2017 n. 13368; Sez. 2, Sentenza n. 8518 del 31/03/2017; Sez. 2, Sentenza n. 2973 del 27/02/2012; Sez. 2, Sentenza n. 8572 del 12/04/2006).
La servitù di veduta panoramica è configurata, pertanto, quale servitù volta ad assicurare la particolare amenità del fondo dominante per la visuale di cui esso gode, con impedimento della costruzione di opere in assoluto, o oltre determinate soglie, attraverso parte o tutto il fondo servente, in ciò differenziandosi dalla servitù di veduta, che invece è compatibile con la costruzione di opere a distanza legale.
Il diritto di veduta panoramica si risolve, dunque, –secondo la giurisprudenza– in una servitù, in ragione dei casi, non aedificandi o altius non tollendi (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1206 del 13/02/1999; Sez. 2, Sentenza n. 10250 del 20/10/1997; Sez. 2, Sentenza n. 6683 del 13/06/1995).
Nondimeno, il diritto di veduta consistente nella fruizione di un piacevole panorama –che si pretende, nella fattispecie, leso dalla collocazione di una pensilina in plastica, posta sul terzo livello del fabbricato, a copertura di un sottostante balcone, con relativa turbativa del diritto di fruire della vista del panorama di Positano– esige che di esso sia previamente accertata l’esistenza.
Ebbene, la veduta panoramica può essere acquistata, oltre che in via negoziale (a titolo derivativo), anche per destinazione del padre di famiglia o per usucapione (a titolo originario), necessitando, tuttavia, tali modi di costituzione non solo, a seconda dei casi, della destinazione conferita dall’originario unico proprietario o dell’esercizio ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, ma anche di opere visibili e permanenti, ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta.
Nella fattispecie, di tali modi di acquisto la sentenza d’appello non dà atto, sicché essa deve essere cassata.
E ciò perché l’esistenza del diritto di veduta del panorama non può essere riconosciuta, indicandone la fonte nella mera preesistenza della visuale rispetto all’opera contestata.
Ove bastasse, ai fini di ritenere validamente costituita la servitù di veduta panoramica, la mera esistenza in fatto di detta veduta, prima che l’opera contestata ne compromettesse l’esercizio, sarebbe leso il principio della tipicità dei modi di acquisto dei diritti reali.
Dovrà essere il Giudice del rinvio a verificare se sia stato o meno dimostrata in atti la legittima costituzione di tale diritto di veduta panoramica.

VARIIl figlio non va mantenuto oltre i 34 anni anche se disoccupato.
La corte fissa la «dead line» oltre la quale per nessun motivo il giovane ha diritto all'assegno da parte del genitore: non dovrà mantenerlo, infatti, oltre i 34 anni, e ciò anche se è disoccupato.

Con l'ordinanza 10.01.2023 n. 358, i giudici della Corte di Cassazione, Sez. I civile, hanno accolto il ricorso di un padre che si opponeva all'obbligo di mantenere la figlia ultraquarantenne.
Ai fini del riconoscimento dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, il giudice di merito è tenuto a valutare, con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all'età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o l'assegnazione dell'immobile, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e aspirazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 02.01.2024).
---------------
MASSIMA
È principio di diritto quello secondo cui, in tema di filiazione, la maggiore età, tanto più quando è matura, implichi l'insussistenza del diritto al mantenimento.
La capacità di mantenersi e l'attitudine al lavoro sussistono sempre, in sostanza, dopo una certa età (34 anni), che è quella tipica della conclusione media di un percorso di studio anche lungo, purché proficuamente seguito, e con la tolleranza di un ragionevole tasso di tempo ancora per la ricerca di un lavoro.
Sicché, è onere del figlio maggiorenne ormai divenuto adulto provare non solo la mancanza di indipendenza economica che è la pre-condizione del diritto preteso, ma anche di avere curato, con ogni possibile impegno, la ricerca di un lavoro
(tratta da www.ordineavvocatinapoli.it)

URBANISTICA: Osserva la Corte costituzionale come la pianificazione sia diretta, “al di là di letture minimalistiche”, “non solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli, ma anche allo sviluppo complessivo e armonico del territorio, nonché a realizzare finalità economico-sociali della comunità locale, in attuazione di valori costituzionalmente tutelati”.
La Corte Costituzionale ricorda, quindi, come la pianificazione serva a realizzare lo sviluppo complessivo ed armonico nel rispetto dei valori costituzionali tra i quali vi sono certamente, in linea generale, le esigenze di tutela di valori ambientali e anche di contrasto ai cambiamenti climatici.
Difatti, secondo la più recente evoluzione giurisprudenziale, all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
---------------

2.2. Col secondo motivo, rubricato (“eccesso di potere per violazione, falsa, mancata e/o sviata applicazione dei principi sulla riduzione del consumo di suolo libero di cui agli artt. 1 e 2 della l.r. 28.11.2014, n. 31 – contraddittorietà tra atti amministrativi - travisamento dei fatti – difetto assoluto di istruttoria – illogicità - difetto ed erroneità della motivazione”), si deduce il travisamento dei fatti e difetto di istruttoria perché il Comune non avrebbe considerato la reale situazione effettiva delle aree, caratterizzate dalla presenza di inerti e dalla necessità di effettuare opere di bonifica.
Inoltre, il Comune avrebbe fatto erronea applicazione della L.R. n. 31/2004 e non avrebbe considerato che il consumo di suolo si determinerebbe solo nel caso di trasformazione per la prima volta di una superficie agricola, mentre l’area dei ricorrenti –in quanto compromessa– avrebbe dovuto essere considerata come “suolo già consumato”.
...
4. Parimenti infondato è il secondo motivo, con cui si deduce il travisamento dei fatti poiché, essendo l’area occupata da inerti e necessitante una bonifica, il Comune non avrebbe potuto attribuire una destinazione a verde all’area e avrebbe anzi dovuto considerarla come “suolo già consumato” ai sensi della L.R. n. 31/2004.
4.1. Come il TAR ha già avuto modo di osservare in relazione al medesimo Pgt del Comune di Milano (cfr. sentenza Sez. II, 10.01.2022, n. 45), “la Relazione al D.d.P. del P.G.T. offre esaustive spiegazioni della scelta di politica urbanistica intrapresa sul tema del contenimento del consumo del suolo e sull’incremento delle aree verdi.
In particolare, il Piano ‘non genera nuove volumetrie rispetto al PGT 2012, ma tutela 1,7 milioni di m² dalla possibile urbanizzazione attraverso il ridimensionamento delle previsioni insediative e il vincolo a destinazione agricola di 3 milioni di m² (metà delle quali sottratte a nuova edificazione), riducendo così del 4% il consumo di suolo’. L’obiettivo dell’Amministrazione è quello di ‘costruire e rafforzare reti e relazioni ambientali che, mediante politiche di risparmio di suolo e di paziente riconquista di quello già sfruttato, si insinuano tra il costruito attraverso interventi puntuali di riconnessione di spazi pubblici e privati, di riforestazione, di ‘rigenerazione ambientale’ di luoghi degradati e frammentati’ […].
Le esigenze di tutela ambientale non involgono solo il tema del consumo del suolo ma assumono anche una prospettiva più ampia mirando ‘alla riduzione e minimizzazione delle emissioni di carbonio, [al] miglioramento del drenaggio e microclima urbano, [alla] realizzazione di infrastrutture verdi con l’obiettivo di ridurre l’immissione di acque meteoriche nel sistema fognario, la mitigazione delle isole di calore e l’innalzamento degli standard abitativi agendo sull’aumento del verde urbano’ […]. L’utilizzo della pianificazione urbanistica per il raggiungimento di tali obiettivi non è, certo, un fuori d’opera
”.
4.2. Al contrario, osserva la Corte costituzionale come la pianificazione sia diretta, “al di là di letture minimalistiche”, “non solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli, ma anche allo sviluppo complessivo e armonico del territorio, nonché a realizzare finalità economico-sociali della comunità locale, in attuazione di valori costituzionalmente tutelati (da ultimo, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 09.05.2018, n. 2780, 22.02.2017, n. 821 e 10.05.2012, n. 2710)” (Corte Costituzionale, sentenza 16.07.2019, n. 179).
La Corte Costituzionale ricorda, quindi, come la pianificazione serva a realizzare lo sviluppo complessivo ed armonico nel rispetto dei valori costituzionali tra i quali vi sono certamente, in linea generale, le esigenze di tutela di valori ambientali e anche di contrasto ai cambiamenti climatici, come esposto, del resto, dalla giurisprudenza della Sezione (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 29.5.2020, n. 960; id., 14.11.2020, n. 2491).
Difatti, secondo la più recente evoluzione giurisprudenziale, all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656; TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 14.02.2020, n. 309).
4.3. In quest’ottica, la censura non deve essere accolta, in quanto la pianificazione si pone in linea con strategie più ampie di tutela dei valori richiamati. Infatti, lo strumento approvato prevede “la riduzione della superficie urbanizzabile da circa 3,5 mln di m² a circa 1,8 mln di m², con un risparmio di suolo pari a circa 1,7 mln di m²”.
Ciò comporta “una consistente riduzione dell’indice di consumo di suolo, che scende al 70%, quattro punti percentuali in meno rispetto alle previsioni del PGT 2012”. Tale riduzione scaturisce anche “dall’eliminazione degli ATU e dal sensibile ridimensionamento delle previsioni legate ai PA Obbligatori”.
Le linee generali del piano trovano, quindi, specifica declinazione ed attuazione con riferimento al comparto in esame, ove la presenza della “pertinenza indiretta” è funzionale alla realizzazione dell’area ecologica proprio perché volta all’acquisizione di un’area inquinata e alla sua trasformazione in area a verde fruibile, congiungendo in continuità l’area verde di collegamento tra il Parco Nord e i Giardini di Via Pedroni e il Parco di Villa Litta (in cui l’area di proprietà dei ricorrenti è rappresenta quale verde di nuova previsione nella parte inferiore del NIL Affori).
A fronte di ciò, la riconversione di aree già urbanizzate in suolo libero non può, quindi, considerarsi estranea alle ragioni su cui riposano le previsioni contenute nella L.r. n. 31/2014 in quanto le esigenze ambientali non sono preservate solo mediante il riuso del patrimonio esistente ma anche (se non a fortiori) mediante la restituzione a superficie libera di una superficie già consumata (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.09.2022 n. 2053 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAbusi, la prescrizione del reato «abbatte» l'ordine di demolizione.
L'estinzione del reato comporta come conseguenza la dichiarazione di revoca dell'ordine di demolizione. Sono definibili abusi edilizi gli «interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali».
Definizione
Più precisamente, l'articolo 31 del Dpr 380 del 2001 definisce gli abusi edilizi quali gli: «interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile».
Sospensione
L'azione penale relativa alle violazioni edilizie, va detto, che rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria, eventualmente, intrapresi. Il rilascio in sanatoria del permesso di costruire, infatti, estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.
Azione penale
Per le opere abusive di cui trattasi, ad ogni buon conto, è previsto che il giudice penale, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 44 del Dpr 380/2001, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita.
La sentenza
Ora, la Corte di Cassazione - Sez. III penale, con la sentenza 12.03.2021 n. 9915, ha ribadito il principio per cui l'estinzione per prescrizione del reato di costruzione abusiva dichiarata dal giudice dell'appello comporta come conseguenza la dichiarazione di revoca dell'ordine di demolizione impartito con la sentenza di primo grado.
Il meccanismo
Tale meccanismo si applica alle sole sentenze di condanna per il reato di cui all'articolo 44 del Testo unico edilizia, come disposto dall'articolo 31, comma 9, del citato testo normativo (in punto si veda, Corte di Cassazione 8409/2007 del 30.11.2006).
Conclusione
Nel caso trattato -in effetti, per come è dato leggere- la sentenza impugnata aveva omesso di disporre, a fronte della intervenuta estinzione del reato di cui all'articolo 44 citato, la revoca dell'ordine di demolizione e la restituzione in pristino dello stato dei luoghi.
Pe cui, a fronte di quanto sopra, il giudice di legittimità ha, in punto, annullato senza rinvio limitatamente alla mancata revoca la già menzionata misura demolitoria e disposto di conseguenza (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 15.03.2021).

AGGIORNAMENTO AL 30.01.2024

"Un uomo non muore mai se c’è qualcuno che lo ricorda."

(Ugo Foscolo)

 30.01.2021 - 30.01.2024

Avv. Mario VIVIANI

 

Repressione abusi edilizi:
i Responsabili dell'Ufficio Tecnico e della Polizia Locale, nonché i Segretari Comunali, si premurino di leggere attentamente e memorizzare per bene la recentissima "direttiva" della Procura della Repubblica di Bergamo (qui sotto riportata) tenuto conto che "La mancata, scorretta o parziale ottemperanza alla direttiva de qua costituisce intralcio all’attività dell’Autorità Giudiziaria e, come tale, verrà valutata dal Magistrato titolare del procedimento in ordine ad eventuali responsabilità penali e/o disciplinari".

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: direttive di intervento in materia edilizio-urbanistica (D.P.R. 380/2001), vincoli paesaggistici e storico-architettonici (D.Lgs 42/2004 e L. 22/2022) e aree protette (L. 394/1991) (PROCURA della Repubblica di Bergamo, nota 24.01.2024 n. 218 di prot.).
---------------
Sommario
   1. Premessa - 2. Contenuti, tempistica e modalità di deposito della comunicazione di notizia di reato - 3. Attività d’indagine d’iniziativa - 4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero - 5. Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine - 6. Reati di “falso” in ambito edilizio, ambientale e paesaggistico - 7. Gli “elenchi mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 - 8. La comunicazione di avvio del procedimento - 9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 e l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater, D.Lgs. 42/2004 - 10. Gli interventi di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi - 11. La segretezza delle indagini di polizia giudiziaria, nonché delle informazioni e della documentazione contenute nelle CNR - 12. Conclusioni

1. Premessa
   La gestione delle comunicazioni di notizia di reato attinenti agli ambiti richiamati all’oggetto crea, a volte, disguidi.
   Vengono, infatti, periodicamente riscontrate problematiche inerenti allo svolgimento delle indagini di polizia giudiziaria e agli accertamenti tecnici, nonché relative alle modalità di inoltro delle comunicazioni di notizia di reato.
   In particolare, continuano a pervenire, a volte da parte della Polizia Locale a volte da parte dell’Ufficio Tecnico, isolate ordinanze di sospensione lavori o di demolizione o isolati permessi a costruire in sanatoria, comunicazioni prive addirittura delle complete generalità dei soggetti denunciati, senza l’indicazione del numero di procedimento a cui fanno riferimento, in assenza di qualsivoglia atto di indagine o, comunque, in mancanza di una comunicazione di notizia di reato completa, ossia redatta con i contenuti espressamente indicati all’art. 347 c.p.p..
   Ciò comporta la moltiplicazione dei fascicoli inerenti al medesimo fatto-reato e, soprattutto, una dispersione di energie e risorse perché, in mancanza delle necessarie indagini, che il Magistrato sarà costretto a disporre, non sarà possibile definire celermente il procedimento, con fondato rischio di prescrizione del reato e, quindi, di vanificazione del lavoro di tutti.
   Lo scopo di questa direttiva è, quindi, quello di regolamentare il flusso delle c.n.r. ed evitare che pervengano alla Procura della Repubblica segnalazioni incomplete o improprie, ovvero la duplicazione delle stesse.
   Pertanto, la presente direttiva viene trasmessa a tutti gli Enti e Organi competenti negli ambiti di cui all’oggetto.
   La presente direttiva fa, ovviamente, principale riferimento al Comune e ai suoi Organi e Uffici. Ognuno degli altri Enti in indirizzo individuerà i propri paralleli Organi e Uffici competenti.
   La necessità di ultimare le indagini entro tempi prestabiliti, di approfondirle attraverso eventuali consulenze tecniche, i brevissimi tempi di prescrizione del reato e l’aggravio di lavoro per la Segreteria del Magistrato che la circolazione della corrispondenza comporta, impongono l’adozione di precise regole di carattere generale.
   Pertanto, ritengo utile inoltrare la presente direttiva anche alle Autorità territorialmente competenti in ordine ai Comuni attribuiti alla giurisdizione della Procura della Repubblica di Bergamo.
   La presente direttiva viene emessa ai sensi del D.Lgs. 20.02.2006 n. 106.

2. Contenuti, tempistica e modalità di deposito della comunicazione di notizia di reato
   La comunicazione della notizia di reato (di seguito denominata CNR) deve pervenire alla Procura della Repubblica esclusivamente da parte di un organo di polizia giudiziaria, completa anche di ogni atto investigativo utile: pertanto, in ambito comunale, procederà unicamente la Polizia Locale e a essa si rivolgerà, quindi, il personale degli Uffici Tecnici ai sensi dell’art. 331, commi 1 e 2, c.p.p..
   Le CNR e i seguiti devono essere caricati sul Portale NdR.
   Il personale degli Uffici Tecnici comunali è tenuto a collaborare e a fornire alla Polizia Locale tutti i dati tecnici, le informazioni e la documentazione di cui dispone: in particolare, stilerà un’apposita relazione contenente la descrizione tecnica e la qualificazione urbanistico-edilizia delle opere abusive, la loro conformità agli strumenti urbanistici e la loro eventuale sanabilità, l’indicazione circa l’eventuale titolo abilitativo che avrebbero richiesto per essere regolarmente eseguite, la zonizzazione dell’area nella quale sono state realizzate e la presenza di eventuali vincoli ambientali, paesaggistici, storico-architettonici, l’identificazione catastale delle predette aree e della relativa proprietà, la presenza in Comune di eventuali precedenti pratiche ecc. Fornirà, altresì, il certificato di destinazione urbanistica dei mappali sui quali insistono gli abusi. In caso di rifiuto o ritardo nella collaborazione da parte del personale degli Uffici Tecnici comunali la Polizia Locale procederà alla nomina dello stesso quale ausiliario di p.g. ex art. 348, comma 4, c.p.p. e comunicherà tempestivamente dette omissioni al Pubblico Ministero per le valutazioni di sua competenza in ordine alla eventuale responsabilità penale.
   La CNR deve pervenire completa, in ogni sua parte, dei dati essenziali successivamente indicati. Qualora non sia possibile inoltrarla da subito completa di tutti i dati essenziali verrà inviata una prima comunicazione alla quale dovrà seguire, nel più breve tempo possibile, la documentazione completa. Nel seguito dovrà, in tal caso, essere sempre chiaramente indicato, in grassetto e nella parte alta della prima pagina, che si tratta di “SEGUITO” e il numero del procedimento penale (ricavabile anche tramite il numero di NDR).
   La CNR deve pervenire all’Autorità Giudiziaria senza ritardo, ai sensi dell’art. 347 c.p.p.. La locuzione utilizzata dal legislatore consente, in termini generali, di posticipare il deposito di qualche giorno, a volte di qualche settimana, rispetto alla data di acquisizione della notitia criminis, a seconda della complessità degli accertamenti da compiere. Mai, però, giustifica il deposito con mesi o, addirittura, anni di ritardo. Richiamo l’attenzione sulla possibile rilevanza penale e disciplinare in caso di omessa o ritardata denuncia ex artt. 361 c.p. e 16 e ss. disp. att. c.p.p..
   In caso di atti urgenti che richiedono convalida da parte del Pubblico Ministero i relativi verbali, corredati della relativa CNR, devono essere trasmessi alla Procura della Repubblica entro 48 ore dal compimento dell’atto medesimo a mezzo APU.
   Il documento che contiene la CNR non potrà ordinariamente essere utilizzato dal Giudice nel dibattimento, cosicché le notizie rilevanti dovranno essere trasfuse anche nel verbale di sopralluogo che, quale atto irripetibile ex artt. 354 c.p.p. e 113 disp. att. c.p.p., ha invece ingresso nel fascicolo del dibattimento e può essere preso in considerazione dal Giudice.
   È necessario numerare le pagine che compongono il fascicolo ed evitare di allegare fotografie in bianco e nero che, spesso, non sono in grado di assolvere al loro compito (ossia di consentire, al Pubblico Ministero prima e al Giudice poi, di apprezzare la reale consistenza degli abusi accertati).
   Non devono pervenire alla Procura della Repubblica CNR relative ad abusi edilizi non penalmente rilevanti poiché, per esempio, puniti con mera sanzione amministrativa.
   Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a più abusi commessi da soggetti diversi, a meno che si tratti di un unico cantiere.
   Elementi essenziali della CNR sono i seguenti:

a) Indicazione delle generalità dei responsabili
   Costoro sono, di regola, individuabili, ai sensi dell’art. 29 D.P.R. 380/2001, nel committente, nel titolare del titolo abilitativo (qualora rilasciato), nel progettista, nel costruttore e nel direttore dei lavori (se esistenti). Altri soggetti possono, ovviamente, concorrere nel reato secondo i principi generali del diritto penale (ad esempio, il proprietario del terreno, se non dimostra la propria estraneità ai fatti).
   Tali soggetti vanno tutti identificati compiutamente e, se trattasi di persone giuridiche, va individuato e generalizzato il legale rappresentante pro-tempore (riferito all’epoca del commissi delicti), acquisendo la documentazione relativa alla posizione assunta all’interno dell’ente (visura CCIAA), nonché eventuali deleghe di responsabilità ad altri soggetti (procure notarili, scritture private ecc.). A carico di tutti i soggetti indicati si procederà con redazione del verbale di identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore di fiducia o designazione del difensore d’ufficio, informazioni sul diritto alla difesa.

b) Breve descrizione dell’abuso accertato
   Va tenuto presente che il Pubblico Ministero deve fornire una esauriente descrizione dei lavori abusivi nel capo di imputazione.
   Ciò non è possibile qualora gli stessi vengano indicati in CNR con frasi generiche tipo “ampliamento ala ovest di manufatto preesistente come riportato in colore rosso nell’allegata planimetria”, ovvero “realizzazione di più manufatti in tempi diversi su area di proprietà”.
   È, pertanto, necessario che la descrizione riportata nella CNR sia sintetica ma esauriente, ad esempio “realizzazione di un manufatto in muratura con copertura in legno di m. 2,00x 3,00 x 2,50 h massima”, oppure “demolizione e ricostruzione di preesistente edificio ad uso abitazione di mc complessivi 650”, oppure “modifica della destinazione d’uso di manufatto da stalla ad abitazione mediante esecuzione di opere consistenti in variazione del distributivo interno e suddivisione in due piani in contrasto con lo strumento urbanistico e mediante corresponsione di oneri di urbanizzazione in misura inferiore al dovuto (€ 3.000 in luogo di € 15.000)”, o altre simili.
   Se si tratta di più violazioni esse andranno indicate con numerazione progressiva, in modo tale da essere facilmente individuate.

c) Altre informazioni sull’abuso
   Va specificato, previo accertamento da effettuarsi dal personale dei competenti Uffici Tecnici comunali, se le opere denunciate come abusive siano state eseguite in assenza di permesso di costruire (o di altro titolo abilitativo), ovvero in variazione essenziale o difformità totale dallo stesso (indicandone gli estremi) nonché, nel caso, quale eventuale titolo abilitativo avrebbero richiesto per essere regolarmente realizzate.
   È importante, inoltre, specificare se le opere realizzate rientrino tra quelle sottoposte alla normativa in materia di strutture in conglomerato cementizio armato, indicando in modo specifico eventuali violazioni.

d) Indicazione della presenza di vincoli
   Tale informazione è di particolare importanza in quanto rende possibile l’esatta qualificazione giuridica del fatto denunciato. I vincoli che assumono rilevanza sono quelli paesaggistici e storico-architettonici la cui inosservanza costituisce violazione anche del D.Lgs. 42/2004.
   È essenziale indicare anche gli estremi del vincolo, tenendo presente che il semplice riferimento alla legge, senza ulteriore precisazione, non ha alcuna utilità. Vanno, quindi, indicati gli estremi esatti dell’atto d’imposizione del vincolo (Decreto Ministeriale, disposizione di legge con articolo e comma ecc.).
   Evidenzio che taluni abusi realizzati in area vincolata configurano delitto e non contravvenzione secondo quanto disposto dall’articolo 181, comma 1-bis, D.Lgs. 42/2004, con evidenti conseguenze ed è, quindi, indispensabile che le relazioni degli Uffici Tecnici comunali, allegate alla CNR, contengano esplicite indicazioni circa la sussistenza di tali fattispecie (per esempio quantificazione della cubatura illecita ecc.). Inoltre, segnalo che sono stati recentemente introdotti nel codice penale, con L. 09.03.2022 n. 22, gli artt. 518-duodecies e 518-terdecies, aventi rispettivamente ad oggetto “Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici” e “Devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici”.
   Va, altresì, segnalata la presenza di eventuali ulteriori e diversi vincoli, quale quello ambientale ai sensi della legge sulle aree naturali protette (Legge 394/1991). Il vincolo ambientale e quello paesaggistico sono tra loro diversi e i rispettivi reati previsti in caso di violazione concorrono tra loro e con quelli edilizi.

e) Classificazione urbanistica dell’area e compatibilità dell’intervento con la stessa
   Anche tale informazione è essenziale per la qualificazione giuridica del fatto. Occorre indicare la destinazione urbanistica dell’area ove insiste l’abuso e la conformità di quanto realizzato con la normativa urbanistica e con gli strumenti urbanistici locali.
   Tale particolare, giova ricordarlo, serve anche per verificare le eventuali illegittimità e illiceità di titoli abilitativi (anche in sanatoria) eventualmente rilasciati dalla struttura comunale.

f) Data e luogo del fatto
   Il luogo ove insiste l’abuso va indicato con gli estremi del foglio e del mappale catastale o, in mancanza, con via e numero civico, ovvero con ogni altra indicazione utile all’individuazione del luogo del commesso reato.
   La data di consumazione del reato coincide con quella di sospensione effettiva dei lavori, ovvero di ultimazione degli stessi.
   A tale proposito giova ricordare che, per costante giurisprudenza, l’ultimazione dei lavori coincide con il completamento dell’intero manufatto in ogni sua parte, ivi comprese le finiture, gli infissi, la tinteggiatura ecc. Non è, pertanto, sufficiente la copertura del fabbricato al grezzo.
   Ricordo, inoltre, che la data di ultimazione dei lavori è cosa diversa dalla data di accertamento del fatto.
   L’accertamento della data di ultimazione dei lavori, indispensabile anche ai fini del calcolo dell’eventuale prescrizione del reato, andrà eseguito attraverso l’acquisizione di dichiarazioni di eventuali persone informate sui fatti (vicini, esponenti ecc.) ex art. 351 c.p.p. (che, in quanto tali, hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità), l’acquisizione di pregressi rilievi fotografici o aerofotogrammetrici, l’acquisizione di contratti di forniture, la pregressa conoscenza diretta dei luoghi da parte degli operanti o del personale tecnico comunale ecc.
   In nessun caso può considerarsi sufficiente la mera dichiarazione degli indagati (che, in quanto tali, non hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità).

g) Persone in grado di riferire
   Vanno indicati tutti i possibili soggetti informati sui fatti. Quando si tratta del personale di polizia giudiziaria che ha proceduto all’accertamento lo stesso non va indicato genericamente con espressioni tipo “i verbalizzanti”, ma occorre inserire nome, cognome e qualifica.
   Per gli altri soggetti indicare, oltre al nome cognome e indirizzo, anche l’eventuale qualifica come, ad esempio, “ausiliario di p.g.”, “tecnico comunale”, “denunciante” ecc.

3. Attività d’indagine d’iniziativa
   L’attività d’indagine d’iniziativa non può essere limitata ai soli interventi espletati a seguito di denuncia di privati ma deve essere il risultato di un effettivo, costante e capillare controllo del territorio di competenza.
   Infatti, il combinato disposto degli artt. 27, 31 e 33 D.P.R. 380/2001 attribuisce al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale e alla polizia giudiziaria (quindi anche alla Polizia Locale), nonché al personale dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, precisi e penetranti poteri (e doveri) di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, cautelari e di repressione degli abusi.
   Analoghi poteri-doveri sono attribuiti a detto personale comunale in materia di conglomerati cementizi armati dagli artt. 68, 69 e 70 D.P.R. 380/2001, mentre gli artt. 27, 29 e 30 L. 394/1991 attribuiscono analoghi poteri-doveri al personale dell’Ente Gestore dell’area protetta in caso di violazioni commesse all’interno di parchi regionali.
   L’esecuzione, sin da subito, di un’accurata attività di accertamento e indagine renderà superfluo l’invio di delega da parte del Pubblico Ministero, accelerando notevolmente i tempi del procedimento.
   Per il compimento di singoli atti si rinvia, pertanto, al successivo capitolo 5.

4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero
   Come sopra già indicato, la CNR dovrà possibilmente pervenire, sin da subito, completa in ogni sua parte (compresi gli allegati) e, qualora ciò non fosse possibile, dovrà pervenire quanto prima (e, comunque, senza ritardo) un apposito seguito.
   La delega d’indagine dovrà, pertanto e d’ora in poi, costituire un evento eccezionale e riguardare accertamenti specifici che verranno indicati direttamente dal Pubblico Ministero.
   Evidenzio che gli atti d’indagine delegati devono essere eseguiti rispettando scrupolosamente le modalità indicate in delega. Non va, tuttavia, dimenticato che, nell’ambito dell’attività delegata, è sempre possibile per il personale di polizia giudiziaria procedere al compimento di atti d’iniziativa che si rendano necessari per l’accertamento dei fatti e la prosecuzione delle indagini.
   Qualora la delega riguardi un fatto già oggetto d’indagine indirizzata al medesimo Comando nell’ambito di altro procedimento penale, si sospenderanno gli accertamenti comunicando che, per i fatti per i quali si procede, è in corso altro procedimento penale (del quale si indicherà il numero di registro generale e il nome del Magistrato assegnatario). Tale indicazione è essenziale per una rapida eventuale unione dei procedimenti.
   Qualora pervenga un sollecito o una richiesta già evasi, è opportuno non limitarsi a indicare semplicemente che si è già risposto, ma è necessario inviare nuovamente quantomeno il frontespizio della precedente segnalazione.
   Va tenuto presente che il numero del procedimento (RGNR) è il mezzo più rapido ed efficace per l’individuazione del fascicolo, mentre l’indicazione di altri dati (nome indagato, numero di protocollo della segnalazione ecc.) rende la ricerca da parte della Segreteria lunga e complessa.
   Se viene indicato in delega un termine per l’espletamento delle indagini lo stesso deve essere tassativamente rispettato, salvo motivata richiesta di proroga al Magistrato delegante, che deve essere depositata con congruo anticipo per evitare che, nel frattempo, scada il termine per le indagini preliminari. Ricordo che la scadenza del termine massimo per l’espletamento delle indagini, in mancanza di una motivata e tempestiva richiesta di proroga al G.I.P. da parte del P.M., impedisce al Pubblico Ministero medesimo l’utile compimento di altre indagini.
   È estremamente importante che in tutta la corrispondenza intrattenuta con l’ufficio del Pubblico Ministero si indichino in modo bene visibile:
      1) il numero del procedimento (RGNR)
      2) il nome del Magistrato assegnatario
      3) ogni altro elemento utile per l’individuazione della precedente corrispondenza.

   Gli accertamenti delegati alla Polizia Locale non possono essere dalla stessa “subdelegati” agli Uffici Tecnici comunali, perché i relativi addetti non rivestono la qualifica di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria e possono, pertanto, solo essere sentiti a verbale come persone informate sui fatti ex art. 351 c.p.p., ovvero nominati ausiliari di p.g. ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
   La Polizia Locale non potrà trasmettere la delega d’indagine all’Ufficio Tecnico perché la stessa potrebbe contenere l’indicazione di ulteriori indagini coperte da segreto istruttorio che non devono essere portate a conoscenza di soggetti diversi da quelli appartenenti alla polizia giudiziaria.
   Di conseguenza, la Polizia Locale inoltrerà all’Ufficio Tecnico comunale una propria richiesta che faccia riferimento all’ordine d’indagine della Procura della Repubblica e che conterrà in virgolettato unicamente lo stralcio degli accertamenti che devono essere condotti direttamente all’Ufficio Tecnico.

5 Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine
   Quanto segue rappresenta una sintesi dell’attività di indagine da eseguire in via ordinaria. E’ ovvio che il personale di polizia giudiziaria potrà sempre predisporre ogni ulteriore accorgimento e iniziativa idonei all’accertamento dei fatti.
   Le disposizioni di seguito elencate andranno integrate con quanto già sopra indicato al precedente capitolo:

a) acquisizione documentazione
   Tale attività è fondamentale per l’accertamento dei fatti e per l’individuazione dell’abuso. Essa riguarderà tutta la documentazione esistente presso il Comune o altri Enti e relativa all’abuso edilizio (pratica edilizia, sanatoria se richiesta, rilievi, pareri, verbali ecc.). Se non diversamente ordinato dalla Procura della Repubblica potrà essere effettuata in copia. L’attività di acquisizione dovrà essere formalizzata con apposito verbale.
   Le copie acquisite saranno accompagnate da un indice e, comunque, numerate e saranno allegate al verbale di acquisizione.
   In caso di rifiuto o ritardo nel fornire la suddetta documentazione da parte di soggetti pubblici o privati, ne verrà data immediata notizia al Pubblico Ministero procedente, il quale potrà emettere, secondo i casi, Decreto di esibizione ex art. 256 cod. proc. pen., o di perquisizione e sequestro ex art. 252 c.p.p..

b) accertamento sui luoghi
  
È uno degli accertamenti più importanti perché irripetibile ex art. 354 c.p.p..
   Il verbale delle operazioni compiute avrà ingresso nel fascicolo del dibattimento e potrà essere letto e utilizzato dal Giudice. Grazie al contenuto di questo atto, il Giudice potrà rendersi conto di ciò di cui si discuterà nel dibattimento. E’ necessario che tale atto contenga tutti gli elementi essenziali per l’individuazione dei fatti.
   L’accertamento non avverrà esclusivamente con la descrizione a verbale di quanto verificato: saranno, invece, eseguiti rilievi fotografici e, se necessario, planimetrici dei luoghi, avvalendosi eventualmente di ausiliari di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
   I soggetti nominati ausiliari di p.g. non potranno rifiutarsi di prestare la propria opera. In caso di rifiuto andranno denunciati ex art. 366 cod. pen. (rifiuto di uffici legalmente dovuti).
   Nell’ambito dell’attività edilizia gravitano spesso altre fattispecie di reato quali evasione fiscale (in alcune circostanze), inquinamenti ambientali, lavoro in nero (in alcune circostanze), violazioni alla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Raccomando, pertanto, interventi di controllo sinergici con le forze specialistiche [ad esempio, Guardia di Finanza (per le violazioni fiscali e tributarie), Nucleo Ispettorato Lavoro dei CC, Ispettorato Nazionale del Lavoro e PSAL della ATS (per la sicurezza e la regolarità del lavoro), ARPA e servizi ispettivi degli Enti Parco (per le violazioni ambientali ecc.)].

c) documentazione fotografica
   Continuano a pervenire fotografie in bianco e nero, o singole immagini, che non consentono, per dimensioni e caratteristiche, di avere una cognizione completa dell’abuso.
   Le fotografie dovranno, al contrario, essere a colori e in numero adeguato per consentire al Pubblico Ministero e al Giudice di valutare la consistenza dell’abuso. Andranno munite di didascalia.
   I rilievi fotografici e tecnici andranno allegati al verbale di sopralluogo del quale dovranno costituire parte integrante. Ne consegue che, qualora per comodità di lettura e per facilitare la comprensione si ritenga opportuno alternare parti di testo della CNR a fotografie, queste ultime dovranno necessariamente essere allegate in ulteriore copia a colori munite di didascalia anche al verbale di sopralluogo.
   Per la predisposizione del fascicolo fotografico si tengano presenti i criteri utilizzati normalmente per la documentazione degli incidenti stradali.

d) Accesso ai luoghi
   I sopralluoghi dovranno necessariamente essere espletati congiuntamente da personale della Polizia Locale e da quello dell’Ufficio Tecnico comunale: solo così sarà possibile, infatti, giungere a una CNR completa sia degli atti investigativi (verbale di identificazione, verbale di sequestro, verbale di sopralluogo, verbale di sommarie informazioni testimoniali, verbale di spontanee dichiarazioni da indagato ecc.), sia di quelli tecnici (rilievi tecnici, relazione inerente la qualificazione edilizio-urbanistica delle opere abusive, identificazione catastale, ordinanza di sospensione dei lavori, ordinanza di demolizione, permesso a costruire in sanatoria ecc.).
   Capita che venga impedito al personale ispettivo di accedere ai luoghi per accertare compiutamente l’abuso. In tal caso dovrà essere interpellato il Magistrato assegnatario del procedimento o, in mancanza, assenza o impedimento, quello di turno, che valuterà se emettere Decreto di ispezione di cose e luoghi ex artt. 244 e 246 c.p.p. al fine di consentire l’accesso ai luoghi, anche con autorizzazione alla rimozione degli ostacoli fissi.
   Va, in ogni caso, evidenziato che tali comportamenti, potendo astrattamente concretizzare, in talune circostanze, ipotesi delittuose di violenza o minaccia o resistenza a pubblico ufficiale ex artt. 336 e 337 cod. pen., ovvero di impedimento del controllo ex art. 452-septies c.p., dovranno essere tempestivamente denunciati alla Procura della Repubblica.

e) Accertamento della proprietà dell’area ove insiste l’abuso
  
Si tratta di un dato essenziale che dovrà essere sempre acquisito, allegando anche l’atto di proprietà o altra idonea documentazione (visura presso la Conservatoria dei registri immobiliari ecc.). Non sono ammissibili le semplici dichiarazioni dei soggetti presenti sul posto.

d) Qualificazione dei luoghi, vincoli ecc.
   Andrà accertata la destinazione urbanistica dei luoghi oggetto di abuso allegando il relativo certificato di destinazione urbanistica che attesti la destinazione d’uso, sia alla data di realizzazione dell’abuso, sia con riguardo alla data del relativo accertamento. Verrà verificato anche se le opere eseguite siano o meno conformi alla normativa urbanistica e agli strumenti urbanistici locali. Ciò dovrà avvenire attraverso idonea dichiarazione scritta da parte del responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale.
   Gli eventuali vincoli (paesaggistici, ambientali, storico-architettonici, idrogeologici ecc.) se non indicati nel dettaglio nel certificato di destinazione urbanistica andranno indicati in modo completo con gli estremi (articolo, comma e dati completi della legge di riferimento) nella relazione del personale dell’Ufficio Tecnico comunale. In caso di vincolo imposto con provvedimento ministeriale o con altro provvedimento amministrativo andrà allegata copia dello stesso.

e) Identificazione soggetti responsabili
  
Oltre a quanto ho già detto al precedente punto 2.21 a), aggiungo che sarà necessario allegare il certificato anagrafico degli indagati (la cui reperibilità, da parte della Polizia Locale, appare agevole anche attraverso subdelega ad altri comandi territorialmente competenti per la residenza degli indagati), perché ciò rende meno frequenti gli errori di trascrizione e accelera i tempi di registrazione del fascicolo.
   L’assuntore dei lavori potrà essere inizialmente identificato anche attraverso la targa dei mezzi utilizzati per l’esecuzione dei lavori, ovvero tramite la documentazione contabile o di altro tipo in possesso del committente.
   Non è accettabile che, in molte CNR, venga omessa l’individuazione di tutti i responsabili degli abusi e ciò anche in piccoli comuni ove l’acquisizione di tali informazioni è estremamente facile.
   Nelle more di redazione del verbale di identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore e informazioni sul diritto alla difesa ricordo che, nel caso di mancata nomina del difensore di fiducia da parte dell’indagato, è consigliabile per la p.g. procedere alla nomina del difensore d’ufficio, che dovrà essere necessariamente individuato in quello indicato dall’Ordine degli Avvocati del Foro di Bergamo (anche se nominato da un organo di p.g. avente sede altrove).
   Al verbale di identificazione dovrà essere allegata fotocopia di un valido documento di riconoscimento dell’indagato.
   Si richiama l’attenzione degli operanti circa la corretta e completa compilazione di detti verbali evitando, per esempio, parziali indicazioni dell’esatto domicilio eletto o dell’esatto nominativo del difensore nominato (per esempio, eleggo domicilio in via Rossi n. 5 senza indicare la località, ovvero nomino difensore di fiducia lo studio legale Rossi senza indicare l’esatto nominativo del difensore), che comporterebbero la nullità dell’atto medesimo.

f) Accertamento provvedimenti adottati dall’Autorità comunale
   La vigente legislazione urbanistica contempla alcuni provvedimenti, di regola di competenza dell’Autorità comunale (ad esempio, ordinanze di sospensione lavori o di demolizione), la cui emissione da parte della stessa Autorità costituisce, in presenza dei prescritti presupposti, un obbligo e non una facoltà.
   Basti pensare, a tale proposito, che l’eventuale mancata ottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta l’acquisizione dell’immobile abusivo e dell’area di sedime al patrimonio del Comune.
   Occorrerà, pertanto, verificare quali provvedimenti siano stati adottati dalle competenti Autorità, allegandone copia munita della relativa relata di notifica.
   Qualora l’abuso non sia ancora noto alle predette Autorità ne verrà data alla stessa specifica informativa da parte della Polizia Locale e prova dell’avvenuta consegna verrà allegata agli atti della CNR.
   L’ordinanza di sospensione dei lavori prevista dagli artt. 27, comma 3, D.P.R. 380/2001, 167 D.Lgs. 42/2004 e 29 L. 394/1991 non va emessa, come spesso accade, esclusivamente allorquando le opere abusive sono in corso di realizzazione all’atto del sopralluogo; al contrario, andrà sempre emessa (e tempestivamente notificata) in tutti i casi in cui le opere abusive non siano già integralmente completate.
   Ricordo che, di regola, la sequenza dei provvedimenti che devono essere emessi dall’Autorità comunale, a norma dell’articolo 27 D.P.R. 380/2001, è la seguente:
      a) ordinanza di sospensione lavori e relativa notifica;
      b) verifica circa l’ottemperanza di detta ordinanza con apposito verbale;
      c) comunicazione alla Procura della Repubblica circa l’eventuale inottemperanza in ordine al reato ex art. 44, lett. b), D.P.R. 380/2001 e valutazione sulla opportunità di procedere con sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p..
      d) ordinanza di demolizione e ripristino e relativa notifica;
      e) verifica circa l’ottemperanza all’ordinanza con apposito verbale;
      f) notifica dell’eventuale verbale di inottemperanza;
      g) applicazione, in caso di inottemperanza, della sanzione amministrativa ex art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001 (nei casi di interventi eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale del permesso di costruire);
      h) acquisizione al patrimonio del Comune del fabbricato e dell’area di sedime e successiva demolizione d’ufficio a cura del Comune e spese del responsabile dell’abuso (nei casi di interventi eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale del permesso di costruire);
      i) esecuzione d’ufficio della demolizione a cura del Comune e a spese del responsabile dell’abuso medesimo nei casi di interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità da esso nei casi di cui agli artt. 33, comma 1, e 34, comma 1, D.P.R. 380/2001.

   Occorrerà, pertanto, verificare che l’Autorità comunale abbia effettivamente adempiuto ai doveri impostigli dalla vigente normativa urbanistica.
   Non è, in nessun caso, consentito inserire nella segnalazione che “il provvedimento è in corso di redazione” o altre diciture simili. Il provvedimento deve essere acquisito completo delle relate di notifica.

g) Verifica dell’agibilità
   Sebbene l’articolo 221 R.D. 1265/1934 comprenda violazioni depenalizzate, la presenza o meno dell’agibilità andrà verificata e segnalata alla competente Autorità comunale per l’irrogazione delle sanzioni amministrative e per gli altri adempimenti di competenza.

h) Accertamento della data di ultimazione lavori
   La data da accertare è quella effettiva di ultimazione lavori. Detto accertamento potrà essere effettuato acquisendo ogni documento (fatture, scontrini etc.) relativo all’acquisto dei materiali e recante data certa.
   Dovranno, inoltre, essere sentiti a verbale ex art. 351 c.p.p., quali persone informate sui fatti, i vicini, gli esponenti ecc. (non i soggetti da sottoporre a indagine le cui dichiarazioni non sono utilizzabili) sulla data di ultimazione delle opere.
   Si potrà anche verificare se vi siano contratti di fornitura (acqua, luce, gas ecc.) recanti data certa e, nel caso, acquisirne copia.
   Si dovrà sempre procedere, quando disponibili, alla verifica e all’acquisizione di copia a colori dei rilievi aerofotogrammetrici presso il Comune o la Regione.

i) Illecita attivazione di utenze
   L’art. 48 D.P.R. 380/2001 vieta la fornitura di acqua, energia elettrica e gas per gli immobili abusivi. Nel caso in cui ciò avvenga, il responsabile del servizio è passibile di sanzione amministrativa.
   In caso d’immobile abusivamente realizzato sarà, quindi, opportuno verificare se e a quale titolo siano stati stipulati eventuali contratti di utenza per acqua, energia elettrica, gas, al fine di accertare eventuali responsabilità di altri soggetti che hanno agevolato l’utilizzazione del manufatto abusivo.
   Frequentemente i responsabili degli abusi stipulano contratti per l’erogazione di energia elettrica dichiarando falsamente (in violazione dell’art. 483 cod. pen. – falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) che la fornitura erogata viene utilizzata per “irrigazione”, “sollevamento acqua”, “apertura cancello elettrico”, “cantiere” ecc.
   Sarà, pertanto, essenziale accertare se l’immobile abusivo sia fornito di acqua, luce, gas acquisendo, in caso positivo, copia del contratto, al fine di consentire la successiva valutazione in sede penale della condotta dei soggetti fornitori, nonché quella relativa alle false dichiarazioni rese al fine di ottenere le forniture.

l) Esecuzione dei sequestri
   Qualora l’organo di vigilanza accerti l’esecuzione di opere abusive ovvero, a maggior ragione, la prosecuzione dei lavori illeciti nonostante l’ordine di sospensione degli stessi, lo stesso organo di vigilanza:
      1. non potrà limitarsi a depositare una mera comunicazione alla Procura della Repubblica;
      2. dovrà invece valutare, secondo un prudente apprezzamento circa la sussistenza di concreti pericoli per il bene giuridico tutelato (ambiente, assetto urbanistico ecc.) l’eventuale adozione del provvedimento di sequestro preventivo in via d’urgenza ex art. 321, 3-bis c.p.p.; in tal caso, è consigliabile contattare il P.M. di turno per le sue determinazioni.

   Il sequestro effettuato dalla P.G. rappresenta un atto particolarmente delicato e importante nella complessiva attività d’indagine. Con esso si impedisce la prosecuzione dell’intervento abusivo (sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p.) e si assicurano al processo elementi di rilievo sotto il profilo probatorio (sequestro probatorio ex art. 354 c.p.p.).
   Il sequestro può riguardare non solo il singolo manufatto abusivo, ma anche l’area dove esso insiste, il cantiere e le relative attrezzature.
   Il sequestro preventivo, inoltre, può essere effettuato, secondo un orientamento ormai costante della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, anche sulle opere già ultimate (poiché le conseguenze che tale misura tende ad evitare sono ulteriori rispetto alla fattispecie tipica già realizzata e, in materia urbanistica, l'esistenza di una costruzione abusiva può aggravare il cd. carico urbanistico e, quindi, protrarre le conseguenze del reato).
   Qualora si proceda a sequestro (d’iniziativa, ovvero su ordine dell’A.G.) delle opere abusive e del cantiere, lo stesso andrà effettuato rendendo effettivamente inaccessibili i luoghi, apponendo sigilli e cartelli visibili recanti gli estremi del provvedimento. Ove possibile ci si dovrà, dunque, assicurare che ogni via di accesso all’area e al fabbricato in sequestro sia fisicamente impedita apponendo, se necessario, ostacoli fissi (reti, travi ecc.).
   Si è notato come talvolta si faccia, ancora, ricorso all’anomala figura del “sequestro senza sigilli”, inteso come apposizione solo virtuale del vincolo sul bene sequestrato che viene, in realtà, lasciato nella disponibilità dell’indagato o del detentore, specie nel caso in cui l’immobile abusivo sia utilizzato.
   Tale figura è del tutto sconosciuta al codice di procedura penale (la Suprema Corte di Cassazione ha, da tempo, espressamente escluso, con riferimento al sequestro preventivo, la possibilità che lo stesso sia sottoposto a termini o condizioni quali, ad esempio, la “facoltà d’uso” finalizzata alla eliminazione della situazione che ha determinato l’apposizione del vincolo) e si risolve in un atto del tutto privo di efficacia, in quanto consente comunque la piena utilizzazione del manufatto abusivo.
   Dovrà quindi curarsi che, all’atto del sequestro, il manufatto non sia in nessun caso accessibile o altrimenti utilizzabile e sia, pertanto, libero da persone.
   Dovrà, inoltre, assicurarsi una successiva vigilanza al fine di verificare l’integrità dei sigilli e che permangano le condizioni di conservazione del bene assicurate al momento del sequestro.
   Ricordo, inoltre, che la violazione di sigilli, se commessa dal custode (che va sempre nominato sin dall’esecuzione del sequestro) consente, ai sensi dell’art. 349, comma 2, cod. pen. e in presenza dei presupposti di legge, l’arresto in flagranza.
   Il sequestro (d’iniziativa o disposto dall’ A.G.) dovrà essere tempestivamente eseguito, così come ogni verifica in merito ad abusi in corso di esecuzione. L’eventuale omissione o il ritardo nell’esecuzione può configurare gravi ipotesi di reato.

m) Esecuzione di dissequestri
   Anche i provvedimenti di restituzione delle cose sequestrate andranno immediatamente eseguiti.
   Evidenzio, però, che il relativo provvedimento dovrà pervenire direttamente dall’Autorità che l’ha emesso (P.M. o Giudice) nelle forme previste.
   Non è in nessun caso ammissibile procedere all’esecuzione di dissequestri sulla base di provvedimenti esibiti in copia dall’indagato o dal suo difensore né, tanto meno, su richiesta verbale.
   Detti provvedimenti dovranno pervenire dalla Segreteria del P.M. o dalla Cancelleria del Giudice nelle forme di legge.
   Se la restituzione è disposta nei confronti dell’ ”avente diritto” e lo stesso non sia compiutamente indicato, dovrà accertarsi chi sia tale soggetto, potendosi lo stesso individuare in persona diversa dall’indagato, come nel caso in cui si sia perfezionata l’acquisizione automatica dell’immobile al patrimonio del Comune a seguito d’inottemperanza all’ordinanza di demolizione.
   In caso di dubbio andrà interpellato per iscritto l’Ufficio che ha emesso il provvedimento.

n) Procedura di acquisizione
   La procedura di acquisizione degli immobili e delle relative aree di sedime è obbligatoria e dovrà essere portata a termine nel rispetto di quanto stabilito dal legislatore.
   Tale procedura dovrà essere avviata dal competente funzionario comunale con le cadenze che vengono qui di seguito sinteticamente ricordate:

      − emissione ordinanza di demolizione ai sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001 e relativa tempestiva notifica. L’ordinanza dovrà contenere tutti gli estremi per l’identificazione dell’abuso (compresi foglio e mappale), nonché l’area di sedime acquisibile in caso di inottemperanza,
      − verifica (attraverso sopralluogo della Polizia Locale) dell’ottemperanza all’ordinanza con redazione del relativo verbale,
      − in caso d’inottemperanza, il relativo verbale (che dovrà contenere gli estremi catastali dell’immobile) dovrà essere notificato ai soggetti interessati,
      − l’accertata inottemperanza determina ope legis l’automatico passaggio della proprietà dell’abuso e dell’area di sedime all’Amministrazione comunale nei termini indicati dall’articolo 31 D.P.R. 380/2001
,
      − il trasferimento di proprietà dovrà essere rapidamente trascritto.

   Ciò posto, si è rilevata spesso una resistenza da parte dei competenti Uffici comunali a effettuare la trascrizione o a porre in essere regolarmente e tempestivamente la procedura di cui sopra.
   È, pertanto, opportuno che il personale di Polizia Locale sia reso edotto del fatto che:
      − l’eventuale omissione o rifiuto da parte del personale competente a procedere potrà configurare, a seconda dei casi, i reati di favoreggiamento, abuso d’ufficio e/o di omissione o rifiuto di atti d’ufficio, in ordine ai quali vi è l’obbligo di tempestiva comunicazione a questa A.G.,
      − il ricorso innanzi al Giudice amministrativo non sospende la procedura di acquisizione, se non nel caso in cui venga emessa Ordinanza cautelare di sospensiva.

   Questa Procura della Repubblica provvederà a segnalare alla competente Procura Regionale della Corte dei Conti omissioni o ritardi che possano comportare danno erariale.


6. Reati di “falso” in ambito edilizio, ambientale e paesaggistico
   L’art. 20, comma 13, D.P.R. 380/2001 punisce penalmente chiunque dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti previsti al comma 1 del medesimo articolo nell’ambito del procedimento per il rilascio del permesso di costruire.
   L’art. 29, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che, per le opere realizzate nell’ambito di segnalazione certificata di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli articoli 359 e 481 del cod. pen. Ne consegue che, in caso di false dichiarazioni, viene integrato il reato ex art. 481 cod. pen. (falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità).
   L’art. 19, comma 6, L. 241/1990 punisce penalmente chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o presupposti indicati al comma 1° della medesima legge.
   È sempre previsto l’obbligo d’informativa, da parte del responsabile del procedimento, al competente Ordine Professionale per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari. All’informativa può provvedere ovviamente anche la Polizia Locale, quale organo di polizia giudiziaria.
   Restano fermi i restanti reati di falso previsti nel Libro II Titolo VII Capo III (della falsità in atti) del cod. pen.
   È necessario, quindi, che si proceda al controllo sulla veridicità delle dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni (e relativi allegati) inserite dalle parti nelle pratiche e si provveda a segnalare tempestivamente a questa Procura della Repubblica gli eventuali reati, nonché a darne immediata informativa al competente Ordine Professionale qualora l’autore del reato sia un professionista.

7. Gli “elenchi mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001
   L’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 prevede che: … “Il Segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle opere realizzati abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e trasmette i dati anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta regionale e, tramite l’ufficio territoriale del governo, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”.
   Tale norma ha la finalità di consentire il complessivo monitoraggio sul territorio della giurisdizione del fenomeno dell’abusivismo edilizio.
   Gli elenchi di cui all’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 non sostituiscono, pertanto, l’obbligo di CNR previsto dall’art. 347 c.p.p.. Né, al contrario, il deposito della CNR da parte degli operanti fa venir meno l’obbligo di trasmissione dei suddetti elenchi mensili da parte del Segretario comunale.
   Tali elenchi dovranno essere mensilmente trasmessi, solo se positivi (ossia solo se vi sono abusi da segnalare), unicamente a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo: (da indicare).
   Tali elenchi non verranno iscritti in alcun registro del S.I.C.P. (Sistema Informativo della Cognizione Penale) e verranno direttamente trasmessi al Procuratore.
   L’elenco mensile deve contenere unicamente i dati relativi all’abuso (identificazione del luogo, sintetica descrizione della tipologia dell’abuso ecc.) e ai soggetti responsabili dello stesso (complete generalità). Al contrario, non deve contenere allegati (ordinanze, rapporti ecc.).
   È necessario che nell’elenco mensile venga inserita, per ogni abuso, un’apposita voce “CNR della Polizia Locale n…. inoltrata in Procura il …”, ovvero “CNR in fase di redazione da parte della Polizia Locale e di prossimo inoltro in Procura”. In tale ultimo caso sarà onere del Comune (attraverso il Segretario comunale, ovvero la Polizia Locale) trasmettere tempestivamente alla Procura apposita integrazione all’elenco mensile con la quale si darà atto dell’avvenuto deposito della relativa CNR mancante.
   Gli elenchi mensili conterranno sia gli abusi che assumono rilevanza penale, sia quelli che costituiscono meri illeciti amministrativi, poiché la norma di riferimento non prevede distinzioni.
   È necessario, però, che nell’elenco mensile venga inserita un’ulteriore apposita voce che indichi esplicitamente se si tratta di abuso avente carattere penale o solo amministrativo.

8. La comunicazione di avvio del procedimento
   L’art. 7 Legge 241/1990 inerente alla comunicazione di avvio del procedimento dispone che … “Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell’inizio del procedimento. Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la facoltà dell’amministrazione di adottare, anche prima della effettuazione delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari”.
   Per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 23.01.2012, n. 282; VI Sez., 24.09.2010, n. 7129; VI Sez., 30.05.2011, n. 3223; VI Sez., 24.05.2013, n. 2873; V Sez., 09.09.2013, n. 4470, VI Sez., 08.05.2014) l’adozione di misure repressive edilizie non è assoggettata all’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento, attesa la natura vincolata del provvedimento finale, rispetto al quale la partecipazione dell’interessato non può arrecare alcuna utilità.
   Particolare rigore deve essere posto con riguardo ad accertamenti connessi alle opere in corso di esecuzione, sia nel caso di ordinaria attività di vigilanza, che nel caso di attivazione a seguito di segnalazione di parte.
   In tali casi, al fine di evitare il concretizzarsi di ipotesi penalmente rilevanti a carico del funzionario comunale firmatario del provvedimento di avvio del procedimento (per esempio, di favoreggiamento del potenziale destinatario del provvedimento sanzionatorio che ben potrebbe, se preventivamente informato, eliminare l’abuso prima dell’accertamento, ovvero aggravare il reato con il completamento funzionale delle opere e la potenziale fruibilità delle stesse, con conseguente vantaggio patrimoniale), l’avvio del procedimento è tassativamente vietato.
   Al contrario, non si ravvisano particolari criticità connesse all’eventuale emanazione della comunicazione di avvio del procedimento per ciò che concerne le opere illecite pacificamente già ultimate anche nelle loro rifiniture. Detta prassi è, infatti, utilizzata da molti comuni, soprattutto per la difficoltà a risalire a documentazione giacente presso l’archivio storico e, conseguentemente, per evitare di procedere con la notifica di provvedimenti demolitori riguardanti manufatti regolarmente assentiti, con conseguente necessità di un successivo provvedimento in autotutela. Quanto sopra, ovviamente, fermo restando il rispetto del termine perentorio di cui all’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001.
   Nel caso di emissione della comunicazione di avvio del procedimento occorrerà, pertanto, indicare un termine perentorio alla controparte per presentare memorie o scritti difensivi utili al procedimento instaurato.
L’utilizzo di detta procedura non può, in nessun caso, portare a una dilazione dei 30 giorni previsti dall’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001
.
   In generale corre l’obbligo per il Comune di intervenire senza indugio con i controlli e i successivi provvedimenti ripristinatori degli interventi realizzati in assenza di titolo abilitativo.
   La facoltà di presentare istanza di sanatoria, nei casi previsti dalla legge, è in capo infatti all’avente titolo. Non sono, pertanto, giustificati ritardi nell’azione repressiva al fine di agevolare i privati nella presentazione di eventuali istanze di sanatoria.

9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 e l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater, D.Lgs. 42/2004
   L’art. 45, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che … “il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti”.
   Parallelamente, l’art. 181, comma 1-ter, D.Lgs. 42/2004 prevede che, nelle ipotesi di abuso paesaggistico ivi tassativamente elencate e qualora la competente Autorità amministrativa ne accerti la relativa compatibilità paesaggistica, non trovano applicazione le sanzioni penali di cui al comma 1° del medesimo articolo.
   Nel corso degli anni si è registrata, da parte dei singoli comuni, una disomogenea applicazione delle norme e delle procedure in tema di segnalazione dei reati oggetto di richieste di conformità e di compatibilità paesaggistica: alcuni comuni non trasmettono mai la CNR in caso di rilascio delle sanatorie (ovvero delle compatibilità paesaggistiche), altri le trasmettono solo all’esito delle relative pratiche e indistintamente dal loro accoglimento o meno, altri le trasmettono solo all’esito della relativa istruttoria e solo in caso di diniego, altri ancora le trasmettono non appena pervenute al Comune e ancor prima della relativa istruttoria.
   È, pertanto, opportuno chiarire che, solo allorquando la sussistenza di un abuso edilizio o paesaggistico venga portata a conoscenza delle strutture comunali (ovvero del parallelo Ente pubblico competente in materia paesaggistica) unicamente dalla parte tramite richiesta di accertamento di conformità edilizia (ovvero richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica), quindi in assenza di qualsivoglia esposto, segnalazione, ovvero in assenza di accertamenti, sopralluoghi del personale comunale o di altri Organi pubblici, il deposito della CNR sarà posticipato all’esito dei relativi procedimenti amministrativi.
   Tale obbligo di denuncia all’A.G. sussiste, all’esito dell’istruttoria, sia qualora l’abuso venga sanato, o ne venga certificata la compatibilità paesaggistica, sia qualora le relative istanze vengano rigettate. Ciò perché è stato, comunque, commesso un reato, la cui eventuale dichiarazione di estinzione compete unicamente al Giudice.
   È evidente che, in caso di accoglimento delle istanze di conformità e/o compatibilità paesaggistica, l’Organo procedente (Polizia Locale, ovvero il parallelo servizio ispettivo dell’Ente competente in materia paesaggistica) si limiterà a depositare la CNR contenente i dati essenziali: la relazione sarà molto sintetica, con esplicito riferimento all’inutilità di effettuare ulteriori indagini e conterrà proposta di archiviazione del procedimento.
   Andranno, comunque, anche in questo caso, allegati il verbale di identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore e informazioni sul diritto alla difesa in capo a tutti i soggetti responsabili, copia integrale del provvedimento amministrativo di sanatoria e/o compatibilità, nonché apposita dichiarazione del responsabile dell’ Ufficio Tecnico attraverso la quale si attesta che, con il provvedimento amministrativo rilasciato e trasmesso, è stato sanato (ovvero ne è stata certificata la compatibilità paesaggistica), l’intero abuso e che non residuano ulteriori abusi non sanati.
   Tale procedura appare in assoluto la più logica e, al contempo, ossequiosa del dettato normativo posto che, l’eventuale rilascio dei citati permessi a costruire in sanatoria (ovvero delle certificazioni di compatibilità paesaggistica), comporterebbe il mantenimento nell’area della mera rilevanza sanzionatoria amministrativa dei lavori illeciti eseguiti, senza alcun obbligo d’immediata informativa all’A.G. (che ben può essere posticipata, quindi, all’esito delle procedure amministrative).
   Al contrario, è appena il caso di ricordare che, quando sono già pervenuti esposti, segnalazioni, denunce, ovvero quando il personale comunale ha già espletato accertamenti, sopralluoghi ecc. prima del deposito in Comune di un’eventuale istanza di conformità o di compatibilità, la CNR dovrà necessariamente essere depositata in Procura senza ritardo (indistintamente dal fatto che pervengano, dopo l’esposto o l’accertamento, eventuali istanze di conformità o di compatibilità).
   A norma dell’art. 45, comma 1, D.P.R. 380/2001, ... “l’azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’art. 36”.
   Di conseguenza, anche il corso della prescrizione del reato rimane sospeso, a norma dell’art. 159 cod. pen., per tale lasso di tempo. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione.
   L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede, inoltre, che: … “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia, con adeguata motivazione, entro sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
   È opportuno evidenziare, quindi, che la lettura del combinato disposto degli artt. 45, comma 1, e 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 consente di affermare che, entro il termine massimo di 60 giorni dalla presentazione dell’istanza di conformità, il responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale dovrà provvedere su tale istanza e trasmettere tempestivamente tutta la documentazione (compreso il provvedimento finale) alla Polizia Locale, affinché quest’ultima possa celermente notiziare la Procura della Repubblica (salvo le ipotesi relative ad aree o immobili vincolati, in ordine alle quali si deve considerare anche il termine di 180 giorni a disposizione della Soprintendenza per il parere obbligatorio e vincolante di sua competenza).
   In caso di insufficienza della documentazione o delle dichiarazioni allegate dalla parte nell’istanza, il responsabile del procedimento avrà cura di inoltrare, con mezzi che ne garantiscano la prova di ricezione, specifica richiesta di integrazione: la stessa dovrà necessariamente indicare il termine tassativo entro cui produrre al Comune tale documentazione e/o dichiarazioni mancanti (che deve essere il più possibile contenuto), in mancanza delle quali, allo scadere del termine concesso, l’istanza dovrà essere rigettata.
   Non è mai tollerabile la prassi, sin qui tenuta da alcuni comuni, di inoltrare alla parte richieste di integrazione prive di un termine entro cui provvedere. Così facendo, infatti, dette pratiche rischiano di rimanere, nel caso di inerzia della parte, in “istruttoria” spesso ben oltre il termine massimo concesso dalla legge per la definizione dei procedimenti, con conseguente elevato rischio di prescrizione del reato.
   Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a più abusi commessi da soggetti diversi, sanati od oggetto di compatibilità paesaggistica.
   È obbligo del Comune, attraverso la Polizia Locale, aggiornare tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’avvenuto rilascio del permesso a costruire in sanatoria, ovvero della certificazione di compatibilità paesaggistica. Ciò senza attendere una specifica delega d’indagine dell’A.G.. A tal fine sarà onere del responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale trasmettere tempestivamente apposita comunicazione alla Polizia Locale, contenente copia integrale del provvedimento emesso e dichiarazione che attesti che non residuano abusi non sanati.

10 Gli interventi di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi
   Gli artt. 27, 31, 33 e 35 D.P.R. 380/2001 prevedono che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ordina la demolizione delle opere abusive.
   L’art. 31, comma 9, D.P.R. 380/2001 prevede che il Giudice, con la Sentenza di condanna, ordina la demolizione delle opere se ancora non sia stata altrimenti eseguita.
   Analoghi poteri-doveri sono previsti in ambito paesaggistico dagli artt. 167 e 181, comma 2, D.Lgs. 42/2004, nonché dall’art. 29 L. 394/1991, in caso di attività abusive in aree protette.
   L’art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001 prevede, poi, una specifica sanzione amministrativa in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione. E’ indicato, altresì, che … “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile, del dirigente e del funzionario inadempiente”.
   Ho verificato che, spesso, non viene emessa la citata sanzione amministrativa e che ci si limita a emettere le ordinanze di demolizione e/o ripristino senza, però, procedere agli interventi d’ufficio previsti dalle citate norme in caso di inottemperanza del responsabile dell’abuso.
   Ricordo che, in presenza dei presupposti di legge, l’esecuzione d’ufficio delle demolizioni e dei ripristini, così come l’acquisizione al patrimonio pubblico dell’immobile abusivo e della relativa area di sedime e l’emanazione delle prescritte sanzioni amministrative, costituiscono un obbligo per l’Autorità amministrativa e non una mera facoltà discrezionale. Sono evidenti, in astratto, le possibili responsabilità omissive, sia sul piano penale sia su quello erariale.
   La mancata ottemperanza alle ordinanze di demolizione non integra il reato ex art. 650 cod. pen. perché tale fattispecie penale (c.d. “norma penale in bianco”), così come da consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione, punisce l’inosservanza di provvedimenti legalmente dati dall’Autorità per ragioni di giustizia, ordine pubblico, sicurezza pubblica o igiene, esclusivamente allorquando tali inosservanze non siano già punite dall’ordinamento con specifiche sanzioni.
   Nel caso di specie la sanzione prevista dalla norma in caso d’inottemperanza è la demolizione, ovvero il ripristino dei luoghi, eseguiti d’ufficio e a spese del relativo responsabile.
   L’art. 181, comma 1-quinquies, D.Lgs. 42/2004 prevede che la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga condanna, estingue il reato paesaggistico di cui al comma 1 del medesimo articolo.
L’art. 131-bis cod. pen. prevede, poi, l’esclusione della punibilità in taluni casi di particolare tenuità del fatto.
   È obbligo pertanto del Comune, attraverso la Polizia Locale, aggiornare tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’eventuale avvenuta demolizione, ovvero ripristino dello stato dei luoghi, sia al fine di valutare l’eventuale estinzione del reato, sia perché tale ottemperanza costituisce comunque comportamento favorevolmente valutabile nei confronti dell’indagato.

11 La segretezza delle indagini di polizia giudiziaria, nonché delle informazioni e della documentazione contenute nelle CNR
   L’art. 329 c.p.p. prevede che … “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
   L’art. 326 cod. pen. punisce penalmente il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza.
   Ne consegue che ogni richiesta di accesso agli atti trasmessi all’A.G., da chiunque proveniente (indagati, difensori, esponenti, soggetti terzi ecc.), deve essere trasmessa al P.M. titolare per il preventivo vincolante nulla osta ex art. 116 c.p.p..
   Talune norme vigenti in materia edilizia (per esempio, gli artt. 27, comma 4, e 31, comma 7, D.P.R. 380/2001) prevedono, peraltro, l’obbligo di informativa alle Autorità amministrative preposte (Regione, Comune, Ordine Professionale ecc.) circa i reati accertati per i provvedimenti di rispettiva competenza. In tali casi, ossia quando l’informativa non riveste carattere di discrezionalità ma deriva da un obbligo ope legis, il nulla osta del P.M. alla trasmissione degli atti alle suddette Autorità e per le finalità indicate nella legge s’intende sin d’ora concesso.
   Evidenzio che gli atti diretti e provenienti dalla Procura della Repubblica, ovvero da altri organi di polizia giudiziaria, possono essere portati a conoscenza del solo personale avente qualifica di agente o ufficiale di polizia giudiziaria.
   Qualsivoglia eventuale comportamento di amministratori locali volto a interferire, limitare o intralciare le attività di polizia giudiziaria e di controllo degli abusi deve essere immediatamente segnalato al Procuratore della Repubblica.

12 Conclusioni
   Prego le Autorità in indirizzo di inoltrare la presente direttiva ai Comandi, Settori, Servizi, Uffici territorialmente e funzionalmente competenti, onde garantirne la più ampia diffusione.
   Le SS.VV. si atterranno alle sopraelencate disposizioni anche in considerazione della rilevanza che assumono i beni giuridici tutelati dalle norme in oggetto.
   La mancata, scorretta o parziale ottemperanza alla presente direttiva costituisce intralcio all’attività dell’Autorità Giudiziaria e, come tale, verrà valutata dal Magistrato titolare del procedimento in ordine ad eventuali responsabilità penali e/o disciplinari.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Regolamento sul funzionamento del consiglio comunale in materia di gruppi consiliari.
Sintesi/Massima
La costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono ammissibili; tuttavia sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, competenti a dettare norme statuarie e regolamentari in materia.
Testo
Con nota del ..., un presidente di consiglio comunale ha chiesto l'avviso di quest'Ufficio in merito al cambio di denominazione di un gruppo consiliare.
In particolare, è stato rappresentato che a seguito delle elezioni svoltesi nel settembre 2020 il candidato sindaco non eletto comunicava, con nota acquisita al protocollo dell'ente in data ..., la costituzione del gruppo consiliare denominato "Progressisti per …" composto da tre consiglieri.
Successivamente comunicava, con nota acquisita al protocollo dell'ente in data ... sottoscritta solo da due consiglieri, l'adesione del predetto gruppo consiliare al Partito Democratico, con la contestuale modifica del nome originario del gruppo "Progressisti …" in "Partito Democratico – Progressisti …", precisando di entrare a far parte organicamente del Partito Democratico, anche all'interno del consiglio comunale dell'ente. Tale comunicazione veniva data a seguito dell'autorizzazione rilasciata in data ... dal Partito Democratico - Coordinamento Provinciale di ….
Il presidente del consiglio comunale, nella richiesta di parere, ha evidenziato che il regolamento dell'ente non prevede all'articolo 16, rubricato "Costituzione dei gruppi consiliari", la modifica di denominazione dei gruppi e la possibilità di costituirne di nuovi; nel caso di specie, l'adesione al Partito Democratico con il conseguente cambio di denominazione sopra menzionato farebbe pensare alla costituzione di un nuovo gruppo consiliare, tenuto anche conto che nella nota sopra citata del Partito Democratico di … è utilizzata l'espressione "costituzione del Gruppo consiliare …".
Inoltre, il presidente del consiglio ha precisato che il Partito Democratico di rilievo nazionale era presente alle elezioni svoltesi nel settembre 2020 nella coalizione a sostegno del candidato sindaco non eletto e non ha avuto alcun seggio nell'assise comunale. La segretaria generale dell'ente, con nota in data ..., ha sottolineato che il gruppo consiliare in questione pur avendo modificato la denominazione, possibilità non contemplata dallo statuto e dal regolamento, non ha costituito un gruppo nuovo atteso che i consiglieri hanno mantenuto l'originaria denominazione del gruppo al quale hanno aggiunto il simbolo del Partito Democratico, sebbene riconosca che nella nota a firma del commissario cittadino del PD sia utilizzata la locuzione "costituzione".
Ha anche precisato che il candidato sindaco non eletto alle elezioni del 2020, quale candidato sostenuto da più liste tra cui il PD, una volta eletto consigliere comunale non si è dichiarato, pur avendone la possibilità, della lista del PD, lista collegata alla sua candidatura, per assumere in consiglio la relativa rappresentanza.
Al riguardo, occorre premettere che l'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
La materia è regolata da apposite norme statutarie e regolamentari adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta dall'art. 38 del citato decreto legislativo n. 267/2000.
Giova richiamare la pronuncia del TAR Trentino Alto Adige - sez. di Trento, n. 75 del 2009, con la quale è stato precisato che "il principio generale del divieto di mandato imperativo sancito dall'art. 67 della Costituzione … pacificamente applicabile ad ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori -pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica- con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza". In linea con il principio generale secondo il quale, all'elemento "statico" dell'elezione in una lista si sovrappone quello "dinamico", fondato sull'autonomia politica dei consiglieri, si ritengono in genere ammissibili anche i mutamenti all'interno delle forze politiche che comportano altrettanti cambiamenti nei gruppi consiliari.
Anche il TAR Puglia, sez. di Bari, con sentenza n. 506/2005 ha evidenziato che il rapporto tra il candidato eletto ed il partito di appartenenza "... non esercita influenza giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e l'assoluta autonomia politica dei rappresentanti del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla lista o partito che li ha candidati."
Ciò posto, si osserva che nel caso di specie lo statuto comunale, all'articolo 13, prevede un rinvio generale al regolamento consiliare anche per la costituzione ed il funzionamento dei gruppi consiliari.
Il regolamento all'articolo 16 disciplina in modo dettagliato le modalità di costituzione dei predetti gruppi, ma non contempla, tra le fattispecie previste, il caso prospettato. La predetta norma dispone, ai commi 1 e 3, che i consiglieri eletti nella medesima lista formano gruppo consiliare ed il consigliere che intende far parte di un gruppo diverso da quello corrispondente alla lista nella quale è stato eletto deve darne comunicazione al presidente del consiglio, allegando la dichiarazione di accettazione da parte del gruppo scelto all'atto di insediamento del primo consiglio comunale.
Il successivo comma 4 stabilisce che "non può essere costituito alcun gruppo consiliare con meno di due consiglieri", indicando le ipotesi in cui è possibile prevedere la costituzione di gruppi unipersonali, mentre la disposizione normativa contenuta nel comma 6 prevede che i singoli consiglieri che non trovano collocazione nelle varie fattispecie indicate nei commi precedenti, fanno parte del gruppo misto che ha le stesse prerogative degli altri gruppi.
Solo in un caso è prevista la costituzione del gruppo nuovo, quello indicato nel comma 5, il quale dispone che "In caso di scissione di un partito a livello nazionale i consiglieri rappresentanti tale partito devono dichiarare a quale formazione politica intendono appartenere e quindi, eventualmente, costituire un nuovo gruppo al quale saranno riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti ad ogni gruppo consiliare".
Sulla base delle norme esaminate, la fattispecie in esame non sembra rientrare nell'ipotesi contemplata nel citato comma 5 dell'articolo 16 del regolamento, che prevede la sola possibilità di costituzione di un nuovo gruppo in caso di scissione di un partito a livello nazionale.
Si osserva che i mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono ammissibili; tuttavia sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia. Soltanto il consiglio comunale, nella sua autonomia ed in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui conformarsi in tale materia, è abilitato a fornire una interpretazione delle disposizioni normative di cui si è dotato.
Pertanto, in assenza di una specifica norma statutaria o regolamentare che possa contribuire a disciplinare il caso in esame, si ritiene opportuno che siano apportate le necessarie modifiche all'articolo 16 del regolamento (parere 26.01.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Questa amministrazione provinciale vorrebbe procedere ad integrare temporaneamente il proprio organico mediante il ricorso all'istituto dell'apprendistato, recentemente disciplinato anche per la pubblica amministrazione.
Quali sono le modalità ed i limiti per l'accesso a tale istituto?

L'apprendistato nella Pubblica Amministrazione è stato recentemente disciplinato a partire dall'art. 3-ter, D.L. 22.04.2023, n. 44, convertito, con modificazioni, dalla L. 21.06.2023, n. 74 che demanda ad un successivo decreto interministeriale la determinazione dei contenuti omogenei delle convenzioni non onerose che le amministrazioni dello Stato possono stipulare, fino al 31.12.2026, con le istituzioni universitarie per l'individuazione di studenti di età inferiore a 24 anni, che abbiano concluso gli esami previsti dal piano di studi, da assumere a tempo determinato con contratto di formazione e lavoro, nel limite del 10 per cento delle facoltà assunzionali esercitabili (e del 20 per cento per comuni, unioni di comuni, province e città metropolitane).
All'uopo, il Ministro per la pubblica amministrazione ha emanato il D.M. 26.12.2023 che disciplina l'accesso e l'utilizzo di tale istituto.
Le principali caratteristiche individuate sono:
   - possono accedervi studenti di età inferiore a 24 anni e l'assunzione viene effettuata a tempo determinato;
   - le procedure di reclutamento si svolgono nel rispetto delle norme vigenti in materia di accesso al pubblico impiego;
   - le amministrazioni procedenti devono utilizzare esclusivamente il portale InPa;
   - le procedure concorsuali finalizzate alle assunzioni prevedono l'espletamento di una prova scritta, anche a contenuto teorico-pratico, e di una prova orale;
   - le procedure selettive sono bandite dalle amministrazioni sulla base del proprio ambito territoriale;
   - nell'ambito delle selezioni di cui all'articolo 2 sono oggetto di valutazione i titoli accademici conseguiti dal candidato, compresa la media ponderata dei voti conseguiti nei singoli esami e gli eventuali titoli di specializzazione post lauream, nonché le eventuali esperienze professionali documentate;
   - il personale assunto ai sensi del presente provvedimento è inquadrato nell'area dei funzionari, a livello retributivo iniziale, del comparto Funzioni centrali, o nella corrispondente area prevista dall'ordinamento dell'amministrazione procedente.
Sulla scorta di quanto innanzi evidenziamo come si tratti di un istituto completamente diverso dall'apprendistato disciplinato per il settore privato dal D.Lgs. 15.06.2015, n. 81 la più rilevante delle quali è sicuramente la forma contrattuale: nel settore pubblico si tratta di un contratto a tempo determinato di “formazione e lavoro” mentre nel settore privato è una delle forme previste di assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 22.04.2023, n. 44, art. 3-ter - L. 21.06.2023, n. 74
Documenti allegati
D.M. 26.12.2023 (24.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oneri per permessi spettanti agli amministratori locali.
A decorrere dal 01.01.2024, nel caso di amministratori locali che siano lavoratori dipendenti da un ente locale, gli oneri per i permessi retribuiti di cui all’articolo 79 TUEL sono a carico dell’ente presso cui gli stessi esercitano il mandato politico.
Tale ente dovrà provvedere al rimborso delle somme nei confronti dell'ente datore di lavoro, secondo le modalità di cui all’articolo 80 del medesimo testo unico.

Il Comune chiede un parere in merito ai permessi spettanti agli amministratori locali. Più in particolare, desidera sapere se si applichi anche alla Regione Friuli Venezia Giulia la previsione introdotta dalla legge finanziaria 2024, secondo la quale gli oneri per permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti da enti locali devono essere rimborsati al datore di lavoro dall’ente presso il quale gli stessi esercitano il mandato politico.
L’articolo 1 della legge 30.12.2023, n. 213 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il triennio 2024-2026), al comma 536 prevede, infatti, che “Gli oneri per i permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti degli enti locali di cui all'articolo 2 del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, sono a carico dell'ente presso il quale gli stessi esercitano le funzioni pubbliche di cui all'articolo 79 del medesimo testo unico. Al predetto personale si applicano le modalità di rimborso previste dall'articolo 80 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.”.
L’articolo 80 del D.Lgs. 267/2000 stabilisce che le assenze dal servizio, di cui al precedente articolo 79
[1], di un amministratore locale, sono allo stesso retribuite dal datore di lavoro prevedendo, tuttavia, per i soli lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici che i relativi oneri siano a carico dell’ente presso il quale gli stessi lavoratori esercitano le funzioni pubbliche indicate.
In altri termini, secondo la previsione originaria del TUEL gli oneri per permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti dagli enti locali, rientranti tra gli enti pubblici non economici, rimanevano a carico dell’amministrazione presso la quale svolgono la propria attività di lavoro dipendente; diversamente per gli amministratori locali, che siano lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici detti oneri dovevano essere rimborsati al datore di lavoro dall’amministrazione locale di appartenenza dell’amministratore, secondo le modalità indicate all’articolo 80 TUEL.
A seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 1, comma 536, della legge 213/2023, la disciplina prima applicabile ai soli amministratori locali, lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici è estesa, altresì, ai dipendenti degli enti locali: per tutte queste categorie è, dunque, previsto il diritto del datore di lavoro ad essere rimborsato degli oneri per permessi retribuiti dei propri lavoratori, dall’ente presso il quale gli stessi svolgono le funzioni pubbliche. Resta fermo che per gli amministratori locali che siano lavoratori dipendenti di un ente pubblico non economico, diverso da un ente locale, detti oneri continueranno a gravare sul datore di lavoro.
Quanto alle modalità del rimborso la legge finanziaria rinvia espressamente alla disciplina contenuta all’articolo 80 del D.Lgs. 267/2000 in base alla quale “l'ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, è tenuto a rimborsare quanto dallo stesso corrisposto, per retribuzioni ed assicurazioni, per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore. Il rimborso viene effettuato dall'ente entro trenta giorni dalla richiesta. Le somme rimborsate sono esenti da imposta sul valore aggiunto ai sensi dell'articolo 8, comma 35, della legge 11.03.1988, n. 67.”
[2].
La disciplina sopra riportata, come conseguente alle novità introdotte dalla legge finanziaria 2024, si applica anche agli amministratori locali del Friuli Venezia Giulia, con la conseguenza che, a decorrere dal 01.01.2024
[3], gli oneri per permessi retribuiti, di cui all’articolo 79 TUEL, dei lavoratori dipendenti da un ente locale [4], al pari di quelli dipendenti da un ente pubblico economico o da un datore di lavoro privato, che siano amministratori presso un ente locale anche della Regione Friuli Venezia Giulia, sono a carico dell’ente presso il quale esercitano il mandato politico, il quale dovrà provvedere al rimborso delle somme nei confronti del datore di lavoro, secondo le modalità di cui all’articolo 80 del medesimo testo unico.
-----------------
[1] Si tratta dell’assenza, limitata al tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta del consiglio comunale, e per il raggiungimento del luogo di suo svolgimento (comma 1); dell’assenza dal servizio, per i lavoratori dipendenti “facenti parte delle giunte comunali, […], metropolitane, delle comunità montane, nonché degli organi esecutivi dei consigli circoscrizionali, dei municipi, delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, ovvero facenti parte delle commissioni consiliari o circoscrizionali formalmente istituite nonché delle commissioni comunali previste per legge, ovvero membri delle conferenze dei capogruppo e degli organismi di pari opportunità, previsti dagli statuti e dai regolamenti consiliari,” per partecipare alle riunioni degli organi di cui fanno parte per la loro effettiva durata, ivi compreso il tempo per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro (comma 2); dell’assenza, in aggiunta ai permessi sopra indicati, dal rispettivo posto di lavoro per un massimo di 24 ore lavorative al mese, per i “componenti degli organi esecutivi dei comuni, […], delle città metropolitane, delle unioni di comuni, delle comunità montane e dei consorzi fra enti locali, e i presidenti dei consigli comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché i presidenti dei gruppi consiliari delle province e dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti”; il diritto ad assentarsi dal rispettivo luogo di lavoro è elevato a 48 ore per i “i sindaci, […], sindaci metropolitani, presidenti delle comunità montane, presidenti dei consigli provinciali e dei comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti” (comma 4).
[2] Per completezza espositiva si fa presente che l’articolo 79 TUEL, al comma 6, stabilisce che “l’attività ed i tempi di espletamento del mandato per i quali i lavoratori chiedono ed ottengono permessi, retribuiti e non retribuiti, devono essere prontamente e puntualmente documentati mediante attestazione dell’ente”.
[3] Data di entrata in vigore della legge 213/2023, ai sensi dell’articolo 21 della legge medesima.
[4] Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del D.Lgs. 267/2000 per enti locali si intendono “i comuni, le province, le città metropolitane, le comunità montane, le comunità isolane e le unioni di comuni”. Detta previsione deve coordinarsi con l’assetto dell’ordinamento degli enti locali della nostra Regione, che, nell’esercizio della propria potestà legislativa primaria in materia attribuitale dallo statuto ha soppresso le province con la legge regionale 09.12.2016, n. 20, e ha istituito, quali forme di gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali, le Comunità e le Comunità di montagna con la legge regionale 29.11.2019, n. 21
(22.01.2024 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Esito votazioni in consiglio comunale. Parità di voti.
Sintesi/Massima
Una disposizione regolamentare che ritenesse approvata una delibera in caso di parità di voti si porrebbe in contrasto col principio di maggioranza che regola il funzionamento degli organi collegiali.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale il segretario di un comune ha chiesto l'avviso di quest'Ufficio in materia di quorum deliberativo del consiglio comunale. In particolare, è stato chiesto se possa essere introdotta una modifica nel regolamento del consiglio che riguardi la possibilità di intendere approvata una deliberazione in caso di parità di voti.
Come noto, l'art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 dispone che il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento che deve indicare il numero dei consiglieri necessari per la validità delle sedute. L'unico vincolo posto dalla legge statale riguarda il quorum strutturale: la norma dispone, infatti, che la fonte regolamentare deve indicare il numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prevedendo che in ogni caso debba esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco. Nessun limite è posto, invece, da tale fonte con riferimento al quorum funzionale, la cui disciplina è interamente posta a carico dell'ente ed alla sua autonomia.
Tuttavia, si osserva che una disposizione regolamentare, che ritenesse approvata una delibera in caso di parità di voti, si porrebbe in contrasto con il principio di maggioranza che regola il funzionamento degli organi collegiali. Ed invero, la volontà dell'organo collegiale si identifica con quella della maggioranza dei votanti, coincidente, negli organi collegiali perfetti, con la maggioranza dei componenti (Consiglio di Stato-sez. VI, n. 470 del 05.02.2016).
Tale assunto è stato ribadito recentemente dal TAR Lazio-sez. III che, con sentenza n. 13157 del 2023, ha ritenuto il principio di maggioranza quale regola generale di formazione della volontà negli organi collegiali. La riforma del Titolo V della Costituzione fa espressa menzione del potere normativo dei comuni, delle province e degli altri enti locali, prevedendo a livello costituzionale sia un potere statutario (art. 114, comma 2, Cost.) sia un potere regolamentare (art. 117 Cost.); tuttavia, tale potere normativo deve essere esercitato nel rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento.
Infatti, lo stesso d.lgs. n. 267/2000 richiama più volte il principio di maggioranza come criterio da considerare ai fini della volontà del consiglio comunale (parere 19.01.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

TRIBUTI: L'ufficio tributi di questo comune, nel corso del corrente mese di gennaio, sta procedendo all'elaborazione di avvisi di accertamento con riferimento ad IMU 2019.
Le novità in tema di contenzioso tributario ed in particolare l'abrogazione dell'istituto del reclamo mediazione sono immediatamente efficaci?

Come ricordato nel quesito, sulla Gazzetta Ufficiale n. 2 del 03/01/2024 (con espressa indicazione di efficacia a partire dal giorno successivo alla pubblicazione in deroga al principio della "vacatio legis") è stato pubblicato il D.Lgs. 30.12.2023 n. 220 recante "Disposizioni in materia di contenzioso tributario".
La normativa che ha introdotto alcune novità sostanziali alla gestione del contenzioso tributario che sono entrate in vigore quasi tutte dal 4 gennaio (giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) salvo alcune ipotesi espressamente indicate all'art. 4, comma 2, dello stesso Decreto Legislativo per le quali l'efficacia è procrastinata al prossimo 1° settembre.
Ricordiamo brevemente, per completezza di analisi, quali sono le principali novità introdotte:
   - Abrogazione dell'istituto del reclamo-mediazione ex art. 17-bis, D.Lgs. 31.12.1992 n. 546;
   - Novità in tema di ricorsi per vizi dell'atto presupposto da ente diverso da quello che ha emesso l'atto impugnato che ora vanno proposti nei confronti di entrambi gli enti (ad esempio, ricorso contro atto dell'Agenzia delle Entrate Riscossione, che segue un accertamento esecutivo del Comune mai ricevuto, va proposto obbligatoriamente nei confronti di entrambi);
   - Per gli appelli notificati dal 05.01.2024 non sono ammessi nuovi mezzi di prova ed è vietato produrre nuovi documenti salvo specifiche eccezioni;
   - L'impugnazione dell'ordinanza cautelare innanzi alla Corte di Giustizia Tributaria - Cgt di secondo grado entro il termine di 15 giorni (ovvero quella emessa dal giudice monocratico dinanzi alla Cgt di primo grado in composizione collegiale);
   - Lettura immediata del dispositivo dopo l'udienza di merito ovvero il deposito e la comunicazione entro i successivi 7 giorni.
   - Novità in tema di autotutela obbligatoria e facoltativa prevedendo che tra gli atti impugnabili elencati nell'art. 19, D.Lgs. 31.12.1992 n. 546 sono inseriti il rifiuto espresso o tacito sull'istanza di autotutela nei casi previsti dall'art. 10-quater, comma 2, L. 27.07.2000, n. 212 e il rifiuto espresso sull'istanza di autotutela nei casi previsti dall'art. 10-quinquies, della medesima legge;
Con particolare riferimento alla questione proposta alla nostra attenzione e fermo restando che per gli atti non ancora notificati al 4 gennaio (o non consegnati all'agente postale per la notifica mezzo posta) occorre modificare la dicitura sugli avvisi di accertamento eliminando ogni riferimento al reclamo-mediazione, riteniamo che per il principio del tempus regit actum, tutti ricorsi notificati dal 4 gennaio non devono essere più preceduti dal reclamo/mediazione a prescindere dalla data di notifica dell'accertamento impugnato (con costituzione in giudizio entro 30 giorni dalla notifica).
A nostro parere, pertanto, appare irrilevante la data di notifica ante abrogazione dell'atto impositivo risultando invece determinante la data di proposizione del ricorso.
Al contrario, tutti i ricorsi notificati prima del 04.01.2024 rimangono soggetti a mediazione e seguiranno le regole precedenti (costituzione in giudizio solo decorsi i 90 giorni per la fase di reclamo).
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 31.12.1992 n. 546, art. 17-bis - D.Lgs. 31.12.1992 n. 546, art. 19 - L. 27.07.2000, n. 212, art. 10-quater - L. 27.07.2000, n. 212, art. 10-quinquies - D.Lgs. 30.12.2023 n. 220 (17.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALI: Corretta costituzione del consiglio di Unione Montana. Dimissioni del consigliere di minoranza.
Sintesi/Massima
La cessazione dalla carica di un consigliere non impedisce all'organo di funzionare medio tempore, salvo l'obbligo di tempestiva convocazione dell'assemblea per provvedere alla surroga.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha chiesto l'avviso di quest'Ufficio in merito alla corretta operatività del consiglio della Unione ... a seguito della mancata sostituzione di un rappresentante delle minoranze dei comuni facenti parte dell'Unione.
In particolare, è stato rappresentato che, a seguito della decadenza di un consigliere di minoranza, l'ente non è riuscito a procedere all'elezione di altro consigliere in quanto, sia nella prima che nella seconda convocazione della conferenza straordinaria dei consiglieri di minoranza dei comuni membri, non è stato raggiunto il numero legale dei partecipanti in ben tre sedute convocate.
È stato, quindi, chiesto se, nelle more dell'elezione del nuovo consigliere di minoranza, il consiglio dell'Unione montana, che raggiungerebbe comunque in caso di convocazione il numero legale, possa essere convocato dal presidente, attesa la necessità di approvare provvedimenti che risultano in scadenza.
Al riguardo, si richiama l'art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, come modificato dall'art. 1, comma 105, lett. a), della legge 56 del 2014, il quale prevede che il consiglio della Unione di comuni "è composto da un numero di consiglieri definito nello statuto, eletti dai singoli consigli dei comuni associati tra i propri componenti, garantendo la rappresentanza delle minoranze e assicurando la rappresentanza di ogni comune".
Lo statuto dell'Unione montana all'articolo 7, comma 2, prevede che "Il Consiglio è composto da n. 15 membri compreso il Presidente (art. 37 TUEL D.Lgs. 267/2000 ss.mm. e ii.): Sindaci o Consiglieri dei Comuni partecipanti all'Unione stessa, da nominarsi entro 20 giorni dall'insediamento, e membri individuati fra tra le minoranze comunali ove presenti, fino ad un massimo di n. 3".
Il comma 3 contiene una clausola di salvaguardia in quanto dispone che, se entro il citato termine di 20 giorni il Comune non provvede alla nomina del consigliere, il sindaco è considerato componente a tutti gli effetti del consiglio dell'Unione in rappresentanza di quell'ente locale. Il successivo comma 7 demanda l'elezione dei membri della minoranza alla conferenza straordinaria di tutti i consiglieri di minoranza in carica.
In merito al quesito posto, poiché è da ritenersi prevalente la necessità di garantire la funzionalità dell'ente, ed in particolare del consiglio, quale organo che, come recita l'articolo 7, comma 1, dello statuto, "… determina l'indirizzo politico dell'Unione stessa ed esercita il controllo politico-amministrativo, adottando gli atti fondamentali previsti della legge per i Consigli comunali", si condivide l'avviso della Prefettura in merito all'applicazione nel caso in esame del principio espresso dal TAR Lombardia - Sez. di Brescia - con sentenza n. 245 del 28.02.2006.
Con tale pronuncia il giudice amministrativo ha affermato che "la cessazione dalla carica di un consigliere non impedisce all'organo di funzionare medio tempore, salvo … l'obbligo di tempestiva convocazione dell'assemblea per provvedere alla surroga". L'orientamento giurisprudenziale consolidato in materia ritiene non ammissibile un blocco delle attività del consiglio ogni qualvolta un componente rassegni le dimissioni (parere 15.01.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

PUBBLICO IMPIEGOUna dipendente di questo ministero nel corso della fruizione di cinque giorni di congedo parentale, al secondo giorno trasmette all'ufficio personale un certificato di malattia.
I giorni di congedo non usufruiti sono persi oppure vengono sospesi dalla malattia e quindi sono recuperabili?

Nell'ambito del CCNL Funzioni Centrali l'istituto del congedo parentale (o congedo dei genitori) è attualmente disciplinato dall'art. 28 del CCNL per il triennio 2019/2021 disapplicando il precedente art. 44 del CCNL 12.02.2018.
La differenza tra malattia e congedo parentale sia in termini giuridici che economici è di tutta evidenza e pertanto necessita di un doveroso approfondimento sia a tutela dell'Ente che del lavoratore stesso.
I commi 3 e 4 del CCNL 2019/2021 così disciplinano il congedo parentale:
   "3. Nell'ambito del congedo parentale previsto per ciascun figlio dall'art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2001, per le lavoratrici madri o in alternativa per i lavoratori padri, i primi trenta giorni, computati complessivamente per entrambi i genitori e fruibili anche frazionatamente, non riducono le ferie, sono valutati ai fini dell'anzianità di servizio e sono retribuiti per intero secondo quanto previsto dal comma 2.
   4. Successivamente al congedo per maternità o di paternità, di cui al comma 2, e fino al terzo anno di vita del bambino, nei casi previsti dall'art. 47 del d.lgs. n. 151 del 2001, alle lavoratrici madri ed ai lavoratori padri sono riconosciuti trenta giorni per ciascun anno computati complessivamente per entrambi i genitori, di assenza retribuita secondo le modalità di cui al comma 3
".
Tanto ciò premesso, con un orientamento risalente al 2011 ma sempre attuale, ARAN si era espressa sulla materia (orientamento RAL_873) ritenendo ammissibile che, sulla base dell'art. 22, D.Lgs. 26.03.2001, n. 151, la lavoratrice possa interrompere la fruizione in atto del congedo parentale in caso di malattia specificando che a tal fine "la lavoratrice chiederà la trasformazione del titolo dell'assenza, da congedo parentale in assenza per malattia, presentando la necessaria documentazione".
In materia trova applicazione, da quel momento in poi, la generale disciplina delle assenze per malattia ex art. 29 del citato CCNL.
Come evidenziato da ARAN nell'orientamento RAL_873, infine, sottolineiamo come per l'utilizzo successivo della giornata di congedo parentale non usufruito, il dipendente presenterà una nuova domanda all'ente.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 26.03.2001, n. 151, art. 22 - Acc. 09.05.2022, art. 28 - Acc. 09.05.2022, art. 29 - orientamento ARAN RAL_873 (10.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso agli atti del consigliere comunale Presidente dalla Commissione di controllo e Garanzia.
Sintesi/Massima
In materia d'accesso agli atti, la riservatezza non è opponibile ai consiglieri comunali, perché tenuti al segreto d'ufficio. L'equilibrato bilanciamento si raggiunge attraverso l'ostensione degli atti, previa "mascheratura" dei nominativi e dei dati idonei a consentirne l'individuazione.
Testo
Con nota pervenuta in data 20.10.2023, il sindaco del Comune ... ha chiesto l'avviso di quest'Ufficio in materia di accesso agli atti.
In particolare, è stato chiesto se un consigliere comunale, che è anche presidente della commissione di controllo e garanzia, possa accedere ad informazioni riguardanti il pagamento della TARI da parte di enti, associazioni, cooperative che gestiscono immobili di proprietà comunale, nonché informazioni relative al pagamento della tassa di occupazione del suolo pubblico da parte di titolari di esercizi pubblici che espongono merci all'esterno dei propri negozi, anche su aree delimitate da stalli per il parcheggio dei veicoli a pagamento.
Al riguardo, nel ribadire quanto espresso nel parere n. 25717 del 21.09.2023 di quest'Ufficio pubblicato in data 11 ottobre scorso, a cui ha fatto riferimento anche il sindaco nella propria nota, si richiama la sentenza del Consiglio di Stato del 01.03.2023 n. 2189, secondo cui la riservatezza non è opponibile ai consiglieri comunali, in quanto gli stessi sono tenuti al segreto d'ufficio ai sensi dell'art. 43, comma 2, TUEL (cfr. anche sentenza TAR Lazio-Latina, 03.03.2023, n. 49).
Nel contempo, il giudice amministrativo ha ribadito che il rispetto di un equilibrato bilanciamento si può utilmente raggiungere attraverso l'ostensione di tutti gli atti richiesti, previa "mascheratura" dei nominativi e di ogni altro dato idoneo a consentire l'individuazione degli stessi. Il diritto di accesso del consigliere, seppur più ampio rispetto all'accesso agli atti amministrativi previsto dall'art. 7 della legge n. 241/1990, non può esercitarsi, quindi, con pregiudizio di altri interessi riconosciuti dall'ordinamento meritevoli di tutela.
Sul punto il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4792 del 22.06.2021, ha evidenziato che l'esercizio del diritto di accesso di cui all'articolo 43, comma 2, TUEL deve essere letto ed interpretato in stretto rapporto con l'art. 42 del medesimo TUEL; pertanto, il suddetto limite implica che il diritto di conoscenza del consigliere debba porsi in rapporto di strumentalità con la funzione "di indirizzo e di controllo politico-amministrativo", propria del consiglio comunale. I dati e le informazioni di cui viene a conoscenza il consigliere comunale devono essere utilizzati solo per le finalità realmente pertinenti al mandato, rispettando il dovere del segreto secondo quanto previsto dalla legge e nel rispetto dei principi in materia di privacy.
Si osserva che, nel caso in esame, essendo stato rilevato che le richieste del consigliere in argomento vengono effettuate nella qualità di presidente della commissione di controllo e garanzia, le cui funzioni sono declinate dall'articolo 14, comma 5, del regolamento delle commissioni consiliari, occorre tenere in considerazione anche il comma 8 del citato articolo 14, il quale prevede che "La Commissione ha diritto di accesso agli atti degli uffici e servizi comunali per effettuare le verifiche, i controlli e gli accertamenti previsti dal precedente quinto comma. I responsabili dei servizi e l'altro personale addetto agli uffici e servizi sono tenuti a prestare alla Commissione tutta la collaborazione dalla stessa richiesta".
Si evidenzia, comunque, che sul consigliere non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che rientra nelle prerogative del consigliere comunale il controllo dell'attività svolta dall'ente, fermi restando gli obblighi di riservatezza cui lo stesso è tenuto a norma di legge (parere 09.01.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

ENTI LOCALI: Questa amministrazione comunale non ha approvato il bilancio di previsione 2024/2026 entro il termine del 31.12.2023.
A seguito della modifica dei principi contabili ed al fine di aderire all'esercizio provvisorio, è necessaria -a partire da quest'anno- una apposita deliberazione consiliare da adottarsi nei primi giorni dell'anno?
Come giustamente ricordato nel quesito sottoposto alla nostra analisi, la nuova disposizione del punto 9.3.6 del Principio contabile Allegato n. 4/1 al D.Lgs. 23.06.2011, n. 118 come modificato dal Decreto 25.07.2023 del Ministro dell'economia e delle finanze cita testualmente che "Il rinvio dei termini di approvazione del bilancio disposto con decreto ministeriale ai sensi dell'art. 151, comma 1, del TUEL, anche se determinato da motivazioni di natura generale, è adottato dagli enti locali effettivamente impossibilitati ad approvare il bilancio nei termini, per le motivazioni addotte nei decreti ministeriali".
A seguito di tale formulazione gli operatori degli uffici finanziari si sono posti il problema sulla necessità o meno di approvare in sede Consiliare una apposita deliberazione al fine di "aderire" all'esercizio provvisorio nelle more dell'approvazione del bilancio di previsione se non avvenuta entro il 31 dicembre.
Sulla scorta di quanto innanzi, possiamo dire che almeno per questo esercizio finanziario il D.M. 22.12.2023 del Ministro dell'interno che proroga i termini per l'approvazione del bilancio di previsione 2024/2026 al 15.03.2024 non lascia spazio a dubbi dove dispone che "Ai sensi dell'articolo 163, comma 3, del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, è autorizzato per gli enti locali l'esercizio provvisorio del bilancio, sino alla data di cui al comma 1".
Pertanto, il Ministro ha di fatto autorizzato l'esercizio provvisorio del bilancio fino al 15.03.2024 per tutti gli enti che non abbiano già approvato il documento contabile senza necessità di un previo passaggio consiliare.
In ultimo evidenziamo come con la FAQ n. 54 pubblicata lo scorso 28 dicembre la commissione Arconet secondo cui gli enti che intendono avvalersi del citato rinvio nell'approvazione del bilancio ‘possono' (e non devono) indicare le motivazioni che non hanno consentito l'approvazione del documento contabile nei termini di legge (entro il 31 dicembre) all'interno del corpo della delibera stessa di approvazione.
----------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 163 - D.Lgs. 23.06.2011, n. 118, Allegato n. 4/1 - D.M. 22.12.2023 del Ministro dell'interno
Documenti allegati

Decreto 25.07.2023 del Ministro dell'economia e delle finanze
(04.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTI: Come giustificare la competenza nell’adozione di un provvedimento da parte di un Ufficio con PEG ancora in attesa di approvazione?
DOMANDA:
Come giustificare la competenza nell'adozione di un provvedimento da parte di un Ufficio con PEG ancora in attesa di approvazione, ma in esercizio definitivo in quanto il Bilancio è approvato? Sì può fare riferimento al PEG relativo all'esercizio precedente?
RISPOSTA:
L’articolo 107 del Tuel, stabilisce che spettano ai responsabili degli uffici nominati dal Sindaco secondo quanto stabilisce l’art. 50 comma 10 del Tuel, tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione anche verso l’esterno, non compresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico–amministrativo degli organi di governo dell’ente.
Il comma 3 del citato articolo 107, elenca in particolare quali sono i compiti attuativi degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dagli organi di governo dell’ente.
Sulla base dei principi sopra richiamati, nel caso esposto nel quesito, si ritiene che se l’atto adottato dal responsabile di un servizio è relativo alla gestione ordinaria conseguente a scelte e decisioni, già assunte dalla Giunta con provvedimenti precedenti (ad esempio: acquistare le forniture necessarie al normale funzionamento di un asilo nido, acquistare beni di cancelleria necessari al funzionamento degli uffici, ecc.; cioè qualsiasi provvedimento conseguente a decisioni che garantiscano l’ordinaria amministrazione o comunque la prosecuzione di attività già decise in precedenza dalla Giunta), sia corretto anche in assenza del Peg relativo all’anno in corso.
Se si tratta, invece, di provvedimenti riguardanti nuove decisioni o nuovi obiettivi che debbono essere decisi dalla Giunta con il nuovo Peg, si ritiene che il responsabile di servizio non sia legittimato ad adottare un provvedimento.
Quindi, nel caso in questione, occorre dimostrare che il provvedimento adottato dal responsabile del servizio, si è reso necessario in quanto derivante da norme di legge e necessario ad evitare il cattivo funzionamento di servizi già attivati dall’ente o comunque necessari ad evitare che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi per l’ente (dicembre 2023 - tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOUTC: condizioni per l’attribuzione di funzioni vicarie ad un dipendente di Area Istruttori
DOMANDA:
In un comune di 2mila abitanti l'UTC ha come apicale un ingegnere di Cat. D. Da un paio di anni è stato assunto un geometra di Cat. C che nel frattempo si è laureato come architetto e presta la sua attività in un comune vicino con scavalco di eccedenza in funzione apicale però di Cat. C.
In considerazione di questa ultima circostanza il Sindaco, posto che ha laurea in architettura, vorrebbe attribuire le funzioni vicarie dell'UTC in assenza o impedimento dell'ingegnere, come hanno fatto tanti enti locali nella medesima situazione.
Si chiede di sapere se è legittimo e se tali funzioni vicarie possano portare il dipendente a chiedere in futuro le mansioni superiori che, comunque, il decreto del Sindaco di conferimento delle funzioni vicarie espressamente escluderebbero.
RISPOSTA:
In relazione alla situazione prospettata, viste le dimensioni dell’Ente, si deve presumere che nel settore tecnico del Comune non vi siano in organico altri Funzionari ex Cat. D in possesso delle competenze necessarie per l’attribuzione di un incarico ad interim, che dovrebbe normalmente rappresentare la prima opzione da considerare.
Stando così le cose, le funzioni vicarie ad un dipendente di Area Istruttori può avvenire a determinate condizioni.
Il presupposto iniziale deve necessariamente essere l’assenza di una doppia remunerazione: per la stessa posizione organizzativa non è consentito corrispondere due retribuzioni di posizione contemporaneamente. Ogni eventuale riconoscimento economico a favore del vicario deve vedere una corrispondente decurtazione del trattamento spettante al titolare; diversamente, la responsabilità del vicario dovrà essere svolta a titolo gratuito, il che pare per nulla equo oltre che poco corretto.
Affinché la sostituzione possa avvenire, inoltre, non è sufficiente la mera nomina del vicario, ma occorre una previsione specifica all’interno del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, con la quale disciplinare in quali circostanze l’avvicendamento potrà essere attivato.
E’ sicuramente da escludere l’assenza per ferie, stante quanto disposto dall’art. 38, comma 1, del CCNL, perché il titolare continua a percepire l’intera retribuzione di posizione, o per congedo di maternità/paternità. Per le altre assenze, è opportuno definire una soglia minima di assenza oltre la quale può scattare la sostituzione, su decreto del Sindaco.
Per quanto riguarda le mansioni superiori, esse più che conseguenza dell’attribuzione del ruolo vicario dovrebbero esserne il presupposto: per lo svolgimento di funzioni apicali l’ordinamento dell’Ente prevede una figura di Area Funzionari e secondo la stessa logica durante tale assegnazione anche il dipendente vicario dovrebbe essere temporaneamente inquadrato in questa Area.
Non è chiaro dal quesito se si voglia invece intendere il concetto di mansioni superiori nel senso di progressione “verticale”, che darebbe luogo ad una crescita professionale di natura stabile.
Se così fosse, sicuramente l’assegnazione temporanea di un ruolo apicale potrebbe essere valutata tra gli “incarichi rivestiti” valutati ai fini delle progressioni tra le aree secondo l’art. 15 del CCNL, o tra le “competenze acquisite nei contesti lavorativi” di cui all’art. 13 comma 7; tuttavia, non sussiste alcun automatismo in tal senso, né il lavoratore potrà vantare diritti al reinquadramento sulla base dell’esercizio temporaneo di funzioni vicarie (dicembre 2023 - tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it).

TRIBUTIFabbricati collabenti e in corso di costruzione: imposizione fiscale prima e dopo il 2020.
DOMANDA:
Vorremmo fare un po' di sintesi sulla questione dei fabbricati collabenti e fabbricati in corso di costruzione distinguendo tra periodo di imposta ante 2020 e post 2020.
RISPOSTA:
I titolari di fabbricati fatiscenti, privi di rendita, non pagano l'Imu né sui fabbricati né sulle aree edificabili sottostanti. Questi beni immobili non possono essere assoggettati a imposizione fino a quando l’eventuale demolizione restituisca autonomia alle aree per poter essere nuovamente edificate.
Si è così espresso il dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia con la risoluzione n. 4 del 16.11.2023.
La presa di posizione ministeriale, che ha fatto seguito alle richieste di parere di diversi comuni, è chiara nell’escludere l’assoggettamento a imposizione dei fabbricati cosiddetti collabenti, iscritti nella categoria catastale F/2. Si tratta di unità immobiliari privi di rendita (fabbricati fatiscenti, diroccati, ruderi, etc.,), non soggetti al tributo. Per il Ministero, dunque, sono “beni immobili caratterizzati da notevole livello di degrado, che ne determina l’assenza di autonomia funzionale e l’incapacità reddituale temporalmente rilevante”.
Viene richiamato nella risoluzione l’art. 1, comma 741, lett. a), della legge 160/2019, in base al quale per fabbricato si intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio urbano con attribuzione di rendita catastale, considerandosi parte integrante del fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce pertinenza esclusivamente ai fini urbanistici, purché accatastata unitariamente; il fabbricato di nuova costruzione è soggetto all'imposta a partire dalla data di ultimazione dei lavori di costruzione ovvero, se antecedente, dalla data in cui è comunque utilizzato”.
I fabbricati collabenti, per il dipartimento, “sono a tutti gli effetti “Fabbricati” e la circostanza che siano “privi di rendita” li porta ad essere esclusi dal novero dei fabbricati imponibili”.
Questo comporta che “non possono essere qualificati diversamente, come vorrebbero invece i comuni che li definirebbero “terreni edificabili”. Non assume alcuna rilevanza ai fini dell’imposizione il fabbricato, perché privo di rendita, e neppure l’area edificabile, in quanto in Catasto risulta iscritto il fabbricato, “salvo che l'eventuale demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile che, solo da quel momento, è soggetta a imposizione come tale, fino al subentro dell’imposta sul fabbricato ricostruito".
Anche il fabbricato di nuova costruzione non è soggetto al pagamento dell'Imu fino a quando non è ultimato o effettivamente utilizzato. Queste regole valgono sia prima che dopo il 2020 (dicembre 2023 - tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Gruppo misto. Composizione delle commissioni consiliari.
Sintesi/Massima
Il TAR Veneto con sentenza n. 1273/2022 introduce il principio di non imposizione del numero minimo di consiglieri per costituire un gruppo misto.
L'ente che intenda applicare il suddetto principio dovrà apportare le dovute modifiche statutarie e regolamentari.
Testo
Un segretario generale ha chiesto se, alla luce della sentenza del TAR Veneto 08.08.2022 n. 1273, il consigliere comunale fuoriuscito dall'originario gruppo di appartenenza possa confluire nel gruppo misto unipersonale e, conseguentemente, se possa essere convocato per partecipare alle commissioni consiliari permanenti.
Tanto è stato chiesto in considerazione del fatto che lo statuto comunale all'articolo 30 prevede la formazione di nuovi gruppi solo se composti da due componenti, ad eccezione dei gruppi i cui consiglieri rappresentano liste che hanno ottenuto un solo seggio, mentre la sopracitata sentenza introduce il principio che non si può imporre un numero minimo dei consiglieri per costituire un gruppo misto.
Al riguardo, si premette che il citato articolo 30, al comma 2, prevede, tra l'altro, che il consigliere che "non sia accettato da nessun gruppo entra a fare parte del gruppo misto se esistente".
Anche il regolamento del consiglio comunale, approvato con deliberazione n. 35 del 24.07.1995, ossia in data antecedente all'adozione del TUEL n. 267/2000 ed allo statuto comunale approvato nel 2005, all'art. 8 disciplina la costituzione dei gruppi consiliari.
In particolare, il comma 2 dispone che ciascun gruppo è costituito da almeno tre consiglieri, mentre un gruppo può essere costituito da un solo consigliere nel caso che una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere. Il successivo comma 5 precisa che il consigliere che si distacca dal gruppo originario e non aderisce ad altri gruppi non acquisisce le prerogative che spettano ad un gruppo consiliare. Il predetto comma 5 prevede ancora che "qualora più consiglieri vengano a trovarsi nella predetta condizione, essi costituiscono un gruppo misto"; pertanto, anche il regolamento consente la formazione del gruppo misto solo in presenza di più consiglieri e tale gruppo deve intendersi costituito da almeno due componenti alla luce di quanto previsto dalla norma statutaria.
In merito alla questione sottoposta occorre evidenziare che il TAR Veneto, con sentenza n. 1273 dell'08.08.2022, citata dal segretario generale, afferma, come si è innanzi detto, un importante principio secondo cui "la disposizione del regolamento del consiglio, che impone un numero minimo di consiglieri … per costituire il gruppo misto … introduce un irragionevole sbarramento che preclude non la semplice costituzione di un gruppo unipersonale, espressivo di un qualche orientamento politico, ma l'iscrizione necessaria del consigliere fuoriuscito in un gruppo privo di autonoma connotazione politica (il c.d. gruppo misto) in quanto strumentale all'accesso alla dimensione superindividuale del mandato elettorale".
Il giudice amministrativo, con la sopracitata pronuncia, ha precisato che "l'alterazione verificatasi nella rappresentanza proporzionale dei gruppi all'interno della commissione, legittima il Consiglio comunale a provvedere al ripristino dei rapporti numerici, specie se … il recesso della ricorrente dal gruppo di maggioranza ne ha comportato l'iscrizione nel gruppo misto (cui andrebbe comunque attribuito un commissario) e spostato in una certa percentuale gli equilibri tra le forze politiche".
Ciò posto, occorre tenere presente che la materia concernente la costituzione ed il funzionamento dei gruppi consiliari è demandata proprio allo statuto ed al regolamento di ciascun ente locale e, pertanto, le problematiche ad essa connesse devono trovare adeguata soluzione nell'ambito delle suddette fonti normative.
Come è stato più volte evidenziato da quest'Ufficio in pareri già resi, compete al consiglio comunale, nella sua autonomia, fornire un'interpretazione delle norme statutarie e regolamentari di cui si è dotato e valutare l'opportunità di modificare il regolamento al fine di disciplinare in maniera più puntuale la materia in esame. Riguardo alla formazione delle commissioni consiliari, occorre garantire il rispetto del principio di proporzionalità ex art. 38, comma 6, TUEL n. 267/2000, richiamato anche dall'articolo 10, comma 2, del regolamento comunale.
In proposito, si richiama altresì la sentenza del Consiglio di Stato - sez. V, n. 4919 del 25.10.2017, con cui si è puntualizzato che "... per esigenze di funzionalità delle articolazioni interne referenti, costituite appunto dalle commissioni del consiglio, l'inderogabile principio di proporzionalità ... può essere attuato non già solo con riguardo alla composizione dell'organo, ma alle modalità di voto. In particolare … la commissione può essere composta in modo tale da assicurare la presenza in essa di tutte le forze politiche presenti in consiglio, ma con la contestuale previsione di un sistema di voto in grado di rifletterne il diverso peso rappresentativo, e dunque di rispettare sotto questo diverso profilo il principio di proporzionalità di cui all'art. 38, comma 6, t.u.e.l.".
Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sopra citato, se l'ente intende applicare il principio che si desume dalla menzionata sentenza del TAR Veneto, dovrà apportare le dovute modifiche allo statuto comunale e prevedere nel regolamento sul funzionamento delle commissioni consiliari anche i poteri e l'organizzazione del gruppo misto unipersonale (parere 14.12.2023 - link a https://dait.interno.gov.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Commissione giudicatrice concorso pubblico. Nomina, in qualità di membro, di rappresentante sindacale.
Per quanto concerne la presenza di rappresentanti sindacali all'interno delle commissioni giudicatrici di concorso, la giurisprudenza non ha espresso orientamenti univoci.
Secondo una certa interpretazione
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 28.07.2014, n. 3972), è da rimarcare il significato letterale della formulazione, da intendersi cioè riferito in generale a “coloro che ricoprono cariche sindacali”. Un tanto considerando la volontà del legislatore di fugare ogni possibilità di sviamento dell’interesse pubblico o di un’imparziale e non trasparente valutazione dei concorrenti.
Secondo un diverso orientamento
(cfr., tra le altre, Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 31.01.2020, n. 796 e sez. VI, 01.06.2010, n. 3461), occorre che vi sia comunque un qualche elemento di possibile incidenza tra l’attività esercitabile da colui che ricopre cariche politiche, sindacali o professionali e l’attività dell’ente che bandisce il concorso, altrimenti la disposizione verrebbe a generalizzare in modo eccessivo e senza adeguata giustificazione il sospetto di imparzialità anche nei confronti di soggetti che non gestiscano alcun potere rilevante e perciò non siano comunque idonei, sia pure da un punto di vista astratto, a condizionare la vita dell’ente che indice la selezione.

Il Comune chiede alcuni chiarimenti in ordine alla nomina di un rappresentante sindacale in qualità di membro di una commissione giudicatrice di un concorso che l’Ente è in procinto di indire per l’assunzione di un Agente di Polizia, categoria PLA. In particolare, l’Ente gradirebbe conoscere se un rappresentante sindacale nel comune da cui dipende possa essere nominato membro esterno di una commissione esaminatrice di concorso bandito da altra amministrazione.
Come noto, l’art. 35, comma 3, lett. e), del d.lgs. 165/2001 dispone che la composizione delle commissioni concorsuali nelle pubbliche amministrazioni si caratterizza per l’esclusiva presenza di esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali.
[1]
In ordine all’interpretazione della locuzione “rappresentanti sindacali” si è espressa la giustizia amministrativa, che ha assunto in merito posizioni non univoche.
Secondo un certo orientamento
[2], è da rimarcare il significato letterale della formulazione, da intendersi cioè riferito in generale a “coloro che ricoprono cariche sindacali”. Un tanto considerando la volontà del legislatore di fugare ogni possibilità di sviamento dell’interesse pubblico o di un’imparziale e non trasparente valutazione dei concorrenti. Ciò si realizzerebbe infatti per la mera qualità di risultare rappresentante sindacale, indipendentemente dal conferimento di mandati specifici; la carica sindacale è assunta in conseguenza di una precisa impostazione sulle politiche lavorative del singolo settore e potrebbe comunque influenzare il giudizio del componente [3].
Si è pertanto evidenziato –in tale contesto– che la normativa vigente non autorizza un’interpretazione restrittiva delle disposizioni, poiché la formulazione stessa della norma esclude sic et simpliciter ed in astratto i rappresentanti sindacali dalle commissioni di concorso.
Corre l’obbligo di segnalare che un diverso orientamento, confermato più recentemente
[4] ha invece sottolineato che necessita applicare criteri puntuali per l’applicazione del divieto di cui si discute.
Si è rilevato che “occorre che vi sia comunque un qualche elemento di possibile incidenza tra l’attività esercitabile da colui che ricopre cariche politiche, sindacali o professionali e l’attività dell’ente che indice il concorso, altrimenti la disposizione verrebbe a generalizzare in modo eccessivo e senza adeguata giustificazione il sospetto di imparzialità anche nei confronti di soggetti che non gestiscano alcun potere rilevante e perciò non siano comunque idonei, sia pure da un punto di vista astratto, a condizionare la vita dell’ente che indice la selezione. Detto elemento di collegamento, in mancanza di criteri legali, può essere rinvenuto nella sfera di influenza dell’attività svolta dal soggetto ricoprente cariche politiche, sindacali o professionali, per cui se questa in astratto è idonea a riverberare i suoi effetti anche sull’ente che indice la selezione, l’incompatibilità deve ritenersi sussistente, altrimenti deve escludersi, salva la deducibilità delle ipotesi di cui all’art. 51 c.p.c., o del vizio di eccesso di potere sotto i diversi profili consentiti”.
Si è inoltre rimarcato –in detto contesto– che la possibilità di influire sull’ente che indice la selezione potrebbe favorire la costituzione, già in fase concorsuale, di rapporti di “affiliazione” tra il commissario-rappresentante sindacale ed alcuno dei concorrenti, in funzione del rafforzamento della posizione dell’esponente sindacale nell’esercizio dei suoi compiti rappresentativi, con i conseguenti intuibili effetti perturbatori sulla corretta ed imparziale esplicazione delle valutazioni concorsuali.
In sostanza, l’estraneità dell’amministrazione che ha indetto il concorso al raggio di azione del rappresentante sindacale non consentirebbe di prefigurare la necessaria interferenza tra i suoi compiti sindacali e l’attività della prima, situazione che integra il presupposto applicativo del divieto normativo in esame.
-----------------
[1] Analoga previsione è contemplata all’art. 9, comma 3, del D.P.R. 487/1994.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 28.07.2014, n. 3972
[3] In tal senso si sarebbe espresso il Consiglio di Stato, sezione I, 20.03.2002, n. 653/2002 (non reperibile) citato da C.d.S. n. 3972/2014.
[4] Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 31.01.2020, n. 796; sez. VI, 01.06.2010, n. 3461; Sez. V, n. 6526 del 21.10.2003; sez. V, 27.07.2002, n. 4056
(21.11.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

VARI: Contributi in favore degli amministratori di sostegno.
  
1) L’incarico dell’amministratore di sostegno è gratuito. Il solo giudice tutelare tuttavia, considerando l'entità del patrimonio e le difficoltà dell'amministrazione, potrebbe assegnargli un'equa indennità.
   2) Si ritiene che il Comune non possa prevedere una forma contributiva in favore degli amministratori di sostegno operanti sul territorio comunale: infatti, un tale beneficio economico sarebbe in contraddizione con l’essenziale gratuità dell’ufficio di amministratore di sostegno, espressamente stabilita dalla legge.

Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di prevedere una forma contributiva in favore degli amministratori di sostegno operanti sul territorio comunale.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si formulano le seguenti considerazioni.
In via generale, si ricorda che la definizione di amministratore di sostegno è contenuta nell’articolo 404 del codice civile il quale recita: “La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio.”.
Il legislatore italiano, dopo un lungo iter, con la legge 09.01.2004, n. 6 ha introdotto nel codice civile il titolo XII dedicato alla disciplina delle misure di protezione dei soggetti privi, in tutto o in parte, di autonomia
[1].
In particolare, l’articolo 411 del codice civile, rinvia, quanto alle norme da applicare all’istituto in riferimento, ad alcune disposizioni dettate in tema di tutela, tra le quali, per quanto qui rileva, vi è l’articolo 379 c.c. il cui primo comma recita: “L'ufficio tutelare è gratuito.”. Il comma secondo del medesimo articolo dispone, poi, che: “Il giudice tutelare tuttavia, considerando l'entità del patrimonio e le difficoltà dell'amministrazione, può assegnare al tutore un'equa indennità. […]”.
Con riferimento all’amministratore di sostegno, la dottrina ha rilevato che “la norma, in considerazione del carattere pubblicistico dell’incarico, afferma la tendenziale gratuità dello stesso. Ciò, anche in ragione del fatto che l’incarico, assai frequentemente, è svolto da familiari o stretti congiunti del beneficiario e che sarebbe contrario ad un comune senso di equità e ragionevolezza prevedere un compenso per quella che, di fatto, è l’assistenza di un proprio caro.”
[2].
La possibilità di riconoscere all’amministratore di sostegno un’equa indennità, tenuto conto dell’entità del patrimonio del beneficiario e delle difficoltà dell’amministrazione, è rimessa esclusivamente al giudice tutelare. Il permanere, tuttavia, del principio della gratuità dell’incarico serve a ribadire la funzione solidaristica dell’incarico, che non dovrebbe essere assunto con la principale finalità di un arricchimento
[3].
Alla luce di quanto sopra segue l’esistenza di un principio generale in base al quale l’amministratore di sostegno non deve ricevere un compenso per il suo incarico e la possibilità che lo stesso possa ottenere un rimborso delle spese sostenute durante l’adempimento dei suoi doveri è rimessa esclusivamente al giudice tutelare, il quale, in situazioni particolari, può stabilire un equo indennizzo in base alla natura delle attività svolte.
Quanto alla possibilità per l’ente locale di prevedere una contribuzione in favore di tale figura giuridica, si ricorda, in generale, che l’articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241, dispone che “la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi” (comma 1) e che “l’effettiva osservanza” di tali criteri e modalità “deve risultare dai singoli provvedimenti” che concedono i benefici (comma 2).
Premesso che rientra nell’autonomia dell’ente locale, garantita dalla Costituzione, la scelta in ordine al perseguimento degli interessi affidati alle sue cure, pur tuttavia, “'l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non comporta la sottrazione di tali scelte ad ogni possibilità di controllo della conformità alla legge dell'attività amministrativa anche sotto l'aspetto funzionale, vale a dire in relazione alla congruenza dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore.”
[4].
La dottrina ha rilevato come ciò che è escluso dal «sindacato giurisdizionale è unicamente il “merito” amministrativo e non la scelta discrezionale nella sua interezza che deve, in ogni caso, rispettare i c.d. “limiti interni” della discrezionalità–interesse pubblico, causa del potere esercitato, osservanza dei precetti di logicità e di imparzialità – alla cui violazione si fa tradizionalmente risalire il vizio dell’eccesso di potere
[5].
Interessanti risultano essere le considerazioni di recente espresse dalla magistratura contabile, la quale ha rilevato che “gli enti locali possono deliberare contributi a favore di soggetti terzi in relazione alle iniziative ritenute utili per la comunità amministrata, nel rispetto, in concreto, dei principi che regolano il legittimo e corretto svolgimento delle proprie potestà discrezionali, determinati proprio dall'articolo 12 della L. 07.08.1990, n. 241.
Ciascun ente, pertanto, in relazione alle risorse disponibili, individua gli obiettivi da perseguire e le attività che, in concreto, possono essere svolte, ricordando, nel contempo, l'insegnamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui "in ogni operazione di finanziamento a carico della mano pubblica, il beneficio economico è riferibile ad un obiettivo essenziale perseguito dalla relativa disciplina di settore (sia normativa che amministrativa).
Il finanziamento è preordinato al soddisfacimento di un interesse istituzionale che trascende, cioè, pur implicandolo, l'interesse dei destinatari; vale a dire che in ogni operazione di finanziamento non è intellegibile solo un interesse del beneficiario ma anche quello dell'organismo che l'elargisce, il quale a sua volta, altro non è se non il portatore degli interessi, dei fini e degli obiettivi del superiore livello politico istituzionale.
Logico corollario è che le disposizioni attributive di finanziamenti devono essere interpretate in modo rigoroso e quanto più conformemente con gli obiettivi avuti di mira dal normatore" (vd. Consiglio di Stato, Sez. V, 27/06/2012, n. 3778)
.”
[6].
Alla luce delle considerazioni espresse dalla giurisprudenza si sollevano perplessità circa l’ammissibilità della contribuzione in riferimento: infatti, il beneficio economico che l’Amministrazione intenderebbe elargire pare essere in contraddizione con l’essenziale gratuità dell’ufficio di amministratore di sostegno, espressamente stabilita dalla legge.
Si osserva, inoltre, come il servizio pubblico svolto dagli amministratori di sostegno non rientra tra quelli di competenza dell’ente locale, trattandosi di incarico conferito da un giudice (quello tutelare): come affermato dalla dottrina, l’amministratore di sostegno svolge “un'attività «ausiliaria» all'esercizio di una funzione giudiziaria.”
[7].
----------------
[1] L’articolo 1 della legge 6/2004 indica, infatti, quale finalità della legge quella di “tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente.”.
[2] “Amministratore di sostegno: gratuità dell'incarico ed equa indennità”, estratto del volume a cura di Paola Loddo, “L'amministratore di sostegno”, Wolters Kluwer, 2019, reperibile sul seguente sito internet: https://www.altalex.com/
[3] Afferma la dottrina: “In questi variabili e sempre possibili contesti, la scelta del legislatore per la gratuità dell’ufficio pare confidare sulla solidarietà familiare, ma può anche essere letta come una precauzione opportuna, anche se da sola non sufficiente, ad evitare che persone motivate nel senso da ultimo descritto abbiano una ragione in più per occuparsi degli affari del soggetto debole, al solo fine di sbarcare il proprio lunario a sue spese. La prospettiva del dover fare gratuitamente, agisce, infatti, da efficace selettore delle offerte di servizi, ogni qual volta di queste vi sia una sufficiente disponibilità”: così, Morozzo Della Rocca, “L’attività dell’amministratore di sostegno tra gratuità e onerosità”, citato nell’articolo indicato in nota 2.
[4] Corte dei Conti, sez. II centrale d’Appello, sentenza dell’08.06.2015, n. 296.
[5] D. Aragno, “Danno erariale: discrezionalità non fa rima con arbitrarietà”, 26.08.2015, reperibile sul seguente sito internet: https://www.altalex.com/
[6] Corte dei Conti, Lombardia, sez. contr., delibera del 17.04.2019, n. 146.
[7] Così risposta alla Faq 20.08 afferente alla seguente domanda “L’amministratore di sostegno è pubblico ufficiale?”, in “AmmSostegno, Linee Guida, a cura di Paolo Cendon, reperibile sul seguente sito internet: https://www.lineeguida-ammsostegno.it/, ove si prosegue: “Questa sola circostanza è idonea a qualificare come «pubblica funzione» l'attività svolta. Del pari, la direzione e la vigilanza del giudice e le finalità assegnate all'istituto evidenziano il carattere pubblicistico dello stesso.”.
Sulla natura di pubblico ufficiale dell’amministratore di sostegno si veda, tra le altre, Cass. pen., Sez. VI, sentenza del 22.08.2022, n. 31378
(17.11.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro sportivo ex d.lgs. 36/2021 e pubblici dipendenti.
Con riferimento al rilascio a pubblici dipendenti, da parte dell’Amministrazione di appartenenza, dell'autorizzazione a prestare lavoro sportivo presso soggetti terzi, ai sensi dell'art. 25 del d.lgs. 28.02.2021, n. 36, salve eventuali indicazioni che potrebbero pervenire dai competenti uffici ministeriali, si ritiene che l’autorizzazione possa essere concessa soltanto qualora l’attività di cui trattasi si configuri quale prestazione a carattere occasionale e non continuativo.
Il Comune chiede chiarimenti in ordine alla possibilità, per un dipendente a tempo indeterminato e pieno, di assumere un incarico di co.co.co. presso una Associazione sportiva dilettantistica come “lavoratore sportivo” o come collaboratore in ambito “amministrativo gestionale”.
L’Ente riferisce che i dipendenti interessati “sostengono che per l’incarico che dovrebbero assumere il loro impegno in termini temporali rientrerebbe nei canoni della saltuarietà e dell’occasionalità; inoltre il corrispettivo pattuito risulterebbe inferiore ad € 5.000. Quindi le caratteristiche di tale incarico sarebbero riconducibili alla prestazione occasionale.”.
L’Amministrazione fa presente che la forma contrattuale della co.co.co., prevista dal d.lgs. 36/2021, risponderebbe, tra le altre finalità della norma medesima, a quella di avvantaggiare l’operatività delle associazioni sportive dilettantistiche.
Preliminarmente si osserva che il d.lgs. 28.02.2021, n. 36 è stato emanato quale attuazione dell’articolo 5 della legge 08.08.2019, n. 86, recante riordino e riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo.
L’art. 25, comma 1, del citato decreto definisce come “lavoratore sportivo” l’atleta, l’allenatore, l’istruttore, il direttore tecnico, il direttore sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara che, senza alcuna distinzione di genere indipendentemente dal settore professionistico o dilettantistico, esercita l’attività sportiva verso un corrispettivo a favore di un soggetto dell’ordinamento sportivo iscritto nel Registro nazionale delle attività sportive dilettantistiche, nonché a favore delle Federazioni sportive nazionali, delle Discipline sportive associate, degli Enti di promozione sportiva, delle associazioni benemerite, anche paralimpici, del CONI, del CIP e di Sport e salute S.p.a. o di altro soggetto tesserato.
È “lavoratore sportivo” ogni altro tesserato, ai sensi dell’articolo 15 del medesimo decreto, che svolge verso un corrispettivo a favore dei soggetti di cui al primo periodo le mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti tecnici della singola disciplina sportiva, tra quelle necessarie per lo svolgimento di attività sportiva, con esclusione delle mansioni di carattere amministrativo-gestionale.
Il successivo comma 2 dispone altresì che, ricorrendone i presupposti, l’attività di lavoro sportivo può costituire oggetto di un rapporto di lavoro subordinato o di un rapporto di lavoro autonomo, anche nella forma di collaborazioni coordinate e continuative ai sensi dell’articolo 409, comma 1, n. 3, del codice di procedura civile
[1].
Il comma 3-bis del medesimo art. 25 dispone altresì che i soggetti ivi indicati, ricorrendone i presupposti, possono avvalersi di prestatori di lavoro occasionale, secondo la normativa vigente.
Premesso un tanto, si osserva che il comma 6 dell’art. 25 in esame
[2] contempla una specifica norma destinata ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (enti locali compresi), prevedendo che gli stessi possono prestare in qualità di volontari la propria attività nell’ambito dei soggetti ivi indicati, fuori dall’orario di lavoro, fatti salvi gli obblighi di servizio, previa comunicazione all’amministrazione di appartenenza.
Per quanto qui d’interesse si rileva che la medesima norma stabilisce che, qualora l’attività dei soggetti di cui al comma 6 rientri nell’ambito del lavoro sportivo e preveda il versamento di un corrispettivo, la stessa può essere svolta solo previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza che la rilascia o la rigetta entro il termine di trenta giorni dalla richiesta, decorso il quale se non intervengono il rilascio dell’autorizzazione o il rigetto dell’istanza, l’autorizzazione è da ritenersi in ogni caso accordata, sulla base di parametri definiti con decreto del Ministro per la pubblica amministrazione
[3].
In relazione poi alla fattispecie dell’attività di carattere amministrativo-gestionale resa in favore dei soggetti sopra indicati, si rappresenta che, a mente del disposto dell’art. 37, comma 1, del d.lgs. 36/2021, la stessa può essere oggetto, analogamente a quanto può avvenire per l’attività sportiva, di collaborazioni di cui al già citato articolo 409, comma 1, n. 3, del codice di procedura civile, cioè instaurando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. In considerazione di un tanto, si anticipa  rinviando alle osservazioni successive- che le collaborazioni a carattere continuativo sono precluse ai pubblici dipendenti con rapporto di lavoro a tempo pieno.
Ciò premesso, con riferimento specifico al rilascio della prescritta autorizzazione da parte dell’Amministrazione di appartenenza a propri dipendenti a tempo pieno a prestare lavoro sportivo, ferma restando l’autonoma valutazione dell’Ente, si reputa che l’autorizzazione possa essere concessa soltanto qualora l’attività di cui trattasi si configuri quale prestazione a carattere occasionale e non continuativo, alla luce della disciplina generale -richiamata nel prosieguo- che si ritiene applicabile anche in relazione alla specifica fattispecie degli incarichi in ambito sportivo
[4].
In particolare, per i pubblici dipendenti con rapporto di lavoro a tempo pieno o a tempo parziale superiore al 50% di quello a tempo pieno, vige il principio dell’incompatibilità con altre prestazioni lavorative.
Il principio generale in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi ed impieghi è espresso dall’art. 60 del d.p.r. 3/1957, secondo il quale “l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente”.
Detta norma è richiamata espressamente dall’art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, che recita testualmente: “Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10.01.1957, n. 3, salva la deroga prevista dall’articolo 23-bis del presente decreto, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dall’articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17.03.1989, n. 117 e dall’articolo 1, commi 57 e seguenti, della legge 23.12.1996, n. 662”.
Ciò premesso, si ritiene opportuno evidenziare quanto emerso in sede di elaborazione, nell’ambito del già citato tavolo tecnico previsto dall’Intesa sancita in Conferenza unificata il 24.07.2013, di un documento riguardante gli incarichi vietati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, stilato ai sensi della normativa vigente, degli indirizzi generali e della prassi applicativa.
In particolare, si è sottolineato in tale contesto –che si riferisce sia agli incarichi retribuiti che a quelli conferiti a titolo gratuito- come “l’incarico presenta i caratteri della professionalità laddove si svolga con i caratteri della abitualità, sistematicità/non occasionalità e continuità, senza necessariamente comportare che tale attività sia svolta in modo permanente ed esclusivo”.
Anche la giurisprudenza ha rilevato che «nell’impiego pubblico il divieto di espletare incarichi extraistituzionali non è così assoluto. Difatti, il regime vigente, codificato dall’art. 53 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, pur individuando, al primo comma situazioni di incompatibilità assoluta […] prevede anche, al comma 7 del cennato art. 53, attività occasionali espletabili dal dipendente pubblico previa autorizzazione datoriale […]. Nella specie, la condotta della M. rientra [ ] tra quelle espletabili (ergo non vietate in assoluto) per la loro occasionalità e “non professionalità”, ma previa autorizzazione datoriale»
[5].
In conclusione, salve eventuali indicazioni che potrebbero pervenire dai competenti uffici ministeriali, si è dell’avviso che i dipendenti a tempo pieno interessati non possano essere destinatari –né quali lavoratori sportivi né come prestatori di attività di carattere amministrativo/gestionale- di un incarico di collaborazione coordinata e continuativa che, per definizione intrinseca, comporta l’effettuazione di prestazione lavorativa a carattere continuativo e non certo saltuario e occasionale.
---------------
[1] Si tratta di rapporti di collaborazione che si concretano in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato. La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l'attività lavorativa.
[2] Comma sostituito dall’art. 1, comma 17, lett. d), del d.lgs. 29.08.2023, n. 120.
[3] Che sarà emanato di concerto con l’Autorità politica delegata in materia di sport, sentiti il Ministro della difesa, il Ministro dell’interno, il Ministro dell’istruzione e del merito e il Ministro dell’università e della ricerca.
[4] Si evidenzia, al riguardo, che nella disciplina di cui al d.lgs. 36/2021, con particolare riferimento ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, l’unico elemento derogatorio rispetto alla disciplina generale di cui all’art. 53 del d.lgs. 165/2001 sembra rinvenirsi nel meccanismo del silenzio-assenso previsto qualora –come sopra indicato- entro trenta giorni dalla presentazione della richiesta, non intervenga il rilascio dell’autorizzazione né il rigetto dell’istanza.
[5] Corte dei conti, sez. giur. Lombardia, sentenza del 16.04.2015, n. 54. Sulla definizione dei caratteri della saltuarietà e non professionalità, si è espressa anche la dottrina (G. Fiorillo, C. Lombardi, “Dipendenti pubblici e incarichi extraistituzionali: incompatibilità e autorizzazioni”, 15.09.2022, reperibile nel seguente sito internet: https://www.filodiritto.com/) la quale, nel riportare quanto contenuto nelle Linee Guida emanate dalla Funzione Pubblica in data 16.06.2014, ha affermato che: “l’incarico deve riguardare prestazioni che presentano i caratteri della saltuarietà e non professionalità, a favore di soggetti sia pubblici che privati. Occasionali sono le attività che non determinano l’instaurarsi, tra il dipendente e il conferente, di un rapporto stabile e continuativo con caratteri di tendenziale consolidamento nel medio/lungo termine; saltuarie sono le attività il cui espletamento non richiede un impegno o un’organizzazione sistematica del lavoro. La temporaneità e l’occasionalità dell’incarico si declinano nello svolgimento di prestazioni a carattere saltuario, che comportano un impegno non preminente, non abituale e non continuativo (…)”.
---------------
Nota di aggiornamento
Ad integrazione del parere, si segnala il decreto ministeriale 10/11/2023, pubblicato in G.U. n. 296 del 20.12.2023, che ha fissato i parametri per il rilascio delle autorizzazioni allo svolgimento di attività di lavoro sportivo retribuita al personale delle pubbliche amministrazioni.
Tale disciplina, attuativa delle disposizioni speciali di cui al d.lgs. 36/2021, prevale quindi sulle disposizioni generali di cui all’art. 53 del d.lgs. 165/2001.
In particolare, si rileva che il comma 4 dell’art. 2 del predetto D.M. prevede che “L'amministrazione, per i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo pieno, verifica, altresì, che la prestazione di lavoro sportivo non rivesta carattere di prevalenza in relazione al tempo e alla durata. Si considera prevalente l'attività che impegna il dipendente per un tempo superiore al 50% dell'orario di lavoro settimanale stabilito dal contratto collettivo nazionale di riferimento.”
(08.11.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCongedo parentale e ferie.
Dalla chiara formulazione dell’art. 34, comma 5, del d.lgs. 151/2001 emerge come anche il periodo di congedo parentale retribuito al 30% non comporti la riduzione delle ferie spettanti.
Il Comune desidera acquisire alcuni chiarimenti in ordine all’istituto del congedo parentale e all’impatto dello stesso sulla maturazione delle ferie spettanti al dipendente, in relazione alle disposizioni del vigente ordinamento, sia a livello legislativo che a livello contrattuale di comparto, con particolare riferimento al periodo di detto congedo retribuito al 30%.
Preliminarmente si osserva che il D.P.R. 20.04.2022, n. 57
[1], richiamato dall’Ente istante, ha per destinatari esclusivamente i dipendenti appartenenti alle Forze di polizia dell’ordinamento civile e militare [2]; non riguarda pertanto i dipendenti pubblici di cui all’art. 2 del d.lgs. 165/2001 e in particolare non trova applicazione -per quanto qui d’interesse- nei confronti dei dipendenti del Comparto unico del pubblico impiego regionale e locale del Friuli Venezia Giulia.
Premesso un tanto, si rileva che l’art. 34, comma 5
[3], del d.lgs. 151/2001, nell’attuale formulazione, prevede espressamente e in via generale che i periodi di congedo parentale sono computati nell’anzianità di servizio e non comportano riduzione di ferie, riposi, tredicesima mensilità o gratifica natalizia, ad eccezione degli emolumenti accessori connessi all’effettiva presenza in servizio, salvo quanto diversamente disposto dalla contrattazione collettiva.
Si rileva che la contrattazione collettiva regionale, all’art. 20 (Congedo parentale per il personale degli Enti locali) del CCRL del 07.12.2006 -ove è disposto che, nell’ambito del periodo di congedo parentale previsto all’art. 32 del citato d.lgs. 151/2001, i primi sessanta giorni retribuiti per intero e computati complessivamente per entrambi i genitori non riducono le ferie- è intervenuta esclusivamente con riferimento al primo periodo del congedo parentale.
Pertanto, per quanto concerne gli ulteriori periodi del predetto congedo, retribuiti al 30%, trova applicazione la disciplina generale contemplata agli articoli 32 e 34 del d.lgs. 151/2001.
Stante la chiara formulazione dell’art. 34, comma 5, del citato decreto legislativo come sopra riportato, e considerato l’omogeneo quadro normativo delineatosi in materia, emerge come anche il periodo di congedo parentale retribuito al 30% non comporti la riduzione delle ferie spettanti.
----------------
[1] Recepimento dell’accordo sindacale per il personale non dirigente delle Forze di polizia ad ordinamento civile e del provvedimento di concertazione per il personale non dirigente delle Forze di polizia ad ordinamento militare «Triennio 2019-2021».
L’art. 57 di detto decreto dispone che, in deroga a quanto previsto dall’articolo 34 del decreto legislativo 26.03.2001, n. 151, i periodi di congedo parentale previsto dall’articolo 32 del medesimo decreto legislativo sono computati nell’anzianità di servizio, compresi gli effetti relativi alla maturazione della licenza ordinaria e alla tredicesima mensilità. Si osserva ad ogni buon conto che tale disposizione è comunque di data antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 105 del 30.06.2022, che ha apportato modifiche al d.lgs. 151/2001.
[2] Si tratta di personale non contrattualizzato, di cui all’art. 3 del d.lgs. 165/2001.
[3] Comma così sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. i), n. 4), del d.lgs. 105/2022
(08.11.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratto a tempo determinato per sostituzione personale in aspettativa. Durata massima.
Nel caso di sostituzione di dipendente collocato in aspettativa per mandato elettorale non risulta possibile derogare ai termini di durata attualmente stabiliti dall’ordinamento vigente per il rapporto di lavoro a tempo determinato (limite massimo di 36 mesi).
Il Comune pone un quesito in ordine alla possibilità di derogare ai limiti temporali massimi dettati dalla normativa vigente in merito alla stipula di contratto a tempo determinato, nel caso di sostituzione di personale collocato in aspettativa per espletamento del mandato elettivo, indicando nel contratto medesimo una clausola risolutiva al rientro in servizio del titolare.
In particolare, chiede se sia possibile applicare quanto enunciato nella circolare n. 3/2008 diramata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica - [punto 7, lett. b)].
Preliminarmente si osserva che allo stato attuale la disciplina sull’utilizzo di contratti di lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni (enti locali compresi) è contemplata all’articolo 36 del d.lgs. 165/2001.
Il citato art. 36, nel confermare al comma 1 il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come modello standard del pubblico impiego, prevede al comma 2 la possibilità per le pubbliche amministrazioni di avvalersi, soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale e nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall’art. 35 del medesimo decreto, di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, contratti di formazione lavoro e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato.
La norma in esame prevede inoltre espressamente che i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato possono essere stipulati nel rispetto degli articoli 19 e seguenti del d.lgs. 81/2015, escluso il diritto di precedenza che si applica al solo personale reclutato secondo le procedure di cui all’art. 35, comma 1, lettera b), del decreto stesso.
In relazione alle modifiche apportate al citato art. 19 del d.lgs. 81/2015
[1] dalla normativa sopravvenuta, si osserva che, ai sensi di quanto espressamente disposto dall’art. 1, comma 3, del d.l. n. 87/2018, convertito in l. n. 96/2018, le disposizioni di cui al medesimo articolo, nonché quelle di cui agli articoli 2 e 3, non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, cui continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti antecedentemente alla data di entrata in vigore del decreto stesso.
Di conseguenza, non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni la riforma apportata dall’art. 2 del d.l. n. 87/2018 in materia di disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato; è pertanto consentita anche allo stato attuale l’assunzione di personale a termine per la durata contrattuale massima di 36 mesi, come previsto in origine dallo stesso art. 19 del d.lgs. 81/2015, successivamente modificato.
Premesso un tanto in ordine alla regola generale della durata massima dei contratti di lavoro a tempo determinato, che non ha subito modifiche sostanziali nel succedersi delle diverse previsioni legislative intervenute nel tempo, con riferimento alla possibilità di derogare al limite massimo di durata stabilito in 36 mesi, nel caso di sostituzione di dipendente collocato in aspettativa, si rappresenta quanto segue.
Innanzitutto si osserva che la circolare n. 3/2008, emanata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica e richiamata dall’Ente, si riferisce a un quadro normativo attualmente modificato e da ritenersi ormai superato, anche per quanto concerne il riferimento specifico ivi contenuto alla disciplina in materia di finanza locale e condizioni previste dalla normativa all’epoca vigente
[2].
Si osserva che la vigente disciplina generale di cui all’art. 36 del d.lgs. 165/2001 non contempla fattispecie derogatorie alla durata massima del contratto a tempo determinato, nemmeno in presenza di esigenze e situazioni particolari come quella rappresentata dall’Ente. Si rileva al riguardo che quando il legislatore ha inteso prevedere una deroga in tal senso, lo ha fatto espressamente
[3].
È da notare inoltre a tal proposito che la Corte di Cassazione
[4] ha ritenuto non condivisibile l’orientamento espresso dal Dipartimento della funzione pubblica, pur con riferimento a normativa ora abrogata [5], in relazione all’ammissibilità di una deroga alla durata massima complessiva stabilita dei 36 mesi, nel caso particolare di assunzioni disposte in esito a procedure concorsuali diverse.
In conclusione, con riferimento alla fattispecie in esame non si rinvengono possibilità di derogare ai termini di durata attualmente stabiliti dall’ordinamento.
---------------
[1] La durata massima del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato è stata ridotta da trentasei a ventiquattro mesi.
[2] La circolare (punto 7. Deroghe ai limiti temporali connesse ad esigenze di sostituzione di lavoratori assenti, lett. b)) si riferisce infatti alla previsione, successivamente abrogata, di cui al comma 9 dell’art. 36 al tempo vigente, secondo la quale “Gli enti locali non sottoposti al patto di stabilità interno e che comunque abbiano una dotazione organica non superiore alle quindici unità possono avvalersi di forme contrattuali di lavoro flessibile, oltre che per le finalità di cui al comma 1, per la sostituzione di lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto, sempre chE nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione.”, invocando quindi una disciplina non più applicabile allo stato attuale.
[3] Cfr., ad es., l’art. 18-ter del d.l. 162/2019, norma di interpretazione autentica dell’articolo 90, comma 2, del d.lgs. 267/2000, ove si è stabilito che i contratti del personale degli uffici di staff del sindaco stipulati a tempo determinato non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco in carica, anche in deroga alla disciplina di cui all’articolo 36 del d.lgs. 165/2001, e alle disposizioni del contratto collettivo nazionale di lavoro che prevedano specifiche limitazioni temporali alla durata dei contratti a tempo determinato.
[4] Cfr. Cass. civ., sez. Lavoro, sentenza 04.03.2021 n. 6089. Cfr. anche Cass. civ., sez. Lavoro, ordinanza 14.09.2023, n. 26567.
[5] Cfr. parere prot. n. 38845 del 28.09.2012, in cui si faceva riferimento al d.lgs. n. 368/2001. Come sopra rilevato, tale disciplina conteneva norme analoghe a quelle attualmente in vigore, in quanto consentiva l’instaurazione di rapporti di lavoro a tempo determinato per la durata massima di mesi trentasei
(07.11.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Giardini del Palazzo Reale di Napoli, Tar conferma stop ai cani.
Respinto il ricorso dei proprietari. "Va rispettato".

Il Tar della Campania ha respinto il ricorso presentato da un gruppo di cittadini contro la decisione di vietare l'accesso ai cani nei giardini storici del Palazzo Reale di Napoli, divieto disposto da due anni nel regolamento del sito, ma reso esecutivo lo scorso mese di ottobre.
Il Giardino Romantico, piccolo gioiello di un ettaro e mezzo è aperto al pubblico gratuitamente tutti i giorni.
Ristrutturato nella metà del 1800 conteneva settemila piante di quattrocento specie diverse: una ricchezza che si è andata depauperando nel corso degli anni e che, con un progetto di restauro, si intende ricostruire in parte nei prossimi mesi.
"L'ordinanza del Tar rimarca l'importanza del Giardino Romantico quale luogo della cultura che va preservato e rispettato più di un normale giardino pubblico.
È un museo en plein air fruibile a tutti così come lo è ciascuna delle stanze del Palazzo Reale, nelle quali non potremmo mai immaginare la presenza di cani
", ha dichiarato Mario Epifani, direttore del Palazzo Reale di Napoli.
"Con tutto il rispetto per gli animali -ha aggiunto- siamo tenuti ad avere un'attenzione maggiore verso un bene così prezioso. Stiamo lavorando per fare in modo che il giardino recuperi l'immagine che aveva quando il palazzo era ancora una residenza reale, con la cura di alberi che hanno oltre 200 anni di vita e attraverso la riconfigurazione dell'impianto arbustivo ottocentesco. Un progetto, sul quale saranno investiti 2 milioni di euro, che include il rifacimento della pavimentazione dei viali in battuto di tufo, eliminando l'asfalto, per restaurare un gioiello da restituire alla città, ai visitatori e ai turisti, in sicurezza e con il dovuto decoro".
Nell'ordinanza del Tar si specifica che il ricorso dei proprietari dei cani, che nelle settimane scorse erano anche scesi in piazza con i loro animali, non può essere accolto essendo il divieto giustificato "in ragione sia della necessità di scongiurare rischi per la sicurezza dei visitatori, danni ai giardini e ai pilastri di piperno risalenti al XVII secolo, danni al verde e a materiali lapidei", sia a causa del "carattere del giardino storico del bene interessato prossimo oggetto di intervento di restauro" (24.01.2024 - commento tratto da www.ansa.it).
---------------
1^ ORDINANZA
... per l'annullamento:
   a) del provvedimento, di estremi e data ignoti, con cui il Direttore dell'Ufficio dotato di autonomia speciale nell'ambito del MIC “Palazzo Reale di Napoli”, in attuazione del regolamento impugnato sub b), ha disposto il divieto di accesso dei cani nel giardino c.d. romantico come segnalato dai cartelli apposti all'ingresso e nei viali;
   b) del regolamento di comportamento nel giardino del Palazzo Reale, di data ed estremi ignoti, nella parte in cui introduce un divieto generalizzato di accesso ai cani anche al guinzaglio;
   c) di ogni altro atto agli stessi preordinato, presupposto, connesso e conseguente, parimenti lesivo, ancorché non conosciuti, ivi compresi quatenus opus gli ordini di servizio emanati nei riguardi del personale di vigilanza.
...
   Considerato che, ai fini del corretto apprezzamento sia del fumus delle proposte censure che dell’addotto periculum, appare necessario attendere la definizione del riattivato procedimento, attualmente fermo all’adottato preavviso di rigetto, all’uopo assegnando all’amministrazione il termine di quindici giorni dalla comunicazione/notificazione della presente ordinanza per l’adozione del provvedimento conclusivo;
   Rimarcato che il preavviso di rigetto ex art. 10-bis L. 241/1990 è un atto prodromico al provvedimento finale che verrà adottato dall'Amministrazione, ossia un atto endoprocedimentale, non produttivo di effetti immediatamente lesivi della sfera giuridica dei ricorrenti, cosicché lo stesso non è autonomamente e immediatamente impugnabile e, quindi, non sussiste, in generale, un interesse alla sua impugnativa, con la conseguente inammissibilità del ricorso proposto avverso lo stesso;
   Rammentato, infatti, che la disposizione dell'art. 34, comma 2, primo periodo, c.p.a. mira a preservare, seppure non in modo assoluto, il procedimento quale forma della funzione amministrativa, ossia quale luogo fisiologico di svolgimento del c.d. rapporto amministrativo; dunque, può ritenersi che tale disposizione miri a salvaguardare non già il potere come prerogativa della P.A., bensì la sua specifica modalità di esercizio, ossia il procedimento amministrativo, con la conseguenza che al G.A. deve ritenersi precluso l'esercizio di un potere non ancora estrinsecatosi attraverso un apposito provvedimento amministrativo;
   Ritenuto che, per quanto precede, in assenza del provvedimento finale, non rileva che il preavviso di rigetto prefiguri un esito negativo delle interlocuzioni operate, nel mentre la doverosa conclusione del procedimento, coerente con la disposta istruttoria, determinerà la emanazione di un provvedimento sostitutivo del precedente impugnato, anch’esso passibile di eventuale impugnazione;
   Ritenuto di riservare all’esito ogni determinazione anche relativa alla regolamentazione delle spese di fase;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Napoli (Sezione Quinta) così provvede:
   - dispone che la resistente amministrazione adotti il provvedimento conclusivo del procedimento pendente relativo alla questione all’esame entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione/notificazione della presente ordinanza;
   - rinvia all’udienza in camera di consiglio del 23.01.2024 per delibare sulla proposta domanda cautelare (TAR Campania-Napoli, Sez. V, ordinanza 20.12.2023 n. 2434  - link a wWw.giustizia-amministrativa.it).
---------------
2^ ORDINANZA
   Ritenuto che, ad un sommario esame proprio della fase cautelare, le censure dedotte nell’atto introduttivo del presente giudizio si profilano prima facie non sorrette da idoneo fumus, rientrando nella discrezionalità tecnica di cui gode l'amministrazione deputata alla tutela dei beni architettonici e culturali individuare il miglior assetto per garantire la corretta fruizione dei beni monumentali, con la conseguenza che il sindacato su tali scelte non può che essere limitato ai casi di evidenti irrazionalità o di evidenti errori di fatto (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, sent. 13.04.2017, n. 855; TAR Lazio, Roma, sez. I, 25.11.2022, n. 15792);
   Ritenuto che, nella specie, non sono ravvisabili i dedotti profili di illogicità manifesta, travisamento delle circostanze di fatto e non proporzionalità della misura adottata, essendo stata quest’ultima giustificata in ragione sia della necessità di scongiurare rischi per la sicurezza dei visitatori, danni ai giardini e ai pilastri in piperno dei cortili, risalenti al XVII secolo, danni al verde e ai materiali lapidei, sia con il carattere di giardino storico del bene interessato, di limitata estensione, e prossimo oggetto di un intervento di restauro, così da giustificare prima facie il disposto divieto;
   Rammentato, infatti, che il limite di legittimità in cui si iscrive l'esercizio delle funzioni di tutela, valorizzazione e fruizione del bene culturale deve essere ricercato in un ragionevole equilibrio che preservi, da un lato, la cura e l'integrità del bene culturale e, dall'altra, che ne consenta la fruizione e la valorizzazione, potendo a tal fine l’amministrazione escludere un determinato utilizzo del bene allorquando quest’ultimo sia potenzialmente idoneo a cagionare un sacrificio superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell'interesse diverso sotteso all'iniziativa privata;
   Considerato, infine, in punto di periculum, che, nell’assenza di una specifica deduzione circa l’irreparabilità e la gravità del pregiudizio, presupposto imprescindibile della tutela cautelare, debba accordarsi prevalenza, nel contemperamento degli opposti interessi, alle esigenze di tutela del bene culturale cui è preordinato il provvedimento impugnato;
   Considerato che la peculiarità delle questioni trattate induce a disporre l’integrale compensazione delle spese della presente fase cautelare;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Napoli (Sezione Quinta) così provvede: respinge la domanda cautelare (TAR Campania-Napoli, Sez. V, ordinanza 24.01.2024 n. 179 - link a wWw.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla natura e sugli effetti dell’atto di ammissione del concorrente alla gara.
---------------
Demanio e patrimonio dello Stato – Concessioni di beni e servizi – Procedura di evidenza pubblica – Ammissione alla gara – Effetti.
L'ammissione del concorrente alla gara è un atto amministrativo, a forma esplicita o implicita, di natura preparatoria perché costituisce il presupposto indispensabile per giungere all'aggiudicazione, ma con efficacia provvisoria o instabile in quanto può essere modificato in ogni momento.
Pertanto, essa tutela l'interesse procedimentale del concorrente in relazione alla sua corretta partecipazione -c.d. interesse procedimentale- ma non attribuisce al concorrente stesso un bene della vita, né, più in generale, gli attribuisce la titolarità di una posizione giuridica differenziata rispetto a quella degli altri concorrenti comunque ammessi alla gara (1).

---------------
   (1) Conformi: Tar per il Lazio, sez. II, 02/12/2022, n. 16106;
         Difformi: non risultano precedenti difformi.
Nel caso di specie, con atto di citazione innanzi al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, il Comune di Terme Vigliatore aveva chiesto l’annullamento dell’atto di ingiunzione emesso, ai sensi del r.d. n. 639 del 1910, dal Comune di Barcellona Pozzo di Gotto per il pagamento di corrispettivi per il trattamento dei reflui convogliati all’impianto di depurazione di proprietà di quest’ultimo.
Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto aveva dichiarato, con sentenza n. 563 del 09.06.2023, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, ritenendo sussistente, sulla controversia in questione, la giurisdizione del giudice amministrativo.
Secondo il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, la giurisdizione del giudice amministrativo si basava in primo luogo sull’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2 c.p.a., atteso che la convenzione tra i comuni relativa all’utilizzazione del servizio di gestione dei reflui era un accordo tra pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 15 l. n. 241 del 1990. In secondo luogo, la giurisdizione del giudice amministrativo doveva ritenersi fondata sull’art. 133, comma 1, lett. p) c.p.a., trattandosi di controversia relativa alla gestione del ciclo dei rifiuti.
Il Tar non ha condiviso tale ricostruzione, ritenendo che la controversia non riguardasse l’accordo ma un’ingiunzione di pagamento di somme dovute per la prestazione del servizio, riconducibili a rapporti di dare/avere, ossia aspetti per i quali è, comunque, esclusa la giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, co. 1, lett. a), n. 2 c.p.a.
Il Collegio ha richiamato l’orientamento delle Sezioni unite, secondo cui “Non è quindi la generica (e spesso opinabile) inerenza (dell'oggetto) della controversia a una "materia" tra quelle elencate nell'art. 133 c.p.a. a far radicare la giurisdizione esclusiva, ma la contestazione delle modalità di esercizio del potere concretamente esercitato dalla pubblica amministrazione in quella materia (Cass. Sez. Un. n. 7759/2017 e n. 8186 del 2022).”
Nel caso di specie, poiché la controversia riguarda solo la somma richiesta quale corrispettivo per l’utilizzo del depuratore, il Collegio ha sollevato il conflitto negativo di giurisdizione dinanzi alle Sezioni unite
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 22.01.2024 n. 272 - tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZALAVORO: Impianti sportivi “pericolosi”, i limiti alla responsabilità del gestore.
La Cassazione ricapitola la disciplina accogliendo il ricorso del gestore di un circuito motociclistico condannato per la morte di un centauro.
La Corte di Cassazione - Sez. IV penale, sentenza 12.01.2024 n. 1425, fa il punto sulle responsabilità dei gestori degli impianti sportivi rischiosi, come piscine, piste da sci e, nel caso specifico, circuiti per il motociclismo. La regola generale, chiarisce la IV Sezione penale, accogliendo il ricorso del gestore della pista condannato a 6 mesi per la morte di un centauro, è quello della inesigibilità di condotte non previste dalla legge o comunque dalla relative federazioni.
Nel caso specifico, la vittima dopo aver percorso il rettilineo principale, anziché impostare la curva, proseguiva dritto a circa 70 km/h, in tal modo la spalletta del terrapieno che delimitava a destra la curva (la cui funzione era quella di accompagnare i motociclisti nella esecuzione della curva) diventava una sorta di trampolino provocando un “volo balistico” sopra la cd “zona neutra” fino a schiantarsi contro il muro di delimitazione della ferrovia limitrofa.
Per la Corte di appello, che pure aveva riconosciuto la corretta omologazione del circuito e l’assenza di responsabilità da parte del tecnico omologatore, il gestore avrebbe dovuto “effettuare uno studio sulla sicurezza dell’impianto” e una “valutazione dei relativi rischi, essendo notoriarnente il motocross uno sport di elevata pericolosità, e ciò anche se detto obbligo non era previsto dalla normativa di settore”. In particolare, individuando “tutte le probabili traiettorie di uscita dalla curva da parte dei veicoli” ed “approntando gli idonei accorgimenti di sicurezza”.
Una lettura bocciata dalla Cassazione dopo un ripasso generale delle regole in materia di impianti sportivi. Così per esempio nelle nello sci l’obbligo di recintare la pista ed apporre idonee segnaletiche vige “solo in presenza di un pericolo determinato dalla conformazione dei luoghi che determini l’elevata probabilità di un’uscita di pista dello sciatore, apparendo inesigibile pretendere che tutta la pista sia recintata o che tutti i pericoli siano rimossi”.
In generale, dunque, la giurisprudenza individua il contenuto dell’obbligo giuridico del gestore “nella vigilanza sul rispetto delle regole di utilizzo interno dell’impianto (nella specie, nessuna violazione in tal senso è venuta in considerazione) ovvero delle specifiche regole previste da normative speciali (si vedano le norme sull’attività sciistica) e dai regolamenti emanati dalle Federazioni sportive”.
Nel caso di specie, secondo il regolamento della Federazione motociclismo, la “zona neutra” della curva doveva rispettare la misura di 100 cm, parametro più che rispettato considerato che la “zona misurava 180 cm” e, infatti, il circuito era stato ritualmente omologato.
Il gestore dell’impianto, conclude la Corte, “è tenuto a vigilare sulla regolare organizzazione della attività in base alla disciplina prevista dalle Federazioni sportive, e non è sostenibile che egli sia tenuto ad intervenire con un comportamento attivo che superi le previsioni regolamentari”, in tal modo “ponendo in capo al gestore un obbligo di fatto inesigibile per ampiezza e genericità”.
In definitiva il ricorrente aveva adempiuto “a tutti gli obblighi” essendosi affidato al regolamento della Federazione Motociclistica Italiana e alle omologhe del circuito da parte dei “maggiori esperti del settore”. Non era dunque esigibile una ulteriore “ricerca di tecnici con esperienza ancora superiore a quelli del comitato impianti della Federazione” (articolo NT+Diritto del 12.01.2024).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Sulla nullità della delibera con cui l’unione dei comuni provvede alla variazione del bilancio.
---------------
Comune e provincia – Unione di comuni – Bilancio – Atto amministrativo – Nullità – Giustizia amministrativa – Azione di nullità – Rilevabilità d’ufficio – Termine di decadenza.
La nullità, per mancanza di sottoscrizione digitale ai sensi dell’art. 15, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990, della delibera con cui un’unione di comuni prenda atto della volontà di un comune di sciogliersi dalla gestione associata dei servizi successivamente aggiunti, determina anche la nullità degli atti successivi, quali le delibere di approvazione della variazione di bilancio; e, qualora tali ultimi atti siano stati impugnati, il giudice può rilevare la nullità anche successivamente alla scadenza del termine di decadenza di cui all’art. 31, comma 4, c.p.a. perché la nullità non viene fatta valere in via autonoma ma risulta funzionale alla pronuncia sulla domanda introdotta in giudizio e, quindi, nel giudizio impugnatorio, alla declaratoria di illegittimità dell’atto impugnato e al suo conseguente annullamento, ovvero, al contrario, al rigetto della domanda di annullamento (1).
---------------
   (1) Non risultano precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.01.2024 n. 376 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
... per la riforma della sentenza 11.07.2018 n. 396 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione staccata di Latina, resa tra le parti, avente ad oggetto l’approvazione di una variazione del bilancio dell’Unione relativo all’anno 2017.
...
1. Il Comune di San Giovanni Incarico, facente parte, insieme ai Comuni di Rocca D’Arce e di Falvaterra, di un’Unione istituita ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (T.u.e.l.), denominata “Antica Terra di Lavoro”, ha adito il Tar per il Lazio per l’annullamento delle deliberazioni, rispettivamente della Giunta e del Consiglio di quest’ultima, n. 40 del 28.11.2017 e n. 10 del 29.12.2017, con le quali è stata apportata una variazione al bilancio dell’anno 2017, in assenza dei propri rappresentanti.
...
6. L’appello è meritevole di accoglimento, nei sensi e limiti di seguito esplicitati.
7. Al fine di comprendere la complessa vicenda di cui è controversia, occorre fornire qualche ulteriore precisazione, in fatto e in diritto, circa la tipologia di “legame” intercorrente fra i Comuni interessati, non senza premettere che la relativa ricostruzione presenta plurime lacune e evidenzia commistioni procedurali.
In particolare, sia la costituzione, dichiaratamente preesistente ai fatti di causa, che il potenziamento dell’Unione, sono affidati ad atti il cui susseguirsi e stratificarsi non risulta adeguatamente ricostruito, tanto in senso cronologico, che contenutistico.
7.1. Va detto che l’uso promiscuo dei due distinti modelli associativi fra Comuni (vale a dire l’unione e la convenzione) che ne risulta, risente probabilmente anche dell’inadeguatezza della sottesa cornice normativa.
Il paradigma generale, contenuto, rispettivamente, nell’art. 30 (convenzione) e 32 (unione) del T.u.el., infatti, è richiamato dalla legislazione speciale laddove declina i casi di obbligatorietà del relativo utilizzo, ma senza fornire maggiori indicazioni procedimentali. Tale legislazione, peraltro, in quanto ispirata piuttosto ad esigenze di spending review, che di analisi amministrativa, attinge al tema delle funzioni fondamentali senza farsi carico di un’effettiva visione di sistema.
Ridetto approccio sostanzialmente contabile-finanziario, indubbiamente limitato e limitante, non a caso è stato da subito oggetto di critiche, in particolare orientate alla ricerca di valutazioni di più ampio respiro, mosse da logiche di valorizzazione della sussidiarietà e di conseguimento di un’omogeneità tendenziale dei livelli delle prestazioni, da far confluire in una vera e propria riforma del settore (l’auspicata “Carta delle autonomie”).
8. La legittima sussistenza del vincolo associativo ovvero, in senso diametralmente opposto, la correttezza del suo venir meno, si riverberano dunque necessariamente sulle decisioni assunte per conto -recte, al posto- degli Enti aderenti, quale che ne sia il relativo oggetto. L’analisi di quest’ultimo a sua volta incide sulla sussistenza dell’interesse ad agire, che potrebbe non esservi laddove si tratti di scelte a contenuto necessitato ovvero estranee alla futura attività del Comune, seppure non coinvolto indebitamente nella loro adozione.
8.1. Da qui l’importanza da un lato di valutare la “consistenza giuridica” dell’Unione al momento dell’adozione degli atti impugnati in ragione della specifica cornice ordinamentale che connota l’istituto; dall’altro, di esaminare gli effetti potenzialmente pregiudizievoli degli stessi, quand’anche astrattamente rivolti ormai solo agli altri due Comuni che di sicuro hanno continuato a farne parte.
9. Quanto detto consente di ulteriormente perimetrare l’oggetto della controversia, siccome incentrata sulle delibere di approvazione della variazione del bilancio dell’Unione del 2017: malgrado la totale mancanza nelle stesse di una parte narrativa idonea ad esplicitarne la motivazione, dall’analisi degli schemi di bilancio allegati parte integrante parrebbe evincersi la sostanziale decurtazione dal gettito programmato riveniente dalla TARI, delle somme riguardanti i residenti del Comune di San Giovanni Incarico, che costituiscono per tabulas la fetta più cospicua dell’introito quantificato complessivamente in fase previsionale.
Tale assestamento in diminuzione non può che risolversi in una partita debitoria a carico del Comune stesso nei confronti dell’Unione, che quand’anche si chiami fuori dalla fase della riscossione diretta dai cittadini delle relative somme, resta creditore, appunto, per l’avvenuto esercizio del servizio corrispondente. Non è chi non veda come la questione, destinata ad incidere, finanche sul piano formale, sulle corrispondenti voci del bilancio del Comune di San Giovanni Incarico, non possa non rivestire interesse per lo stesso.
10. Va peraltro ricordato che il bilancio di assestamento è lo strumento giuridico-contabile destinato ad aggiornare quello di previsione annuale alle vicende economiche e finanziarie sopravvenute ed alle nuove situazioni verificatesi dopo la sua approvazione.
Le conseguenze “operative” rivenienti dallo stesso, cui entrambe le parti continuano a riferirsi, seppure in maniera implicita, paventando finanche profili reciproci di responsabilità erariale, non attengono al contenuto degli atti impugnati e saranno caso mai oggetto di scrutinio nelle sedi loro proprie, cui peraltro risultano essere state già deferite.
Ciò a maggior ragione ove si tenga conto che la vicenda attiene al solo bilancio del 2017, che in quanto riferibile a somme esigibili anche negli anni successivi non vincola in alcun modo le attività future, preso atto altresì della mancata sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata (e quindi della variazione di bilancio) a seguito di rinuncia all’istanza cautelare anche da parte dell’appellante.
11. D’altro canto, le rivendicazioni inerenti eventuali inadempienze dell’Unione con riferimento allo svolgimento del servizio di riscossione per l’anno 2017, sono oggetto di autonomo contenzioso, ovvero il (nuovo) giudizio incardinato presso il medesimo Tar per il Lazio con il ricorso n.r.g. 436/2022.
12. I Comuni di San Giovanni Incarico, Rocca D’Arce e Falvaterra, dunque, per quanto verificabile da una mera consultazione online tutti con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, hanno dato vita ad una “Unione”, denominata “Antica Terra di lavoro”, cui con successive deliberazioni consiliari più o meno coeve (dicembre 2012) hanno affidato o riaffidato la gestione congiunta di tre delle funzioni fondamentali nel frattempo enucleate dalla legislazione speciale per gli Enti territoriali di dimensione minore (segnatamente, il catasto, la protezione civile e l’organizzazione e gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani, con contestuale riscossione dei relativi tributi, di cui, rispettivamente, alle lettere c), e) ed f), del comma 28 dell’art. 14 del d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla l. 30.07.2010, n. 122).
I passaggi attraverso i quali ridetta scelta è stata resa operativa, come rilevato poc’anzi, non risultano oggetto di analitica ricostruzione.
Certo è che alla data del 31.08.2013, l’originario statuto dell’Unione è stato modificato con deliberazione del Consiglio della stessa n. 2, pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lazio n. 75 del 12.09.2013, prevedendo all’art. 7, rubricato appunto «Funzioni», un elenco comprensivo anche di quelle sopra richiamate.
Con deliberazione n. 7 del 30.09.2014, «e successivi provvedimenti confermativi» (così riporta testualmente la nota inviata dal Sindaco del Comune di San Giovanni Incarico al Presidente dell’Unione “Antica Terra di Lavoro”, al Prefetto di Frosinone e alla sezione delle autonomie locali della Corte dei conti in data 27.09.2017, prot. 3731) l’Unione avrebbe poi assunto l’«impegno formale» di occuparsi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e di riscossione del relativo tributo (TARI).
13. La controversia consegue al “ripensamento” da parte del Comune di San Giovanni Incarico circa il conferimento all’Unione, avvenuto con delibera del 03.05.2017, n. 15, di approvazione di una nuova convenzione, di ulteriori funzioni, ovvero tutte quelle qualificate come “fondamentali” dal richiamato art. 14, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010, come modificato dall’art. 19 del d.l. 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l. 07.08.2012, n. 135, nonché dei «servizi tecnici, urbanistica, lavori pubblici e manutenzione, servizi sociali e servizi finanziari» (art. 1).
Dopo che l’Ente, cioè, ha annullato in autotutela con successiva deliberazione n. 5 del 21.07.2017 tale opzione gestionale per molteplici ed evidenziati profili di violazione di legge, il Consiglio dell’Unione lo ha escluso dalla propria compagine associativa e, conseguentemente, dalla partecipazione alle sedute degli organi rappresentativi, da ultimo finalizzate all’approvazione della variazione di bilancio oggetto di causa.
14. Vanno ora forniti brevi richiami ai principi di diritto in materia di associazionismo intercomunale.
15. L’atteggiamento del legislatore nei confronti dell’istituto dell’Unione è variato profondamente nel tempo. L’analisi normativa porta ad individuare tre principali stagioni.
Nella prima, tale modalità associativa era considerata un passaggio transitorio nell’ambito di un percorso di aggregazione più profondo che avrebbe dovuto obbligatoriamente portare alla fusione degli enti partecipanti entro dieci anni, decorsi i quali senza che si fosse proceduto in tal senso, l’Unione avrebbe cessato di esistere.
Nella seconda fase, proprio allo scopo di incentivarne l’utilizzo, le Unioni cessano di rappresentare un passaggio propedeutico alla fusione e divengono uno strumento flessibile di cooperazione, dotato di una propria autonomia. Ciò avviene con la legge 03.08.1999, n. 265, che qualifica le Unioni come un “ente locale” autonomo. La disciplina è confluita nell’attuale Testo unico degli enti locali (T.u.e.l.), che se ne occupa all’art. 32, il cui modello generale, come già detto, è espressamente richiamato anche con riferimento all’associazionismo obbligatorio che, almeno sulla carta, connota la fase successiva di approccio alla tematica (art. 14, comma 28-bis del d.l. n. 78 del 2010).
A decorrere dal 2010, infatti, si apre una terza fase. Il divampare della crisi finanziaria, prima, e di quella del debito sovrano, poi, rendono prioritario nell’agenda di policy l’obiettivo del consolidamento dei conti pubblici. Il percorso di risanamento, tracciato nei documenti ufficiali, prevede una revisione della spesa pubblica da realizzarsi attraverso una strategia complessiva che contempli la razionalizzazione del perimetro di azione delle giurisdizioni locali, la riorganizzazione su base associativa dell’offerta dei servizi pubblici da parte dei piccoli Comuni, nonché il riordino delle Province e delle partecipazioni societarie degli enti territoriali.
In questo contesto, l’Unione diviene uno strumento obbligatorio, alternativo alla convenzione, per l’esercizio di quelle che sono individuate come le funzioni fondamentali da parte dei piccoli Comuni, considerati tali sulla base di soglie demografiche sia per i singoli partecipanti sia per l’Unione nel suo complesso: il limite massimo di abitanti per ciascun Comune è confermato in 5.000 (come già previsto nella legge 08.06.1990, n. 142, recante «Ordinamento delle autonomie locali», che consentiva la deroga per un unico ente con popolazione compresa fra i 5.000 e i 10.000 abitanti), salvo si tratti di comuni che appartengono o sono appartenuti a comunità montane.
15.1. Il regime transitorio dettato dal comma 31-ter dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012 fissava un doppio termine di adeguamento all’obbligo di aderire ad una delle due forme di gestione associata, ovvero un’iniziale “messa in comune” di almeno tre funzioni fondamentali tra quelle riportate in elenco, e il successivo completamento della progettualità nella forma prescelta.
Come noto, i termini sono stati prorogati di anno in anno, da ultimo al 31.12.2024 dall’art. 2, comma 2, del decreto legge 30.12.2023, n. 215, che ha spostato in avanti il precedente, fissato al 31.12.2023 dall’art. 18-bis del d.l. 30.12.2019, n. 162, introdotto dalla legge di conversione, 28.02.2020, n. 8, via via modificato.
15.2. L’evoluzione normativa sopra descritta, ivi compresi i ricordati plurimi rinvii, è emblematica della difficoltà di individuare un punto di equilibrio fra perseguimento di economie di scala, cioè migliore allocazione ed utilizzazione delle risorse finanziarie ed organiche disponibili, ampliamento del novero dei servizi in concreto erogati –o in astratto erogabili– alla cittadinanza dai Comuni associati, e rispetto delle tradizioni e della cultura specifica dei luoghi.
È chiaro infatti che il raggiungimento di un livello omogeneo delle prestazioni non può non imporre un minimo di sacrificio alle esigenze identitarie del microcosmo di minuscoli Enti locali, spesso caratterizzati da strutture burocratiche pressoché inesistenti in territori connotati anche da problematiche di accessibilità agli uffici.
16. Per completezza vanno poi ricordate la legge 07.04.2014, n. 56, recante «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni», che ha mantenuto ferme le due tipologie di unione (quella facoltativa per l’esercizio associato di determinate funzioni e quella obbligatoria per i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti per l’esercizio delle funzioni fondamentali), riservando allo Stato e alle regioni, secondo le proprie competenze, la possibilità di attribuire alcune funzioni provinciali anche alle stesse; la legge 06.10.2017, n. 158, recante «Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni», nota come legge sui piccoli comuni, che all’art. 13 ha stabilito che quelli tenuti ad esercitare obbligatoriamente in forma associata le funzioni fondamentali, svolgano con la medesima modalità anche le attività di programmazione in materia di sviluppo socio-economico, e quelle che riguardano l’impiego delle occorrenti risorse finanziarie, pure se derivanti dai fondi strutturali dell’Unione europea; nonché l’art. 12, comma 1, del d.lgs. 02.01.2018, n. 1, Codice della protezione civile, che ha ribadito la natura di funzione fondamentale dei comuni lo svolgimento nel proprio territorio delle attività di pianificazione di protezione civile e di direzione dei soccorsi con riferimento alle strutture di appartenenza.
17. La materia è stata infine incisa da un’importante sentenza del giudice delle leggi, che ha ritenuto in contrasto con l’art. 3, nel combinato disposto con gli artt. 5, 97 e 118 della Costituzione, il comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non consente ai Comuni di non accedere alla gestione associata, ove la stessa non sia conveniente, avuto riguardo, ad esempio, alla particolare collocazione geografica e ai caratteri demografici e socio ambientali del Comune obbligato, che non realizzerebbe, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento (Corte cost., 24.01.2019, n. 33).
La complessità delle situazioni locali merita dunque un’attenzione in concreto per valutare quando «l’ingegneria legislativa non combacia con la geografia funzionale [sicché], il sacrificio imposto all’autonomia comunale non è in grado di raggiungere l’obiettivo cui è diretta la normativa stessa; questa finisce così per imporre un sacrificio non necessario, non superando quindi il test di proporzionalità (ex plurimis sentenze n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 156 del 2015)».
D’altro canto, proprio l’estenuante numero dei rinvii dei termini originariamente previsti per consociarsi obbligatoriamente è considerato sintomatico delle criticità di una normativa che non tiene evidentemente conto dell’«[…] esistenza di situazioni oggettive che, in non pochi casi, rendono di fatto inapplicabile la norma».
18. Le convenzioni, disciplinate in termini generali dall’art. 30 del T.u.e.l., ove opzionate quale forma di gestione associata dai Comuni obbligati, devono avere una durata «almeno» triennale, termine che comunque indica l’unità di tempo minimo trascorsa la quale si dovrebbe procedere a “misurare” l’effettività dei risparmi conseguiti, secondo modalità demandate ad apposito provvedimento attuativo (v. ancora l’art. art. 14, comma 31-bis, del d.l. n. 78 del 2010).
19. Rispetto alla gestione associativa in Unione, i Comuni in convenzione mantengono la titolarità giuridica delle funzioni, delle risorse e del personale e non “si avvalgono” degli organi amministrativi colà appositamente previsti. Essa pertanto costituisce un modello connotato da maggiore flessibilità, tanto da risultare la forma associativa largamente più diffusa tra i piccoli Comuni.
Al contrario, la natura di Ente di secondo livello dell’Unione fa sì che le modalità organizzative della stessa siano rimesse agli atti adottati dai relativi organi, in particolare lo Statuto e i regolamenti, ferma restando, una volta che la stessa si sia costituita, l’applicabilità dei principi previsti per l’ordinamento dei comuni, «con particolare riguardo allo status degli amministratori, all’ordinamento finanziario e contabile, al personale e all’organizzazione» (art. 32, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000).
In fase di prima istituzione, lo Statuto deve essere approvato dai consigli dei comuni partecipanti; le successive modifiche invece sono rimesse alla competenza di quello dell’Unione.
19.1. I rapporti tra Enti consociati, quindi, non sono oggetto di convenzione. Nella prassi, tuttavia, accade sovente che si affidi ad una fase negoziale la concreta attuazione degli obiettivi statutari, così da generare possibili equivoci interpretativi in ordine alla fonte degli obblighi gestionali e alle conseguenze delle inadempienze.
Ciò accade soprattutto in ragione del fatto che per espresso disposto normativo (art. 30, comma 4, del T.u.e.l.) le convenzioni possono prevedere la costituzione di uffici comuni che operano con personale distaccato degli enti partecipanti, ai quali affidare l’esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli stessi, ovvero la delega di funzioni da parte degli enti partecipanti all’accordo a favore di uno di essi, che opera in luogo e per conto degli enti deleganti.
20. Va infatti ricordato che le convenzioni ex art. 30 del d.lgs. n. 267 del 2000 altro non sono che una species del più ampio genus di accordi contemplati dall’art. 15 della l. n. 241 del 1990, come ancora di recente affermato dal Consiglio di Stato.
Tale tipologia di rapporto emerge «con nitore tanto dal confronto testuale delle due disposizioni, quanto, più in generale, dal rapporto fra le coordinate logico-sistematiche, contenutistiche e teleologiche dei due testi legislativi che, rispettivamente, le contengono» (Cons. Stato, sez. IV, 16.11.2023, n. 9842).
A ciò consegue la necessità che la loro stipula soddisfi i requisiti di forma previsti da ridetta disposizione a carattere generale quale, a far data dal 30.06.2014, la sottoscrizione con firma digitale (art. 15, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990, introdotto dal d.l. n. 104 del 2013, successivamente modificato dal d.l. n. 145 del 2013). Essi inoltre sono sottoposti ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili, ove non diversamente previsto.
21. Nell’ambito della disciplina dell’Unione, invece, solo i commi 2 e 5-bis dell’art. 32 del T.u.e.l. fanno riferimento all’utilizzo della convenzione: la prima ipotesi (comma 2), quale esercizio da parte dell’Unione, al pari di qualsiasi altra amministrazione, della sua capacità negoziale, estrinsecantesi nella possibilità di sottoscrivere accordi con altre Unioni o con singoli comuni, aderenti o meno alla stessa; la seconda (comma 5-bis, introdotto dal d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla l. 17.12.2012, n. 221), per consentire ai Sindaci dei comuni aderenti di delegare le funzioni di ufficiale dello stato civile e di anagrafe a personale idoneo dell’unione o dei singoli comuni associati.
L’ampliamento delle funzioni assegnate all’Unione “Antica Terra di Lavoro” deliberato con atto n. 15 del 03.05.2013 pare attingere al modello della convenzione tra l’Unione e un singolo Comune, seppure facente parte della stessa e dunque si pone al di fuori della funzionalità per così dire istituzionale propria dell’Ente in questione.
Anche per tale ragione, quindi, esso si palesa estraneo al rapporto originario tra gli Enti riconducibili alla stessa e alla “fiducia” che lo ha generato, intesa in accezione tutt’affatto soggettiva ed emozionale, ma giuridica, come orientamento ad un risultato che si confida di raggiungere solo o comunque meglio mettendo a sistema le proprie risorse, economiche, umane e strumentali.
21.1. D’altro canto, anche il conferimento in concreto della gestione associata delle tre funzioni fondamentali oggetto della scelta del 2012, sull’evidente scia della richiamata legislazione speciale “propulsiva” in tal senso, ha trovato esplicitazione nella sigla di convenzioni, il cui contenuto vincolante tuttavia si innesta nell’assetto organizzativo dell’Unione, in termini di modifica statutaria.
Non a caso, la convenzione mutua l’indicazione della durata dell’accordo -recte, parrebbe, delle condizioni di svolgimento dei servizi, evidentemente demandati alla fonte pattizia– dalla lettera dell’art. 14, comma 31-bis, del d.l. n. 78 del 2010 («almeno un triennio»), evidentemente non coincidente con i trenta anni di vita presunta dell’Unione indicati nello Statuto (art. 5).
L’organizzazione in concreto dei servizi associati, ivi compresa quella degli uffici, è demandata ad ulteriori e tutt’altro che chiare «Convenzioni regolamentari adottate nel rispetto dei principi fissati dalla legge» (art. 3 dell’«Atto di convenzione tra i Comuni di San Giovanni Incarico, Rocca D’Arce e Falvaterra per la gestione associata nell’Unione di Comuni “Antica Terra di Lavoro di funzioni e servizi fondamentali»).
In assenza di qualsivoglia esplicitazione aggiuntiva da ambo le parti, si presume che uno di tali accordi sia quello poi sfociato, quanto meno con riferimento al servizio di gestione dei rifiuti, nella deliberazione del Consiglio dell’Unione n. 7 del 30.09.2014, contenente in verità il Regolamento del servizio di gestione (consociato) dei rifiuti urbani.
Né in tale stratificazione di atti è possibile comprendere appieno l’esatta portata ed operatività dell’Ente originariamente costituito: l’art. 17, comma 2, dello Statuto, fa riferimento al 20.09.2006 quale data di sua costituzione; con riferimento alla protezione civile, la documentazione intercorsa fra le parti consente di ipotizzare la preesistenza della gestione congiunta, evidentemente ribadita senza esplicitare i cambiamenti ampliativi e/o migliorativi; lo stesso dicasi per una parte dell’attività di gestione dei rifiuti, in relazione alla quale è il medesimo Comune di San Giovanni Incarico a riferire al Prefetto di Frosinone lo svolgimento congiunto, a far data dal 2011, della raccolta differenziata attuata con la modalità “porta a porta” nel proprio territorio e in quello del Comune di Falvaterra, tramite appositi contenitori per strada in quello di Rocca D’Arce (v. lettera di rendicontazione prot. n. 4662 del 31.10.2014).
21.2. Con riferimento, infine, ad eventuali funzioni «ulteriori» rispetto a quelle in elenco, il comma 3 dell’art. 7 dello Statuto, ne demanda la possibilità di «attribuzione» all’Unione da parte dei singoli Comuni con apposita deliberazione, anche in questo caso lasciando in dubbio se ciò debba avvenire nell’ambito di un rapporto negoziale bilaterale (una convenzione, ai sensi del ricordato art. 30, comma 2, del T.u.el.), ovvero dando luogo ad una sorta di eterointegrazione ordinamentale, coinvolgente l’Unione e, conseguentemente, tutti gli Enti facenti parte della stessa.
Nella prima direzione parrebbe muoversi la decisione del Comune di San Giovanni Incarico n. 15 del 03.05.2017, successivamente annullata, stante che l’accordo siglato il 24.05.2017 ha interessato solo lo stesso e il Presidente dell’Unione, peraltro individuati nella medesima persona fisica che cumulava illo tempore entrambe le cariche, stabilendo un vincolo destinato a sopravanzare nel tempo la durata originaria dell’Unione (ventinove anni, a decorrere dalla sigla).
22. La ricostruzione effettuata evidenzia dunque con chiarezza l’elemento caratterizzante l’istituto dell’Unione, che ne ha costituito anche nel tempo il ravvisato fattore di criticità impediente l’utilizzo: essa si concretizza nella creazione di un Ente distinto dai Comuni che la compongono, a finalità normalmente settoriale, dotato di propri organi e competenze esclusive, nell’ambito dell’oggetto della gestione condivisa.
Per contro, l’accordo gestionale cui si addiviene con una mera convenzione può risolversi in una delega, ma non spoglia mai il Comune che la conferisce della titolarità in astratto della relativa funzione.
23. La previsione del difetto assoluto di attribuzione come causa di nullità dell’atto richiama in modo diretto il concetto di carenza di potere e il fatto che il legislatore, con l’art. 21-septies della l. n. 241 del 1990, non abbia utilizzato tale espressione conduce a ritenere che nel mai sopito dibattito al riguardo si sia voluto fare riferimento alla carenza di potere in astratto, e non in concreto.
Va dunque considerato nullo il provvedimento adottato da un’amministrazione totalmente priva del potere, appunto, di emanarlo, o perché esso appartiene ad un’amministrazione radicalmente diversa -si parla in questo caso di incompetenza assoluta- oppure perché si tratta di un potere precluso ad ogni amministrazione e riservato ad un altro potere dello Stato, giurisdizionale o legislativo (carenza di potere in astratto).
Ritiene il Collegio che la seconda ipotesi sia quella effettivamente verificatasi nel caso di specie. Il potere di estromettere con decisione unilaterale uno dei Comuni che compongono un’Unione non è previsto dall’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000, né trova -o potrebbe trovare- riscontro nelle previsioni statutarie di quella denominata “Antica Terra di Lavoro”.
Queste ultime caso mai da un lato disciplinano quale causa di cessazione dell’Ente la scadenza del termine di durata ovvero una deliberazione assunta a maggioranza qualificata da parte dei propri organi deliberanti. Il recesso del singolo partecipante, invece, può avvenire solo ad iniziativa dello stesso, ferma restando la (effettiva) presa d’atto da parte dell’Unione: recesso che nel caso di specie, per quanto ampiamente chiarito, non è stato in alcun modo esercitato in relazione all’adesione all’Unione, ma limitato all’ulteriore e pattizio conferimento di funzioni alla stessa tramite autonoma convenzione accessiva.
24. É di tutta evidenza, cioè, che l’Unione, una volta nata su base volontaristica ovvero, a maggior ragione, coatta (nel momento in cui entreranno in vigore le relative previsioni legislative) non ha il potere di modificare unilateralmente la propria compagine associativa, quando ciò si ripercuota su scelte spettanti ai suoi singoli componenti, estromettendoli a prescindere dall’avvenuta espressione di volontà in tal senso da parte degli stessi, ovvero perfino contro la relativa volontà.
25. Va detto che la scelta espulsiva, enfatizzata dalla difesa dell’Unione quale effettivo oggetto del proprio deliberato, non è in realtà immediatamente percepibile ad una prima lettura del dispositivo dello stesso.
Essa cioè non è fatta oggetto di un’autonoma, e chiara, enunciazione precettiva, ma va desunta da una sorta di obiter dictum letteralmente “perso” all’interno di uno dei lunghi periodi descrittivi contenuti nella decisione, laddove si afferma cioè «di ritenere risolto e sciolto, come in effetti si risolve e si scioglie, a causa degli atti deliberativi adottati dal Comune di San Giovanni Incarico, ed indicati in premessa, il vincolo associativo con il Comune di San Giovanni Incarico, con revoca altresì delle deliberazioni consiliari dell’Unione dei Comuni n. 2/02 e n. 11/2014 nelle parti in cui prevedono l’esercizio in forma associata dei servizi e delle funzioni ivi indicati con il Comune di San Giovanni Incarico, e di tutti gli atti connessi e conseguenti, in esecuzione della volontà espressa dall’Organo consiliare di San Giovanni Incarico […]».
Così utilizzando addirittura l’istituto della revoca, riferendolo a scelte consensuali altrui, in maniera del tutto incongrua, oltre che palesemente immotivata.
25.1. Ciò giustificherebbe peraltro l’omessa comprensione immediata della portata lesiva dell’atto da parte del rappresentante del Comune appellante (unico presente tra i tre previsti) che pure ha partecipato alla deliberazione consiliare, con conseguente impugnativa dello stesso solo al momento della concretizzazione dei relativi effetti, ovvero con l’approvazione della variazione di bilancio di cui è causa.
26. Il Comune di San Giovanni Incarico ha, dunque, legittimamente e, ritiene il Collegio, doverosamente, annullato in autotutela la delibera del maggio 2017, con altra di poco successiva, n. 5 del 21.07.2017, sull’assunto che è stato violato l’art. 35, comma 5, del T.u.el., che vieta al Consiglio comunale “uscente” l’adozione di provvedimenti non qualificabili come «urgenti e improrogabili» dopo l’avvenuta pubblicazione dei comizi elettorali per l’effettuazione delle nuove consultazioni (decreto del Prefetto di Frosinone del 04.04.2017, n. 4183, riferito alle elezioni amministrative fissate per l’11.06.2017).
Ciò non senza rilevare altresì la mancanza «di appositi atti di conferimento mai stipulati dagli Enti e tra gli Enti interessati».
Con tale scelta, peraltro, per tali aspetti rispondente a mere esigenze di certezza del diritto, ha posto in luce le conseguenze della precedente -inopportuna anche sotto il profilo dell’unicità del soggetto decisore, seppure in procinto di decadere da una delle due cariche- che quella pregressa avrebbe comportato sul piano sostanziale, ovvero la sostanziale riduzione del Comune appellato ad una scatola vuota, esautorato «dei suoi servizi e funzioni istituzionali più significativi, anche fondamentali ex art. 117 della Costituzione ed art. 14, co. 27, D.L. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010 e s.m.i.», in palese contrasto con lo spirito della legislazione in materia.
Valutazioni tutte di diritto, prima che di opportunità, che in alcun modo potevano assurgere a causa nel senso civilistico della risoluzione del rapporto derubricato a mera convenzione tra le parti.
27. La deliberazione n. 7 del 02.08.2017 è invece chiaramente neutra, nel senso di inidonea a produrre qualsivoglia lesione nella sfera giuridica dell’appellante, laddove riguardata solo dall’ottica della dichiarata «presa d’atto» della decisione autoemendativa assunta dal Comune di San Giovanni Incarico, una volta chiarita l’esatta ed inequivoca portata dell’actus primus che con il suo contrarius si è inteso rimuovere.
Esso infatti, come ormai ampiamente evidenziato, aveva ad oggetto solo il conferimento di ulteriori funzioni in via pattizia all’Unione, non condizionanti i precedenti requisiti costitutivi della stessa e anzi in maniera ad essa sostanzialmente estranea. La circostanza poi che l’accordo conseguitone non fosse neppure idoneo, per carenza dei prescritti requisiti di forma, a produrre alcun effetto giuridico, fa sì che tale pretesa «presa d’atto» si palesi anche del tutto tautologica.
A prescindere, infatti, dall’acquisita efficacia o meno della sottesa delibera del maggio del 2017, in quanto non fatta oggetto di pubblicazione on-line, è innegabile la radicale nullità testuale, dichiarata a soli fini di certezza dei rapporti giuridici, dell’accordo conseguitone. Come pure già chiarito, infatti, allo stesso trova applicazione il comma 2-bis dell’art. 15 della l. n. 241, introdotto per la prima volta dal d.l. n. 179 del 2012, convertito con legge n. 221 del 2012 (e poi modificato in seguito solo quanto alla decorrenza del vincolo di forma ivi delineato), che prescrive che gli accordi fra Pubbliche Amministrazioni debbano essere sottoscritti con firma digitale, «pena la nullità degli stessi».
Tale nullità “testuale” rende quelli non corredati dalla specifica tipologia di sottoscrizione inidonei a produrre un qualunque effetto giuridico. Ciò in quanto il comma 2 dell’art. 15 stabilisce che «per detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste dall’articolo 11, commi 2 e 3», che a loro volta rimandano, «ove non diversamente previsto, ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili».
Il richiamo in parola, quindi, non può che essere riferito all’istituto civilistico della nullità, che, come noto, si connota, inter alia, per l’assoluta inidoneità dell’atto a produrre effetti giuridici: altrimenti detto, dal punto di vista degli effetti (ossia in un’ottica pragmatica attenta al dato funzionale della capacità concreta dell’atto di modificare la realtà giuridica), l’atto essenzialmente non esiste (sul punto, v. ancora Cons. Stato, n. 9842/2023, cit. supra).
27. Condivisa dunque la propugnata ricostruzione del vizio che affligge la delibera presupposto degli atti impugnati come nullità per difetto di attribuzione per avvenuta invasione di un settore attribuito ai singoli Comuni, titolari della scelta associativa, ne va ora scrutinata la valutabilità alla luce dell’avvenuto decorso del termine decadenziale fissato dal codice ai fini del promuovimento della relativa azione dichiarativa (art. 31, comma 4, c.p.a.), siccome eccepito dall’amministrazione appellata.
28. La norma processuale richiamata ha infatti assoggettato la declaratoria di nullità dell’atto amministrativo alla proposizione della relativa domanda al giudice da parte di chi vi abbia interesse, entro il termine di centottanta giorni, da intendersi come decorrente dalla piena conoscenza dell’atto medesimo, con ciò recependo solo in parte gli aspetti tipici della nullità -come tradizionalmente operante nell’ambito del diritto civile- quale nuova forma di invalidità dello stesso oggi declinata all’art. 21-septies della l. n. 241 del 1990.
Vero è che la medesima norma ha anche affermato per altro verso -come per i contratti così anche per l’atto amministrativo- sia la opponibilità in perpetuum della nullità ad opera della parte resistente, sia la rilevabilità di ufficio di tale invalidità, da parte del giudice.
28.1. La compatibilità della rilevabilità d’ufficio della nullità con il termine di decadenza è apparsa da subito ai commentatori alquanto oscura, in un sistema che prima facie non sembra particolarmente simmetrico in termini di garanzie tra le parti.
Al fine dunque di non rendere vana la previsione stessa del termine decadenziale per la deduzione del vizio in via autonoma da parte del ricorrente, è stato dunque affermato in giurisprudenza che la perpetua rilevabilità d’ufficio da parte del giudice incontra il limite del caso in cui sia la parte stessa a far valere detta forma di invalidità, in via di azione (Cons. Stato, sez. III, 03.07.2019, n. 4566; sez. VI, 05.07.2022, n. 5593).
29. Nel caso di specie, tuttavia, si versa nella differente ipotesi in cui la nullità di atti amministrativi (ovviamente in un giudizio diverso da quello ex art. 31, comma 4, c.p.a.) risulta funzionale alla pronuncia sulla domanda introdotta in giudizio (e quindi, nel giudizio impugnatorio, alla declaratoria di illegittimità dell’atto impugnato e al suo conseguente annullamento, ovvero, al contrario, al rigetto della domanda di annullamento).
In aderenza dunque al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, cui si ispira anche la giurisprudenza di legittimità sull’efficacia invalidante del vizio radicale dell’atto presupposto su quello conseguente, non può non rilevarsi come la nullità della deliberazione dell’Unione n. 7 del 2017, seppure per altri versi portata ad esecuzione con provvedimenti non fatti oggetto di gravame, si riverbera necessariamente sulla legittimità degli atti impugnati, ovvero le delibere di approvazione della variazione di bilancio.
Ciò in quanto la lettura dei tabulati riportanti le varie voci di spesa e di entrata evidenzia la rivisitazione della allocazione delle somme quale conseguenza della estromissione del Comune di San Giovanni Incarico, che, al contrario, almeno per quelle riferite ai servizi in gestione associata (recte, da parte dell’Unione), non poteva essere effettuata.
30. All’accoglimento dell’appello d’altro canto può pervenirsi anche con riferimento al terzo motivo di censura. In esso l’appellante invoca l’avvenuta violazione dell’art. 6 dello Statuto dell’Unione che fa decorrere l’efficacia anche di un regolare recesso dal 31 dicembre dell’anno in corso.
A tutto concedere alla tesi dell’appellata, dunque, quand’anche cioè la scelta risolutiva fosse da ascrivere alla volontà del Comune di San Giovanni Incarico, nel prenderne atto l’Unione non poteva certo anticiparne la decorrenza.
A ciò consegue che alla data del 28.11.2017 (di deliberazione da parte della Giunta) e del 29.12.2017 (di approvazione da parte del Consiglio, nella cui epigrafe il Presidente dell’Unione viene contraddittoriamente indicato ancora quale rappresentante del Comune di San Giovanni Incarico), l’Amministrazione appellante doveva a pieno titolo essere convocata e assistere alle sedute degli organi rappresentativi.
31. L’applicabilità all’Unione dei principi generali in materia di Comuni, sancita dall’art. 32 del T.u.e.l. e ribadita dallo Statuto di quella denominata “Antica Terra di Lavoro” all’art. 17, comma 1, consente di conformarsi a quanto costantemente affermato in giurisprudenza per le ipotesi di irritualità delle convocazioni, estendendole a maggior ragione al caso di totale omissione delle stesse, come accaduto nel caso di specie.
Trattasi di vicende che arrecano un vulnus alle prerogative del consigliere comunale pregiudicandone il corretto svolgimento del mandato.
31.1. La lesione dello ius ad officium, ha dunque radicalmente pregiudicato la possibilità di esercitare con pieno e libero convincimento il munus pubblico del quale il consigliere dell’Unione è stato investito a tutela degli interessi dell’Ente che ne faceva ancora parte, con conseguente inibizione nell’espletamento dei diritti propri dello status e impossibilità di esercitare le facoltà espressamente previste dall’art. 43 del Testo unico degli Enti locali.
32. Per tutto quanto sopra detto, l’appello deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza del Tar per il Lazio, Latina, n. 396 del 2018, deve essere accolto il ricorso di primo grado promosso dal Comune di San Giovanni Incarico, e annullata la variazione di bilancio approvata in via definitiva con delibera n. 10 del 2017 del Consiglio dell’Unione “Antica Terra di Lavoro”, nelle sole parti in cui rivedono le voci in entrata e in uscita non considerando come facente parte della stessa l’Amministrazione ricorrente.
Tenuto conto della circostanza, evidenziata dalla difesa dell’Unione, che la stessa è in via di definitivo scioglimento, l’effetto conformativo della presente decisione non può che esplicare i propri effetti nei confronti del Commissario liquidatore, chiamato ad adeguare la propria rendicontazione ai principi in questa sede affermati e a valutarne l’impatto sui bilanci successivi.
Laddove il liquidatore abbia esaurito la propria rendicontazione, all’attuazione della decisione provvederà un Commissario ad acta, individuato da subito nel Prefetto di Frosinone o in uno o più funzionari dallo stesso incaricati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.01.2024 n. 376 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione e prescrizione in una sentenza penale irrevocabile – Effetti su gli interventi edilizi di prosecuzione e/o di completamento – Ordine di demolizione dell’intero manufatto – Eseguibilità – Funzione ripristinatoria e non sanzionatoria – Effetti della caducazione di ulteriori ordini di demolizione – Profilo sistematico e profilo delle conseguenze – Artt. 31 e 44 T.U.E..
Un ordine di demolizione pronunciato in una sentenza penale irrevocabile rimane eseguibile anche quando ulteriori ordini di demolizione aventi ad oggetto il medesimo immobile vengano caducati per la declaratoria di prescrizione del reato oggetto di accertamento nel diverso processo.
Sotto il profilo sistematico, va rilevato, che l’ordine di demolizione impartito da una sentenza divenuta irrevocabile, avendo indubbia funzione ripristinatoria e non sanzionatoria, costituisce titolo autosufficiente rispetto ad altri ordini di demolizione aventi il medesimo oggetto, ma emessi in conseguenza di altre condotte.
Invero, ogni ordine di demolizione pronunciato dal giudice penale ex art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 viene emesso all’esito di un giudizio avente ad oggetto uno specifico fatto sussunto in una delle fattispecie di cui all’art. 44 T.U.E., e si riferisce alle opere realizzate con quella specifica condotta.
Sicché la caducazione di ulteriori ordini di demolizione per ragioni determinate dall’esito dei processi nei quali questi ultimi erano stati emessi non esplica alcuna incidenza in ordine alla efficacia di quello “cristallizzato” in una sentenza di condanna irrevocabile.
Sotto il profilo delle conseguenze, una diversa opzione ermeneutica determinerebbe un effetto “criminogeno”, in quanto potrebbe costituire un incentivo a commettere condotte di illecita prosecuzione dei lavori abusivi nella speranza di ottenere una causa di estinzione del reato, e così di paralizzare una statuizione altrimenti definitivamente eseguibile. Pertanto, è legittimo l’ordine di demolizione dell’intero manufatto anche se per alcune opere, meramente complementari, sia in precedenza intervenuta revoca dell’ordine di demolizione, conseguente a declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
In conclusione, l’ordine di demolizione conseguente alla sentenza di condanna, previsto dall’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380/2001, anche se relativo ad interventi edilizi di prosecuzione e/o di completamento di un precedente abuso edilizio dichiarato estinto per prescrizione ed in relazione al quale il precedente ordine demolitorio era stato revocato, deve comunque essere eseguito sull’immobile considerato nella sua interezza.

---------------
Unitarietà dell’ordine di demolizione – Dovere di “restitutio in integrum” dello stato dei luoghi – Verifica dell’unitarietà o della pluralità degli interventi edilizi.
L’ordine di demolizione del manufatto abusivo, ex art. 31, c. 9, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, riguarda l’edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all’esercizio dell’azione penale e/o alla condanna, atteso che l’obbligo di demolizione si configura come un dovere di “restitutio in integrum” dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell’originaria costruzione.
Nel verificare l’unitarietà o la pluralità degli interventi edilizi, peraltro, non può tenersi conto del mero profilo strutturale, afferente alle tecniche costruttive del singolo manufatto, ma deve prendersi in esame anche l’elemento funzionale, al fine di verificare se le varie opere, pur strutturalmente separate, siano, tuttavia, strumentali al perseguimento del medesimo scopo pratico, consentendo la realizzazione dell’interesse sostanziale sotteso alla loro realizzazione.
E qualora le opere abusive siano tra loro connesse, dando luogo ad un intervento unitario, l’istante è tenuto a scegliere tra l’integrale ripristino dello stato dei luoghi, mediante la demolizione e rimozione di tutte le opere accertate come abusive dall’Amministrazione, ovvero la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità riferita al complessivo intervento abusivo, unitariamente considerato, sempre che lo stesso sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della sua realizzazione e al momento di presentazione della domanda.

---------------
Sentenze accertative degli abusi edilizi o paesaggistici – Ordine di demolizione pronunciato dal giudice penale in funzione di supplenza dell’autorità amministrativa – Art. 31, c. 9, d.P.R. n. 380/2001.
L’’ordine di demolizione, non va dimenticato, viene pronunciato dal giudice penale in funzione di supplenza rispetto all’autorità amministrativa, rispetto al quale la condanna rappresenta solo l’occasione che consente al giudice penale di pronunciarsi “anche” sull’ordine demolitorio, quale sanzione amministrativa restitutoria da disporsi obbligatoriamente (a meno che non risulti che la demolizione sia già avvenuta, che l’abuso sia stato sanato sotto il profilo urbanistico, che il consiglio comunale abbia deliberato la conservazione delle opere in funzione di interessi pubblici ritenuti prevalenti sugli interessi urbanistici) e da eseguirsi con riferimento all’immobile nella sua interezza, come reso palese dalla stessa consecutio lessicale dell’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 (Per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita).
---------------
Reati edilizi e diritto all’abitazione – Immobile abusivo adibito ad abituale abitazione – Attuazione/esecuzione dell’ordine di demolizione – Principio di proporzionalità – Esigenze di tutela di un bene collettivo – Tutela della salute e dell’incolumità – Artt. 2 e 3 della Costituzione e all’art. 8 della CEDU.
in tema di reati edilizi, il giudice, nel dare attuazione all’ordine di demolizione di un immobile abusivo adibito ad abituale abitazione di una persona, è tenuto a rispettare il principio di proporzionalità enunciato dalla giurisprudenza della Corte Edu valutando la disponibilità, da parte dell’interessato, di un tempo sufficiente per conseguire, se possibile, la sanatoria dell’immobile o per risolvere, con diligenza, le proprie esigenze abitative, la possibilità di far valere le proprie ragioni dinanzi a un Tribunale indipendente, l’esigenza di evitare l’esecuzione in momenti in cui sarebbero compromessi altri diritti fondamentali, nonché l’eventuale consapevolezza della natura abusiva dell’attività edificatoria.
Sicché, il rispetto della normativa in materia edilizia risponde non solo all’ovvia esigenza di tutelare un bene collettivo, come tale sottratto alla libera ed indiscriminata disponibilità dei singoli, ma anche alla necessità che questi stessi possano usufruire del bene in sicurezza, proprio perché regolarmente edificato, tutelando la propria salute e la propria incolumità –in sintesi, il proprio benessere– anche (e soprattutto) per l’ipotesi di eventi superiori come le calamità naturali (si pensi alla normativa antisismica o a tutela dal rischio idrogeologico) o, per l’appunto, le malattie o situazioni invalidanti che costringano un soggetto a vivere, magari costantemente, all’interno di uno spazio chiuso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.01.2024 n. 870 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
SENTENZA
2. Infondato è anzitutto il primo motivo.
2.1. Non può invero trovare anzitutto accoglimento la doglianza relativa alla non estensibilità dell’ordine demolitorio agli abusi oggetto della declaratoria di prescrizione pronunciata in data 05.11.1996.
È il caso di riassumere i fatti che hanno preceduto la proposizione dell’incidente di esecuzione la cui definizione ha dato origine al provvedimento ora impugnato: da quanto risulta in atti, i ricorrenti, soggetti terzi interessati iure ereditatis di Ve.U. e D’Al.C., soggetti ingiunti e deceduti, hanno proposto incidente di esecuzione relativamente all’ordine demolitorio disposto con sentenza ex art. 444, cod. proc. pen., per i reati di violazione di sigilli e per alcuni reati edilizi ed antisismici in relazione alla costruzione, senza permesso di costruire, di un manufatto di mq. 220 circa composto da due piani fuori terra già sottoposto a sequestro in data 10.08, 20.08 e 27.08.1991, proseguendo in violazione dei sigilli i lavori edili abusivi, presentandosi al momento dei fatti il manufatto diviso in quattro appartamenti completi parzialmente; la pronunzia in questione è divenuta definitiva in data 04.12.2006.
Tale pronunzia, secondo quanto affermato dai ricorrenti -e sul punto la circostanza non appare essere stata posta in discussione né tanto meno smentita nell’ordinanza ora impugnata- non riguardava i lavori edilizi abusivi oggetto del sequestro dell’anno 1991 (di cui quelli oggetto della sentenza di condanna munita di ordine demolitorio rappresentano la prosecuzione, eseguiti successivamente ed oggetto dei verbali di sequestro 06.12.2003, 16.02.2004, 23.02.2004, 25.03.2004 e 13.12.2004, in occasione dell’accertata plurima violazione dei sigilli), per i quali è intervenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione con sentenza del Pretore di Napoli del 05.11.1996, ma solo quelle successivamente accertate dal 2003 in poi, indicate nell’imputazione ex art. 44, lett. c), TU edilizia.
2.2. Ora, posto che, secondo quanto emerge dalla lettura della ordinanza impugnata, la contestazione da cui è scaturita la sentenza della cui esecuzione si tratta ha ad oggetto l’avvenuta prosecuzione di lavori edili relativi al manufatto di due piani fuori terra composto da due solai di 220 mq. circa, per i quali è intervenuta sentenza di proscioglimento per prescrizione, si osserva che i principi giurisprudenziali evocati dal giudice dell’esecuzione a sostegno della propria decisione di rigetto del ricorso presentato dagli eredi Ve. si palesano astrattamente ed in concreto condivisibili.
Infatti, non può censurarsi che il Tribunale di Napoli non avrebbe considerato né la circostanza che la prosecuzione dell’attività̀ edilizia da parte dei danti causa Ve./D’Al. ha avuto ad oggetto il manufatto di due piani fuori terra composto da due solai di 220 mq. circa in relazione al quale vi è stata una pronunzia giurisdizionale di intervenuta prescrizione del reato all’epoca contestato, né l’obbiettivo contenuto della decisione assunta con la sentenza con la quale è stato definito il giudizio a carico dei danti causa.
Ed invero, premesso che secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte l’ordine di demolizione (nonché quello di rimessione dei luoghi in pristino stato), corollario delle sentenze accertative degli abusi edilizi o paesaggistici, può conseguire, ove si eccettui la ipotesi della lottizzazione abusiva per, la quale vale un regime normativo derogatorio più severo (cfr. infatti, Sez. 3, n. 21910 del 07/04/2022, Rv. 283325; Sez. 3, n. 5816 del 18/01/2022, Rv. 282833), solamente nel caso in cui la conclusione del procedimento penale abbia condotto alla affermazione della penale responsabilità dell’imputato, non essendo idonea a tal fine la sola sentenza dichiarativa della prescrizione (Sez. 3, n. 37836 del 29/03/2017, Rv. 270907; Sez. 3, n. 50441 del 27/10/2015, Rv. 265616), va rilevato che i precedenti giurisprudenziali alla cui autorevolezza il Tribunale si richiama (come gli altri pronunziati in materia da questa Corte) appaiono sicuramente pertinenti rispetto al caso ora in esame, non rilevando la circostanza che gli stessi non siano stati pronunziati in una fattispecie, quale è la presente, in cui le opere abusive (la cui prosecuzione ha costituito oggetto della sentenza cui è collegato l’ordine demolitorio) avevano formato oggetto di una sentenza di estinzione del reato per effetto della intervenuta prescrizione.
La rivalutazione, sia pure ai soli fini della esecuzione dell’ordine di demolizione dell’opera abusiva da parte dell’autorità giudiziaria –ordine si precisa che, per quanto è dato desumere dall’ordinanza, non risulta essere stato impartito quanto al manufatto di due piani fuori terra composto da due solai di 220 mq. circa eseguito nel 1991, esulante rispetto al contenuto della sentenza del tribunale del 05.11.1996 in quanto per lo stesso vi era stata sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione, laddove l’ordine demolitorio riguardava gli interventi edilizi in prosecuzione intervenuti tra il 2003 ed il 2004– non costituisce infatti violazione di quanto disposto con la sentenza dichiarativa dell’avvenuta estinzione del reato a suo tempo contestato, né integra una violazione del principio del ne bis in idem processuale, nel senso che sarebbe oggetto di una determinata previsione giurisdizionale, indubbiamente peggiorativa, un fatto per il quale già vi è stata sentenza di proscioglimento, sia pure per prescrizione (come diversamente afferma un recente precedente di questa stessa Sezione, rimasto isolato e non condiviso da questo Collegio: Sez. 3, n. 19424 del 09.01.2023, Sorrentino, non massimata).
2.3. Né può sostenersi, come adombra tale decisione qui non condivisa, che il giudice dell’esecuzione non avrebbe tenuto conto del dato, acclarato dalla giurisprudenza di questa Corte, che, a differenza del caso in cui non vi sia stata una precedente sentenza, la prosecuzione dei lavori posta in essere dopo una sentenza di condanna (ma deve ritenersi che ciò valga a maggior ragione ove vi sia stata una sentenza di proscioglimento) integra non la prosecuzione della precedente condotta illecita ma un nuovo reato edilizio (così Sez. 3, n. 36215 del 15/05/2019, Rv. 277582), in relazione al quale la eventuale sentenza di condanna costituisce un nuovo, autonomo, titolo esecutivo e non la estensione del precedente.
Tale affermazione, se può valere –al di fuori dei casi di illecito lottizzatorio– nei casi in cui l’abuso per cui è intervenuta la declaratoria di prescrizione sia del tutto autonomo rispetto a quello eseguito successivamente, non può tuttavia essere invocata nei casi, come quello in esame, in cui l’abuso edilizio per il quale è intervenuta condanna (e su cui si fonda il successivo ordine demolitorio) costituisce lo sviluppo (rectius, l’ostinata e dolosa prosecuzione) di un’attività edilizia riguardante il medesimo immobile in relazione al quale è intervenuta la precedente declaratoria di proscioglimento per prescrizione, che ha comportato la revoca del relativo ordine di demolizione.
Quanto sopra, infatti, è la naturale conseguenza del principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui in caso di abusi realizzati in progressione, la demolizione deve necessariamente coinvolgere tutte le opere complessivamente e unitariamente intese.
In tale ultimo senso questa Suprema Corte ha infatti precisato che l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto dall’art. 31, comma nono, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, riguarda l’edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all’esercizio dell’azione penale e/o alla condanna, atteso che l’obbligo di demolizione si configura come un dovere di “restitutio in integrum” dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell’originaria costruzione (tra le tante, Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016, dep. 2017, Rv. 268831 – 01; di recente, si v. anche Sez. 3, n. 43236 del 11/10/2023, La Menza ed altro, non massimata).
2.4. Ad avviso del Collegio, peraltro, come già del resto affermato in una recente decisione di questa stessa Sezione (Sez. 3, n. 46197 del 26/09/2023, Giaquinto, non massimata), un ordine di demolizione pronunciato in una sentenza penale irrevocabile rimane eseguibile anche quando ulteriori ordini di demolizione aventi ad oggetto il medesimo immobile vengano caducati per la declaratoria di prescrizione del reato oggetto di accertamento nel diverso processo.
Va rilevato, infatti, sotto il profilo sistematico, che l’ordine di demolizione impartito da una sentenza divenuta irrevocabile, che ha indubbia funzione ripristinatoria e non sanzionatoria (tra le tante: Sez. 3, n. 3979 del 21/09/2018, dep. 2019, Rv. 275850), costituisce titolo autosufficiente rispetto ad altri ordini di demolizione aventi il medesimo oggetto, ma emessi in conseguenza di altre condotte.
Invero, ogni ordine di demolizione pronunciato dal giudice penale ex art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 viene emesso all’esito di un giudizio avente ad oggetto uno specifico fatto sussunto in una delle fattispecie di cui all’art. 44 d.P.R. cit., e si riferisce alle opere realizzate con quella specifica condotta. Sicché la caducazione di ulteriori ordini di demolizione per ragioni determinate dall’esito dei processi nei quali questi ultimi erano stati emessi non esplica alcuna incidenza in ordine alla efficacia di quello “cristallizzato” in una sentenza di condanna irrevocabile.
Sotto il profilo delle conseguenze, poi, una diversa opzione ermeneutica determinerebbe un effetto “criminogeno”, in quanto potrebbe costituire un incentivo a commettere condotte di illecita prosecuzione dei lavori abusivi nella speranza di ottenere una causa di estinzione del reato, e così di paralizzare una statuizione altrimenti definitivamente eseguibile.
Ancora, identica conclusione appare già enunciata in un precedente, nel quale si afferma che è legittimo l’ordine di demolizione dell’intero manufatto, anche se per alcune opere meramente complementari (nella specie, casseformi armate dirette alla sopraelevazione) era in precedenza intervenuta revoca dell’ordine di demolizione, conseguente a declaratoria di estinzione del reato per prescrizione (Sez. 3, n. 38947 del 09/07/2013, Amore, Rv. 256431-01).
2.5. Piuttosto, in sede di esecuzione, come si evince anche dal precedente appena citato, potrebbe essere necessario verificare se le condotte oggetto del processo in relazione al quale è emesso l’ordine di demolizione poi caducato, siccome diverse da quelle giudicate nel processo definito con sentenza di condanna penale irrevocabile, abbiano comportato la realizzazione di opere strutturalmente autonome rispetto a quelle oggetto del provvedimento di abbattimento contenuto in quest’ultima decisione.
Ed infatti, se l’ordine di demolizione caducato ha ad oggetto opere strutturalmente autonome da quelle interessate dal provvedimento rimasto fermo, le prime non potranno essere demolite. Se, invece, come nel caso sottoposto all’esame di questo Collegio, l’ordine di demolizione caducato ha ad oggetto opere rispetto alle quali quelle interessate dal provvedimento da eseguire costituiscono il naturale sviluppo, un completamento o una prosecuzione, anche le prime dovranno essere demolite, proprio in applicazione del principio dell’unitarietà dell’abuso.
In questo senso, del resto, si è ripetutamente pronunciata la giurisprudenza, secondo la quale l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto dall’art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, riguarda l’edificio oggetto del procedimento che ha dato vita al titolo esecutivo ma anche ogni altro intervento, che, per la sua accessorietà all’opera abusiva, renda ineseguibile l’ordine medesimo, non potendo consentirsi che eventuali ulteriori edificazioni possano, in qualche modo, ostacolare l’integrale attuazione dell’ordine giudiziale (cfr., tra le tantissime, Sez. 3, n. 41180 del 20/10/2021, La Rosa, e Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016, dep. 2017, Molinari, Rv. 268831-01).
2.6. Utili elementi interpretativi, del resto, possono agevolmente essere tratti dalla giurisprudenza amministrativa.
Pacifico, infatti, è che, proprio in relazione all’esecuzione di un ordine demolitorio, la giurisprudenza amministrativa ritiene che al fine di valutare l’incidenza sull’assetto del territorio di un intervento edilizio, consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprenderne in modo adeguato l’impatto effettivo complessivo. I molteplici interventi eseguiti non vanno considerati, dunque, in maniera “frazionata” (Cons. St., sez. VI, 26/09/2022, n. 8238; Cons. St., sez. VI, 08/09/2021, n. 6235).
In tal senso, non può che convenirsi con l’affermazione dei giudici amministrativi secondo cui “nel verificare l’unitarietà o la pluralità degli interventi edilizi, peraltro, non può tenersi conto del mero profilo strutturale, afferente alle tecniche costruttive del singolo manufatto, ma deve prendersi in esame anche l’elemento funzionale, al fine di verificare se le varie opere, pur strutturalmente separate, siano, tuttavia, strumentali al perseguimento del medesimo scopo pratico, consentendo la realizzazione dell’interesse sostanziale sotteso alla loro realizzazione”.
E che “qualora le opere abusive siano tra loro connesse, dando luogo ad un intervento unitario, l’istante è tenuto a scegliere tra l’integrale ripristino dello stato dei luoghi, mediante la demolizione e rimozione di tutte le opere accertate come abusive dall’Amministrazione, ovvero la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità riferita al complessivo intervento abusivo, unitariamente considerato, sempre che lo stesso sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della sua realizzazione e al momento di presentazione della domanda” (cfr., in tal senso, Cons. St., Sez. VI, 16.03.2020 n. 1848).
Ciò comporta, ad esempio, quale naturale conseguenza che deve escludersi che al destinatario dell’ordine di demolizione sia consentito selezionare se e quali delle opere rimuovere, stante il principio dell’unitarietà dell’abuso, sanzionato –e dunque da demolire– in ciascuna delle sue componenti: si tratta di una valutazione già operata dall’amministrazione procedente in sede di irrogazione della sanzione e che, ove rimasta incontestata, non può venire surrettiziamente rimessa in gioco in fase esecutiva. Pertanto, l’esecuzione parziale dell’ordinanza di demolizione espone il destinatario alla sanzione pecuniaria prevista per mancata ottemperanza all’ordinanza stessa, non essendo al riguardo possibile distinguere tra parziale e totale inottemperanza (TAR Firenze, Toscana, sez. III, 05/10/2020, n. 1136).
2.7. Posto, quindi, che l’ordine di demolizione disposto con sentenza penale irrevocabile rimane eseguibile anche quando ulteriori provvedimenti di identico contenuto relativi al medesimo immobile vengano caducati per la declaratoria di prescrizione del reato, deve concludersi che l’ordine di demolizione conseguente alla sentenza di condanna, pur essendo relativo agli interventi edilizi di completamento dell’abuso “prescritto” per il quale il precedente ordine demolitorio è caducato, deve essere eseguito sull’immobile considerato nella sua interezza.
Deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto: «L’ordine di demolizione conseguente alla sentenza di condanna, previsto dall’art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche se relativo ad interventi edilizi di prosecuzione e/o di completamento di un precedente abuso edilizio dichiarato estinto per prescrizione ed in relazione al quale il precedente ordine demolitorio era stato revocato, deve comunque essere eseguito sull’immobile considerato nella sua interezza».
3. Facendo, pertanto, applicazione di tale principio al caso in esame, ne discende che l’azione esecutiva fondata sull’ordine demolitorio delle opere abusive, in data 16.10.2006, con sentenza emessa dal Tribunale di Napoli, definitiva in data 04.12.2006, non è preclusa o sospesa solo perché era stato in precedenza revocato l’ulteriore ordine di demolizione sul medesimo manufatto, relativo alle opere preesistenti in relazione alle quali è intervenuta sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato.
L’ordine di demolizione, infatti, non va dimenticato, viene pronunciato dal giudice penale in funzione di supplenza rispetto all’autorità amministrativa, rispetto al quale la condanna rappresenta solo l’occasione che consente al giudice penale di pronunciarsi “anche” sull’ordine demolitorio, quale sanzione amministrativa restitutoria da disporsi obbligatoriamente (a meno che non risulti che la demolizione sia già avvenuta, che l’abuso sia stato sanato sotto il profilo urbanistico, che il consiglio comunale abbia deliberato la conservazione delle opere in funzione di interessi pubblici ritenuti prevalenti sugli interessi urbanistici: Sez. 3, n. 43294 del 29/09/2005, Rv. 232645) e da eseguirsi con riferimento all’immobile nella sua interezza, come reso palese dalla stessa consecutio lessicale dell’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 (Per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita).
Il motivo di ricorso deve, pertanto, essere respinto.
4. Manifestamente infondata è inoltre la doglianza relativa alla mancata valutazione della proporzionalità dell’ordine demolitorio.
Ed infatti, come, peraltro già affermato da questa Corte, il diritto all’abitazione, riconducibile agli artt. 2 e 3 della Costituzione e all’art. 8 della CEDU, non è tutelato in termini assoluti in sede di esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, ma esso è oggetto di bilanciamento con altri valori di pari rango costituzionale, come l’ordinato sviluppo del territorio e la salvaguardia dell’ambiente, che giustificano, secondo i criteri della necessità, sufficienza e proporzionalità, l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un immobile abusivo, sempre che tale provvedimento si riveli proporzionato rispetto allo scopo che la normativa edilizia intende perseguire, rappresentato dal ripristino dello status preesistente del territorio (Sez. 3, n. 48021 del 11/09/2019, Rv. 277994; Sez. 3, n. 21198 del 15/02/2023, Rv. 284627 – 01).
Ciò considerato e rilevato anche che, in tema di reati edilizi, il giudice, nel dare attuazione all’ordine di demolizione di un immobile abusivo adibito ad abituale abitazione di una persona, è tenuto a rispettare il principio di proporzionalità enunciato dalla giurisprudenza della Corte Edu valutando la disponibilità, da parte dell’interessato, di un tempo sufficiente per conseguire, se possibile, la sanatoria dell’immobile o per risolvere, con diligenza, le proprie esigenze abitative, la possibilità di far valere le proprie ragioni dinanzi a un Tribunale indipendente, l’esigenza di evitare l’esecuzione in momenti in cui sarebbero compromessi altri diritti fondamentali, nonché l’eventuale consapevolezza della natura abusiva dell’attività edificatoria (Sez. 3, n. 5822 del 18/01/2022, Rv. 282950 – 01; Sez. 3, n. 423 del 14/12/2020, dep. 2021, Rv. 280270 – 01), ritiene questa Corte che nell’occasione il Giudice della esecuzione si sia ben dato carico di valutare il rispetto dei principi dianzi evocati.
Il Tribunale ha, infatti, posto in luce implicitamente sia la evidente esorbitanza dell’immobile in questione, costituito da un manufatto di due piani fuori terra, composto da due solai di 220 mq. circa, rispetto alle sufficienti esigenze abitative; ha altresì segnalato –in presenza di fattori deponenti per la esistenza di situazioni di bisogno economico/sanitario a carico dei ricorrenti oggetto di bilanciamento-, che nel tempo intercorso fra la avvenuta definitività della sentenza della cui esecuzione oggi si tratta ed il provvedimento con il quale si è disposta autoritativamente tale esecuzione (non potendo, del resto, il condannato lucrare sul tempo inutilmente trascorso dalla data di irrevocabilità della sentenza, posto che l’ingiunzione a demolire trova causa proprio dalla sua inerzia: cfr. Sez. 3, n. 21198 del 15/02/2023, cit.), i ricorrenti non risultano essersi attivati onde risolvere in termini di liceità il proprio problema abitativo, avendo non solo beneficiato di un congruo lasso temporale per individuare altre soluzioni abitative, ma anche facendo leva sulla commissione di contravvenzioni urbanistiche e paesaggistiche e del reato di violazione di sigilli, aggiungendo come gli stessi avrebbero potuto avvalersi di plurimi rimedi per la tutela in giudizio delle proprie ragioni, né essendo state indicate specifiche esigenze tali da giustificare un rinvio dell’esecuzione dell’ordine di demolizione onde evitare la compromissione di altri diritti fondamentali.
Trattasi di motivazione che si conforma del resto alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 5822 del 18/01/2022, Rv. 282950, che ha già ritenuto corretta la decisione di rigetto dell’istanza di revoca dell’ingiunzione a demolire un immobile abusivo, rilevando che i ricorrenti avevano commesso numerose contravvenzioni urbanistiche e paesaggistiche e più delitti di violazione dei sigilli, avevano potuto avvalersi di plurimi rimedi per la tutela in giudizio delle proprie ragioni, avevano beneficiato di un congruo tempo per individuare altre situazioni abitative e non avevano indicato specifiche esigenze che giustificassero il rinvio dell’esecuzione dell’ordine di demolizione onde evitare la compromissione di altri diritti fondamentali), dovendosi peraltro rilevare, in armonia con quanto già evidenziato dal PG, l’assoluta genericità dell’istanza “non supportata (quanto a inadeguatezza delle risorse economiche della famiglia genericamente indicata, alla condizione urbanistica dell’area nella quale grava l’immobile abusivo, all’impossibilità di ottenere un alloggio popolare o comunque una sistemazione alternativa) da alcuna concreta allegazione, quantomeno sotto il profilo dei redditi dell’indefinito nucleo familiare, della richiesta di alloggi popolari, della attuale condizione urbanistica dell’area)”.
4.1. A ciò, infine, va aggiunto, come recentemente affermato da questa Corte con sentenza cui il Collegio ritiene di dover dare continuità, che il diritto alla salute, specie a fronte di patologie gravi ed invalidanti, trova attuazione in primo luogo ponendo il malato in un ambiente –non necessariamente ospedaliero– del tutto salubre, edificato ed attrezzato nel pieno rispetto della disciplina di legge, proprio perché questa è volta a garantire anche il benessere di chi abita in quei luoghi, specie se malato.
In altri termini, il rispetto della normativa in materia edilizia risponde non solo all’ovvia esigenza di tutelare un bene collettivo, come tale sottratto alla libera ed indiscriminata disponibilità dei singoli, ma anche alla necessità che questi stessi possano usufruire del bene in sicurezza, proprio perché regolarmente edificato, tutelando la propria salute e la propria incolumità –in sintesi, il proprio benessere– anche (e soprattutto) per l’ipotesi di eventi superiori come le calamità naturali (si pensi alla normativa antisismica o a tutela dal rischio idrogeologico) o, per l’appunto, le malattie o situazioni invalidanti che costringano un soggetto a vivere, magari costantemente, all’interno di uno spazio chiuso (Sez. 3, n. 48820 del 02.11.2023, F., non massimata).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimo estendere gli effetti inibitori della sanzione ANAC a una procedura di gara aggiudicata anni prima.
---------------
CONTRATTI pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione - Risoluzione - ANAC - Sanzione. Efficacia.
Al disposto del comma 12 dell’art. 80, a termini del quale “In caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che, se ritiene che siano state rese con dolo o colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, dispone l'iscrizione nel casellario informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1 fino a due anni, decorso il quale l'iscrizione è cancellata e perde comunque efficacia.”, va riconosciuto il carattere di norma di stretta interpretazione poiché connotata dall’evidente natura afflittiva e compressiva dei diritti del destinatario, quali quello di partecipazione a pubbliche gare, espressivo della libertà di iniziativa economica privata sancito dall’art. 41, co. 1, della Costituzione, e appare funzionale solo a un’applicazione pro futuro.
Ritenere che siffatta inibizione, stabilita per le gare e per i subappalti futuri, possegga idoneità a riverberarsi anche sui contratti di appalto o di subappalto già sottoscritti dalla stazione appaltante, per di più quasi cinque anni addietro –come nel caso di specie– equivale a:
   1) confliggere con il divieto generale di applicazione estensiva o analogica di norme di stretta interpretazione;
   2) conferire alla norma stessa, efficacia retroattiva e attitudine a produrre effetti, inammissibilmente, anche su di una vicenda procedimentale ormai conclusa da oltre cinque anni, quale la procedura di gara sfociata nell’aggiudicazione presupposta alla stipulazione del contratto d’appalto risolto con l’impugnato provvedimento.
(In punto di fatto la Prefettura aveva risolto un precedente contratto atteso che il divieto di partecipazione dalle procedure di gara, sia pur per soli 90 giorni, pronunciato ai danni della Cooperativa dall’ANAC, quantunque emesso in occasione della nuova procedura di gara indetta dalla Prefettura, importerebbe la risoluzione del precedente contratto in virtù del principio di necessaria permanenza dei requisiti di partecipazione alle pubbliche gare per tutta la durata dell’esecuzione del contratto)
(TAR Campaia-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.01.2024 n. 132 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
6. Approdando al merito del gravame, sintetizzando il nesso della suesposta pregressa vicenda procedimentale sul provvedimento impugnato, conviene ricordare che il divieto di partecipazione, dalle procedure di gara, sia pur per soli 90 giorni, pronunciato ai danni della Cooperativa dall’ANAC con comunicazione prot. n. 64540 del 02/09/2020, successivamente integrata in data 18/11/2020 (prot. 87674), quantunque emesso in occasione della nuova procedura di gara indetta dalla Prefettura il 09/04/2019, importerebbe, secondo il provvedimento oggetto del ricorso in trattazione, la risoluzione del precedente contratto del 15.09.2016, in virtù del principio di necessaria permanenza dei requisiti di partecipazione alle pubbliche gare per tutta la durata dell’esecuzione del contratto.
La Sezione ha già sancito, con l’Ordinanza cautelare 07.05.2021, n. 789 di accoglimento della domanda incidentale di sospensiva, “che la disposta risoluzione del contratto si fonda solo sulla delibera n. 4 del 07.01.2021”; cosicché va scrutinata l’incidenza e l’idoneità inficiante della pronuncia inibitoria recata da tale deliberazione dell’ANAC, sul contratto d’appalto del 15.09.2016 stipulato dalla Prefettura resistente con la Cooperativa.
7. Al riguardo ritiene il Collegio che fondato ed assorbente si prospetti il primo motivo di ricorso, con il quale, rubricando, tra l’altro, violazione dell’art. 80, commi 12 e 14, del Codice dei contratti pubblici, la ricorrente, in sintesi, deduce che l’art. 80 del Codice dei Contratti Pubblici, il cui comma 12 nel prevedere l’iscrizione nel casellario informatico della pubblicità notizia, persegue due sole finalità: l’esclusione del destinatario dalla partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica e l’esclusione dall’affidamento del subappalto. Nel corso del suindicato lasso temporale il provvedimento di iscrizione in questione costituisce motivo ostativo alla stipula di contratti, sulla scorta di quanto previsto sia dalla lettera f-ter) del comma 5 che dal successivo comma 14 dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016.
Per la ricorrente l’impianto della norma in esame, dunque, è tale da dirigere l’efficacia delle sanzioni ivi previste –anche di tipo interdittivo– unicamente alla fase dell’evidenza pubblica, impedendo destinatario della sanzione inibitoria di partecipare a gare e di stipulare il contratto nel lasso di tempo determinato dalla sanzione afflittiva. Conclusione suffragata anche dalla norma di chiusura dell’art. 80 D.Lgs. n. 50/2016, costituita dal comma 14, secondo cui “Non possono essere affidatari di subappalti e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti per i quali ricorrano i motivi di esclusione previsti dal presente articolo”.
Da tale norma del Codice dei contratti pubblici discende, secondo la deducente, che l’efficacia del provvedimento dell’Anac non può riflettersi nel rapporto contrattuale tuttora in essere tra la ricorrente e la Prefettura di Benevento, per effetto di un contratto già stipulato, in un momento oltretutto antecedente altresì alla gara –del tutto autonoma- dalla quale la Cooperativa è stata espulsa.
8. La censura si presta a favorevole considerazione e va pertanto accolta.
Osserva il Collegio che colora di persuasività la doglianza della deducente, non tanto l’invocato disposto dell’art. 80, comma 14, del d.lgs. n. 50/2016, a mente del quale “Non possono essere affidatari di subappalti e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti per i quali ricorrano i motivi di esclusione previsti dal presente articolo”, giacché tale norma ha una ampia latitudine e una portata generale, involgendo tutte le ipotesi di esclusione annoverate dall’art. 80, quanto il disposto di cui al comma 12 dell’art. 80 in esame, a termini del quale “In caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che, se ritiene che siano state rese con dolo o colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, dispone l'iscrizione nel casellario informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1 fino a due anni, decorso il quale l'iscrizione è cancellata e perde comunque efficacia.”
La disposizione, cui va riconosciuto il carattere di norma di stretta interpretazione poiché connotata dall’evidente natura afflittiva e compressiva dei diritti del destinatario, quali quello di partecipazione a pubbliche gare, espressivo della libertà di iniziativa economica privata sancito dall’art. 41, co 1, della Costituzione, appare funzionale ad un’applicazione pro futuro, in quanto preordinata a inibire la partecipazione alle gare e l’affidamento di subappalti cui l’impresa raggiunta dalla iscrizione nel casellario informatico ambisca a prender parte ovvero, quanto ai subappalti, che aspiri a stipulare.
8.1. Depone nel divisato senso anzitutto l’ermeneusi letterale della norma, laddove stabilisce che l’iscrizione nel casellario informatico è effettuata “ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1” ma solo “fino a due anni, decorso il quale l'iscrizione è cancellata e perde comunque efficacia”: il che postula di necessità l’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine durante “fino a due anni”, dies che non può che individuarsi nel momento dell’avvenuta iscrizione.
Del resto –ed è forse l’osservazione di maggior momento- la stessa formulazione diacronica del termine in questione, insita nell’inciso finale “decorso il quale l'iscrizione è cancellata e perde comunque efficacia”, presuppone che l’operatività e gli effetti dell’iscrizione nel casellario informatico si proiettino e riverberino nel futuro.
8.2. Suffraga inoltre, in secondo luogo, l’esegesi qui suggerita, anche la considerazione della ratio e del carattere di norma di stretta interpretazione che vanno fondatamente annessi all’art. 80, comma 12, d.lgs. n. 50/2016, dianzi tratteggiato.
Invero, ritenere che siffatta inibizione, ripetesi, stabilita per le gare e per i subappalti futuri, possegga idoneità a riverberarsi anche sui contratti di appalto o di subappalto già sottoscritti dalla stazione appaltante, per di più quasi cinque anni addietro –come nel caso di specie– equivale a:
   1) confliggere con il divieto generale di applicazione estensiva o analogica di norme di stretta interpretazione;
   2) conferire alla norma stessa, efficacia retroattiva ed attitudine a produrre effetti, inammissibilmente, anche su di una vicenda procedimentale ormai conclusa da oltre cinque anni, quale la procedura di gara sfociata nell’aggiudicazione presupposta alla stipulazione del contratto d’appalto del 15.09.2016 (all. 3 del ricorso) risolto con l’impugnato provvedimento.
8.3. L’efficacia limitata al solo periodo di validità dell’iscrizione nel casellario, risalta inoltre con maggiore evidenza ove si consideri che il termine di due anni è un termine massimo (“fino a due anni”), il che elide ab imis la possibilità di estendere gli effetti inibitori portati dall’iscrizione de qua, ad un arco temporale già decorso.
In tale ultima corretta visuale di indagine, rimarca inoltre il Collegio che nel caso di specie l’ANAC ha ulteriormente circoscritto il periodo di inibizione dalla partecipazione alle gare e dalla stipula di contratti di subappalto pronunciato a carico della ricorrente, a soli tre mesi. Come già anticipato nelle premesse infatti, con il provvedimento n. 4 del 07/01/2021, con cui ha irrogato la sanzione pecuniaria di € 15.000,00, l’ANAC ha disposto l’annotazione della Cooperativa ricorrente nel casellario informatico dei contratti pubblici comminando altresì l’ulteriore sanzione di inibizione per novanta giorni dalla partecipazione alle procedure di gara e dall’affidamento di subappalti.
Ora, come fondatamente deduce sul punto anche la ricorrente Cooperativa (punto 1.3. del primo motivo), tale limitazione temporale fa emergere la portata meramente inibitoria dell’iscrizione, a valere sulle future gare e sui futuri subappalti.
8.3.1. Accreditando, invece, la tesi su cui si fonda l’impugnato provvedimento risolutivo -come parimenti sostiene la ricorrente- decorso il lasso di tempo di efficacia della sanzione inibitoria (nella specie, pari a novanta giorni o comunque, al massimo a due anni ex art. 80, co. 12, d.lgs. n. 50/2016), si perverrebbe ad una situazione dicotomica in cui mentre per la partecipazione alle gare o per l’affidamento dei subappalti non vigerebbe più la preclusione, viceversa, per effetto di un provvedimento di risoluzione contrattuale derivante dall’estensione del divieto in argomento anche ai contratti di appalto già stipulati ed in corso di esecuzione, l’appaltatore subirebbe, come nel caso all’esame, una lesione permanente e non più limitata ai soli novanta giorni inferti dal provvedimento di iscrizione nel casellario emesso dall’ANAC.
8.3.2. Il che, soggiunge il Collegio, trasmoderebbe anche in una lampante lesione del principio di uguaglianza e in una non consentita disparità di trattamento tra il futuro appaltatore o subappaltatore, che tale non potrebbe diventare solo per il termine di durata dell’iscrizione ANAC nel casellario informatico, e l’appaltatore già esecutore di un contratto d’appalto in corso di svolgimento, pregiudicato invece in via permanente e definitiva dalla disposta risoluzione.
9. Non risulta constino precedenti giurisprudenziali sul punto.
Segnala comunque il Collegio che la giurisprudenza ha espresso un principio analogo, agganciando la delimitazione dell’operatività dell’effetto dell’iscrizione nel casellario informatico al periodo corrispondente alla durata della inibizione ANAC.
Si è in tal senso affermato che: “L'iscrizione nel casellario informatico è efficace, perché dà luogo a effetti escludenti, solo per il periodo corrispondente alla durata della sanzione interdittiva inflitta dall'Anac, pur se tali effetti possono essere fatti valere anche dopo, «ora per allora», quando la verifica da parte delle Stazioni Appaltanti è eseguita dopo lo spirare del termine di interdizione ma relativamente a gare rientranti in tale periodo” (TAR Lazio–Roma, Sez., 07.01.2020, n. 63).
Più di recente anche questo TAR si è espresso nel medesimo senso estendendo la possibilità di escludere l’impresa raggiunta dal provvedimento di iscrizione nel casellario informatico anche oltre l’aggiudicazione, precisando che: “Dall'art. 80, comma 5, lett. f- ter) e comma 6, d.lgs. n. 50/2016 è possibile ricavare che l'operatore economico deve essere escluso ogni volta in cui la sanzione interdittiva ANAC venga irrogata in pendenza di una procedura di gara. La sanzione non produce un mero effetto preclusivo, bensì espulsivo. Invero, il comma 6 prevede che l'esclusione degli operatori economici privi dei requisiti di partecipazione possa intervenire in qualunque momento della procedura, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura stesso. Inoltre, la lett. f-ter) nel prevedere che «Il motivo di esclusione perdura fino a quando opera l'iscrizione nel casellario informatico», da un lato preclude l'ultrattività della sanzione, dall'altro, però, ne conferma in modo inequivoco la natura di motivo di esclusione che, alla stregua di quanto sopra evidenziato, produce i propri effetti nelle procedure in corso, rendendo doverosa la misura espulsiva, anche successiva all'aggiudicazione, della società destinataria della sanzione” (TAR Campania-Napoli, sez. VIII, 07.10.2022, n. 6203).
9.1.Ma varcare la soglia di una già pronunciata aggiudicazione fino ad invadere un contratto già in corso di svolgimento –peraltro, nel caso che occupa, da quasi cinque anni- vulnerandolo con un provvedimento di risoluzione in danno, è un effetto che l’ordinamento, anche costituzionale, ad avviso del Collegio non consente, per le ragioni sopra spiegate (TAR Campaia-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.01.2024 n. 132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'onere di comunicare alla ricorrente l’avvio del procedimento ex art. 7 della legge 241/1990 (preordinato alla adozione del impugnato provvedimento prefettizio teso alla risoluzione del contratto d’appalto stipulato con la ricorrente stessa) si rende(va) necessario poiché la risoluzione contrattuale decretata, appunto, con l’impugnato provvedimento prefettizio opera al pari di un atto di secondo grado, sia nella sostanza provvedimentale che negli effetti, risolvendosi in un provvedimento di ritiro emesso alla stregua di un atto di autotutela decisoria, del quale condivide i caratteri sostanziali ed effettuali.
Milita a suffragio della tesi ricorrente circa la sostanziale riconduzione del gravato provvedimento all’esercizio dei poteri di autotutela della p.a., l’argomento incentrato sulla valorizzazione del dato sostanziale rispetto a quello meramente formale del provvedimento in questione; seppur di “risoluzione” si è trattato, in quanto avente l’effetto tipico di sciogliere il vincolo contrattuale stipulato con il privato dopo l’aggiudicazione, esso non rimonta a vizi e/o a condotte manifestate nel rapporto contrattuale, né ad un inadempimento dell’appaltatore, adducendo a ragione del provvedimento di esclusione elementi relativi alla fase prodromica all’aggiudicazione stessa di un’altra gara autonoma rispetto al contratto risolto.
Gara d’appalto espletata nell’anno 2020, mentre il contratto in essere tra le parti è stato stipulato nel 2016 in esito alla intervenuta aggiudicazione di una gara precedente ed autonoma.
...
Relativamente ai provvedimenti espressione di autotutela decisoria della pubblica amministrazione, è incontrastato l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa che predica la necessità dell’inoltro al privato da esso inciso, della comunicazione di avvio ex art. 7, l. n. 241/1990.
Giova al riguardo rammentare che l’art. 7 L. 241/1990 stabilisce che «ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi di-retti destinatari, l'amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell'inizio del procedimento».
Operando l’impugnato decreto prefettizio, come detto, alla stregua e con i medesimi effetti sostanziali di un provvedimento in autotutela, la comunicazione di avvio del procedimento era obbligatoria. Sul punto la giurisprudenza è unanime.
Al riguardo il Tribunale ha anche di recente sancito che «laddove si tratti -come nel caso di specie- di procedimenti volti all’adozione di provvedimenti di secondo grado di ritiro in autotutela (revoca o annullamento) di precedenti atti amministrativi favorevoli, la giurisprudenza amministrativa è, infatti, consolidata nel riconoscere alla preventiva comunicazione di cui all’art. 7 della l. n. 241/1990 il valore di principio generale dell’azione amministrativa, fatta salva (soltanto) la sussistenza di particolari ragioni di urgenza adeguatamente esplicitate nella motivazione del provvedimento finale – ragioni di urgenza nella fattispecie in alcun modo evidenziate.
Ed invero non può disconoscersi in capo al ricorrente, proprietario del bene al momento dell’emissione del provvedimento di secondo grado, un interesse qualificato a partecipare al relativo procedimento sia in fase iniziale (previo avviso di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990) sia in fase istruttoria e decisionale (ai sensi dell’art. 10 della medesima legge)».
Sulla scia del cennato orientamento la giurisprudenza ha ribadito che “come è noto, laddove si tratti -come nel caso di specie- di procedimenti volti all'adozione di provvedimenti di secondo grado di ritiro in autotutela (revoca o annullamento) di precedenti atti amministrativi favorevoli, la giurisprudenza amministrativa è consolidata nel riconoscere alla preventiva comunicazione di cui all'art. 7 della l. n. 241/1990 il valore di principio generale dell’azione amministrativa, fatta salva (soltanto) la sussistenza di particolari ragioni di urgenza adeguatamente esplicitate nella motivazione del provvedimento finale, ragioni di urgenza nella fattispecie in alcun modo evidenziate”.
---------------

10. Del pari fondato è anche il terzo motivo di ricorso, con cui, in sintesi, la ricorrente Cooperativa lamenta l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7, l. n. 241/1990, preordinato alla adozione del impugnato provvedimento del Prefetto di Benevento, teso alla risoluzione del contratto d’appalto stipulato con la ricorrente, avente ad oggetto lo svolgimento dei servizi di accoglienza di cittadini stranieri richiedenti la protezione internazionale, nel Centro di accoglienza straordinario in Frasso Telesino.
Deduce al riguardo parte ricorrente che, alla stregua di qualsiasi provvedimento amministrativo, la risoluzione in disamina avrebbe dovuto essere preceduta dalla instaurazione di un corretto procedimento, caratterizzato dalle garanzie partecipative allestite dal legislatore in favore del destinatario del provvedimento finale.
Nel caso di specie ha fatto difetto, invece, l’assolvimento del divisato onere e “Il provvedimento autoritativo, nonostante sia caratterizzato da una portata gravemente lesiva della posizione della ricorrente, è stato calato dall’alto, senza cioè la previa instaurazione di un procedimento caratterizzato dalla comunicazione del relativo avvio, la fissazione di un termine in capo al destinatario per produrre osservazioni e\o giustificazioni” (Ricorso, pag. 14).
11. La sintetizzata censura coglie nel segno e va dunque accolta.
Invero, l’onere di comunicare alla ricorrente l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge sul procedimento si rendeva necessario poiché la risoluzione contrattuale decretata con l’impugnato provvedimento prefettizio opera al pari di un atto di secondo grado, sia nella sostanza provvedimentale che negli effetti, risolvendosi in un provvedimento di ritiro emesso alla stregua di un atto di autotutela decisoria, del quale condivide i caratteri sostanziali ed effettuali.
Milita a suffragio della tesi ricorrente circa la sostanziale riconduzione del gravato provvedimento all’esercizio dei poteri di autotutela della p.a., l’argomento incentrato sulla valorizzazione del dato sostanziale rispetto a quello meramente formale del provvedimento in questione; seppur di “risoluzione” si è trattato, in quanto avente l’effetto tipico di sciogliere il vincolo contrattuale stipulato con il privato dopo l’aggiudicazione, esso non rimonta a vizi e/o a condotte manifestate nel rapporto contrattuale, né ad un inadempimento dell’appaltatore, adducendo a ragione del provvedimento di esclusione elementi relativi alla fase prodromica all’aggiudicazione stessa di un’altra gara autonoma rispetto al contratto risolto.
Gara d’appalto espletata nell’anno 2020, mentre il contratto in essere tra le parti è stato stipulato nel 2016 in esito alla intervenuta aggiudicazione di una gara precedente ed autonoma.
Relativamente ai provvedimenti espressione di autotutela decisoria della pubblica amministrazione, è incontrastato l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa che predica la necessità dell’inoltro al privato da esso inciso, della comunicazione di avvio ex art. 7, l. n. 241/1990.
Giova al riguardo rammentare che l’art. 7 L. 241/1990 stabilisce che «ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi di-retti destinatari, l'amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell'inizio del procedimento».
Operando l’impugnato decreto prefettizio, come detto, alla stregua e con i medesimi effetti sostanziali di un provvedimento in autotutela, la comunicazione di avvio del procedimento era obbligatoria. Sul punto la giurisprudenza è unanime.
Al riguardo il Tribunale ha anche di recente sancito che «laddove si tratti -come nel caso di specie- di procedimenti volti all’adozione di provvedimenti di secondo grado di ritiro in autotutela (revoca o annullamento) di precedenti atti amministrativi favorevoli, la giurisprudenza amministrativa è, infatti, consolidata nel riconoscere alla preventiva comunicazione di cui all’art. 7 della l. n. 241/1990 il valore di principio generale dell’azione amministrativa, fatta salva (soltanto) la sussistenza di particolari ragioni di urgenza adeguatamente esplicitate nella motivazione del provvedimento finale – ragioni di urgenza nella fattispecie in alcun modo evidenziate (ex multis, questo TAR, Sezione IV, n. 2907/2014).
Ed invero non può disconoscersi in capo al ricorrente, proprietario del bene al momento dell’emissione del provvedimento di secondo grado, un interesse qualificato a partecipare al relativo procedimento sia in fase iniziale (previo avviso di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990) sia in fase istruttoria e decisionale (ai sensi dell’art. 10 della medesima legge)
» (TAR Campania–Napoli, sez. IV, n. 70/2022).
Negli stessi sensi si è pronunciato il giudice d’appello (Cons. di Stato, sez. II, 07.09.2020, n. 5392).
Sulla scia del cennato orientamento la giurisprudenza ha ribadito che “come è noto, laddove si tratti -come nel caso di specie- di procedimenti volti all'adozione di provvedimenti di secondo grado di ritiro in autotutela (revoca o annullamento) di precedenti atti amministrativi favorevoli, la giurisprudenza amministrativa è consolidata nel riconoscere alla preventiva comunicazione di cui all'art. 7 della l. n. 241/1990 il valore di principio generale dell’azione amministrativa, fatta salva (soltanto) la sussistenza di particolari ragioni di urgenza adeguatamente esplicitate nella motivazione del provvedimento finale, ragioni di urgenza nella fattispecie in alcun modo evidenziate (cfr. Cons. Stato, sez. II, 07.09.2020, n. 5392; TAR Campania, sez. IV, 02.08.2019, n. 4246)” (TAR Sicilia-Catania, sez. I, n. 959/2022).
11.1. Il provvedimento prefettizio impugnato è stato adottato senza la previa comunicazione di avvio del procedimento, sicché alla deducente Cooperativa non è stato consentito di partecipare al procedimento attraverso la presentazione di documentate osservazioni che avrebbero permesso all’Amministrazione di acquisire elementi e notizie utili ai fini dell’istruttoria (TAR Campaia-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.01.2024 n. 132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Giusta l'inveterato insegnamento della giurisprudenza, “L'intervenuta impugnazione dell'atto presupposto, lesivo dell'interesse del soggetto destinatario dello stesso, esonera quest'ultimo dall'onere di impugnare anche l'atto conseguenziale, attesa l'automatica sua caducazione per effetto dell'eventuale annullamento dell'atto ad esso antecedente”.
Principio ribadito più di recente, sia pur nella speculare prospettiva di indagine degli effetti dell’omessa impugnazione dell’atto presupposto sull’impugnazione dell’atto confermativo, condivisibilmente precisandosi che “In assenza d'impugnazione del provvedimento presupposto, divenuto inoppugnabile, l'impugnazione dell'atto conseguenziale è inammissibile, con la sola eccezione dell'ipotesi in cui il rapporto di conseguenzialità sia necessario, nel senso che l'atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente perché non vi sono da compiere nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell'atto presupposto, né di altri soggetti, ipotesi ove vige la diversa regola della caducazione automatica”.
Nella visuale di indagine collimante col caso di specie si è negli stessi sensi precisato che “L'omessa impugnazione dei provvedimenti successivi a quello impugnato, aventi effetti analoghi ed incidenti sulla medesima pretesa del ricorrente, determina l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse con l'unica eccezione a tale generale principio, che si rinviene allorché l'atto superveniens abbia natura confermativa, evidenziando, quindi, l'inesistenza di qualsiasi connotato di autonomia decisoria: circostanza, quest'ultima, che comporta, in caso di annullamento del primo provvedimento, la conseguenziale caducazione dell'atto confermativo”.
---------------

12. Quanto all’omessa impugnazione della successiva decisione prefettizia di spostamento dei cittadini stranieri ospitati nel Centro per cui è causa, circostanza segnalata dalla Prefettura resistente con nota difensiva n. prot. 2348 del 17/03/2023 depositata in giudizio in data 21/03/2023 (all. 3. produz. Avvocatura di Stato), il che potrebbe far sorgere il dubbio della procedibilità del gravame, valga osservare quanto segue.
La Prefettura di Benevento con il citato rapporto informativo rappresenta sia che, a seguito dell’adozione del provvedimento di risoluzione contrattuale, avvenuta in data 12/03/2021, la ricorrente società ha continuato a prestare il servizio in regime di “proroga tecnica” ex art. 106, comma 11, D.lgs. n. 50/2016, fino a che l’Amministrazione appaltante ha individuato il nuovo affidatario a conclusione della nuova gara indetta con determina a contrarre prot. n. 2601 del 14.03.2019 sia che, al fine di eseguire quanto già decretato nel gravato provvedimento di risoluzione contrattuale, ha adottato in data 22/06/2021 l’atto prot. 46279 con il quale ha deciso il trasferimento dei migranti presso le strutture individuate mediante la nuova gara, sancendo così il termine del regime di proroga al 30/06/2021.
13. Ritiene il Collegio che la mancata impugnazione da parte della ricorrente della decisione di trasferimento suindicata, non è ostativa alla definizione del giudizio, in tesi comportandone l’improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse.
Invero, come evidenziato dalla ricorrente in memoria, la decisione di cui all’atto prot. 46279/2021 di trasferire i migranti dalla struttura utilizzata dalla Cooperativa Dell.An. presso altra struttura individuata a seguito di una nuova gara, consegue automaticamente all’impugnato provvedimento di risoluzione quale atto conseguenziale inteso a conferire ad esso effettività, non integrando quindi un nuovo provvedimento autonomamente lesivo soggetto quindi all’onere di impugnazione, onde scongiurare la sanzione di improcedibilità del gravame avverso il provvedimento di risoluzione del contratto d’appalto stipulato con la ricorrente.
13.1. Soccorre al riguardo inveterato insegnamento della giurisprudenza, espresso già da tempo dal giudice d’appello, secondo il quale “L'intervenuta impugnazione dell'atto presupposto, lesivo dell'interesse del soggetto destinatario dello stesso, esonera quest'ultimo dall'onere di impugnare anche l'atto conseguenziale, attesa l'automatica sua caducazione per effetto dell'eventuale annullamento dell'atto ad esso antecedente” (Consiglio di Stato, sez. VI, 28.06.1995, n. 635).
Principio ribadito più di recente, sia pur nella speculare prospettiva di indagine degli effetti dell’omessa impugnazione dell’atto presupposto sull’impugnazione dell’atto confermativo, condivisibilmente precisandosi che “In assenza d'impugnazione del provvedimento presupposto, divenuto inoppugnabile, l'impugnazione dell'atto conseguenziale è inammissibile, con la sola eccezione dell'ipotesi in cui il rapporto di conseguenzialità sia necessario, nel senso che l'atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente perché non vi sono da compiere nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell'atto presupposto, né di altri soggetti, ipotesi ove vige la diversa regola della caducazione automatica” (Consiglio di Stato, sez. V, 03.05.2012, n. 2530).
Nella visuale di indagine collimante col caso di specie si è negli stessi sensi precisato che “L'omessa impugnazione dei provvedimenti successivi a quello impugnato, aventi effetti analoghi ed incidenti sulla medesima pretesa del ricorrente, determina l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse con l'unica eccezione a tale generale principio, che si rinviene allorché l'atto superveniens abbia natura confermativa, evidenziando, quindi, l'inesistenza di qualsiasi connotato di autonomia decisoria: circostanza, quest'ultima, che comporta, in caso di annullamento del primo provvedimento, la conseguenziale caducazione dell'atto confermativo” (TAR Calabria–Catanzaro, sez. I, 22/07/2009, n. 786) (TAR Campaia-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.01.2024 n. 132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sui nuovi confini della vicinitas commerciale.
---------------
Dall’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011 si ricava un limite agli interessi che sulla base della semplice vicinitas commerciale si possono far valere.
Il ricorso è pertanto limitato alla tutela di interessi concernenti “la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali”, ciò è a dire degli unici interessi per i quali la pubblica autorità può limitare o escludere l’insediamento di esercizi commerciali.
Ammettere il ricorso a tutela di interessi di tipo diverso, infatti, andrebbe a servire un interesse di mero fatto a limitare la concorrenza a salvaguardia di una propria posizione già acquisita
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2023 n. 11367 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
1. Si controverte dell’iniziativa giudiziaria della ricorrente appellante, nota impresa del settore della grande distribuzione, intesa a contrastare, con l’impugnazione di tutti gli atti relativi, l’insediamento da parte della controinteressata appellata, anch’essa nota impresa del settore, di una grande struttura di vendita di generi alimentari a Genova, nella zona nota come Promontorio di San Benigno.
...
27. È fondato e va accolto il primo motivo dell’appello incidentale, centrato sul presunto difetto di legittimazione della ricorrente appellante.
27.1 La questione concernente la possibilità per un imprenditore di impugnare l’autorizzazione commerciale, ovvero un titolo abilitativo ampiamente inteso, rilasciata ad altro imprenditore in concorrenza per svolgere l’attività di questi è tradizionalmente affrontata dalla giurisprudenza di questo Consiglio con il richiamo al noto criterio della “vicinitas commerciale”: fra le molte, C.d.S. sez. IV 05.09.2022 n. 7704, fra le più recenti, ma già sez. IV 26.11.2004 n. 7447.
27.2 Si deve però evidenziare che la vicinitas commerciale, così come l’analogo concetto di vicinitas urbanistico-edilizia, è una semplice formula riassuntiva, adottata nella sostanza per comodità di esposizione; è quindi necessario darvi concretezza per individuare i suoi contenuti e precisare quali elementi effettivamente valgano a fondare la legittimazione e l’interesse ad agire, ovvero i presupposti di ammissibilità del ricorso, in questa materia.
27.3 Nel far ciò, ad avviso del Collegio, vanno tenute presenti sia la normativa di legge sostanziale con la sua recente evoluzione, sia la normativa processuale.
27.3.1 Sotto il primo profilo, va osservato che la concorrenza sul mercato fra le imprese è uno degli obiettivi che l’Unione Europea, e in precedenza la Comunità Economica Europea, promuove nel proprio interno, come risulta attualmente dall’intero capo I del titolo VII del Trattato sul funzionamento dell’Unione- TFUE, e in particolare dagli articoli 101 e 102 di esso, che vietano le intese restrittive e l’abuso di una posizione dominante sul mercato stesso.
27.3.2 A queste norme di principio, l’Unione europea ha fatto seguire norme di dettaglio, e segnatamente, per quanto qui interessa, la direttiva 2006/123/UE; essa all’art. 10 prevede, fra le condizioni di rilascio delle autorizzazioni commerciali, che i relativi regimi debbano basarsi “su criteri che inquadrino l’esercizio del potere di valutazione da parte delle autorità competenti affinché tale potere non sia utilizzato in modo arbitrario” (comma 1), criteri che devono essere “non discriminatori” e “giustificati da un motivo imperativo di interesse generale” (comma 2, lettera a e lettera b).
27.3.3 In dichiarata attuazione di queste norme europee, il legislatore nazionale ha poi introdotto l’art. 31, comma 2, del d.l. 06.12.2011 n. 201, correttamente citato dall’appellante incidentale, secondo il quale “Secondo la disciplina dell'Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell'ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro il 30.09.2012, potendo prevedere al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali”.
27.3.4 Sotto il secondo profilo, va poi tenuto presente il principio affermato dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio con la sentenza 09.12.2021, n. 22, con riferimento specifico alla vicinitas urbanistico-edilizia, ma con valore del tutto generale: la legittimazione e l’interesse sono presupposti di trattabilità del ricorso nel merito autonomi e distinti fra loro, ognuno dei quali va allegato e provato; in particolare non si può affermare che “il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo ed in automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al ricorso”, interesse che va inteso e provato come “specifico pregiudizio derivante dall’atto impugnato”, distinto quindi da un mero interesse di fatto al rispetto della legalità.
27.3.5 Il Collegio non condivide quanto afferma la ricorrente appellante (memoria 24.10.2022 p. 49), ovvero che l’art. 31 d.l. 201/2011 –e per implicito le norme presupposte di cui si è detto- sarebbero norme sostanziali, dalle quali non si potrebbe desumere alcuna conseguenza in materia di legittimazione processuale.
In proposito, è sufficiente osservare in termini di principio che la dimensione sostanziale e quella processuale di una norma sono strettamente collegate, dal momento che la norma giuridica non è tale se non se ne può dare applicazione attraverso il processo, e in termini di diritto positivo che una norma di principio di rango europeo, e quindi superiore alla legge ordinaria, non può non orientare l’interpretazione in tutti i settori dell’ordinamento, incluso il diritto processuale.
27.4 Tanto premesso, si ricorda che il concetto di vicinitas commerciale è definito in generale dalla giurisprudenza come la posizione dei soggetti i quali “agendo come imprenditori nel medesimo settore, attingono al medesimo bacino di utenza e risentono, pertanto, di un effettivo danno al loro volume d'affari, in caso di apertura di una nuova impresa commerciale illegittimamente autorizzata”; così la costante giurisprudenza, fra le molte C.d.S. sez. IV 28.06.2022 n. 5353, dalla quale è tratta la citazione, nonché sez. IV 03.09.2014 n. 4480, entrambe con ulteriori ampi rimandi.
27.5 Ad avviso del Collegio, questa definizione va precisata sotto tre profili, concettualmente distinti, ma intersecantisi fra loro: in primo luogo, il tipo di interesse che con il ricorso in materia può esser fatto valere, in dipendenza dall’evoluzione legislativa di cui si è detto; in secondo luogo, la definizione del bacino di utenza rilevante e in terzo luogo la prova dell’effettivo danno al volume di affari.
27.5.1 Sotto il primo profilo, la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che l’interesse azionabile in termini di vicinitas commerciale è appunto un interesse di tipo commerciale; ha quindi ritenuto che dedurre a questo titolo motivi di carattere edilizio – ove beninteso non vi siano gli autonomi presupposti della vicinitas edilizia- rappresenti “un uso strumentale della tutela accordata ai soggetti terzi, in materia di provvedimenti di natura urbanistico-edilizia, a tutela di un interesse di fatto, finalizzato ad ostacolare la realizzazione di uno stabilimento concorrente”: così C.d.S. sez. VI 02.03.2016 n. 1156.
La giurisprudenza ha ancora ritenuto in via generale, pur senza richiamare in modo esplicito l’art. 31 d.l. 201/2011, che “la legittimazione al ricorso non può di certo configurarsi allorquando l'instaurazione del giudizio appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi, di mero fatto o contra ius, siccome volti nella sostanza a contrastare la libera concorrenza e la libertà di stabilimento”: così sez. IV 29.03.2018 n. 1977.
27.5.2 Ad avviso del Collegio, questa linea interpretativa va sviluppata, nel senso che dall’art. 31 d.l. 201/2011 si debba ricavare un limite agli interessi che sulla base della semplice vicinitas commerciale si possono far valere, e limitare quindi il ricorso alla tutela di interessi concernenti “la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali”, ciò è a dire degli unici interessi per i quali la pubblica autorità può limitare o escludere l’insediamento di esercizi commerciali.
Ammettere il ricorso a tutela di interessi di tipo diverso, infatti, andrebbe a servire un interesse di mero fatto a limitare la concorrenza a salvaguardia di una propria posizione già acquisita.
27.5.3 Ciò ovviamente non significa, lo si precisa per chiarezza, che l’imprenditore, quale soggetto stabilmente insediato sul territorio al pari di altri, non possa impugnare atti di tipo urbanistico-edilizio che consentono l’insediamento di altre attività sulla base delle regole generali in materia, ovvero della vicinitas edilizia, nei limiti disegnati dalla ricordata sentenza dell’Adunanza Plenaria 22/2021.
27.5.4 Sotto il secondo profilo, il concetto di bacino di utenza è stato definito come “l’area in cui si dispiega l'influenza economica del concorrente ed è quindi idonea a incidere sulle posizioni di mercato del controinteressato”: per tutte, C.d.S. sez. IV 03.09.2014 n. 4480.
Si tratta però, come evidente, di una definizione non determinata con precisione, e quindi tendenzialmente inadatta a selezionare i ricorsi ammissibili in un sistema in cui la concorrenza, come si è visto, è il principio generale e quindi le eccezioni devono essere interpretate in modo tassativo.
27.5.5 La giurisprudenza più recente, in particolare la già citata sentenza 5353/2022 della Sezione, ha allora chiarito che il bacino di utenza è un concetto scientifico, e coincide con “l'area raggiungibile a partire da un punto prefissato su una cartina, il cosiddetto "baricentro", seguendo gli assi stradali. L'individuazione del "bacino di utenza" implica, quindi, l'applicazione di criteri specialistici e metodi di calcolo non surrogabili attraverso la comune esperienza o la scienza privata del Giudice”, né tanto meno surrogabili con le semplici allegazioni di una parte, che la controparte contesti.
La sentenza 5353/2022 ha quindi ritenuto che “per poter fornire la prova della c.d. vicinitas commerciale e, conseguentemente, della legittimazione a ricorrere, si palesa del tutto insufficiente la mera affermazione di parte della sussistenza di un comune "bacino d'utenza" fra la struttura commerciale erigenda e quella che agisce in giudizio a tutela del suo interesse commerciale (id est, la libera iniziativa economica) asseritamente leso”.
27.5.6 Sotto il terzo profilo, la considerazione di fondo per cui la concorrenza è principio del sistema, salve tassative eccezioni, porta a ritenere che la prova del pregiudizio derivante dall’insediamento della nuova impresa che si vuol contestare debba esser data in modo rigoroso, senza che esso si possa presumere, e che si debba trattare di un pregiudizio significativo: per un esempio in proposito vedasi C.d.S. sez. IV 05.09.2022 n. 7704, in particolare al § 10.2.
27.5.7 Ad avviso del Collegio, è poi necessaria una considerazione ulteriore, correttamente individuata dall’appellante incidentale (p. 17 dell’atto).
Il concetto appena illustrato di bacino di utenza e il concetto di mercato rilevante ai fini dell’applicazione delle norme in tema di condotte anticoncorrenziali e di abuso di posizione dominante sono distinti, dato che il secondo si identifica con lo “scenario territoriale, tendenzialmente omogeneo quanto a domanda e offerta in questione, dove si svolge il rapporto di concorrenza”: così per tutte C.d.S. sez. VI 08.04.2014 n. 1673 a p. 13.
27.5.8 Non si può però escludere che in casi concreti, riferiti a zone particolari del territorio, il bacino di utenza di una struttura venga a costituire anche un mercato rilevante ai fini della tutela della concorrenza, e che quindi, sempre nel caso concreto, il ricorso, pur in astratto del tutto lecito, proposto da chi in quell’ambito rivesta una posizione dominante costituisca abuso non consentito di questa posizione, ciò che costituirebbe un motivo in più per affermare che l’interesse azionato non è in realtà tutelabile.
Di conseguenza, la prova del pregiudizio al bacino di utenza dovrà consentire anche di escludere quest’eventualità.
27.6 Applicando i criteri interpretativi sin qui delineati al caso di specie, l’ammissibilità del ricorso introduttivo va esclusa per difetto di interesse.
27.6.1 Sul punto specifico, la parte ricorrente appellante (memoria 24.10.2022, pp. 40-46) allega “almeno quattro cumulativi e concorrenti fattori di legittimazione”, che a suo dire “separatamente l’uno dall’altro giustificherebbero e fonderebbero, di per sé, l’impugnativa” (p. 40), ovvero: 1) la vicinitas commerciale di cui si è detto, consistente a dire della parte nel rischio di chiusura del proprio punto vendita; 2) la presunta posizione qualificata che essa vanterebbe sulla base del protocollo 27.05.1999; 3) la vicinitas edilizia; 4) un presunto “interesse a contestare l’azione amministrativa proprio sulla base delle regole e dei principi relativi alla concorrenza”.
27.6.2 A sostegno di queste allegazioni, la parte ricorrente appellante produce in particolare due documenti, il doc. 78 in I grado, che è una relazione sul mercato della grande distribuzione organizzata a prevalenza alimentare in provincia di Genova, predisposta dal proprio ufficio studi, e il doc. 14 in appello, che è uno studio sul presunto impatto della nuova struttura sul punto vendita già esistente, predisposto da un proprio dipendente.
27.6.3 Queste allegazioni e questi documenti non dimostrano l’interesse ad agire nel senso richiesto. Come va subito chiarito, i fattori di legittimazione primo e quarto di cui sopra si identificano nella vicinitas commerciale come formula riassuntiva, la cui ricorrenza è da verificare, dato che evidentemente al di fuori della vicinitas non si può invocare un interesse a sé stante al rispetto delle norme.
27.6.4 Si deve poi escludere che il protocollo 27.05.1999 possa essere invocato a sostegno dell’interesse ad agire, dato che esso, come già affermato dalla sentenza parziale 2283/2023 di cui sopra, è un accordo restrittivo della concorrenza, al quale, a tutto voler concedere, non può essere riconosciuta perdurante efficacia a tempo indeterminato, a pena di contrasto con gli illustrati principi nazionali ed europei.
Come ritenuto dalla sentenza 2283/2023, si deve al contrario ritenere che l’accordo abbia esaurito le sue funzioni nel momento in cui è stato recepito nel SAU e nel PUC dell’epoca, salve le successive modifiche di questi atti per cui è causa.
27.6.5 Non ricorrono, ancora, gli estremi della vicinitas edilizia, come delineati dalla sentenza A.P. 22/2021, dato che le due strutture non sono confinanti né si fronteggiano, e che non è stato nemmeno allegato uno specifico pregiudizio, diverso da quello “concorrenziale”, che dal nuovo insediamento deriverebbe a quello esistente.
27.6.6 Per quanto poi riguarda la vicinitas commerciale, va osservato anzitutto, a semplice lettura dell’atto relativo come sopra riassunto, che i motivi dedotti sono prevalentemente di carattere formale-procedurale, ovvero vertono su un presunto mancato rispetto del protocollo 27.05.1999, ma non allegano lesioni agli interessi tutelabili, che come si è detto riguardano “la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali”.
Già sotto questo profilo, quindi, la legittimazione potrebbe essere esclusa.
27.6.7 Si osserva poi che in base agli stessi atti di parte, che la controparte come è ovvio contesta per il solo fatto di avere proposto impugnazione sul punto, non è chiaro quali siano il bacino di utenza, e quindi il pregiudizio temuto, rispetto ai quali è chiesta la tutela.
27.6.8 Sul punto del bacino di utenza, premesso che valutazioni scientifiche obiettive o incontestate agli atti di causa non ve ne sono, la relazione doc. 78 in I grado oscilla fra il riferimento ad un criterio presentato come tradizionale, il riferimento all’intera provincia (p. 8) e un criterio più ristretto (pp. 12 e ss.), che in sostanza considera solo il punto vendita già esistente nelle vicinanze e quello della controinteressata, così come è presupposto nel doc. 14.
27.6.9 Considerando il primo criterio, l’ambito provinciale, la stessa ricorrente appellante dà lealmente atto di detenere una quota di mercato pari a circa il 25%, seconda a brevissima distanza da quella di altro gruppo estraneo alla causa, e che la quota della controinteressata è minima.
Sempre la ricorrente appellante poi non contesta l’allegazione della controinteressata (v. sopra § 20.2.1), per cui nel Comune di Genova sono presenti 36 supermercati della prima, contro una sola media struttura di vendita propria. In questi termini, quindi, un pregiudizio apprezzabile non è né evidente né dimostrato.
27.6.10 Considerando invece il secondo criterio, peraltro non univocamente presentato negli stessi atti di parte (v. doc. 78 in I grado ricorrente appellante a p. 12, ove si presentano due possibili ipotesi), manca l’analisi condotta con obiettivi criteri scientifici che si richiede secondo la più recente giurisprudenza sopra citata, analisi che come si è detto dovrebbe essere o il risultato di un accertamento tecnico imparziale, o di una non contestazione degli atti di parte (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2023 n. 11367 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Sul principio del contrarius actus.
---------------
Atto amministrativo – Autotutela – Annullamento – Incompetenza – Principio del contrarius actus – Conseguenze – Competente la stessa autorità che ha adottato l’atto – Altri profili di illegittimità – Tempo trascorso superiore a quello previsto dalla norma o comunque irragionevole – Annullamento – Ammissibilità - Esclusione.
In base al principio del contrarius actus, l’autorità competente ad annullare il provvedimento è la stessa che lo ha adottato anche quando il vizio riscontrato sia quello dell’incompetenza.
Gli ulteriori profili di illegittimità, in quanto inerenti al ripristino della legalità lesa, non consentono di procedere all’annullamento d’ufficio laddove il tempo trascorso sia superiore a quello indicato dalla norma, ovvero comunque non ragionevole (1).

Il Consiglio di Stato ha precisato che, all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, il legislatore non ha fatto distinzioni tra tipologie dei vizi tradizionali che si vanno ad emendare.
---------------
   (1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. III, 03.04.2023, n. 3431.
         Precedenti difformi: non risultano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.12.2023 n. 11307 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
1. La vicenda trae origine dall’avvenuto annullamento da parte del Comune di Rapino della procedura concorsuale riservata al personale interno bandita con delibera di Giunta del 28.11.2009, n. 89, per la copertura di un posto di “Istruttore di vigilanza”, Categoria C, vinta dal signor -OMISSIS-, conseguentemente inquadrato nella qualifica con decorrenza 01.04.2010.
L’esercizio dell’autotutela avveniva con delibera di Giunta n. -OMISSIS-, motivata espressamente sul vizio di incompetenza dell’atto originario, salvo richiamare anche in premessa, dichiaratamente parte integrante del provvedimento, la precedente delibera n. 11 dell’11.02.2017, di avvio del relativo procedimento, ove sono enunciati una serie di atti, riconducibili a plurimi soggetti anche esterni all’Ente (Dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Prefetto, Difensore civico regionale, revisore dei conti) contenenti rilievi critici o richieste di chiarimenti.
Sempre in tale atto presupposto si dà altresì conto degli esiti del giudizio risarcitorio intentato dal precedente Sindaco e dall’odierno appellato all’esito dell’avvenuta archiviazione del procedimento penale instaurato a loro carico per ipotizzato abuso d’ufficio, sfavorevole ai richiedenti (Tribunale civile di Chieti, -OMISSIS-).
In tale pronuncia, i cui passaggi più significativi sono riportati fedelmente nella deliberazione n. 11 del 2017, si denunciano «gravissime e sconcertanti irregolarità, nessuna delle quali segnalate dallo stesso presidente della commissione […]», ravvisate, per quanto qui di specifico interesse, nell’avvenuta valorizzazione di un’esperienza professionale pregressa del tutto eterogenea al profilo di vigilanza (cinque anni in qualità di “esecutore di servizi idrici”, non potendo assumere rilievo l’aver svolto, per un periodo limitato a tre mesi, mansioni di vigile urbano nel 1982) al fine di accedere ad un posto che avrebbe dovuto più correttamente essere oggetto di selezione pubblica.
Nessuna menzione, invece, è dato rinvenire negli atti impugnati alla ricordata archiviazione sia del procedimento penale da parte del G.u.p. presso il Tribunale penale di Chieti, per mancanza dell’elemento psicologico del reato, giusta la rilevata prassi conforme da parte dell’Ente (-OMISSIS-), che di quello per danno erariale.
Il riferimento, infatti, all’avvenuta condanna da parte della Corte dei conti, afferisce alla nomina del responsabile dell’ufficio tecnico comunale, che in tale ruolo ha rivestito la carica di Presidente della Commissione esaminatrice.
2. Il Tar per l’Abruzzo, sede di Pescara, adito dal dipendente comunale per l’annullamento della deliberazione n. -OMISSIS-, ha accolto il ricorso «stante l’assorbente preliminare rilievo dell’incompetenza della Giunta Comunale ad adottare l’atto di autotutela impugnato».
Ciò in quanto «il provvedimento di autotutela diretto ad eliminare l’atto illegittimo per incompetenza dell’organo che lo ha adottato, secondo i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza amministrativa, deve essere a sua volta adottato dall’organo competente (Cons. Stato, sez. V, n. 701/2006)».
In sintesi, la peculiarità del vizio renderebbe inapplicabile il principio del contrarius actus, che normalmente sovraintende alla riedizione del potere amministrativo, non potendo un organo incompetente valutare la sussistenza di vizi sostanziali o di sopravvenienze che non rientrano tra le proprie spettanze (Cons. Stato, sez. IV, n. 7941/2004 e sez. V, n. 424/1997).
3. Con l’odierno appello il Comune di Rapino ha contestato la decisione articolando tre distinti motivi di gravame.

3.1. Con il primo motivo lamenta l’erronea applicazione degli artt. 107 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali e 21-novies della l. 07.08.1990, n. 241, giusta l’inaccettabilità della ricostruzione propugnata dal primo giudice che, in dispregio proprio della regola sulla separazione tra competenze politiche e competenze gestionali, che vorrebbe affermare, finisce per attribuire al dirigente il potere di caducare provvedimenti adottati dall’organo di governo.
Ciò peraltro senza tenere in alcun conto il fatto che egli avalla comunque gli atti collegiali apponendovi il proprio visto di regolarità tecnica, come accaduto in quelli di cui è causa.

3.2. Con un secondo motivo ha dedotto la violazione dei principi che sovraintendono alla tutela degli interessi e alla effettività della stessa in sede giurisdizionale. Il primo giudice, cioè, valorizzando un dato esclusivamente formale, avrebbe consolidato una situazione riconosciuta come illegittima da plurimi soggetti pubblici.
In particolare, avrebbe ignorato che l’Amministrazione si è attivata dopo avere ricevuto un chiaro input in tal senso dal Dipartimento per la Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che in risposta ad apposita richiesta di parere avanzata dal Comune medesimo, avrebbe ribadito (con note del 05.10.2016 e 15.12.2016) la necessità di procedere all’annullamento in autotutela, ricordando la natura eccezionale dei concorsi interni in quanto derogatori della regola della pubblicità degli stessi quale modalità ordinaria di accesso al pubblico impiego.
La richiesta di parere, peraltro, sarebbe stata avanzata alla luce della sentenza del Tribunale civile di Chieti -OMISSIS-, che, come sopra ricordato, si è espresso in maniera inequivoca sulla illegittimità degli atti del procedimento.

3.3. Con il terzo motivo infine ha lamentato l’erronea applicazione degli artt. 26 c.p.a. e 91 e 92 c.p.c., avuto riguardo alla condanna alle spese di lite, per un importo pari ad euro duemila.
Il primo giudice, cioè, non avrebbe tenuto conto delle responsabilità penali ex artt. 323 e 328 c.p. ed amministrativo-contabili cui l’Amministrazione si sarebbe esposta ove non avesse adottato l’atto impugnato a fronte di vizi così palesi. Esso inoltre si sarebbe concentrato da subito sul presunto vizio di incompetenza, ignorando che il ricorso di primo grado era incentrato prioritariamente sulla lamentata tardività dell’atto impugnato, per contro tempestivo alla luce delle richiamate sopravvenienze (sentenza del giudice civile e note del Dipartimento della Funzione pubblica).
Infine, non avrebbe tenuto in minima considerazione le esigenze di efficienza del Comune di Rapino, che si era visto costretto ad utilizzare in mansioni di rilevanza strategica quali quelle inerenti il profilo di vigilanza un dipendente con scarsa disponibilità di tempo, in quanto beneficiario degli istituti previsti dalla legge 05.02.1992, n. 104, per assistenza a familiare gravemente disabile, di cui peraltro avrebbe fatto anche un utilizzo improprio, fruendone per coadiuvare il figlio nella gestione di un’attività di ristorazione.

4. Si è costituito in giudizio il signor -OMISSIS- per chiedere il rigetto dell’appello.
4.1. Con memoria versata in atti il 23.10.2023 ha controdedotto sulle tesi avversarie, nel contempo riproponendo i motivi di censura non esaminati dal primo giudice in quanto assorbiti nel ritenuto vizio di incompetenza.
In particolare ha ribadito l’intervenuta decadenza del Comune di Rapino dal potere di autotutela, giusta l’avvenuta adozione dell’atto ben oltre un tempo “ragionevole”, nonché addirittura successivamente allo spirare di quello di 18 mesi previsto dall’art. 21-novies della l. n. 241 del 1990, seppure calcolato dalla data dell’entrata in vigore della sua introduzione ad opera della legge 07.08.2015, n. 124 (28.08.2015).
Ha richiamato la possibilità di consolidare gli effetti del concorso, l’approvazione del cui bando sarebbe al più affetta da incompetenza relativa, come tale riconducibile al regime giuridico di cui all’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990.
Ha evidenziato la mancanza di motivazione sulle ragioni di interesse pubblico sottese all’annullamento, non potendo le stesse identificarsi nel mero richiamo alla ritenuta necessità di avvalersi di una selezione pubblica; specularmente, non si sarebbe tenuto conto dell’interesse del destinatario dell’atto, qualificato come recessivo rispetto a quello alla buona organizzazione dell’amministrazione con motivazione del tutto apparente.
Ha ribadito la correttezza della scelta procedurale, in quanto espressamente prevista dall’art. 91, comma 3, del T.u.e.l., nonché specificamente ammessa per la figura di vigile urbano dall’art. 89 del Regolamento degli uffici e dei servizi del Comune di Rapino. Ha invocato i contenuti della sentenza di proscioglimento riferita anche al Sindaco che presiedeva la Giunta nel 2009, nonché ricordato le precedenti selezioni interne basate sugli stessi presupposti ordinamentali (v. ad esempio la delibera n. 89 del 23.12.1999), richiamate anche dal G.u.p. nella propria decisione.
5. In data 27.11.2023, la difesa civica ha formulato istanza di rinvio ovvero di riunione al procedimento n.r.g. -OMISSIS-, la cui udienza è fissata per la data del 12.12.2023.
Ciò in quanto lo stesso si riferisce all’impugnativa della sentenza, sfavorevole all’odierno appellato (Tar per l’Abruzzo, sezione staccata di Pescara, Sez. I, 06.06.2019, n. 152), che ha riconosciuto come legittima la (nuova) determina del Responsabile dell’Area finanziaria-amministrativa del Comune di Rapino, n. -OMISSIS-, di annullamento in autotutela degli atti della procedura concorsuale di cui è causa.
A tale riguardo, tuttavia, ha ribadito il proprio interesse alla decisione, salvo in quella sede si addivenga ad un rigetto dell’appello, nel qual caso sarebbe disponibile alla rinuncia.
6. Il signor -OMISSIS- ha replicato chiedendo dichiararsi la sopravvenuta carenza di interesse all’appello, stante che il provvedimento sopravvenuto avrebbe superato quello oggetto di impugnazione, integrandone la motivazione.
Il fatto che in tal senso abbia provveduto un dirigente, senza attendere la formazione del giudicato sull’attuale controversia, confermerebbe tuttavia la correttezza della ricostruzione operata dal Tar in ordine alla incompetenza della Giunta.
Ha quindi chiesto comunque che venga accertata la soccombenza virtuale di controparte al fine della condanna alle spese.
...
9. In via preliminare il Collegio ritiene di respingere l’istanza di rinvio avanzata dalla difesa civica, al fine di acquisire gli esiti, ovvero riunire, il procedimento in esame con quello di cui al n.r.g. -OMISSIS-, relativo all’appello avverso la sentenza del medesimo Tar per l’Abruzzo n. -OMISSIS- del 2018, di rigetto dell’impugnativa proposta dal signor -OMISSIS- avverso la determina dirigenziale -OMISSIS-, di reiterazione dell’annullamento d’ufficio della procedura concorsuale di cui è causa.
Con tale richiesta, infatti, l’Amministrazione pretenderebbe di collocarsi in una sorta di limbo giuridico, lasciandosi aperte entrambe le porte, senza peraltro prendere posizione sulla natura di conferma o meramente confermativa dell’atto sopravvenuto. É noto, infatti, che da tale inquadramento può discendere, a seconda dei casi, o l’improcedibilità del procedimento avente ad oggetto l’atto presupposto, o l’inammissibilità di quello afferente all’atto sopravvenuto.
10. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se esso sia stato adottato o meno a seguito di una nuova istruttoria e di una nuova ponderazione degli interessi.
In tale seconda ipotesi, andrebbe dunque richiamato l’insegnamento giurisprudenziale per il quale «ogni nuovo provvedimento innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, anche di conferma propria (che si ha quando la pubblica amministrazione, sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente provvedimento) ed anche se frutto di un riesame non spontaneo, ma indotto da un provvedimento del Giudice amministrativo, che tuttavia rifletta nuove valutazioni dell'Amministrazione e implichi il definitivo superamento di quelle poste a base di un provvedimento impugnato giurisdizionalmente, comporta la sopravvenienza di carenza di interesse del ricorrente alla coltivazione del relativo gravame» (v. Cons. Stato, sez. VI, 15.01.2018, n. 195, che, a sua volta, richiama Cons. Stato, III, 02.09.2013, n. 4358 e sez. IV, 25.06.2013, n. 3457).
11. A ben guardare, tuttavia, e senza invadere la sede propria del giudizio avverso la determina dirigenziale -OMISSIS-, da un confronto meramente testuale tra la stessa e la precedente delibera del 2017 non sembrano emergere elementi di diversificazione o di approfondimento sopravvenuto, palesandosi i due provvedimenti sovrapponibili perfino quanto a tecnica redazionale, basata sul sostanziale richiamo ad un atto precedente, più ampiamente motivato e afferente all’avvio del procedimento.
12. Il Collegio non ritiene necessario un più approfondito scrutinio della questione, stante che la rimarcata volontà di non rinunciare all’appello se non all’esito (ove favorevole) dell’altro giudizio implica l’avvenuta adozione di quell’atto senza alcuna adesione ai principi affermati nella sentenza che si è andati ad eseguire.
Ed è noto che non è configurabile l’improcedibilità del ricorso proposto per l’annullamento di un provvedimento se l’adozione del nuovo atto regolante la fattispecie da parte dell’Amministrazione non è spontanea, ma, appunto, di mera esecuzione della decisione del giudice, con rilevanza provvisoria, in attesa che una sentenza di merito definitiva accerti se quello originariamente impugnato sia o meno legittimo.
Nei casi, cioè, di riedizione del potere in mera ottemperanza di una sentenza, si configura un comportamento attuativo necessitato dalla volontà di non vedersi esposto ad un’esecuzione coattiva sotto il controllo e la vigilanza del giudice, assunto il presupposto che non vi sia stata, come nella specie, sospensione dell’esecutività della decisione (Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2011, n. 1757).
12.1. In sintesi, come da affermazione giurisprudenziale che qui si condivide, «l’esecuzione della sentenza di primo grado da parte dell’amministrazione soccombente, non fa venir meno l’interesse della stessa all’appello, poiché si tratta della mera (e doverosa) ottemperanza ad un ordine giudiziale provvisoriamente esecutivo» (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.01.2019, n. 16).
Ciò salvo emerga che l’Amministrazione, a seguito della decisione del giudice, abbia sostituito il provvedimento annullato in sede giurisdizionale con un nuovo provvedimento frutto di una rinnovata valutazione degli interessi coinvolti, così adeguandosi al suo pronunciamento senza attendere il giudicato, ma anche innovando rispetto all’assetto di interessi già pregiudizievole per il privato.
12.2. Nel caso di specie il dirigente ha dichiarato espressamente di agire in esecuzione della sentenza del Tar per l’Abruzzo n. -OMISSIS- del 2018, ovvero, avuto riguardo al principio di separazione tra politica e gestione, «in ottemperanza a quanto stabilito» (nella sentenza medesima), ma senza dimostrare alcuna acquiescenza alla relativa statuizione. Prova ne è l’avvenuto deposito dell’appello successivamente all’adozione di ridetta determina, rivendicando ancora una volta la competenza della Giunta a provvedere all’annullamento.
12.3. A quanto detto consegue anche, quale diretta conseguenza della non ravvisata sussistenza di quei «casi eccezionali» cui l’art. 73, comma 1-bis, condiziona la possibilità di rinviare la trattazione della causa, il rigetto dell’eccezione di improcedibilità dell’appello avanzata dall’appellato.
13. Sempre in limine litis, al fine di delimitare il thema decidendum del presente giudizio, va delibata l’eccezione, proposta da parte appellante con memoria di replica, di irricevibilità delle doglianze formulate in prime cure dal signor -OMISSIS- e rimaste assorbite, riproposte in questa sede ex art. 101, comma 2, c.p.a., basata sul rilievo che le stesse non sarebbero state avanzate con il primo scritto difensivo, ma con successiva memoria.
13.1. Il Collegio la ritiene fondata.
13.2. Ed invero l’art. 101, comma 2, c.p.a. al riguardo precisa che «si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse dall’appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione del giudizio».
Pertanto quel che rileva, ai sensi della richiamata norma, è che le domande, ovvero anche i motivi di ricorso, e le eccezioni assorbite in prime cure siano proposte dalla parte appellata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio ex art. 46 c.p.a., e con il primo scritto in cui sono effettivamente articolate le difese.
La “memoria” cui fa riferimento la norma, infatti, in quanto non preordinata alla articolazione delle difese, ma alla definizione, necessariamente liminare ed incipitaria, del thema decidendum, si identifica e rappresenta, al di là dalla sua tempestività (non a caso presidiata dalla attitudine decadenziale del relativo termine), il primo atto difensivo. Essa si pone cioè nella logica del principio di concentrazione che connota la delimitazione, anche ai fini del contraddittorio tra le parti e tra le parti ed il giudice, della concreta materia del contendere (cfr., per analogo principio, Cass. SS.UU., 21.03.2019, n. 7940 e id., 09.11.2021, n. 32650).
Nel caso di specie tale scritto si identifica nella seconda memoria versata in atti, che seppure rechi la data dell’atto di costituzione (17.10.2018), è stata depositata solo in data 27.10.2023.
A ciò consegue la tardività della riproposizione dei motivi di gravame, non potendosi ritenere tempestivamente integrata la costituzione del 17.10.2018, concretizzatasi in un atto di costituzione di mero rito, privo di qualsivoglia enunciazione difensiva, «con riserva di specificare nei modi e termini di rito ogni argomento a sostegno delle sopraccennate conclusioni» (richiedendo, come per prassi, la declaratoria del gravame «inammissibile, improcedibile, nullo e, comunque, infondato […]» (al riguardo, v. Cons. Stato, sez. V, 26.05.2023, n. 5205).
14. Nel merito, il Collegio ritiene di accogliere in parte il primo motivo di appello. A ciò consegue tuttavia, per le ragioni di seguito esplicitate, la conferma della sentenza del Tar per l’Abruzzo, seppure con diversa motivazione.
15. Punto essenziale della controversia è l’individuazione dell’organo competente ad annullare un atto viziato da incompetenza.
Secondo il primo giudice, infatti, che richiama sul punto giurisprudenza del Consiglio di Stato –in verità alquanto risalente nel tempo– in tale ipotesi non troverebbe applicazione il principio c.d. del contrarius actus stante che le valutazioni sostanziali sottese (anche) ad una valutazione di secondo livello non potrebbero essere legittimamente effettuate da un soggetto non fornito della necessaria competenza.
Sicché, essendo stata la procedura concorsuale bandita in dispregio dell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000, che riserva ai vertici burocratici degli uffici l’adozione degli atti gestionali, distinti e autonomi rispetto a quelli politici, la Giunta non avrebbe potuto reiterare l’errore, annullando ciò che non avrebbe dovuto adottare.
16. La ricostruzione non può essere condivisa.
17. La disciplina legislativa dell’annullamento d’ufficio è stata, come noto, introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 1, comma 136, della legge finanziaria per il 2005 (legge 30.12.2004, n. 311) e dalla legge 11.02.2005, n. 15, che ha inserito nella legge 07.08.1990, n. 241, l’art. 21-novies, in seguito più volte modificato.
Con tale norma sono stati legificati i principi ricostruiti in passato soltanto in via dottrinaria e giurisprudenziale, fornendo un quadro compiuto della materia, al fine di assicurare stabilità ad un istituto di particolare rilevanza per la cura degli interessi dei cittadini.
17.1. Anche in epoca antecedente la sua codifica, tuttavia, si riconosceva tale prerogativa della pubblica amministrazione, ravvisandone il fondamento nella titolarità della potestà inizialmente esercitata, quale sua facoltà implicita o per meglio dire potenziale sviluppo.
Si è sempre parlato, cioè, di una sorta di ius poenitendi di natura pubblica, consistente nella possibilità per l’amministrazione di tornare sui suoi passi ripristinando la legalità (dalla stessa) lesa ovvero valutando diversamente le circostanze di contesto.
Il legame tra titolarità del potere originario e possibilità di riesercizio dello stesso è stato riconosciuto così inscindibile dal comportarne il trasferimento ogni qualvolta venga trasferita la competenza primaria da un’autorità ad un’altra (Cons. Stato, sez. V, 30.06.1995, n. 955).
18. L’articolo 21-novies della legge n. 241 del 1990, dispone dunque che il provvedimento illegittimo possa essere annullato d’ufficio dallo stesso organo che lo ha emanato, demandandone la facoltà ad un altro solo ove previsto dalla legge.
Ciò avviene attraverso l’adozione di un provvedimento amministrativo di secondo grado che comporta la perdita di efficacia, con effetto retroattivo, di quello originario, inficiato dalla presenza di uno o più vizi di legittimità, dei quali l’amministrazione si avvede successivamente.
In pratica, oggetto dell’annullamento d’ufficio è un provvedimento che, pur constando di tutti gli elementi essenziali per la sua giuridica esistenza, presenta uno dei tradizionali vizi di legittimità delineati dall’articolo 26 del Testo Unico 26.06.1924, n. 1054 sul Consiglio di Stato.
La legge n. 15 del 2005, infatti, ha ovviamente inteso conformarsi a tale norma e all’unanime dottrina e giurisprudenza dell’epoca, specificando all’articolo 21-octies della medesima legge n. 241/1990 che è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge, viziato da eccesso di potere o, per quanto qui di interesse, da incompetenza.
18.1. La disposizione ha altresì codificato la tipologia di valutazione richiesta alla pubblica amministrazione che decide di autoemendarsi, ovvero l’individuazione di un interesse pubblico che in comparazione con l’affidamento riposto dal privato sulla correttezza dell’operato della p.a., risulti comunque prevalente.
Esso non si identifica nel mero ripristino della legalità lesa, ma richiede una approfondita analisi di contesto costituzionalmente orientata secondo i canoni dell’imparzialità e del buon andamento (articolo 97 Cost.), retta altresì dai principi generali dell’azione amministrativa sanciti dall’art. 1 della medesima legge n. 241/1990, non a caso di recente modificato mediante l’introduzione di un comma espressamente consacrato al rispetto della leale collaborazione e della buona fede nei rapporti reciproci (comma 2-bis, introdotto dall’art. 12 del d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11.09.2020, n. 120).
Di fatto, dunque, occorre tenere conto in particolare della necessaria “proporzionalità” dell’azione amministrativa, intesa quest’ultima come dovere di non comprimere le situazioni giuridiche soggettive dei privati, se non nei casi di stretta necessità ovvero di indispensabilità, procedendo all’annullamento d’ufficio quando ciò sia necessario al fine di evitare un danno non proporzionato agli interessi dei privati coinvolti nel procedimento (v. direttiva del Ministro della Funzione pubblica del 17.10.2005, emanata nell’immediatezza dell’entrata in vigore della novella).
19. La discrezionalità valutativa sottesa all’esercizio del potere di autotutela implica per regola quella sottesa anche all’adozione del provvedimento che si intende rimuovere. L’eliminazione dalla realtà giuridica di un atto, cioè, non può che spettare allo stesso soggetto pubblico che lo ha adottato, così da assicurare la costante aderenza dell’attività amministrativa al principio di legalità che deve conformarla.
Di regola, cioè, solo all’ organo che ha adottato un atto, in quanto titolare della competenza c.d. primaria, è riconosciuta la capacità di rivalutarlo, rivedendo lo stesso ordine di questioni di cui il provvedimento annullato costituiva espressione. In sintesi, è la stretta connessione che sussiste tra il provvedimento illegittimo e quello di secondo grado finalizzato al suo annullamento a richiedere l’attribuzione congiunta dei relativi poteri al medesimo organo amministrativo.
In tal modo, infatti, si salvaguarda anche la pienezza e esclusività della potestà amministrativa di base, preordinata al perseguimento dell’interesse pubblico affidato all’organo di amministrazione attiva tenendo conto pure dell’eventuale riesercizio del potere, una volta che ne sia stata caducata la manifestazione provvedimentale originaria, in via giurisdizionale o auto emendandosi (sul punto, cfr. Cons. Stato, sez. III, 03.04.2023, n. 3431). Da qui l’utilizzo della felice espressione latina del contrarius actus, che sintetizza proprio l’azione intesa ad annullare gli effetti della propria azione precedente (actus primus).
20. Il legislatore non ha fatto distinzioni tra tipologie dei vizi tradizionali che si vanno ad emendare.
In tutti i casi previsti dall’art. 21-octies, tra i quali rientra anche l’incompetenza non destinata a tradursi in un vero e proprio difetto di attribuzione (causa di nullità assoluta ex art. 21-septies), il provvedimento illegittimo può essere annullato d’ufficio solo «dall’organo che lo ha emanato […]».
Ragioni di ordine letterale, dunque, prima ancora che logico e sistematico, si oppongono alla lettura propugnata dal primo giudice nel senso della scissione soggettiva delle due potestà, rimessa esclusivamente ad una disposizione espressa di legge, nel caso di specie non esistente.
Ammettere, infatti, che il sindacato sulla competenza sia rimesso ad un organo diverso che si ritenga -ma non è detto che sia- competente sovrapponendosi ad altro, che si è già espresso in merito sulla base di una lettura evidentemente di senso diametralmente opposto e non ha inteso tornare sui suoi passi, equivarrebbe a riconoscergli un potere di controllo che la legge demanda esclusivamente alle proprie scelte.
21. La questione, peraltro, assume contorni particolarmente delicati laddove si tratti di delineare la linea di demarcazione –operazione non sempre semplice, al di là delle affermazioni di principio– tra atti politici e atti di gestione, essenziale al fine di garantire la qualità dell’azione amministrativa, funzionalizzando l’apparato burocratico al raggiungimento degli obiettivi politici nel rispetto della legalità.

22. In tale ottica, l’ordinamento degli enti locali (d.lgs. n. 267/2000), in combinato disposto con quello del pubblico impiego (d.lgs. n. 165/2001), tenta di fornire indicazioni chiare per tenere distinte le due aree. L’importanza delle stesse è intrinseca alla loro ricordata finalizzazione, che vuole valorizzare le competenze tecniche, asservendole, in accezione costruttiva, alle scelte programmatiche che spettano agli organi di governo, così da garantire una piena sinergia di azione e un giusto punto di equilibrio fra autonomia della “macchina” e titolarità delle scelte decisionali.
In particolare l’art. 107 del T.u.e.l. fornisce un’elencazione degli atti di competenza dirigenziale (e, dunque, sicuramente gestionali), mentre gli artt. 42 e 48 declinano rispettivamente le competenze del Consiglio comunale e della Giunta, queste ultime desumibili in via residuale dalla mancata inclusione nelle altre previsioni.
L’art. 107, tuttavia, inevitabilmente qualifica come meramente esemplificativa ridetta elencazione (comma 3: «Sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare […]»), lasciando all’interprete l’inquadramento delle variegate situazioni che si collocano in una sorta di zona grigia, in quanto non immediatamente tipizzabili.
Tra queste si individuano molto spesso, soprattutto nei Comuni di minore dimensione territoriale, quelle decisioni per così dire a contenuto intermedio, o misto, che da un lato vogliono dare l’avvio ad un procedimento, dall’altro già si addentrano nel suo concreto sviluppo. Trattasi di una discutibile prassi molto spesso riconducibile all’esigenza degli stessi responsabili dei servizi di vedersi “rassicurati” in talune scelte di merito, quali tipicamente quelle in materia di personale.
22.1. Per quanto qui di interesse, dunque, è innegabile che l’approvazione del bando di una selezione non rientri tra i compiti dell’organo politico, cui è riservata caso mai la pianificazione a monte delle scelte assunzionali sulla base delle disponibilità finanziarie dell’Ente.
L’art. 48, comma 3, del T.u.e.l., infatti, invocato da parte appellata, riserva alla Giunta l’approvazione del regolamento sugli uffici e servizi, che è ben altra cosa dall’avvio di una selezione pubblica, in quanto attiene all’architettura organizzativa dell’Ente, non alle sue specificazioni attuative.
Quale che fosse pertanto la volontà della Giunta, ovvero pure se essa avesse avuto il mero intento di dare avvio ad un procedimento da perfezionarsi a cura degli uffici comunali preposti allo scopo, certo è che essa si è avocata una competenza non propria e che del tutto legittimamente, sotto tale aspetto, poteva tornare sui suoi passi annullando l’atto originario.
23. Né la ricostruzione cambia valorizzando la portata del parere di regolarità tecnica che deve accompagnare ogni proposta di atto deliberativo sottoposto alla Giunta o al Consiglio, garantendone la correttezza sul piano giuridico, tanto più che lo stesso era ovviamente presente sia a corredo della delibera n. -OMISSIS-, che di quella n. 89 del 2009.
Esso conferma caso mai l’avallo da parte del dirigente che lo ha apposto, almeno sul piano formale, della scelta interpretativa che ha ravvisato nella Giunta l’organo competente ad approvare il bando e, successivamente, ad annullarlo. Ma non ne comporta la co-intestazione al dirigente medesimo.
23.1. Il parere di regolarità tecnica, infatti, costituisce soltanto uno strumento di controllo preventivo, al pari del parere di regolarità contabile del responsabile del servizio finanziario per gli aspetti relativi alla copertura dei costi.
Non a caso la relativa disciplina è oggi contenuta in una norma introdotta da una legge intitolata «Rafforzamento dei controlli interni degli enti locali» (art. 3 del decreto-legge n. 174 del 10.10.2012, convertito in legge 07.12.2012, n. 213, che ha inserito l’art. 147-bis nel T.u.e.l.), che ha modificato anche l’art. 49 nel senso della prevista obbligatorietà a corredo di ogni provvedimento sottoposto alla Giunta o al Consiglio comunale «che non sia mero atto di indirizzo».
Solo la programmazione della futura attività, dunque, che necessita di ulteriori atti di attuazione e di recepimento da adottarsi da parte dei dirigenti preposti ai vari servizi, secondo le proprie competenze, è esente dal richiamato parere. L’individuazione delle regole di dettaglio di una procedura concorsuale, a maggior ragione ove implicanti la scelta, a monte, della natura “interna” della stessa, a maggior ragione ove non riveniente da specifica indicazione programmatoria formalizzata, non può tuttavia in alcun modo esservi ricondotta.
24. Il Collegio ritiene quindi che entro tali limiti debba essere accolto il primo motivo di appello, non potendosi condividere l’affermazione del primo giudice che nega sic et simpliciter il potere di annullamento d’ufficio di un atto viziato da incompetenza allo stesso organo che lo ha adottato.
25. L’individuazione di un vizio di incompetenza, d’altro canto, è di per sé sufficiente ad “azzerare” la situazione ripristinando lo status quo ante mediante la caducazione dell’atto cui si riferisce.
Trattandosi, tuttavia, di un vizio che la giurisprudenza ha da ultimo qualificato come formale (v. Cons. Stato, sez. III, 03.08.2015, n. 3791), in conformità del resto con le indicazioni comunitarie, ben avrebbe potuto il Comune di Rapino farsi carico di convalidare l’atto, piuttosto che caducarlo.
Ragioni di economia dei mezzi dell’azione amministrativa e di conservazione dei relativi effetti giuridici hanno portato infatti a codificare il relativo principio, già affermato dalla giurisprudenza, nel medesimo art. 21-novies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, che prevede appunto la sanatoria «sussistendone le ragioni di pubblico interesse ed entro un termine ragionevole» (dicitura quest’ultima mai fatta oggetto di quantificazione nelle successive novelle).
26. Una volta assunta la decisione di senso diametralmente opposto di dare rilievo all’incompetenza, ritiene il Collegio che tutte le esplicitazioni aggiuntive, seppure non vietate, non possano assumere rilievo ai fini dell’efficacia dell’atto, dovendo al più essere derubricate a suggerimenti interpretativi, comunque non vincolanti nei confronti del soggetto competente ad adottare gli atti conseguenti all’annullamento.
L’annullamento per incompetenza, infatti, ha l’esclusiva funzione di riaffermare un ordinato assetto delle regole organizzative, teleologicamente orientato alla salvaguardia dell’autonomia gestionale da ingerenze politiche, riportando ogni vicenda alla sua più equilibrata dimensione che demanda agli organi di governo il mero indirizzo, all’apparato burocratico la (ri)valutazione delle scelte tecniche.
Confondere l’interesse pubblico, che comunque deve sovraintendere all’esercizio dell’autotutela, con l’elencazione di ulteriori violazioni di legge, peraltro riferite sempre de relato, pretendendo di individuarne gli esiti (la doverosa effettuazione, all’epoca, di una selezione pubblica), equivale ad esercitare ora per allora quello stesso potere che si è negato sussistere in capo al medesimo organo.
Nel caso di specie, pertanto, la Giunta municipale, in applicazione del principio del contrarius actus, doveva limitarsi, ammesso e non concesso ne sussistessero ancora i presupposti, ad annullare la precedente delibera, non potendo certo addentrarsi nella valutazione delle conseguenze della scelta, spingendosi finanche a dare indicazioni sulle sorti dello stipendio del vincitore del concorso de quo, per giunta espressamente qualificato come in buona fede.
27. In maggior dettaglio, la deliberazione n. -OMISSIS- motiva espressamente solo sul vizio di incompetenza dell’atto del 2009, affermando che «la procedura concorsuale in premessa richiamata è stata indetta e il vincitore è stato proclamato con deliberazioni dell’organo esecutivo […] anziché con determinazioni dirigenziali […]».
In premessa, tuttavia, richiama anche le motivazioni contenute nella precedente deliberazione n. 11 dell’11.02.2017, avente ad oggetto “avvio del procedimento”. Tale atto a sua volta fornisce in parte narrativa una analitica ricostruzione delle (presunte) sollecitazioni esterne all’annullamento dell’atto, senza peraltro mai appropriarsi esplicitamente delle relative motivazioni, fornendo la propria lettura del quadro ordinamentale. C
on riferimento alla condanna da parte della Corte dei conti per le irregolarità nell’assunzione del responsabile dell’Ufficio tecnico comunale -non è chiaro se successivamente annullata a sua volta- si spinge fino ad inferirne un ulteriore vizio della procedura concorsuale (non del bando, dunque), ravvisandolo nella illegittimità derivata della composizione della Commissione dallo stesso presieduta, a prescindere dalla possibile valorizzazione dell’attività comunque svolta quale funzionario di fatto.
27.1. Di tali aspetti, tuttavia, il primo giudice non ha tenuto alcun conto, avendo fermato il proprio vaglio alla questione, preliminare e dirimente, della conclamata sussistenza del vizio di incompetenza.
28. Ridetti richiami tornano all’attenzione del Collegio in quanto enfatizzati dalla difesa civica nel secondo motivo di appello.
Il Collegio non intende evidentemente entrare nel merito della legittimità o meno della modalità di reclutamento prescelta, a maggior ragione in un Comune le cui dimensioni ben difficilmente consentirebbero la valorizzazione di pregresse attività professionali “omogenee” giusta la carenza di pluralità di profili della stessa tipologia nella relativa dotazione organica (non a caso, la dotazione organica consta di un solo istruttore di vigilanza).
Vero è tuttavia che è in ragione degli stessi che il Comune di Rapino ha inteso dare rilevanza ad un vizio tipicamente formale come l’incompetenza, scegliendo non di salvare il procedimento, ma di annullarlo. Emerge dunque l’equivoco di fondo della tesi della difesa civica, che ha inteso ricondurre sotto l’egida della effettività della tutela la salvaguardia, ex art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, dell’annullamento d’ufficio effettuato, rivendicandone il contenuto necessitato.
Nessuno dei documenti richiamati, tuttavia, è tale da trasformare l’esercizio dell’autotutela nel caso di specie in “necessitato”, anziché discrezionale, come da sua connotazione tipica. Anzi, proprio le note del Dipartimento della Funzione pubblica del 05.10.2016 e del 15.12.2016, rese in risposta alla domanda del Comune circa l’obbligatorietà o meno dell’annullamento d’ufficio, dopo avere riepilogato i passaggi ricostruttivi della vicenda per come prospettati dal Comune medesimo, non prendono alcuna specifica posizione sul punto (né avrebbero del resto potuto farlo), limitandosi a richiamare le competenze dell’Ente, anche in riferimento alla possibilità di annullamento d’ufficio ( spetta «unicamente all’Amministrazione, in quanto soggetto titolare, agire e comunque valutare l’esercizio dell’azione di annullamento in autotutela»).
La portata non vincolante, quale che voglia assumersene come significato esatto, dei richiami normativi contenuti nelle note della Funzione pubblica da ultimo richiamati, non può infatti implicare finanche il tentativo di rimessione in termini nell’esercizio, a maggior ragione ove riferita ad un vizio, come l’incompetenza, il cui accertamento non necessitava certamente di istruttorie particolarmente complesse.
Esse, al più, avrebbero dovuto indurre ad una approfondita riflessione anche sotto il profilo delle responsabilità, che non a caso l’art. 21-novies della l. n. 241 del 1990 mantiene “ferme”, sia con riferimento all’avvenuta adozione che al mancato annullamento del provvedimento illegittimo, ove veramente rispondente ad esigenze di pubblico interesse.
Il che, lo si ricorda per doverosa completezza, avrebbe dovuto avvenire entro un termine “ragionevole”, anche a non voler valorizzare quello di diciotto mesi vigente al momento dell’adozione dell’atto, comunque scaduto ove calcolato, sulla base dei principi ormai consolidati in giurisprudenza, dalla data di entrata in vigore della modifica (art. 6, comma 1, lettera d), n. 1), della legge 07.08.2015, n. 124), non rilevando al riguardo l’avvenuta comunicazione di avvio del procedimento, peraltro a pochi giorni di distanza dalla scadenza del termine medesimo.
Il contenuto «non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel caso di specie» (Cons. Stato, A.P., n. 8 del 2017) del termine “ragionevole”, infatti, non può non tenere conto da un lato, come già detto, della natura del vizio; dall’altro, dalla piena conoscenza dello stesso, giusta l’intersecarsi nella vicenda di contenziosi civili, contabili e penali, che hanno visto come protagonisti i medesimi amministratori locali, succedutisi a fasi alterne.
Quanto detto a tacere della considerazione, più etica che giuridica, che essendo la tutela della legalità dell’azione amministrativa, affidata alla macchina organizzativa, la cui autonomia è garantita in primo luogo proprio dalle regole sulla separazione fra politica e gestione, essa dovrebbe essere impermeabile ai cambi di governo locale, venendo all’evidenza interpretazioni oggettive e non soggettive di norme ordinamentali.
28.1. Né può attribuirsi cogenza al dictum del giudice civile, che peraltro fa stato caso mai con riferimento allo svolgimento dei fatti, ma non alla loro qualificazione giuridica, tanto più che in direzione opposta avrebbero potuto essere valorizzate le ragioni espresse dal giudice civile e da quello contabile, con specifico riferimento al procedimento di cui è causa.
29. In conclusione, va accolto in parte il primo motivo di appello.
A ciò consegue comunque la conferma del dispositivo della sentenza del Tar per l’Abruzzo, Pescara, n. -OMISSIS- del 2018, con la diversa motivazione sopra esplicitata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.12.2023 n. 11307 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, non viola il diritto di difesa l’accertamento incidentale dell’illegittimità della sanatoria. L’accertamento incidentale ha poi constatato che la lottizzazione abusiva, difforme dal permesso di costruire, non può essere sanata col regime che riguarda un altro titolo edilizio abilitativo.
La difformità dal permesso di costruire di opere che necessitano di tale titolo non sono sanabili con la sanatoria prevista in caso di attività edilizie soggette a Super-Scia. Infatti l’art. 37 del testo unico dell’edilizia prevede un’ipotesi di sanatoria che è applicabile solo a quegli interventi realizzabili con la segnalazione certificata di inizio attività e che risultino difformi, ma poi vengono sanati.
Gli interventi realizzabili con la segnalazione certificata di inizio attività (anche in caso di super Scia) sono limitati a ristrutturazioni e a piccole modifiche volumetriche e non sono equiparabili alla realizzazione di manufatti realizzati in un piano di lottizzazione.
La lottizzazione abusiva per gravi difformità dal permesso di costruire non perdono la loro rilevanza penale neanche con la novella recata dal Dlgs 222/2016 che cancella la vecchia super Dia per varare la super Scia e che di fatto non ha apportato una differenza apprezzabile tra i due titoli che si pongono in totale continuità.

La Corte di Cassazione, Sez. III penale, ha respinto il ricorso degli imputati con la sentenza 01.12.2023 n. 47909.
Rigettando in particolare il motivo con cui veniva lamentata la violazione del diritto di difesa per avere, in assenza di un pieno contraddittorio, i giudici di appello ritenuto nullo (oltre che falso) l’atto in sanatoria adottato ex articolo 37 del Tue.
La Cassazione asserisce che il giudice può accertare incidentalmente l’illegittimità dell’atto amministrativo senza per questo incorrere nella violazione lamentata. E l’accertamento incidentale non ha fatto altro che constatare che la lottizzazione abusiva, perché difforme dal permesso di costruire, non è ipotizzabile che sia sanata col regime che riguarda un altro titolo edilizio abilitativo.
Il caso concreto, come rileva la Cassazione, fa emergere un comportamento all’apparenza illogico da parte degli imputati anche se mossi dal comprensibile intento di ottenere un titolo sanante a fronte degli abusi realizzati rispetto al permesso di costruire.
Essi infatti invocando la sanatoria relativa alla segnalazione certificata hanno creato solo una falsa apparenza di abusi sanati dal Comune: prima presentando una Scia per fini diversi da quelli a cui è dedicata, poi chiedendo la sanatoria per alcuni vizi, con la pretesa che questa coprisse le precedenti e gravi difformità da tutto altro tipo di titolo abilitativo, il permesso di costruire (articolo NT+Diritto del 01.12.2023).

CONDOMINIO: Il diritto di installare l’antenna nella proprietà altrui è subordinato alla assenza di spazi propri.
Il condomino radioamatore ha il diritto di installare l’antenna sull’altrui proprietà solo nel caso in cui si trovi nella impossibilità di utilizzare spazi propri, comportando in caso contrario un ingiustificato sacrificio per l’immobile gravato.

Lo ha precisato la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con sentenza 08.11.2023 n. 31101 (articolo NT+Diritto del 29.11.2023).
---------------
SENTENZA
1. Con il primo motivo si deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., in relazione agli artt. 1, 2 e 3 legge 06.05.1940, n. 554 e agli artt. 209, 91 e 92 d.lgs. 01.08.2003, n. 259, per non aver ritenuto necessaria la deduzione e dimostrazione -da parte dell’installatore dell’antenna- dell’impossibilità di utilizzare spazi propri o spazi condominiali.
Nella prospettazione dei ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe fatto malgoverno della disciplina normativa a tutela del diritto soggettivo di natura personale riconosciuto al radioamatore: l’installazione su proprietà altrui è, infatti, condizionata all’impossibilità di servirsi di spazi propri o condominiali, che spetta all’installatore provare, come ripetutamente precisato da questa Corte (Cass. n. 16865/2017; Cass. n. 9427/2009; Cass. n. 9393/2005).
1.1. Il motivo è fondato.
Preliminarmente, deve disattendersi l’eccezione di nuova censura elevata dai controricorrenti (v. controricorso p. 7, 1° capoverso): la contestazione in merito alla sussistenza di un diritto illimitato all’installazione dell’antenna privata per radioamatori su lastrico solare di proprietà esclusiva era stata elevata dai ricorrenti sin nella comparsa di costituzione e risposta (pp. 4-7) del giudizio di primo grado, ove con tale difesa essi avevano chiesto il rigetto della domanda attorea.
1.2. Tanto premesso, al caso di specie trovano applicazione (come meglio si dirà più innanzi, punto 2.2.) gli artt. 209, 91, 92, comma 7, del Codice delle Comunicazioni Elettroniche vigente ratione temporis: norme ad oggi radicalmente modificate a séguito dell’entrata in vigore, dal 24.12.2021, del d.lgs. 08.11.2021, n. 207, che recepisce nell’ordinamento giuridico italiano la dir. 2018/1972/UE (istitutiva del «Codice europeo delle comunicazioni elettroniche»).
L’art. 92 d.lgs. n. 259/2003 al comma 7 richiama i diritti del proprietario servente; l’art. 209 –dopo aver affermato al comma 1 che i proprietari di immobili non possono opporsi all’installazione, sulle loro proprietà, di antenne appartenenti agli abitanti dell'immobile stesso destinate –tra l’altro– alla fruizione dei servizi radioamatoriali- ne determina i limiti di utilizzo al comma 2, che così recita: «Le antenne, i relativi sostegni, cavi ed accessori non devono in alcun modo impedire il libero uso della proprietà, secondo la sua destinazione, né arrecare danno alla proprietà medesima od a terzi».
La norma riprende la precedente disposizione di cui all’art. 2, comma 2, legge n. 554 del 1940, a conferma del fatto che il legislatore ha avuto ben presente che la limitazione imposta alle ragioni del proprietario deve essere minima: a maggior ragione, dunque, l’installazione di antenne amatoriali non può essere pretesa da chi, col normale impiego di mezzi idonei allo scopo, può provvedervi impegnando beni propri o beni condominiali (nei limiti dell’art. 1102 cod. civ.).
Il diritto vantato dal condómino a tutela del diritto primario alla libera manifestazione del proprio pensiero (contemplato dall’art. 21 della Costituzione) non comprende, infatti, la facoltà di scegliere voluttuariamente il sito preferito per l'antenna ma -come ínsito nei principi generali in materia di condominio (v. art. 1102 cod. civ.), di atti emulativi e di imposizione di servitù coattive- va coordinato con l'esistenza di un'effettiva esigenza di soddisfare le richieste di utenza degli inquilini o dei condómini (v. art. 91, comma 2, d.lgs. n. 259 del 2003, richiamato dall'articolo 209), e quindi con il dovere della proprietà servente di soggiacere alla pretesa del vicino solo qualora costui non possa autonomamente provvedere ai propri bisogni (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9427 del 21.04.2009, Rv. 608109 - 01); ciò a bilanciamento delle ragioni della proprietà privata, quale diritto che gode anch’esso di garanzia costituzionale (art. 41, comma 2, Cost.).
Il Collegio intende, pertanto, confermare l’insegnamento di questa Corte che ha già avuto modo di affermare: «
Con riguardo ad un edificio in condominio ed all'installazione d'apparecchi per la ricezione di programmi radio-televisivi, il diritto di collocare nell'altrui proprietà antenne televisive, riconosciuto dalla L. 06.05.1940, n. 554, artt. 1 e 3 e del D.P.R. 29.03.1973, n. 156, art. 231 (ora assorbiti nel d.lgs. n. 259 del 2003), è subordinato all'impossibilità per l'utente di servizi radiotelevisivi di utilizzare spazi propri, giacché altrimenti sarebbe ingiustificato il sacrificio imposto ai proprietari" (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16865 del 07.07.2017, Rv. 644843 – 01; Cass. n. 9427 del 2009, cit.; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9393 del 06.05.2005, Rv. 581040 - 01).
Trattandosi di un fatto costitutivo del diritto all'installazione, l'onere di provare -se del caso anche con una C.T.U.- che non fosse possibile utilizzare uno spazio proprio o condominiale per l'installazione, resta a carico del soggetto che intenda effettuarla.
1.3. La sentenza merita, pertanto, di essere cassata, e il giudizio rinviato alla medesima Corte d’Appello che dovrà valutare la ragionevole possibilità, per il Fa., di installazione dell’antenna su uno spazio condominiale, senza che ciò comprometta in modo sensibile l’utilizzo dell’impianto stesso.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: No al rinnovo di contratti a tempo determinato oltre il limite massimo di 36 mesi. Secondo la Cassazione, anche quando questo avvenga a seguito di una nuova procedura di selezione.
Non è possibile rinnovare o prolungare i contratti a tempo determinato oltre il limite massimo di trentasei mesi anche quando questo avvenga a seguito di una nuova procedura di selezione.

Sono queste le sintetiche, ma chiare, conclusioni della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, contenute nell’ordinanza 14.09.2023 n. 26567.
Come noto, l’articolo 36 del Dlgs 165/2001 nelle diverse versioni che si sono succedute negli anni ha sempre stigmatizzato la necessità che l’utilizzo delle forme di lavoro flessibile –tra cui i contratti a termine– sia possibile esclusivamente per esigenze temporanee o eccezionali.
Per le assunzioni a tempo determinato, nello specifico, tenendo anche conto delle disposizioni contrattuali, si fa riferimento ad un periodo massimo di trentasei mesi.
Ma se un soggetto si colloca vincitore in una nuova graduatoria, può essere assunto dalla stessa amministrazione con cui ha già concluso assunzioni a termine per tre anni? Può bastare questa situazione per superare il chiaro periodo massimo stabilito dalle norme?
A ben vedere il Dipartimento della Funzione Pubblica, fin dal parere UPPA 49/2008 propende per il superamento dei 36 mesi proprio in caso di nuovo concorso.
Si legge infatti nel documento: «per il contratto a tempo determinato la durata non può essere superiore ai 3 anni comprensivi di proroga. Sono fatte salve le assunzioni riferite a procedure concorsuali diverse. La valenza della partecipazione ad un nuovo concorso pubblico, in coerenza con quanto previsto dagli articoli 51 e 97 della Costituzione, prevale rispetto al limite temporale del triennio che può essere superato solo in questa circostanza».
Non è però di questo avviso la Corte di Cassazione che nella sentenza in esame giunge a tutt’altre conclusioni.
I magistrati affermano infatti che il superamento del limite di 36 mesi di durata complessiva, è da considerarsi abusivo, a nulla rilevando che l’assunzione a termine sia avvenuta, di volta in volta, all’esito di distinti concorsi pubblici, come già indicato dalla Corte di Cassazione con sentenza 04.03.2021 n. 6089.
Viene anche precisato che il criterio di selezione non può interferire con il fatto che vi sia stata reiterazione oltre i limiti del lecito della contrattazione a tempo determinato e dunque non impedisce il radicarsi dei presupposti per il relativo risarcimento.
Una lettura che, se di fatto potrebbe avere una sua logica nel contesto privato, appare alquanto lontana dai principi costituzionali a tutela dell’accesso al lavoro pubblico (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.10.2023).

VARI: Il furto in un garage si ritiene commesso in privata dimora.
Scatta il reato di furto in privata dimora, e non di furto semplice, per chi, nonostante non abbia forzato porte o cancelli, sia riuscito ad entrare nella zona garage di un condominio. Del resto, la rimessa condominiale è pertinenza dell’edificio, facilitandovi l’accesso e la comodità, per cui il Codice penale la tutela allo stesso modo di un’abitazione privata
.
Lo precisa la Corte di appello di Ancona, Sez. penale, con la sentenza 07.09.2023 n. 1632 (articolo NT+Condominio del 18.01.2024).
---------------
SENTENZA
Così accertati i fatti, la condotta furtiva integra il reato di cui all'art. 624-bis c.p. per il quale vi è stata condanna.
Come è noto l'art. 624-bis c.p. intende tutelare non solo la privata dimora in sé ma,come risulta dalla formulazione testuale della norma, anche i luoghi che ne costituiscono pertinenza.
Ebbene, che l'area adibita a garage possa essere considerata una pertinenza delle abitazioni collocate nello stabile condominiale si ricava da quelli che sono i principi da tempo affermatisi nella giurisprudenza di legittimità in rapporto alla natura pertinenziale di uno spazio.
Invero il rapporto tra cosa principale e pertinenza non attiene ad una connessione materiale o strutturale, come nell'incorporazione, ma si configura come rapporto di strumentalità e complementarietà funzionale, sicché il vincolo pertinenziale può sussistere anche tra opere dotate di autonomia strutturale (Cass. Civ. Sez. 2 n. 2804 del 02/02/2017 e Sez. 2, n. 12855 del 10.06.2011).
Ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra bene principale e bene accessorio è necessaria la presenza del requisito soggettivo dell'appartenenza di entrambi al medesimo soggetto, nonché del requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale è necessario che il bene accessorio arrechi una "utilità" al bene principale, come appunto nella fattispecie dell'edificio condominiale, ove l'area adibita a garage assolve appunto a tale funzione ed è strumentale e complementare alle abitazioni dello stabile condominiale, essendo evidente che ne incrementa il valore, la facilità di accesso e la comodità, potendo anche consentire di riporvi oggetti ed attrezzi di interesse per la manutenzione dell'auto e non solo.
Il fatto che siano riusciti ad accedere alla zona garage senza dover forzare porte o cancelli, non esclude la configurabilità del reato di cui all'art. 624-bis c.p., giacché il luogo ove è stato commesso il furto costituiva pertinenza dell'edificio condominiale ove dimorava la p.o. Es.An., e in esso non era possibile accedere senza il consenso del titolare.
In casi simili, la giurisprudenza ha ritenuto integrare il reato previsto dall'art. 624-bis cod. pen.
la condotta di chi si impossessa di beni mobili introducendosi all'interno di un garage, trattandosi di luogo che costituisce pertinenza dell'abitazione (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 5789 del 04/12/2019, dep. 14/02/2020) e "la condotta di chi si impossessa di una bicicletta introducendosi nell'androne di un edificio destinato ad abitazioni, in quanto detto luogo costituisce pertinenza di privata dimora" (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1278 del 31/10/2018, dep. 11/01/2019).
Il giudizio di penale responsabilità dell'imputato Al.At. in relazione al reato di cui al capo A va pertanto confermato.
Analoghe contestazioni la difesa ha formulato riguardo ai furti tentati di cui al capo B di imputazione.
La difesa ha sostenuto che nel ridetto capo di imputazione non vi è alcun riferimento a garage o cantinette private rispetto alle quali gli imputati possano aver posto in essere atti rilevanti quali tentativo di furto.
L'unica circostanza effettivamente risultata dall'istruttoria dibattimentale è che i prevenuti stessero passeggiando nel vano garage del condominio, che non può considerarsi atto idoneo diretto in modo non equivoco ad introdursi in garage o cantinette comunque protette da porte e che dunque, mai potrebbe fondare la contestazione della fattispecie ex art. 624-bis c.p.
L'imputazione, inoltre, non conterrebbe la descrizione delle eventuali condotte dirette in modo non equivoco a sottrarre generici beni; in ogni caso, gli elementi valorizzati in sentenza dal primo Giudice per pervenire ad una condanna ovvero l'esistenza di tracce di disordine, mobiletti aperti e supposte condotte di rovistamento costituiscono un unico indizio che in assenza di ulteriori elementi a riscontro non può ritenersi idoneo a fondare la condanna per tentato furto.
Preliminarmente, non può che ribadirsi quanto già ampiamente argomentato con riferimento al capo di imputazione A) in merito alla sussistenza di un nesso di pertinenzialità tra il luogo del tentato furto e l'edificio condominiale ove abitano le odierne pp.oo. suscettibile di integrare la previsione normativa di cui all'art. 624-bis c.p. contestata nel capo di imputazione.
Quanto alla configurabilità di atti idonei diretti in modo non equivoco a impossessarsi di beni altrui, questa Corte ritiene idi dover assolvere l'imputato dal reato di tentato furto ai danni di Fe.Go., poiché relativamente ad esso l'istruttoria dibattimentale non ha effettivamente offerto alcun elemento.
La contestazione di tale reato si fonda sulla sola circostanza che, al momento dell'intervento dei condomini, i due imputati ancora si trovavano nei pressi dell'area adibita a garage condominiale, elemento obbiettivamente inidoneo a fare ritenere che gli stessi avessero tentato di realizzare un furto anche in danno di quest'ultimo.
---------------
Massima redazionale
Furto - Introduzione nella dimora - Pertinenze condominiali - Utilità della pertinenza -Accesso dell'imputato alla zona garage - Bene principale - Bene accessorio
In tema di furto, l'art. 624-bis c.p. intende tutelare non solo la privata dimora in sé ma,come risulta dalla formulazione testuale della norma, anche i luoghi che ne costituiscono pertinenza; ebbene, l'area adibita a garage possa essere considerata una pertinenza delle abitazioni collocate nello stabile condominiale in rapporto alla natura pertinenziale di uno spazio.
Invero il rapporto tra cosa principale e pertinenza non attiene ad una connessione materiale o strutturale, come nell'incorporazione, ma si configura come rapporto di strumentalità e complementarietà funzionale, sicché il vincolo pertinenziale può sussistere anche tra opere dotate di autonomia strutturale.
Ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra bene principale e bene accessorio è necessaria la presenza del requisito soggettivo dell'appartenenza di entrambi al medesimo soggetto, nonché del requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale è necessario che il bene accessorio arrechi una"utilità" al bene principale, come appunto nella fattispecie dell'edificio condominiale, ove l'area adibita a garage assolve appunto a tale funzione ed è strumentale e complementare alle abitazioni dello stabile condominiale, essendo evidente che ne incrementa il valore, la facilità di accesso e la comodità, potendo anche consentire di riporvi oggetti ed attrezzi di interesse per la manutenzione dell'auto e non solo.
Il fatto che gli imputati siano riusciti ad accedere alla zona garage senza dover forzare porte o cancelli, non esclude la configurabilità del reato di cui all'art. 624-bis c.p., giacché il luogo ove è stato commesso il furto costituiva pertinenza dell'edificio condominiale ove dimorava la p.o., e in esso non era possibile accedere senza il consenso del titolare.

AGGIORNAMENTO AL 23.01.2024

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L’inderogabilità dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, avente la finalità pubblica di garantire, attraverso l’imposizione della distanza minima tra edifici, igiene e sicurezza, è principio che costituisce jus receptum nella giurisprudenza di questa Corte, la quale ha anche spiegato che, in tema di distanze tra edifici, ove le costruzioni non siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì dal comma 1 dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
---------------
La
giurisprudenza della Corte costituzionale ha affermato, più volte, che <<Nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»− questa Corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile», in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»
.
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio», poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati».
I medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione, infatti, ha sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
.
La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).>>
Di conseguenza, osserva il Collegio che,
ove manchi, perché neppure contemplato o perché (come nel caso in esame) solo apparentemente evocato, lo scopo del perseguimento del pubblico interesse (rappresentato dall’effettiva persecuzione del “governo del territorio”) la deroga al primo comma del citato art. 9 deve reputarsi “tamquam non esset”, in quanto promanante da atti amministrativi illegittimi.
---------------
La pronuncia del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della p.a., ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la p.a., sicché non ha efficacia di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà determinata dalla violazione della normativa in tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi generali ma anche della posizione soggettiva del privato
.
Sotto altro connesso profilo si è già avuto modo di chiarire che
la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato richiedente o costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati, regolati dalle disposizioni dettate dal codice civile e dalle leggi speciali in materia edilizia, nonché dalle norme dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori generali locali.
Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie, sono irrilevanti tanto la esistenza della concessione (salva la ipotesi della cosiddetta licenza in deroga), quanto il fatto di avere costruito in conformità alla concessione, non escludendo tali circostanze, in sé, la violazione dei diritti dei terzi di cui al codice civile e agli strumenti urbanistici locali.
E' del pari irrilevante la mancanza della licenza o della concessione, quando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le disposizioni normative sopraindicate.
---------------

6. Il ricorso è infondato.
6.1. Occorre prendere l’abbrivio dalla motivazione con la quale la Corte locale confermò la sentenza del Tribunale.
Come sopra si è ricordato la sentenza qui impugnata correttamente evidenzia l’inderogabilità dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, avente la finalità pubblica di garantire, attraverso l’imposizione della distanza minima tra edifici, igiene e sicurezza.
Trattasi di affermazione ampiamente consolidata nella giurisprudenza di questa Corte, la quale ha anche spiegato che, in tema di distanze tra edifici, ove le costruzioni non siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì dal comma 1 dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (Sez. 2, 14.11.2016 n. 23136, Rv. 641684 – 01; conf. già Cass. nn. 5741/2008, 12424/2010).
Consegue a ciò che, nel caso d’illegittima determinazione negoziale di distanza inferiore a quella legale, la clausola nulla viene sostituita automaticamente, ai sensi dell’art. 1419, co. 2, cod. civ., salvo importare la nullità dell’intero contratto nell’ipotesi contemplata dall’articolo predetto.
6.1.2. L’assetto complessivo del sistema risulta essere stato puntualmente scolpito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 41 del 2007, riafferma (in perfetta sintonia con le precedenti pronunce), che <<
Nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»− questa Corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del 2016, ma anche sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005), in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche» (ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016).
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; analogamente sentenze n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati» (sentenza n. 114 del 2012; nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2005).
I medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione, infatti, ha sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis, sentenza n. 189 del 2016).
La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968)
.>>
Di conseguenza, osserva il Collegio che, ove manchi, perché neppure contemplato o perché (come nel caso in esame) solo apparentemente evocato, lo scopo del perseguimento del pubblico interesse (rappresentato dall’effettiva persecuzione del “governo del territorio”) la deroga al primo comma del citato art. 9 deve reputarsi “tamquam non esset”, in quanto promanante da atti amministrativi illegittimi.
6.1.3. Nel caso in esame, proprio la sentenza del TAR Basilicata, invocata dalla stessa parte ricorrente, siccome riporta la sentenza d’appello, ha inequivocamente affermato che <<l’utilizzo del Progetto Planovolumetrico convenzionato (ed approvato nella delibera di G.M. n. 197 del 26.09.2003) risulta improprio, in quanto il progetto planovolumetrico, redatto dalla Pe. s.a.s. ed approvato dal Comune resistente, si riferisce ad un’area circoscritta, più precisamente ad una parte di terreno e/o di un lotto edificatorio e non prevede la realizzazione di opere di urbanizzazione da cedere gratuitamente al Comune (…), mentre di norma tale strumento urbanistico riguarda più terreni e/o edifici e/o lotti edificatori e deve prevedere la creazione di spazi pubblici e/o ad uso pubblico e/o di opere di urbanizzazione>>.
Il manufatto della ricorrente, pertanto, non è conforme alla legge. La sentenza n. 1313/2018 delle S.U., richiamata dalla ricorrente, al contrario di quanto da quest’ultima sostenuto, non ne supporta l’assunto.
Invero, il provvedimento amministrativo disapplicato dal giudice non costituisce oggetto della controversia, nel senso che su di esso non si fonda il diritto dedotto in giudizio, bensì strumento di cui il giudice conosce, “incidenter tantum”, nel percorso logico della decisione. Inoltre, lo stesso è affetto da vizio di legittimità (violazione di legge), restando estranea al vaglio ogni questione di merito (conf., S.U. n. 116/2007; a contrario, a riguardo d’ipotesi nelle quali la censura involge il facere discrezionale della p.a., si vedano S.U. n. 18263/2004 e n. 4242/2010, nonché Cass. n. 5588/2013).
6.1.4. Per contro, mette conto soggiungere che la pronuncia del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della p.a., ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la p.a., sicché non ha efficacia di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà determinata dalla violazione della normativa in tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi generali ma anche della posizione soggettiva del privato (Sez. 2, n. 9869, 14/05/2015, 635492; Sez. 2, n. 23543/2018, non massimata, la quale in motivazione significativamente afferma non essere necessaria una delibazione incidentale del giudice a riguardo della legittimità o meno dei provvedimenti amministrativi autorizzativi dell’opera in contrasto con la legge).
In disparte, sul punto, deve, comunque, ulteriormente rilevarsi che la parte ricorrente non ha neppure allegato il passaggio in giudicato della sentenza amministrativa, nel mentre la controricorrente con la memoria ha evidenziato che il Consiglio di Stato (con sentenza n. 5999/2019 del 30/08/2019) ha definitivamente annullato la decisione del Giudice amministrativo di primo grado.
Quindi il progetto planovolumetrico approvato con la delibera di Giunta n. 197/2003, su cui ruota sostanzialmente il ricorso, è stato definitivamente annullato dal Consiglio di Stato.
6.1.5. Sotto altro connesso profilo si è già avuto modo di chiarire che la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato richiedente o costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati, regolati dalle disposizioni dettate dal codice civile e dalle leggi speciali in materia edilizia, nonché dalle norme dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori generali locali.
Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie, sono irrilevanti tanto la esistenza della concessione (salva la ipotesi della cosiddetta licenza in deroga), quanto il fatto di avere costruito in conformità alla concessione, non escludendo tali circostanze, in sé, la violazione dei diritti dei terzi di cui al codice civile e agli strumenti urbanistici locali; è del pari irrilevante la mancanza della licenza o della concessione, quando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le disposizioni normative sopraindicate (Sez. 2, n. 12405, 28/05/2007, Rv. 597809; conf., da ultimo, 20.10.2021 n. 29166; ma già, Cass. nn. 2230/1985, 3878/2007, 13109/1992, 6038/2000).
6.2. In definitiva, va confermato il giudizio incidentale d’illegittimità dei provvedimenti amministrativi che hanno permesso la costruzione in violazione dell’art. 9, co. 1, più volte citato, non sussistendo le fattispecie che ne avrebbero legittimato la deroga, ai sensi dell’ultimo comma della disposizione, che con efficace sintesi la Corte costituzionale ha individuato nel “governo del territorio”.
Giudizio che, “incidenter tantum”, ex art. 5. L. n. 2248/1865, All. E, impone la disapplicazione dei provvedimenti amministrativi in discorso (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 17.01.2024 n. 1818).

EDILIZIA PRIVATA: È noto che, in tema di distanze legali, ai sensi dell'art. 873 c.c., rileva una nozione unica di costruzione, consistente in qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità e della immobilizzazione rispetto al suolo, indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata.
I regolamenti comunali, pertanto, essendo norme secondarie, non possono modificare tale nozione codicistica, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, poiché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 c.c. ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore.
Vale, quindi, il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le strutture accessorie di un fabbricato, non meramente decorative ma dotate di dimensioni consistenti e stabilmente incorporate al resto dell'immobile (da accertare in fatto in base ad apprezzamento dei giudici del merito, non sindacabile in sede di legittimità per violazione di norme di diritto), costituiscono con questo una costruzione unitaria, ampliandone la superficie o la funzionalità e vanno computate ai fini delle distanze fissate dall'art. 873 c.c. o dalle norme regolamentari integrative.
La eccezionale non computabilità, ai fini delle distanze, di elementi della costruzione può quindi riguardare solo quegli sporti o aggetti che non siano idonei a determinare intercapedini dannose o pericolose, consistendo in sporgenze di limitata entità, con funzione complementare di decoro o di rifinitura, mentre vengono in considerazione le sporgenze, implicanti, perciò, un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come, appunto, i balconi formati da solette aggettanti (anche se scoperti), o i pianerottoli di prolungamento dei setti in cemento armato, di apprezzabile profondità, ampiezza e consistenza, stabilmente incorporati nell'immobile, e ciò a maggior ragione qualora le distanze tra costruzioni siano stabilite in un regolamento edilizio comunale che non preveda espressamente un diverso regime giuridico per le costruzioni accessorie.
---------------
E’ noto che, in tema di distanze minime tra costruzioni, la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi a quelli tra privati e, pertanto, il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell'opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l'aspetto formale dell'attività edificatoria.
Di conseguenza, l'avere eseguito la costruzione in conformità dell'ottenuta licenza o concessione non esclude, di per sé, la violazione di dette prescrizioni e, quindi, il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni.
Il contrasto della costruzione eseguita rispetto alle norme in tema di distanze fra costruzioni dà luogo ad un requisito inerente alla fondatezza della relativa domanda di riduzione in pristino, ed è quindi, qualificabile come condizione dell'azione, da porre, perciò, in relazione alla situazione esistente al momento della pronuncia e non della proposizione della domanda.
Né rileva che l'attività edificatoria denunziata con la domanda originaria, rivelatasi lesiva dei diritti del vicino nella sua consistenza attuale al momento della decisione, non sia stata ancora ultimata, sicché la violazione delle distanze potrebbe essere nel prosieguo delle opere regolarizzata o soppressa dal costruttore.
Soltanto qualora il proprietario convenuto per aver costruito a distanza illegale faccia venir meno l’illegalità e riconosca in modo espresso o implicito la integrale fondatezza della domanda avversa, si determina una cessazione della materia del contendere, che rende inutile la pronuncia giurisdizionale di riduzione in pristino.

---------------

5.1. Il ricorso è comunque infondato.
Quanto alla ipotizzata violazione dell'art. 115 c.p.c., essa può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (arg. da Cass. Sez. Un. n. 20867 del 2020).
5.2. La Corte d’appello ha nella sostanza affermato che il fabbricato realizzato dai convenuti sorge su un’area per mq 808,83 in zona B, dove le norme tecniche di attuazione prevedono “distacchi come da norme antisismiche e D.M. 1968 n. 1444” e all’art. 9, in particolare, la distanza tra fabbricati di m 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
La perizia aveva descritto il manufatto come un “balcone ... di dimensioni 1,82 m 4,41”, mentre, “nel caso di rinterro del piano attualmente seminterrato”, esso “si configurerebbe invece quale camminamento perimetrale”.
Per i ricorrenti, invece, tale struttura “altro non rappresenta se non un viale, un camminamento destinato ad aderire al piano di campagna”.
5.3. Perché possa astrattamente configurarsi nel riportato motivo di ricorso un vizio rientrante tra quelli denunciabili per cassazione, occorre ritenere che la censura rappresenti un errore dei giudici del merito nella ricognizione del contenuto oggettivo delle risultanze peritali, nel senso che emergerebbe una effettiva assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che la sentenza impugnata ha ritenuto di poter trarre, con riguardo a fatto avente carattere decisivo (ad esempio, Cass. Sez. 1, n. 9507 del 2023; Sez. 3, n. 37382 del 2022; Sez. 3, n. 37382 del 2022).
5.4. È noto che, in tema di distanze legali, ai sensi dell'art. 873 c.c., rileva una nozione unica di costruzione, consistente in qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità e della immobilizzazione rispetto al suolo, indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata.
I regolamenti comunali, pertanto, essendo norme secondarie, non possono modificare tale nozione codicistica, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, poiché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 c.c. ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore.
Vale, quindi, il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le strutture accessorie di un fabbricato, non meramente decorative ma dotate di dimensioni consistenti e stabilmente incorporate al resto dell'immobile (da accertare in fatto in base ad apprezzamento dei giudici del merito, non sindacabile in sede di legittimità per violazione di norme di diritto), costituiscono con questo una costruzione unitaria, ampliandone la superficie o la funzionalità e vanno computate ai fini delle distanze fissate dall'art. 873 c.c. o dalle norme regolamentari integrative.
La eccezionale non computabilità, ai fini delle distanze, di elementi della costruzione può quindi riguardare solo quegli sporti o aggetti che non siano idonei a determinare intercapedini dannose o pericolose, consistendo in sporgenze di limitata entità, con funzione complementare di decoro o di rifinitura, mentre vengono in considerazione le sporgenze, implicanti, perciò, un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come, appunto, i balconi formati da solette aggettanti (anche se scoperti), o i pianerottoli di prolungamento dei setti in cemento armato, di apprezzabile profondità, ampiezza e consistenza, stabilmente incorporati nell'immobile, e ciò a maggior ragione qualora le distanze tra costruzioni siano stabilite in un regolamento edilizio comunale che non preveda espressamente un diverso regime giuridico per le costruzioni accessorie (Cass. 20.04.2022 n. 12614; n. 859 del 2016; n. 13001 del 2000; n. 5719 del 1998; n. 578 del 1979; n. 3933 del 1975).
5.5. Né hanno pregio le considerazioni dei ricorrenti sulla diversa consistenza che il manufatto avrebbe rivelato in base al titolo abilitativo edilizio ed alla proroga dell'originario permesso di costruire, per gli sviluppi che l’opera potrebbe assumere una volta ultimata l’attività costruttiva.
5.4.1. E’ noto che, in tema di distanze minime tra costruzioni, la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi a quelli tra privati e, pertanto, il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell'opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l'aspetto formale dell'attività edificatoria.
Di conseguenza, l'avere eseguito la costruzione in conformità dell'ottenuta licenza o concessione non esclude, di per sé, la violazione di dette prescrizioni e, quindi, il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni (tra le tante, Cass. 19.02.2019 n. 4833).
Il contrasto della costruzione eseguita rispetto alle norme in tema di distanze fra costruzioni dà luogo ad un requisito inerente alla fondatezza della relativa domanda di riduzione in pristino, ed è quindi, qualificabile come condizione dell'azione, da porre, perciò, in relazione alla situazione esistente al momento della pronuncia e non della proposizione della domanda.
Né rileva che l'attività edificatoria denunziata con la domanda originaria, rivelatasi lesiva dei diritti del vicino nella sua consistenza attuale al momento della decisione, non sia stata ancora ultimata, sicché la violazione delle distanze potrebbe essere nel prosieguo delle opere regolarizzata o soppressa dal costruttore.
Soltanto qualora il proprietario convenuto per aver costruito a distanza illegale faccia venir meno l’illegalità e riconosca in modo espresso o implicito la integrale fondatezza della domanda avversa, si determina una cessazione della materia del contendere, che rende inutile la pronuncia giurisdizionale di riduzione in pristino (Cass. n. 4127 del 2002; n. 26907 del 2019) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 04.01.2024 n. 239).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 9, ultimo comma, del d.m. 04.04.1968 n. 1444, riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata.
L’ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 444/1968 contempla, quale ipotesi di deroga alle distanze minime tra fabbricati, la realizzazione contestuale di "gruppi di edifici" e cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi estranea al caso in esame, in cui si è avuta la realizzazione di un unico nuovo edificio che si è inserito nel contesto di un isolato già edificato.
Può pertanto enunciarsi il seguente principio:
"agli effetti dell’art. 9, comma 3, del d.m. n. 1444 del 1968, sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi di tale norma soltanto a condizione che sia stato approvato un apposito piano particolareggiato o di lottizzazione esteso alla intera zona, finalizzato a rendere esecutive le previsioni dello strumento urbanistico generale, contenente le disposizioni planivolumetriche degli edifici previsti nella medesima zona e avente ad oggetto la realizzazione contestuale di "gruppi di edifici", e cioè di una pluralità di nuovi febbricati, rimanendo perciò estranea a tale fattispecie l’ipotesi della realizzazione di un unico nuovo fabbricato che si sia inserito nel contesto di un isolato già edificato".

---------------
1. Gi.Gr. ha proposto ricorso articolato in tre motivi avverso la sentenza n. 762/2020 della Corte d’appello di Reggio Calabria, depositata il 30.11.2020.
L’intimato En.In., erede di Fr.Za., non ha svolto attività difensive.
2. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, comma 2, 4-quater, e 380-bis.1, c.p.c.
3. La Corte d’appello di Reggio Calabria ha respinto l’appello principale proposto da Gi.Gr. contro la sentenza pronunciata il 19.11.2009 dal Tribunale di Reggio Calabria.
La sentenza di primo grado, accogliendo in parte la domanda spiegata con citazione del 14.04.2003 da Fr.Za., aveva ordinato la demolizione o l’arretramento dei fabbricati eretti in Villa San Giovanni da Gi.Gr. a distanza inferiore a quella minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, ed aveva altresì condannato il convenuto al risarcimento dei danni liquidati in € 2.000,00.
La Corte d’appello ha rilevato che i fabbricati costruiti dal Greco insistono sulle part. 472 e 473, fl. 3, N.C.E.U. del Comune di Villa San Giovanni e ricadono pertanto in zona B, sottozona B2 del P.R.G. di tale comune, ove sono previste dalle n.t.a. distanze inferiori a quella di dieci metri ex art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968.
La deroga alla disciplina stabilita dalla normativa statale, apportata dagli strumenti urbanistici locali, non era tuttavia riconducibile, secondo la sentenza impugnata, ad un caso di gruppi di edifici oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sicché la costruzione doveva ritenersi illegittima.
4. Il primo motivo del ricorso di Giuseppe Greco deduce la violazione dell’art. 9, ultimo comma, e la erronea applicazione del primo comma del d.m. 04.04.1968 n. 1444, assumendo che la zona B/2 del P.R.G. di Villa San Giovanni identifica una zona speciale rispetto alla zona B, finalizzata alla realizzazione di “interventi per costruzioni di edilizia convenzionata e sovvenzionata”, sicché all’interno di essa doveva ritenersi consentito al Comune di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa nazionale, ai sensi dell’ultimo capoverso del citato art. 9.
Il secondo motivo di ricorso lamenta l’omesso esame e l’omessa valutazione della relazione di consulenza tecnica d’ufficio e della consulenza tecnica di parte, sempre sul punto della qualificazione della sottozona B2 del P.R.G. come “piano particolareggiato”.
Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 2043 c.c. sempre per l’erronea applicazione del terzo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, quanto alla correlata ulteriore conseguenza del risarcimento dei danni riconosciuto all’attrice.
5. I tre motivi di ricorso possono esaminarsi insieme per la loro evidente connessione e sono infondati.
5.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma 2, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass. Sez. Unite, n. 14953 del 2011; Cass. n. 8987 del 2023; n. 624 del 2021; n. 27558 del 2014).
Ne consegue che correttamente la Corte d’appello di Reggio Calabria ha concluso nel senso che l’art. 16 delle Norme tecniche di attuazione del P.R.G. e le previsioni del Regolamento edilizio del Comune di Villa San Giovanni, essendo in contrasto con le previsioni del citato art. 9, dovevano essere disapplicate dal giudice ordinario, a norma dell’art. 5, legge 20.03.1865, n. 2248, all. E.
5.2. Il ricorrente sostiene, tuttavia, che fosse integrata nella specie l’ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, la quale consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione. Ciò in quanto la costruzione era compresa nella sottozona B/2 per gli “interventi per costruzioni di edilizia convenzionata e sovvenzionata”.
5.2.1. La censura non ha fondamento.
L’art. 9, ultimo comma, del d.m. 04.04.1968 n. 1444, riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (Cass. Sez. Unite, n. 1486 del 1997).
Nel caso in esame, la Corte d’appello ha negato che si fosse in presenza di un gruppo di edifici inclusi in un medesimo piano particolareggiato, ovvero di costruzioni facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (cfr. Cass. n. 798 del 2022).
Non può seguirsi il ragionamento del ricorrente, secondo cui la previsione delle n.t.a. sarebbe comunque assimilabile alle ipotesi, aventi valida portata derogatoria, contemplate nel comma 3 dell’art. 9, d.m. n. 1444/1968, diverse essendo le norme tecniche di attuazione dei piani regolatori, le quali hanno natura regolamentare e danno luogo ad uno strumento meramente secondario e subalterno, rispetto ai piani particolareggiati ed alle lottizzazioni convenzionate, i quali danno luogo ad uno strumento urbanistico esecutivo.
Le censure poste nel ricorso incorrono in un erroneo presupposto interpretativo.
L’ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 444/1968 contempla, quale ipotesi di deroga alle distanze minime tra fabbricati, la realizzazione contestuale di "gruppi di edifici" e cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi estranea al caso in esame, in cui si è avuta la realizzazione di un unico nuovo edificio che si è inserito nel contesto di un isolato già edificato.
Il ricorrente comunque neppure ha allegato:
   a) l’esistenza di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione diretto all'attuazione dei programmi di edilizia convenzionata e sovvenzionata, avente funzione esecutiva della disciplina generale del P.R.G. e volto a garantire l'esistenza di un valido disegno urbanistico, nonché i tempi di realizzazione delle opere di urbanizzazione;
   b) l’esistenza di tavole plano-volumetriche relative ad un gruppo di edifici tra i quali sia ricompreso quello eretto.
6. Può pertanto enunciarsi il seguente principio:
agli effetti dell’art. 9, comma 3, del d.m. n. 1444 del 1968, sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi di tale norma soltanto a condizione che sia stato approvato un apposito piano particolareggiato o di lottizzazione esteso alla intera zona, finalizzato a rendere esecutive le previsioni dello strumento urbanistico generale, contenente le disposizioni planivolumetriche degli edifici previsti nella medesima zona e avente ad oggetto la realizzazione contestuale di "gruppi di edifici", e cioè di una pluralità di nuovi febbricati, rimanendo perciò estranea a tale fattispecie l’ipotesi della realizzazione di un unico nuovo fabbricato che si sia inserito nel contesto di un isolato già edificato (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 04.01.2024 n. 236).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze, se la parete non ha finestre (ma luci) non vale il rispetto del Dm 1444. Il Tar Salerno ribadisce che il parametro si rifesce solo a pareti «finestrate».
La disposizione dell’art. 9 del Dm 1444/1968 sulla distanza minima tra «pareti finestrate e pareti di edifici antistanti» si riferisce esclusivamente a pareti con aperture che si caratterizzano come finestre e non come semplici luci.

Lo ribadisce il TAR Campania-Salerno nel giudizio su una vicenda in cui la distinzione tra luce e finestra ha fatto la differenza tra l'accoglimento e il rigetto di un ricorso.
La vicenda riguarda il residente di un comune campano che ha lamentato la costruzione di un immobile a una distanza inferiore a quella stabilita dal Dm 1444.
La parete dell'immobile, tuttavia, pur non essendo completamente cieca aveva delle aperture che, a una valutazione tecnica, si caratterizzavano solo come luci e non come finestre. Le aperture sulla parete, infatti, avevano un'altezza di due metri dal pavimento e avevano delle grate.
I giudici della III Sez. del Tar fanno pertanto osservare che tali aperture non consentono né la veduta frontale, né quella obliqua e laterale, tramite affaccio. Infatti, «per la sussistenza della veduta -si ricorda nella sentenza 01.12.2023 n. 2841- è necessaria la presenza cumulativa dei requisiti della inspectio, intesa come possibilità di vedere o guardare frontalmente il fondo del vicino, e della prospectio, intesa come affaccio mediante la sporgenza del capo dall'apertura che consente di guardare anche obliquamente e lateralmente il fondo del vicino».
E dal momento che non sono previste ulteriori classificazioni diverse da luci e finestre, ne consegue, in generale e nel caso specifico, «che l'apertura priva delle caratteristiche della veduta (o del prospetto) non può che essere qualificata giuridicamente come luce» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 19.01.2024).
----------------
SENTENZA
9. Va prima di tutto disatteso il primo motivo di ricorso.
9.1. In punto di diritto è necessario ricordare che:
   - “la semplice possibilità di vedere o guardare frontalmente, che del resto è connaturata al genus “finestre o aperture”, non basta ad integrare la figura specifica della veduta; né peraltro è incompatibile con la più neutra nozione di “luce”, che, in negativo, è caratterizzata dal non permettere “di affacciarsi sul fondo del vicino”.
È  questo, di contro, il requisito tipico ed esclusivo della veduta, la quale proprio perché permette di "affacciarsi" e quindi di “guardare” non solo di fronte, ma anche “obliquamente e lateralmente”, conferisce all'apertura quella speciale attitudine visiva -consistente nell'assoggettare il fondo alieno ad una visione mobile e globale- che esula dalla semplice luce e da essa la discrimina
” (Cass. civ., Sez. Un., 28.11.1996, n. 10615, poi ribadita da quasi tutta la giurisprudenza successiva);
   - per la sussistenza della veduta è necessaria la presenza cumulativa dei requisiti della inspectio, intesa come possibilità di vedere o guardare frontalmente il fondo del vicino, e della prospectio, intesa come affaccio mediante la sporgenza del capo dall’apertura che consente di guardare anche obliquamente e lateralmente il fondo del vicino;
   - in tema di aperture sul fondo del vicino deve escludersi l'esistenza di un “tertium genus” diverso dalle luci e delle vedute; ne consegue che l'apertura priva delle caratteristiche della veduta (o del prospetto) non può che essere qualificata giuridicamente come luce (Cass. civ., Sez. II, 28.09.2007, n. 20577);
   - in tema di aperture sul fondo del vicino, non ammettendo la legge l'esistenza di un "tertium genus" oltre alle luci ed alle vedute, va valutata quale luce e, pertanto, sottoposta alle relative prescrizioni legali, anche in difetto dei requisiti a tale scopo prescritti dalla legge, l'apertura che sia priva del carattere di veduta o prospetto; in tal caso, dunque, il proprietario del fondo vicino può sempre pretenderne la regolarizzazione, tenuto conto che il possesso di luci irregolari, sprovvisto di titolo e fondato sulla mera tolleranza del vicino, non può condurre all'acquisto, per usucapione della corrispondente servitù (Cass. civ., Sez. II, 17.11.2021, n. 34824);
  - l’art. 9 del D.M. 1444/1968 fissa la distanza minima che deve intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”; tale disposizione fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate “per tali dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione, unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci”” (Consiglio di Stato, IV Sez., 05.10.2015, n. 4628);
   - ne consegue la non applicabilità dell’art. 9 predetto in punto di distanza minima in presenza di aperture da qualificare come luci (v. Consiglio di Stato, IV Sez., 05.10.2015, n. 4628, TAR Campania, Salerno, II Sez., 11.04.2022, n. 938);
   - del resto, non vi è “da parte dell’Amministrazione la necessità di procedere a un'accurata ed approfondita disanima dei rapporti tra i vicini o i condomini, rientrando la presenza di eventuali diritti ostativi o la supposta pretesa di lesioni di diritti soggettivi, quali quelli di luce e veduta, nell’ambito delle controversie tra privati, che gli stessi privati potranno difendere nelle opportune sedi, e non all’aspetto della legittimità degli atti autorizzatori dell’esercizio dello ius edificandi anche in sede di sanatoria” (TAR Puglia, Bari, III Sez., 11.02.2016, n. 162).
9.2. Ciò posto, nella vicenda oggetto di causa dalla verificazione disposta è risultato che le n. 6 aperture presenti nella facciata lato nord-ovest del fabbricato di proprietà del controinteressato -OMISSIS- (univocamente identificate nell’ambito della relazione di verificazione attraverso il ricorso a numeri arabi ed a plurime fotografie dello stato dei luoghi) non consentono l’inspectio e la prospectio nel fondo di parte ricorrente (v. pag. 11 della relazione).
Quanto alle caratteristiche concrete di tutte queste aperture nella relazione è stato indicato che tali aperture:
   - “sono munite di una inferriata metallica atta a garantire la sicurezza, costituita da elementi orizzontali, posti ad una distanza verticale di circa 10 cm l’uno dall’altro” (v. pag. 18 della relazione);
   - hanno il lato inferiore ad un’altezza non minore di due metri dal pavimento (v. pag. 18 della relazione).
In ordine poi all’altezza di queste aperture rispetto al suolo del fondo del vicino è stato evidenziato che mentre per quanto riguarda le altezze delle aperture contraddistinte dai nn. 1, 2 e 3 queste sono univocamente determinabili, lo stesso non può dirsi quanto alle altre aperture a causa della natura del suolo del fondo del vicino, trattandosi di terrapieno rispetto al quale la quota di riferimento risulta variabile, “essendo il terreno potenzialmente soggetto a compattamenti o rigonfiamenti a seconda delle stagioni e del trattamento delle colture ivi insistenti” (v. pagg. 18 e 19 della relazione).
9.3. Le risultanze della disposta verificazione vanno condivise e fatte proprie da questo Collegio, in quanto congruamente e logicamente motivate alla luce delle indagini esperite (sopralluoghi dei luoghi di causa e misurazione degli edifici coinvolti) e della documentazione esaminata.
9.4. Orbene, tanto premesso in diritto ed in fatto, ne discende che le aperture in discussione vanno qualificate come luci e non quali vedute.
Stante l’accertata natura di luci delle aperture predette è infondato il primo motivo di ricorso, in quanto non è configurabile la prospettata violazione dell’art. 9 del D.M. 1444/1968.
Va poi ritenuta priva di rilievo dinanzi al Giudice Amministrativo la natura irregolare di tutte le predette luci quanto alla non adeguatezza delle maglie, nonché quella eventualmente irregolare di tre di tali luci quanto all’altezza rispetto al suolo del fondo del vicino, trattandosi di questioni prettamente civilistiche.
Tali questioni esulano della tutela dell’interesse pubblico e dalla cognizione di questo Giudice. Rispetto ad esse, al più e sussistendone i relativi presupposti, parte ricorrente potrebbe pretendere la regolarizzazione ai sensi dell’art. 902 c.c. e dinanzi al Giudice Ordinario.

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze tra costruzioni, si è andata consolidando in giurisprudenza l'opinione secondo cui il D.M. n. 1444/1968, essendo stato emanato su delega della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies, aggiunto dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono, una volta predisposto lo strumento urbanistico locale, sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.
Pertanto in tema di distanze tra fabbricati, nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, questa inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 c.c., con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata (ove oggetto di impugnazione) o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, essendo consentita alle Amministrazioni locali solo la previsione di distanze superiori.
La nozione di distanza tra fabbricati dell'art. 10.4 delle NTA della variante del PRG del Comune, contrastando con la nozione di edifici antistanti utilizzata dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 come interpretato dalla Suprema Corte (sono stati considerati tali da Cass. 28.08.1991 n. 9207 perfino edifici che si fronteggiavano con le loro pareti solo per 82 cm) e con lo scopo di tale norma di cui dovrebbe costituire l'attuazione, non può quindi essere utilizzata per stabilire se vi sia stata violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, ma solo per verificare se vi sia stata violazione delle distanze previste dalle stesse NTA della variante del PRG del Comune.
In proposito occorre rammentare, infatti, che la distanza dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 é applicabile secondo la giurisprudenza di questa Corte a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno parallele all'edificio antistante, per cui è sufficiente, affinché se ne faccia applicazione, l'esistenza di finestre in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, anche se non diffuse sull'intera parete, ma soltanto in una parte di essa che si trovi a distanza minore di quella prescritta.
Quanto al significato del termine “distanza” usato nell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, il Consiglio di Stato, considerando la ratio di tale disposizione, volta ad impedire, come già accennato, la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e, pertanto non eludibile, ha chiarito che "la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela”.
---------------

Preliminare rispetto all'esame dei primi tre motivi del ricorso principale di Ma.Ce., deve ritenersi quello dell'unico motivo del ricorso incidentale di Zappa Gianfranco e degli eredi di Za.Gi.Ad., essendo esso volto ad ottenere il rispetto della superiore distanza di dieci metri dal confine da parte della sopraelevazione, della quale é stato ordinato dalla Corte d'Appello di Brescia l'arretramento di cinque metri che Ma.Ce. contesta.
Nel ricorso incidentale si lamenta, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, operante in virtù dell'inapplicabilità delle contrarie disposizioni degli articoli 10.4 e 17, punto 5, delle NTA della variante del PRG del Comune di Coccaglio, per avere la Corte d'Appello di Brescia rigettato la domanda principale degli originari attori di arretramento della sopraelevazione al terzo piano, realizzata da Ma.Ce. nel 2005, per violazione della distanza minima di dieci metri dalle pareti finestrate degli originari attori, stabilita dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, secondo il quale per le zone diverse dalla A (nella specie zona B di completamento) é prescritta una distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L'art. 10.4 delle NTA della variante del PRG del Comune di Coccaglio definisce la distanza tra fabbricati come “la distanza minima tra le pareti di edifici che si prospettino per uno sviluppo superiore a 3,00 metri. Due pareti si considerano prospettanti tra loro quando abbiano allineamenti paralleli o determinanti un angolo inferiore a 90°”.
L'art. 17, punto 5, delle NTA della variante del PRG del Comune di Coccaglio, relativo alle distanze dai confini nella zona B di completamento, stabilisce invece che “è ammessa la costruzione a confine nel caso di edifici a cortina continua e nel caso di edificio esistente a confine. Qualora non esistono edifici a confine è necessario l’accordo fra i confinanti. Negli altri casi D=H/2 e mai inferiore a m. 5,00”.
La Corte d'Appello di Brescia nella sentenza non definitiva, confermando la sentenza di primo grado, e basandosi sulla CTU, ha accertato in punto di fatto che nella specie “esistono ben quattro pareti che sono a due a due tra loro prospettanti in lati sud ovest, in quanto presentano allineamenti che determinano un angolo inferiore a 90 gradi, tuttavia dette pareti non si prospettano per uno sviluppo superiore a m 3. Analogamente in lato Nord, per quanto riguarda il distacco tra i fabbricati, il nuovo corpo scala B, non prospetta per uno sviluppo superiore a m 3 rispetto alla parete finestrata di proprietà degli attori”, e tale accertamento non é qui contestato, né potrebbe esserlo.
La stessa Corte d'Appello, però, sulla scorta della CTU, ha escluso che vi sia stata violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, il quale semplicemente prescrive una distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L'impugnata sentenza ha ritenuto, infatti, non integrata la violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, in quanto le pareti della porzione sopraelevata del Ma. e di quella finestrata degli originari attori non prospettano tra loro per una lunghezza superiore a tre metri, in tal modo applicando nell'interpretazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 una nozione di distanza tra fabbricati desunta dall'art. 10.4 delle NTA della variante del PRG del Comune di Coccaglio.
Per converso, l'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 parla solo di distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici “antistanti”, ossia di pareti che almeno in qualche punto prospettino tra loro, senza richiedere una lunghezza minima di tale reciproco prospetto delle pareti e senza richiedere che le pareti contrapposte siano anche parallele.
In tema di distanze tra costruzioni, si è andata consolidando in giurisprudenza, dopo l'intervento della sentenza 07.07.2011 n. 14953 delle sezioni unite civili della Corte di Cassazione, l'opinione secondo cui il D.M. n. 1444/1968, essendo stato emanato su delega della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies, aggiunto dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono, una volta predisposto lo strumento urbanistico locale, sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (vedi in tal senso Cass. 15.01.2021 n. 624; Cass. 14.11.2016 n. 23136).
Pertanto in tema di distanze tra fabbricati, nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che, come nella specie, preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, questa inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 c.c., con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata (ove oggetto di impugnazione) o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, essendo consentita alle Amministrazioni locali solo la previsione di distanze superiori (vedi Cass. n. 985/2020; Cass. n. 29732/2017; Cass. 26.07.2016 n. 15458; Cass. 11.11.2014 n. 24013; Cass. n. 741/2012; Cass. 19.11.2004 n. 21899; per la giur. amministrativa, vedi Cons. Stato n. 374/2017; Cons. Stato n. 354/2013; Cons. Stato n. 5759/2011; Cons. Stato n. 3094/2007).
La nozione di distanza tra fabbricati dell'art. 10.4 delle NTA della variante del PRG del Comune di Coccaglio, contrastando con la nozione di edifici antistanti utilizzata dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 come interpretato dalla Suprema Corte (sono stati considerati tali da Cass. 28.08.1991 n. 9207 perfino edifici che si fronteggiavano con le loro pareti solo per 82 cm) e con lo scopo di tale norma di cui dovrebbe costituire l'attuazione, non può quindi essere utilizzata per stabilire se vi sia stata violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, ma solo per verificare se vi sia stata violazione delle distanze previste dalle stesse NTA della variante del PRG del Comune di Coccaglio.
In proposito occorre rammentare, infatti, che la distanza dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 é applicabile secondo la giurisprudenza di questa Corte a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno parallele all'edificio antistante (vedi Cass. 12.12.1986 n. 7391), per cui è sufficiente, affinché se ne faccia applicazione, l'esistenza di finestre in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, anche se non diffuse sull'intera parete, ma soltanto in una parte di essa che si trovi a distanza minore di quella prescritta.
Quanto al significato del termine “distanza” usato nell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, il Consiglio di Stato, considerando la ratio di tale disposizione, volta ad impedire, come già accennato, la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e, pertanto non eludibile, ha chiarito che "la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela” (vedi Cons. Stato n. 7731/2010; Cons. Stato 05.12.2005, n. 6909) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 31.10.2023 n. 30224).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: PA: addio all’autoreferenzialità, la svolta nella Valutazione della Performance.
La Direttiva del 28 novembre sembra finalmente fare propri gli indirizzi generali di riforma delle Amministrazioni Pubbliche
La direttiva 28.11.2023 rappresenta un momento di svolta per la misurazione e valutazione della performance. Strumento ideato per migliorare l’efficienza e basare sul merito i riconoscimenti ai dipendenti, acquisendo però nella sua applicazione caratteri di autoreferenzialità. Con l’apertura alla valutazione dal “basso” e all’esterno delle PP.AA. questa tendenza può essere invertita.
Al fine di inquadrare la portata innovativa della Direttiva del 28 novembre del Ministro per la Pubblica Istruzione ripercorriamo brevemente il percorso di introduzione dello strumento di valutazione e misurazione della performance nel pubblico impiego in Italia.
La misurazione e valutazione della performance viene introdotta con il decreto legislativo n. 150/2009. Al quarto comma dell’art. 3 del suddetto decreto vengono enucleati i criteri con cui le Amministrazioni Pubbliche definiscono i metodi e gli strumenti per misurare, valutare e premiare la performance individuale ed organizzativa che devono “strettamente” tener conto “del soddisfacimento dell’interesse del destinatario dei servizi e degli interventi”.
L’introduzione di questo strumento comporta un grande passo e cambio di cultura organizzativa all’interno della Pubblica Amministrazione diversamente dal settore privato che, operando in regime di mercato concorrenziale, ha integrato totalmente queste pratiche all’interno della propria organizzazione.
Dalla sua introduzione si sono poi susseguite una serie di linee guida del Dipartimento della Funzione Pubblica per dare indicazioni operative congeniali alla creazione dei sistemi di misurazione e valutazione della performance.
Il sistema fino ad oggi introdotto ha però mancato nel suo scopo principale ovvero rendere efficiente l’azione amministrativa e basare sul merito i riconoscimenti sia economici che non economici.
Ma vediamo quali sono i fattori critici: la definizione degli obiettivi e la valutazione .
Nella definizione degli obiettivi il Dirigente fungeva da definitore unico degli stessi assegnandoli al personale sotto la sua diretta responsabilità e al contempo però rivestiva anche il ruolo di valutatore. Ne sono quindi conseguiti obiettivi generici e semplici da raggiungere per i Dirigenti stessi e per i collaboratori si è assistito ad un appiattimento delle valutazioni, in genere positive, per tutto il personale. Questa pratica ha portato quindi a considerare la misurazione e valutazione della performance come un mero adempimento formale perdendo così tutto il suo potenziale in termini di introduzione di sistemi di premialità basati sul merito e di produttività.
L’effetto, in tema di gestione delle risorse umane, risulta essere la frustrazione del personale e la mancanza di motivazione nel proprio lavoro, difficilmente recuperabile con i classici sistemi di rewarding come il riconoscimento economico che, come ampia letteratura ha dimostrato, nel caso del dipendente pubblico data la peculiarità delle sue funzioni, non ha la stessa forza motivante rispetto ad uno privato. Se l’obiettivo della performance era quello di rendere efficiente l’azione della Pubblica Amministrazione, la piega che ha preso fino ad ora si è rivelata tutt’altro che funzionale.
In questo contesto la nuova Direttiva sembra segnare un cambio di passo. All’interno vengono inclusi una molteplicità di concetti e di strumenti, risalenti a una cultura manageriale e non solamente giuridica, sintomatici di un generale ripensamento dell’organizzazione delle Amministrazioni Pubbliche.
In apertura viene prontamente disposto che “le modalità di valutazione vadano oltre, soprattutto per il personale dirigenziale, la sola valutazione effettuata dal superiore gerarchico e che coinvolgano una pluralità di soggetti, interni o esterni all’organizzazione, per arrivare gradualmente alla valutazione a 360°”.
Il coinvolgimento di altri soggetti viene poi definito in maniera più specifica indicando tra i soggetti i collaboratori, la valutazione fra pari, la valutazione collegiale e, infine, la valutazione dagli stakeholder esterni come gli utenti di quel dato servizio.
Insomma, si parla di valutazione dal basso, collegiale e partecipativa ma, nonostante quest’ultima sia stata già introdotta con il decreto legislativo n. 74/2017 con il risultato di produrre rilevazioni di customer satisfaction, a suo supporto non intervenne un vero e proprio sistema di valutazione, incentivi e reingegnerizzazione dei processi.
Altri focus degni di nota riguardano il merito e la valutazione dei comportamenti quindi la capacità di leadership dei Dirigenti.
Declinando il principio del merito la valutazione della performance si inserisce in un quadro più ampio richiedendo al Dirigente di valorizzare il capitale umano, riconoscendone punti di forza e di debolezza , assegnando obiettivi performanti e valutarli, attivando così meccanismi virtuosi alla cui base vi è il principio del merito. Lo sviluppo delle potenzialità delle risorse umane risponde alle diverse necessità delle Amministrazioni Pubbliche quali: l’aumento di attrattività, azione imprescindibile per avere tra le proprie fila le migliori professionalità e al contempo stimolarle e svilupparle attraverso la misurazione della performance individuale.
L’avvio della tanto attesa riforma sembra faccia emergere, finalmente, l’urgenza per le nostre amministrazioni di usufruire di una capacità amministrativa maggiore, in grado di fronteggiare e portare a termine le riforme relative al PNRR.
Tornando alla Direttiva e in tema di valutazione dei comportamenti si esplora, come già detto, un aspetto fino ad ora poco conosciuto e praticato: la capacità di leadership dei Dirigenti individuata “come una delle capacità fondamentali da tenere in considerazione nella valutazione della performance individuale del personale dirigenziale”. Da qui appare sempre più chiaro l’approccio manageriale non più prettamente giuridico all’organizzazione delle Pubbliche Amministrazione e utilizzo degli strumenti.
Questo indirizzo è confermato anche da altre recenti mutamenti che non attengono prettamente l’ambito della valutazione della performance ma segnano una nuova epoca per l’Amministrazione Pubblica improntata non più su adempimenti giuridici ma al raggiungimento dei risultati. Ne sono un esempio il cd. Nuovo Codice degli Appalti il cui principio guida è il raggiungimento del risultato o, ancora, le modalità di reclutamento del personale dirigenziale affidate con cadenza annuale alla SNA in cui il futuro Dirigente deve soddisfare dei requisiti sicuramente tecnici ma anche tutta una serie di competenze come il problem solving, lo sviluppo dei collaboratori, l’orientamento al risultato e la gestione delle relazioni interne ed esterne tipicamente manageriali.
In questo quadro generale la Direttiva del 28 novembre sembra finalmente fare propri gli indirizzi generali di riforma delle Amministrazioni Pubbliche. Questione da monitorare rimane ancora l’assegnazione degli obiettivi per i quali, sicuramente, andranno inseriti dei correttivi tali da invertire la rotta rispetto alla consuetudine dell’autorefenzialità della valutazione che si è diffusa (articolo NT+Diritto 19.01.2024).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro agile anche in deroga. Per i fragili cede il principio di prevalenza della presenza. Lo chiarisce la direttiva firmata dal Ministro per la p.a., Paolo Zangrillo, a fine anno.
Lavoro agile anche in deroga al principio di prevalenza del lavoro in presenza per i dipendenti della p.a. considerati “fragili”.

E' quanto chiarisce la direttiva 29.12.2023 firmata dal Ministro per la pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo (si veda ItaliaOggi del 03.01.2024).
La direttiva intende essere un rimedio alla mancata ulteriore proroga del diritto dei lavoratori fragili di essere collocati in lavoro agile, fissato da ultimo dall'articolo 8 del dl 132/2023, convertito in legge 170/2023 e scaduto il 31.12.2023.
Ma, si tratta di un rimedio solo formalmente tale. Infatti, sebbene Palazzo Vidoni caldeggi l'agevolazione del lavoro agile per i fragili, il regime normativo cambia radicalmente. Da un diritto soggettivo e pieno per i fragili allo smart working, tale da non richiedere alcun genere di accordo ma solo la verifica dell'effettiva sussistenza di una delle patologie previste, si passa, invece, ad un diritto “a contrattare” lo smart working. Una situazione non diversa, sul formale piano giuridico, rispetto a quella di ogni altro dipendente della p.a..
La direttiva non cambia lo stato delle cose. Infatti, altro non fa se non richiamare la disciplina normativa vigente, che lascia alla contrattazione collettiva la disciplina dello smart working: una disciplina impostata sulla necessità di un accordo individuale tra amministrazione datore di lavoro (e dirigente competente) e singolo dipendente.
Nella sostanza, resta rimessa alla discrezionalità piena di ciascun dirigente rilevare l'opportunità di sottoscrivere o meno un accordo col lavoratore fragile. Come massimo effetto, la direttiva costituisce una sorta di moral suasion, nonché una traccia di motivazione da poter introdurre nel Piao, ove va programmato il lavoro agile, e nei singoli accordi, per favorire la “salvaguardia dei soggetti più esposti a situazioni di rischio per la salute”.
La direttiva, indirettamente, chiude un problema aperto da molto tempo, confermando indirettamente che il principio della prevalenza non è stato affatto eliminato dalla contrattazione collettiva.
Le linee guida sul lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche del 30.11.2021 prevedono che i datori pubblici possano attivare lo smart working in presenza di una serie di condizioni abilitanti. Tra questa, vi è “l'adeguata rotazione del personale autorizzato alla prestazione di lavoro agile, assicurando comunque la prevalenza per ciascun lavoratore del lavoro in presenza”. Le medesime linee guida prevedono, però, che “con l'entrata in vigore dei nuovi Ccnl, le presenti linee guida cessano la loro efficacia per tutte le parti non compatibili con gli stessi”.
I Ccnl non prevedono espressamente la prevalenza della presenza. Ma, ciò non basta. La cedevolezza delle linee guida del novembre 2021 rispetto ai Ccnl, infatti, è condizionata alla non compatibilità della disciplina contrattuale con le linee guida medesime. Ma, perché si possa evidenziare tale incompatibilità sarebbe stato necessario che il Ccnl dettasse una regola nuova e diversa e, quindi, come tale, incompatibile con quella delle Linee Guida. I Ccnl, come detto, invece, non dicono nulla.
Al contrario, il dm Piao (decreto del ministro per la p.a. 30.06.2022, contenente il regolamento attuativo del Piao) all'articolo 4 riproduce esattamente le identiche condizioni abilitanti previste dalle linee guida: “la garanzia di un'adeguata rotazione del personale che può prestare lavoro in modalità agile, assicurando la prevalenza, per ciascun lavoratore, dell'esecuzione della prestazione lavorativa in presenza”.
E' bene notare che il dm Piao non contiene alcuna “cedevolezza” del principio di prevalenza della presenza una rispetto ad eventuali norme incompatibili poste dalla contrattazione nazionale collettiva; il dm parla di una generica “coerenza con la definizione degli istituti del lavoro agile stabiliti dalla Contrattazione collettiva nazionale”.
Però, il Piao “deve prevedere” l'applicazione del criterio della prevalenza, come indicato dall'articolo 4 del dm. Pertanto, la “coerenza” tra Piao e contrattazione collettiva pare debba riguardare gli istituti giuslavoristici trattati dal contratto, ma non quelli concernenti l'organizzazione, che, infatti, non può essere materia contrattuale.
La direttiva, nell'affermare che per i fragili si può derogare alla prevalente presenza, conferma la vigenza di tale principio per tutti gli altri lavoratori (articolo ItaliaOggi del 05.01.2024).

VARI: Congedo, indennità quasi piena. Compresa la 13ª. Escluse le voci variabili dello stipendio. I chiarimenti Inps sul trattamento nei casi di assenza straordinaria per assistere disabili.
Il congedo straordinario non taglia lo stipendio. Chi ne fruisce, infatti, ha diritto a un'indennità corrispondente all'ultima retribuzione che è precedente il congedo, relativa a tutte le voci fisse e continuative, incluso il rateo di tredicesima mensilità, nonché delle altre eventuali mensilità aggiuntive, gratifiche, indennità, premi, etc. Restano esclusi solamente gli emolumenti variabili della retribuzione, quali, ad esempio, quelli collegati alla presenza al lavoro.

Lo precisa l'Inps nel messaggio 04.01.2024 n. 30 (Oggetto: Criteri di computo del rateo della tredicesima e della quattordicesima mensilità nel calcolo dell’indennità per il congedo straordinario di cui all’articolo 42, commi 5 e seguenti, del decreto legislativo n. 151/2001, in favore dei lavoratori dipendenti del settore privato. Precisazioni), a seguito di richieste di chiarimenti in merito ai criteri di calcolo del rateo di tredicesima e di quattordicesima mensilità nell'indennità.
Il congedo straordinario
È un periodo di assenza dal lavoro, retribuito, concesso ai lavoratori dipendenti per assistere i propri familiari con disabilità grave. Si può chiedere fino a un massimo di due anni nell'arco della vita lavorativa (il limite è complessivo, fra tutti gli aventi diritto, per ogni disabile).
L'indennità è (quasi) piena
L'indennità per congedo straordinario corrisponde alla retribuzione ricevuta nell'ultimo mese di lavoro che precede il congedo, calcolata con riferimento alle voci fisse e continuative, entro un limite massimo di reddito rivalutato annualmente (si veda tabella).
L'indennità è anticipata dal datore di lavoro, che la recupera tramite conguaglio con i contributi che deve versare all'Inps. Ai sensi dell'art. 42 del dlgs n. 151 del 26.03.2001, spiega l'Inps, l'indennità è circoscritta ai soli compensi fissi e continuativi, mentre sono esclusi gli eventuali elementi variabili della retribuzione, come quelli collegati alla presenza.
La tredicesima
Riguardo all'inclusione nell'indennità della tredicesima, l'Inps precisa che il fondamento è nel decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato n. 263/1946, che riconosce ai dipendenti statali «a titolo di gratificazione, una tredicesima mensilità da corrispondersi alla data del 16 dicembre di ogni anno …».
Tale gratificazione, spiega l'Inps, nel tempo ha assunto diverse caratteristiche perché, oltre a essere emolumento fisso e ricorrente (non è più legato a fattori eventuali, quali il merito) viene corrisposta in un determinato periodo dell'anno a tutti i dipendenti pubblici e privati.
Peraltro, aggiunge l'Inps, anche la giurisprudenza (Consiglio di stato sentenza n. 658 del 02/09/1987) ha affermato che la tredicesima costituisce oggi un emolumento corrente fisso di natura non diversa dello stipendio e corrisposta a fine anno a tutti gli impiegati indipendentemente dal merito.
Di conseguenza, conclude l'Inps, durante il congedo straordinario, il richiedente ha diritto a un'indennità pari all'ultima retribuzione che precede il congedo, riferita a tutte le voci, fisse e continuative (incluso il rateo di tredicesima, nonché di altre mensilità aggiuntive, gratifiche, indennità, premi, ecc.), esclusi gli emolumenti variabili della retribuzione.
Il periodo di congedo, infine, è coperto da contributi figurativi (utili per il diritto e la misura della pensione) e valido per l'anzianità di servizio, ma non per la maturazione delle ferie (perché non c'è stato lavoro), del trattamento di fine rapporto (perché si percepisce un'indennità, non una retribuzione) e della stessa tredicesima (per evitarne un doppio incasso: prima con l'indennità e poi da lavoratori) (articolo ItaliaOggi del 05.01.2024).

PUBBLICO IMPIEGOIl portale del reclutamento scaricabile su smartphone.
InPa diventa un'app da cellulare. Il Portale del reclutamento, lo strumento introdotto durante il pieno della pandemia da Covid-19 dedicato ai concorsi pubblici e alla gestione delle assunzioni di profili professionali da parte della pubblica amministrazione, sarà fruibile direttamente su smartphone.

Ieri, il ministro della Pa Paolo Zangrillo, ha illustrato le caratteristiche della nuova applicazione, già scaricabile.
«Candidarsi per un concorso pubblico non è mai stato così semplice. Già archiviate le domande cartacee, le raccomandate e le file agli uffici postali grazie a InPa, il portale del reclutamento della pubblica amministrazione diventa anche una app mobile disponibile su Play Store e App Store», si legge sul sito del ministero.
«Una soluzione al passo con i tempi e che mette a disposizione di tutti, gratuitamente e in modo capillare, anche la conoscenza e la ricerca delle opportunità di lavoro pubblico anche attraverso lo smartphone», le parole di Zangrillo.
Come funziona. Dopo aver scaricato l'applicazione sullo smartphone, le modalità di accesso dalla pagina iniziale sono due: come ospite o come utente già registrato. Usando l'autenticazione digitale si accede all'area dedicata da cui visualizzare la mappa delle offerte. Nell'area personale è possibile vedere e candidarsi per le diverse offerte di lavoro presenti che, tramite una mappa interattiva, possono essere visualizzate regione per regione e provincia per provincia.
I numeri del portale. Dal ministero arrivano anche alcuni dati sul funzionamento di InPa.
I bandi di concorso e gli avvisi di ricerca di professionisti ed esperti pubblicati sulla piattaforma on-line sono più di 13 mila. Ad oggi, il portale raccoglie oltre 7 milioni di profili professionali, «anche in virtù delle intese firmate con il mondo delle professioni, ordinistiche e non ordinistiche, ed estende il suo perimetro di ricerca alla platea dei 16 milioni di iscritti a LinkedIn Italia», fanno sapere dal ministero.
«Un numero che, in questa fase di incremento straordinario dei reclutamenti, è destinato a crescere ancora proprio grazie alla nuova app» (articolo ItaliaOggi del 04.01.2024).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSullo smart working nella p.a. parola ai dirigenti. Zangrillo: largo agli accordi individuali per garantire il lavoro agile ai soggetti fragili.
DIRETTIVA DEL MINISTRO DOPO LA MANCATA PROROGA. I SINDACATI: UNA PEZZA A COLORI.
Per lo smart working nella p.a. la parola passa ai dirigenti. Dopo la mancata proroga del lavoro agile emergenziale per gli statali, non inserita nel testo definitivo del decreto legge Milleproroghe in Gazzetta Ufficiale (d.l. 30.12.2023 n. 215 pubblicato lo stesso giorno sulla G.U n. 303), il pubblico impiego si organizza per gestire il passaggio dallo smart working pandemico a quello a regime che ha trovato regolamentazione negli ultimi contratti collettivi (triennio 2019-2021).

A indicare la strada è la direttiva 29.12.2023 firmata dal ministro della Funzione Pubblica Paolo Zangrillo all'indomani della mancata proroga che, accusano i sindacati, pone gli statali in una condizione di sfavore rispetto ai lavoratori del settore privato a cui, invece, la legge di conversione del dl Anticipi (dl 145/2023) ha riconosciuto per lavoratori fragili e genitori di figli under 14 un allungamento del lavoro da remoto emergenziale fino al 31.03.2024.
Nella direttiva, Zangrillo osserva come l'ormai superata emergenza pandemica (dichiarata conclusa dall'Organizzazione mondiale della sanità il 05.05.2023) abbia decretato il passaggio dello smart working da strumento emergenziale alla “sua reale natura di strumento organizzativo” che per forza di cose non può prescindere, per ciascun lavoratore, da un accordo individuale, sottoscritto con il dirigente/capo struttura, in cui mettere nero su bianco “obiettivi e modalità ad personam dello svolgimento della prestazione lavorativa”.
Il quadro odierno, connotato da una disciplina contrattuale collettiva ormai consolidata e dalla padronanza, da parte delle amministrazioni, dello strumento del lavoro agile come volano di flessibilità orientato alla produttività ed alle esigenze dei lavoratori”, ha spiegato il ministro, “ha fatto ritenere superata l'esigenza di prorogare ulteriormente i termini di legge che stabilivano l'obbligatorietà del lavoro agile per i lavoratori che solo nel contesto pandemico sono stati individuati quali destinatari di una specifica tutela”.
Il riferimento è ai genitori di figli under 14, a cui lo smart working emergenziale consentiva durante la pandemia “di poter sopperire alla necessaria e temporanea chiusura degli asili e delle istituzioni scolastiche”, e ai lavoratori “fragili”, per i quali è stato previsto lo svolgimento obbligatorio della prestazione lavorativa da remoto. Ora tutto si azzera, ma, ha chiarito palazzo Vidoni, la tutela dei fragili nella p.a. non deve certo considerarsi cessata con la mancata proroga dello smart working.
Si ritiene necessario evidenziare la necessità di garantire, ai lavoratori che documentino gravi, urgenti e non altrimenti conciliabili situazioni di salute, personali e familiari, di svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile, anche derogando al criterio della prevalenza dello svolgimento della prestazione lavorativa in presenza”, si legge nella direttiva che affida, dunque, agli accordi individuali e ai dirigenti che dovranno firmarli il compito di “individuare le misure organizzative necessarie”.
Sindacati insoddisfatti
La direttiva di Zangrillo non soddisfa però i sindacati. “E' vergognosa la pezza a colori messa dal governo con questa direttiva”, tuona Rita Longobardi, Segretario Nazionale Uil Fpl. “La tutela della salute va garantita a tutti gli individui senza distinzioni. Gli approcci differenziati definiscono di fatto discriminazioni tra lavoratori di serie A nel privato, rispetto a quelli di serie B, nel pubblico impiego. Il diritto alla salute è unico e non si può contrattare o lasciare alla discrezionalità dei singoli datori di lavoro
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2024).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Sui requisiti legittimanti l'adozione dell'ordinanza sindacale contingibile e urgente.
In punto di diritto, occorre rammentare che l'art. 54 (Attribuzioni del Sindaco nelle funzioni di competenza statale), comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 prevede che: "Il Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire o di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana".
Spetta, quindi, al Sindaco valutare l'esistenza di una situazione di grave pericolo, vale a dire il rischio concreto di un danno grave e imminente per l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana; la valutazione, di carattere eminentemente tecnico, va compiuta sulla base di pareri acquisiti ed accertamenti tecnico-scientifici effettuati in sede istruttoria, di cui si deve dar conto nella motivazione del provvedimento.
Invero, "il potere di ordinanza, inoltre, presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale".
L'esito di tali accertamenti tecnico-scientifici deve condurre con sufficiente grado di attendibilità a ravvisare come sussistente un nesso causale tra la situazione fattuale come riscontrata e una possibile lesione della pubblica incolumità, non potendosi richiedere, per l'urgenza che connota il momento, che si pervenga ad un giudizio di certezza della derivazione causale degli eventi.
Secondo costante giurisprudenza, le ordinanze contingibili e urgenti sono, invero, rivolte alla disciplina del caso concreto e sono connotate da atipicità: la fonte primaria non disciplina in maniera specifica né i presupposti di applicazione di tali provvedimenti, facendosi riferimento genericamente alla necessità, urgenza e contingibilità, la cui individuazione concreta compete all'autorità amministrativa deputata, né tanto meno il contenuto, che può estrinsecarsi in una serie di provvedimenti che si rivelino idonei a fronteggiare quella determinata situazione.
È indubbio, tuttavia, che il fondamento del potere di ordinanza debba comunque essere identificato nella legge, non potendo esso risiedere nella necessità in sé. Le ordinanze di necessità e urgenza, quali espressione di un potere amministrativo extra ordinem, volto a fronteggiare situazioni di urgente necessità, laddove all'uopo si rivelino inutili gli strumenti ordinari posti a disposizione dal legislatore, presuppongono necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da un'istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, tali da giustificare la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi.
Sul tema, la giurisprudenza ha unanimemente osservato che "i presupposti per l'adozione dell'ordinanza contingibile e urgente risiedono
   - nella sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché
   - nella provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti,
   - nella proporzionalità del provvedimento,
non essendo pertanto possibile adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità".
In altri termini, "il potere di urgenza, di cui agli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 18.08.2000, può essere esercitato solo rispetto a circostanze di carattere eccezionale e imprevisto, costituenti un'effettiva minaccia per la pubblica incolumità, e unicamente in presenza di un preventivo accertamento delle condizioni concrete, fondato su prove empiriche e non su mere presunzioni. Tali presupposti non ricorrono laddove il Sindaco possa far fronte alla situazione con rimedi di carattere corrente nell'esercizio ordinario dei suoi poteri".
In linea di principio, le ordinanze contingibili e urgenti possono quindi essere adottate al ricorrere di due presupposti: l'inutilizzabilità di mezzi ordinari di intervento e la necessità di contrastare una minaccia per l'incolumità pubblica o la sicurezza urbana.
Si osserva che, ai sensi della citata previsione, anche il riscontro di uno stato dei luoghi che potrebbe divenire potenzialmente pericoloso per l'incolumità pubblica può legittimare il ricorso al potere extra ordinem da parte del Sindaco, non essendo necessario attendere l'attualizzarsi della minaccia.
Difatti, la potenzialità di un pericolo grave per l'incolumità pubblica è sufficiente a giustificare il ricorso all'ordinanza contingibile e urgente, anche qualora essa sia nota da tempo o "si protragga per un lungo periodo senza cagionare il fatto temuto, posto che il ritardo nell'agire potrebbe sempre aggravare la situazione, nonché persino allorquando il pericolo stesso non sia imminente, sussistendo, comunque, una ragionevole probabilità che possa divenirlo, ove non si intervenga prontamente in seguito al riscontrato deterioramento dello stato dei luoghi".
Le misure adottate devono, infine, garantire il corretto bilanciamento degli interessi che vengono in rilievo ed essere rispettose del principio di proporzionalità e risultare coerenti con il livello di attendibilità del giudizio causale e, dall’altro, non eccedere quanto sia opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato.
---------------
Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente non può essere impiegato per conferire un assetto stabile e definitivo agli interessi coinvolti, essendo quindi compito dell’amministrazione individuare nel tempo soluzioni che consentano l’eliminazione delle cause che avevano determinato l’evento franoso in questione, ripristinando le condizioni di sicurezza.
---------------

... per l'annullamento dell'ordinanza contingibile e urgente del Sindaco del Comune di Capri n. 52 del 31.08.2020, avente a oggetto: “evento franoso in via Grotta delle Felci del 12.08.2020. Provvedimento a tutela della pubblica incolumità – sgombero immediato immobili in via Grotta delle Felci e in via Prov. Marina Piccola” e di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale e in ogni caso lesivo degli interessi dei ricorrenti.
...
Il ricorso è fondato.
In punto di diritto, occorre rammentare che l'art. 54 (Attribuzioni del Sindaco nelle funzioni di competenza statale), comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 prevede che: "Il Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire o di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana".
Spetta, quindi, al Sindaco valutare l'esistenza di una situazione di grave pericolo, vale a dire il rischio concreto di un danno grave e imminente per l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana; la valutazione, di carattere eminentemente tecnico, va compiuta sulla base di pareri acquisiti ed accertamenti tecnico-scientifici effettuati in sede istruttoria, di cui si deve dar conto nella motivazione del provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. V, 02.10.2020 n. 5780; V, 29.05.2019 n. 3580, secondo cui: "il potere di ordinanza, inoltre, presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale"; cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 21.02.2017 n. 774; 22.03.2016 n. 1189; 25.05.2015 n. 2967; 05.09.2015 n. 4499).
L'esito di tali accertamenti tecnico-scientifici deve condurre con sufficiente grado di attendibilità a ravvisare come sussistente un nesso causale tra la situazione fattuale come riscontrata e una possibile lesione della pubblica incolumità, non potendosi richiedere, per l'urgenza che connota il momento, che si pervenga ad un giudizio di certezza della derivazione causale degli eventi.
Secondo costante giurisprudenza, le ordinanze contingibili e urgenti sono, invero, rivolte alla disciplina del caso concreto e sono connotate da atipicità: la fonte primaria non disciplina in maniera specifica né i presupposti di applicazione di tali provvedimenti, facendosi riferimento genericamente alla necessità, urgenza e contingibilità, la cui individuazione concreta compete all'autorità amministrativa deputata, né tanto meno il contenuto, che può estrinsecarsi in una serie di provvedimenti che si rivelino idonei a fronteggiare quella determinata situazione.
È indubbio, tuttavia, che il fondamento del potere di ordinanza debba comunque essere identificato nella legge, non potendo esso risiedere nella necessità in sé. Le ordinanze di necessità e urgenza, quali espressione di un potere amministrativo extra ordinem, volto a fronteggiare situazioni di urgente necessità, laddove all'uopo si rivelino inutili gli strumenti ordinari posti a disposizione dal legislatore, presuppongono necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da un'istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, tali da giustificare la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi.
Sul tema, la giurisprudenza ha unanimemente osservato che "i presupposti per l'adozione dell'ordinanza contingibile e urgente risiedono nella sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché nella provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità del provvedimento, non essendo pertanto possibile adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità" (cfr. Cons. Stato, II, 11.07.2020, n. 4474; conforme, III, 29.05.2015, n. 2697).
In altri termini, "il potere di urgenza, di cui agli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 18.08.2000, può essere esercitato solo rispetto a circostanze di carattere eccezionale e imprevisto, costituenti un'effettiva minaccia per la pubblica incolumità, e unicamente in presenza di un preventivo accertamento delle condizioni concrete, fondato su prove empiriche e non su mere presunzioni. Tali presupposti non ricorrono laddove il Sindaco possa far fronte alla situazione con rimedi di carattere corrente nell'esercizio ordinario dei suoi poteri (si veda, sul punto, Cons. Stato, II, 11.07.2020, n. 4474)" (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 9846/2022).
In linea di principio, le ordinanze contingibili e urgenti possono quindi essere adottate al ricorrere di due presupposti: l'inutilizzabilità di mezzi ordinari di intervento e la necessità di contrastare una minaccia per l'incolumità pubblica o la sicurezza urbana.
Si osserva che, ai sensi della citata previsione, anche il riscontro di uno stato dei luoghi che potrebbe divenire potenzialmente pericoloso per l'incolumità pubblica può legittimare il ricorso al potere extra ordinem da parte del Sindaco, non essendo necessario attendere l'attualizzarsi della minaccia. Difatti, la potenzialità di un pericolo grave per l'incolumità pubblica è sufficiente a giustificare il ricorso all'ordinanza contingibile e urgente, anche qualora essa sia nota da tempo o "si protragga per un lungo periodo senza cagionare il fatto temuto, posto che il ritardo nell'agire potrebbe sempre aggravare la situazione, nonché persino allorquando il pericolo stesso non sia imminente, sussistendo, comunque, una ragionevole probabilità che possa divenirlo, ove non si intervenga prontamente in seguito al riscontrato deterioramento dello stato dei luoghi" (TAR Lazio, Roma, n. 5237/2019).
Le misure adottate devono, infine, garantire il corretto bilanciamento degli interessi che vengono in rilievo ed essere rispettose del principio di proporzionalità (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 7366/2021) e risultare coerenti con il livello di attendibilità del giudizio causale e, dall’altro, non eccedere quanto sia opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato.
Nel caso di specie, dalla mera lettura dell’ordinanza sindacale emerge chiaramente che la situazione incisa dai provvedimenti si protrae da anni ed era perciò perfettamente nota all'amministrazione (che fa riferimento alla conformazione geomorfologica dei luoghi), la quale dunque ben avrebbe potuto -e perciò dovuto- farvi fronte con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento.
Nel caso in esame, il Comune non ha valutato che la risalenza della condizione di pericolo e le origini della sua causazione, come descritte nel medesimo provvedimento impugnato (che riporta l’esito di accertamenti svolti fin dal 2007 dal Centro di Geotecnologie dell’Università degli Studi di Siena, su incarico dell’Autorità di Bacino Regionale circa l’esistenza di un livello di instabilità dell’intero versante e la necessità di procedere ad interventi di mitigazione del rischio con opere di bonifica e di difesa), non avrebbero giustificato l'emanazione di un'ordinanza contingibile e urgente, inidonea, per quanto sopra detto, ad incidere sulle cause del dissesto, ma avrebbero imposto invece, interventi ben più incisivi, estesi e conclusivi, a carico soprattutto degli enti pubblici interessati, questioni, queste ultime, che ridondano sul piano della stretta necessità, proporzionalità ed adeguatezza della misura imposta.
In altri termini, il Comune non ha dato conto delle ragioni per le quali, pur a fronte di un fenomeno noto e monitorato, risalente a diversi anni addietro e per il quale erano state svolte attività di rilevamento geologico, geomorfologico, geostrutturale e geomeccanico (cfr. ordinanza impugnata) che attestavano le condizioni di rischio per la pubblica incolumità, abbia insistito con lo strumento extra ordinem.
Si palesa, quindi, ingiustificata la protrazione dello strumento extra ordinem che, nella prospettazione dell’amministrazione, andava disposta “nelle more della definizione della problematica mediante la definitiva messa in sicurezza del costone di cui trattasi”, a sua volta avviata dalle amministrazioni nel 2007 e mai conclusa.
Concludendo, sebbene sia innegabile che lo stato emergenziale nelle cui more è intervenuta l’ordinanza sindacale de qua facoltizzava l'emanazione di atti extra ordinem al fine di scongiurare il pericolo per l’incolumità pubblica derivante dal ripetersi degli eventi franosi, l'ente locale non poteva esimersi dalla concreta adozione delle necessarie opere di messa in sicurezza del costone roccioso intervenendo sulla mitigazione e rimozione delle cause della situazione di rischio, anziché limitarsi a reiterare il contenuto di provvedimenti extra ordinem adottati più di dieci anni prima.
Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, infatti, l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente non può essere impiegato per conferire un assetto stabile e definitivo agli interessi coinvolti (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 6875/2021), essendo quindi compito dell’amministrazione individuare nel tempo soluzioni che consentano l’eliminazione delle cause che avevano determinato l’evento franoso in questione, ripristinando le condizioni di sicurezza.
Ritenuto, in definitiva, che le sopraindicate evidenze inficino la legittimità dell'ordinanza contingibile e urgente così come emanata dal Comune, deve concludersi per la fondatezza del gravame, con il conseguente annullamento della impugnata ordinanza, fatti salvi i successivi provvedimenti dell'amministrazione comunale, restando quest’ultima obbligata a porre in essere i provvedimenti di sua competenza per l'eliminazione del rischio diffuso e accertato (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 18.01.2024 n. 487 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Corte Ue, illegittimo lo stop alla monetizzazione delle ferie nella Pa. Le esigenze di finanza pubblica non possono travolgere alcuni diritti dei lavoratori.
Le esigenze di finanza pubblica non possono travolgere alcuni diritti dei lavoratori, come l’indennità sostitutiva per ferie non godute.

Con l’affermazione di questo principio, la Corte di giustizia europea (sentenza 18.01.2024 - C-218/22) chiude una vicenda che interessa direttamente il nostro Paese, in quanto relativa a oggetto una norma italiana.
La questione nasce dalla controversia promossa da un ex dipendente comunale che, nel 2016, si è dimesso ed è andato in pensione.
Al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ha chiesto al Comune presso cui lavorava il pagamento di 79 giorni di ferie accumulati e non goduti. Il Comune ha respinto la richiesta, invocando l'articolo 5 del Dl 95/2012. Tale normativa, ispirata a esigenze di contenimento della spesa pubblica, nega il diritto al pagamento di un'indennità finanziaria in luogo dei giorni non goduti di ferie annuali retribuite, quando finisce il rapporto di lavoro nel settore pubblico (analogo principio non esiste nel lavoro privato dove l'indennità è dovuta, salvo i casi in cui la mancata fruizione delle ferie sia ascrivibile a esclusiva responsabilità del dipendente).
Il giudice chiamato a decidere la controversia in Italia non era, tuttavia, convinto della compatibilità di questa norma con il diritto comunitario, tanto che ha rinviato la questione della Corte di giustizia.
Il profilo su cui è stato sollevato il dubbio riguarda, in particolare, la compatibilità della legislazione italiana con la direttiva comunitaria 2003/1988 sull'orario di lavoro, secondo la quale un lavoratore che non abbia potuto fruire di tutte le ferie annuali retribuite prima della cessazione del rapporto ha diritto a un'indennità finanziaria per i giorni non goduti; una direttiva che non sembra fare eccezioni tra settore pubblico e privato, su questo tema.
Il dubbio del giudice italiano è confermato dalla Corte Ue, che ha dichiarato l'incompatibilità con il diritto comunitario di una normativa nazionale che vieta di versare al dipendente un'indennità finanziaria per i giorni non goduti di ferie annuali retribuite qualora tale dipendente ponga fine volontariamente al rapporto di lavoro.
Questo contrasto, precisa la Corte, non si può giustificate con considerazioni puramente economiche, quali il contenimento della spesa pubblica, perché la direttiva sull'orario di lavoro ha lo scopo di tutelare il diritto dei lavoratori alle ferie annuali retribuite (di cui fa parte anche il diritto al pagamento di un'indennità finanziaria, quando non sia stato possibile fruirle). La direttiva tutela, sempre secondo la Corte, il diritto-dovere del lavoratore di riposarsi e, in questa prospettiva, lo incentiva a fruire dei suoi giorni di ferie: questo diritto deve essere attuato anche dal datore di lavoro pubblico, che deve programmare in modo razionale e coerente con le proprie esigenze organizzative la fruizione delle ferie.
Pertanto, conclude la Corte, il diritto al pagamento dell'indennità sostitutiva delle ferie si può escludere solo nel caso in cui il lavoratore si sia astenuto dal fruire dei suoi giorni di ferie deliberatamente. Astensione che deve seguire a un esplicito invito del datore di lavoro, accompagnato dall'informativa circa il rischio di perdere tali giorni alla fine di un periodo predefinito.
La Corte rinvia quindi al giudice nazionale il compito di fare verifica: se il Comune non dimostra di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore fosse effettivamente in condizione di fruire dei giorni di ferie annuali ai quali aveva diritto, dovrà essere pagata l'indennità economica sostitutiva dei giorni non goduti.
Nella decisione C-218/2022 si fa riferimento alla sentenza 95/2016 della Corte costituzionale, relativa al Dl 95/2012 e quest'ultima a sua volta richiama la sentenza 286/2013 della Consulta stessa, in cui si legge che nella prassi amministrativa si è imposta un'interpretazione volta ad escludere dalla sfera di applicazione del divieto posto dall'articolo 5 del Dl 95/2012 «i casi di cessazione dal servizio in cui l'impossibilità di fruire le ferie non è imputabile o riconducibile al dipendente» (parere 40033/2012 del Dipartimento della funzione pubblica). Ma a quanto pare tale interpretazione non è diventata la regola (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 19.01.2024).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:
  
L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 04.11.2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di versare al lavoratore un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite maturati sia nell’ultimo anno di impiego sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto di lavoro e non abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La Pa non può negare l’indennizzo per le ferie non godute per i limiti di spesa pubblica. Anche in caso di dimissioni volontarie il diritto può essere escluso solo se il datore di lavoro pubblico dimostra di aver sollecitato la fruizione e informato delle conseguenze il lavoratore.
In caso di dimissioni volontarie del dipendente la pubblica amministrazione non può negare validamente, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica, l’indennità finanziaria corrrispondente ai giorni di ferie annuali retribuite non godute sia nell’ultimo anno che in quelli precedenti. Ma a tal fine la il datore pubblico può dimostrare di aver informato compiutamente il lavoratore del rischio di perdere tale diritto. Non è quindi legittima, in base al diritto Ue, la legge italiana dove non prevede alcun obbligo informativo della Pa e la prova che la mancata fruizione sia frutto di una scelta volontaria del dipendente correttamente informato della conseeguenza di perdere l’indennità.

Con la sentenza 18.01.2024 - C-218/22 la Corte di giustizia Ue ha invece capovolto l’onere probatorio che può legittimamente escludere il diritto all’indennità ponendolo a carico del datore di lavoro pubblico che dovrà dimostrare di aver adottato tutta la necessaria diligenza nell’informare e sollecitare il lavoratore alla corretta fruizione delle ferie annuali rappresentando il rischio di una perdita secca del diritto a causa della possibile mancata indennizzazione.
Infatti, in base alle norme Ue il lavoratore che non abbia potuto fruire di tutti i giorni di ferie annuali retribuite prima delle dimissioni ha diritto a un’indennità finanziaria.
Il caso a quo italiano
Un dipendente pubblico ha ricoperto, da febbraio 1992 a ottobre 2016, la carica di istruttore direttivo presso un Comune. Ha poi rassegnato le dimissioni per accedere alla pensione anticipata, chiedendo il versamento di un’indennità finanziaria per i 79 giorni di ferie annuali retribuite non goduti nel corso del rapporto di lavoro.
Il Comune, richiamandosi alla norma prevista dalla legislazione italiana secondo la quale i lavoratori del settore pubblico non hanno in “nessun” caso diritto a un’indennità finanziaria in luogo dei giorni di ferie annuali retribuite non goduti al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ha contestato tale domanda.
Il rinvio pregiudiziale
Il giudice italiano investito della controversia tra il dipendente pubblico e il Comune ha sottoposto alla Cgue i propri dubbi sulla compatibilità di tale norma con il diritto dell’Unione, in quanto la direttiva «orario di lavoro» afferma il diritto del lavoratore, che abbia accumulato ferie annuali retribuite non fruite al momento della cessazione del rapporto di lavoro, a ricevere un’indennità finanziaria per tali giorni.
L’interpretazione della Cgue
La Corte Ue ha di fatto confermato che il diritto dell’Unione osta a una normativa nazionale che vieti di versare al lavoratore la suddetta indennità nel caso in cui egli ponga fine volontariamente al rapporto di lavoro.
A giustificare una siffatta normativa non basta la finalità del contenimento della spesa pubblica asseritamente perseguito dal Legislatore nazionale. Cioè il diritto riconosciuto dall’Unione europea non può essere compresso e negato in base a considerazioni puramente economiche. La Corte anzi rileva che l’obiettivo connesso alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico per la razionale programmazione del periodo di ferie risponde in realtà alla finalità della direttiva, consistente nel consentire al lavoratore di riposarsi, incentivandolo così a fruire dei suoi giorni di ferie.
La Corte conclude pertanto che solo nel caso in cui il lavoratore si sia astenuto dal fruire dei suoi giorni di ferie deliberatamente, sebbene il datore di lavoro lo abbia invitato a farlo, informandolo del rischio di perdere tali giorni alla fine di un periodo di riferimento o di riporto autorizzato, il diritto dell’Unione non osta alla perdita di tale diritto.
Ne consegue che, qualora il datore di lavoro non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore fosse effettivamente in condizione di fruire dei giorni di ferie annuali retribuite ai quali aveva diritto, circostanza la cui verifica spetta al giudice del rinvio, si deve ritenere che l’estinzione del diritto a tali ferie alla fine del periodo di riferimento o di riporto autorizzato e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il correlato mancato versamento di un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti costituiscano una violazione, rispettivamente, dell’articolo 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2003/88, nonché dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (articolo NT+Diritto del 18.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: In riscontro alla censura per cui “da parte del Comune avrebbe dovuto essere accertata la possibilità di assentire in sanatoria quanto si assume realizzato sine titulo”, la giurisprudenza ha puntualmente osservato che l’amministrazione non è tenuta a valutare d’ufficio la sanabilità dell’opera prima dell’adozione dell’ordine di demolizione.
Peraltro, la presentazione di un’istanza di sanatoria non determina né l’illegittimità né l’inefficacia definitiva del pregresso ordine di demolizione, ma una mera sospensione dell’efficacia temporanea che viene meno in caso di rigetto dell’istanza.
E’ stato, infatti, superato il più risalente indirizzo giurisprudenziale che, sul presupposto dell’inefficacia definitiva della precedente ordinanza determinata dall’istanza di sanatoria, imponeva all’amministrazione, in caso di diniego di sanatoria, l’adozione di una nuova ordinanza di demolizione.
---------------

9.2 Le censure sono prive di fondamento.
9.3 Contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il giudice di primo grado non è incorso in alcun travisamento dei motivi di ricorso, ritenendo erroneamente che essi sottendessero un preteso avvio d’ufficio del procedimento di sanatoria, ma li ha correttamente esaminati e respinti sulla base della documentazione in atti.
9.4 Con il ricorso di primo grado, infatti, il ricorrente ha lamentato l’illegittimità dell’ordinanza impugnata con riferimento non solo al soppalco (terzo motivo di ricorso) che è stato oggetto della sanatoria n. 29/08, ma anche agli interventi contestati ai n.ri 2, 3, 4 dell’ordinanza medesima (quarto motivo di ricorso) per i quali, invece, l’istanza di sanatoria è stata respinta.
9.5 Si legge, in particolare, nel quarto motivo di ricorso che “Quanto ai manufatti indicati sub 2), 3) e 4) dell'ordinanza n. 23 del 15.06.2005, non solo a quello sub 1, è da evidenziare che, prima di ingiungersi la demolizione, avrebbe dovuto essere accertata la possibilità di assentire in sanatoria quanto si assume realizzato sine titulo. Tale accertamento è illegittimamente mancato nel caso di specie, accertamento che se compiuto avrebbe dato esito positivo. Quanto al soppalco di cui al punto 1) è da aggiungere che il ricorrente, con istanza in data 22.09.2005, ha presentato denunzia delle opere eseguite ed accertamento di conformità delle stesse ai sensi dell'art. 36 D.P.R. 380/2001”.
9.6 Il TAR, nell’esaminare il motivo di ricorso, ha respinto la censura rilevando che “non può ritenersi, come fa il ricorrente, che il Comune avrebbe dovuto accertarsi, prima di procedere alla demolizione, della possibilità di assentire in sanatoria i manufatti indicati ai punti n. 2), 3) e 4) dell’ordinanza impugnata ….e ciò in quanto il procedimento di conformazione edilizia presuppone l’istanza dell’interessato e non può essere attivato d’ufficio….; nella specie, peraltro, l’istanza di sanatoria risulta presentata in data 30 settembre 2005, ovvero dopo che il Comune aveva già emesso l’ingiunzione alla demolizione”.
9.7 La semplice lettura del capo di motivazione sopra riportato evidenzia l’infondatezza della censura relativa all’errata interpretazione del motivo di ricorso da parte del giudice di primo grado e all’omessa considerazione delle istanze di sanatoria presentate dal ricorrente.
9.8 In riscontro alla censura per cui “avrebbe dovuto essere accertata la possibilità di assentire in sanatoria quanto si assume realizzato sine titulo”, il TAR ha puntualmente osservato che l’amministrazione non è tenuta a valutare d’ufficio la sanabilità dell’opera prima dell’adozione dell’ordine di demolizione e ha precisato che l’istanza di sanatoria per le opere di cui ai punti 2), 3) e 4) dell’ordinanza è stata presentata dall’interessato in data 30.09.2005, ovvero dopo l’emissione dell’ingiunzione alla demolizione, circostanza evidentemente ostativa al suo esame prima della suddetta emissione, come preteso dall’appellante.
9.9 Sotto diverso e concorrente profilo giova osservare, peraltro, che la presentazione di un’istanza di sanatoria non determina né l’illegittimità né l’inefficacia definitiva del pregresso ordine di demolizione, ma una mera sospensione dell’efficacia temporanea che viene meno in caso di rigetto dell’istanza (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.06.2018, n. 3417; Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5669; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.09.2022, n. 8320), come accaduto nel caso di specie in cui l’istanza di sanatoria del 30.09.2005 per le opere indicate ai punti n. 2), 3) e 4) dell’ordinanza n. 23/05 è stata respinta con provvedimento definitivo prot. n. 14803 del 06.11.2008 (doc. 3 allegato alla relazione istruttoria del comune).
9.10 E’ stato, infatti, superato il più risalente indirizzo giurisprudenziale invocato dall’appellante (pag. 9 dell’appello) che, sul presupposto dell’inefficacia definitiva della precedente ordinanza determinata dall’istanza di sanatoria, imponeva all’amministrazione, in caso di diniego di sanatoria, l’adozione di una nuova ordinanza di demolizione (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 12.01.2024 n. 401 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Offerte tecniche identiche: esclusione per unicità del centro decisionale.
Nota a Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.01.2024 n. 353.
La disposizione che prevede l’esclusione dei concorrenti al verificarsi della fattispecie di unicità del centro decisionale, mira a tutelare il principio della segretezza delle offerte presentate in gara (e dunque del divieto di reciproco condizionamento).
La stazione appaltante è tenuta a verificare la sussistenza di tale fattispecie senza però dover anche dimostrare la concreta idoneità ad alterare il libero gioco concorrenziale ciò, in quanto, la riconducibilità di due o più offerte a un unico centro decisionale costituisce ex se elemento idoneo a violare i generali principi in tema di par condicio, segretezza e trasparenza delle offerte.
Tale fattispecie va dimostrata su due piani: il piano formale, attraverso una analisi strutturale delle relazioni societarie o personali intercorrenti tra due o più operatori; il piano sostanziale, sussidiario al primo, attraverso un attento confronto contenutistico tra due (o più) offerte presentate dagli operatori in gara.
I fatti di causa
La vicenda nasce a seguito di una gara di appalto per la sistemazione e il ripristino di un torrente.
Partecipava all’appalto una società che veniva tuttavia esclusa sia per mancata presentazione di alcuni documenti (Organizzazione del personale e progetto migliorie) sia perché aveva formulato un’offerta tecnica del tutto sovrapponibile rispetto alle altre due offerte presentate da altre due società.
Di qui l’ipotesi di sostanziale unicità del centro decisionale che per l’appunto, ai sensi dell’art. 80 del decreto legislativo n. 50 del 2016 (c.d. vecchio codice dei contratti pubblici), comporta l’esclusione dalla gara.
La Stazione appaltante procedeva con rituale comunicazione ad ANAC di siffatta esclusione.
Avverso tale provvedimento veniva proposto ricorso innanzi al TAR, in quanto, a detta della ricorrente, lo stesso sarebbe stato viziato da incompetenza poiché disposto dal RUP senza che fosse stata previamente nominata la commissione di gara generando così una sorta di avocazione delle competenze “valutative” riservate alla sola commissione giudicatrice. Inoltre, la stazione appaltante non ha inteso sanare la carenza documentale rilevata non attivando il “soccorso istruttorio procedimentale”.
Il TAR respingeva il ricorso e la società, pertanto, proponeva appello.
La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato ritiene infondato l’appello per le ragioni di seguito indicate.
Difatti, a detta del Collegio, avendo riguardo a quanto previsto dal disciplinare di gara, appare chiara la distinzione tra i compiti del “soggetto deputato all’espletamento della gara” (ossia il RUP) e la commissione di gara. Mentre quest’ultima è chiamata ad esprimere un giudizio su aspetti tipicamente tecnico-discrezionali, il primo è tenuto ad operare scelte di carattere più vincolato ossia ad adottare talune decisioni allorché ne ricorrano i presupposti (tra le tante: esclusione dei concorrenti).
Pertanto, non bisogna confondere i due piani: l’esame dell’offerta tecnica e la valutazione della stessa. La prima, infatti, non necessariamente comprende la seconda.
Viepiù che, nel caso di specie, gli elementi che inducono a ritenere l’unicità del centro decisionale si possono ricavare ictu oculi e, dunque, anche a seguito del mero esame dell’offerta tecnica.
A sostegno di tali affermazioni il Collegio rimanda alla numerosa giurisprudenza sul punto la quale afferma che: “per regola generale (art. 80, comma 5, del D.Lgs. n. 50 del 2016), il provvedimento di esclusione dalla gara è di pertinenza della stazione appaltante, e non già dell’organo straordinario-Commissione giudicatrice" (cfr. ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, 12.02.2020 n. 1104).
Nel caso di specie l’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche è stata effettuata dal RUP che ha provveduto con il mero esame di rispondenza rispetto a quanto prescritto ai fini della loro mera ammissibilità per la successiva valutazione da parte della commissione giudicatrice.
L’ammissibilità è stata da subito esclusa posto che, la riscontrata identità (rectius sovrapponibilità) tra le offerte presentate ha fatto emergere indizi gravi, precisi e concordanti circa la presenza dell’unicità del centro decisionale e la conseguente applicazione della sanzione espulsiva.
Alla luce di quanto concretamente avvenuto il Collegio ha ritenuto legittimo l’operato del RUP in quanto “attesa la esclusione dalla gara di tutte le imprese che avevano chiesto di partecipare” si è verificata la “sopravvenuta inutilità di nominare la commissione giudicatrice”.
Per quanto concerne, invece, la mancata attivazione del soccorso istruttorio procedimentale, precisa il Collegio che tale censura è da ritenere inammissibile, in quanto, posto che la determinazione di esclusione è atto plurimotivato che si basa, fra le tante, soprattutto, sulla rilevata unicità del centro decisionale, anche a voler ritenere fondata tale censura, la stessa non sarebbe di per sé idonea e sufficiente ad intaccare il provvedimento (per una più ampia disamina sull’atto plurimotivato si veda Cons. Stato, sez. IV, 16.11.2023, n. 9849).
La Sezione procede, infine, ad esaminare il cuore del ricorso ovvero la tematica dell’unicità del centro decisionale.
Richiamando copiosa giurisprudenza sul punto, i giudici affermano che la ratio della disposizione in esame è quella di tutela del principio della segretezza delle offerte presentate in gara.
La sussistenza di una posizione di controllo societario ai sensi dell’articolo 2359 Cod. civ., ovvero la sussistenza di una più generica “relazione, anche di fatto” fra due concorrenti è condizione necessaria, ma non anche sufficiente, perché si possa inferire il reciproco condizionamento fra le offerte formulate.
A tal fine, come prescritto dalla Corte di Giustizia (Corte di Giustizia della Comunità europea, 19.05.2009, in causa C-538/07), è necessario che venga fornita adeguata prova.
Tale prova, tuttavia, riguarda la sola “unicità del centro decisionale e non anche la concreta idoneità ad alterare il libero gioco concorrenziale. Ciò, in quanto la riconducibilità di due o più offerte a un unico centro decisionale costituisce ex se elemento idoneo a violare i generali principi in tema di par condicio, segretezza e trasparenza delle offerte [...]“ (Cons. Stato, V, 06.02.2017, n. 496).
La verifica che deve svolgere la stazione appaltante
La giurisprudenza amministrativa ha delineato il percorso istruttorio che la stazione appaltante deve eseguire per porre in essere la verifica:
   a) verificare la sussistenza di situazione di controllo sostanziale ai sensi dell’art. 2359 Cod. civ.;
   b) esclusa tale forma di controllo, la verifica dell’esistenza di una relazione tra le imprese , anche di fatto, che possa in astratto aprire la strada ad un reciproco condizionamento nella formulazione delle offerte;
   c) ove tale relazione sia accertata, la verifica dell’esistenza di un ’unico centro decisionale’ da effettuare ab externo e cioè sulla base di elementi strutturali o funzionali ricavati dagli assetti societari e personali delle società, ovvero, ove per tale via non si pervenga a conclusione positiva, “mediante un attento esame del contenuto delle offerte dal quale si possa evincere l’esistenza dell’unicità soggettiva sostanziale” (Cons. Stato, V, 03.01.2019, n. 69, che richiama Cons. Stato, V, 10.01.2017, n. 39).
Si rivela, dunque, dirimente in siffatte evenienze una puntuale verifica sulle concrete implicazioni che un tale rapporto possa aver avuto sul comportamento degli operatori nell’ambito della specifica procedura di gara e, segnatamente, quanto al confezionamento delle offerte.
Conclusioni
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato affronta un caso di “unicità di centro decisionale” in presenze di 3 offerte identiche (“[…] Si osserva tuttavia che trattasi in questo caso di ben tre offerte pienamente sovrapponibili e non di due offerte come nei casi affrontati dalla giurisprudenza”).
Il Collegio rimarca a più riprese che la segretezza delle offerte costituisce principio ineludibile del sistema delle gare pubbliche e ciò anche allo scopo di evitare forme di possibile reciproco condizionamento tra le offerte stesse atto ad alterare il corretto confronto concorrenziale.
L’unicità del centro decisionale, tra due o più operatori, può di fatto dare luogo ad ipotesi di reciproco condizionamento.
Tale fattispecie va dimostrata su due piani: il piano formale , attraverso una analisi strutturale delle relazioni societarie o personali intercorrenti tra due o più operatori; il piano sostanziale, sussidiario al primo, attraverso un attento confronto contenutistico tra due (o più) offerte presentate dagli operatori in gara.
Prive di pregio risultano poi le censure formulate dalla ricorrente in ordine alla responsabilità del tecnico che ha materialmente redatto l’offerta e alla sproporzione della segnalazione ad ANAC.
Quanto alla prima, osserva il Collegio che, al di là delle conseguenti possibili azioni risarcitorie nei confronti del tecnico, quel che rileva è l’obiettiva rilevanza dell’offerta e del suo contenuto in termini formali e sostanziali.
Per quanto concerne, invece, la sproporzione della segnalazione i giudici ribadiscono come secondo prevalente giurisprudenza “l’incameramento della cauzione provvisoria e l’attivazione del pedissequo procedimento di segnalazione all’ANAC sono conseguenza automatica del provvedimento di esclusione, come tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti, nonché insensibile a eventuali valutazioni volte a evidenziare la non imputabilità a colpa della violazione che ha comportato l’esclusione” (ex multis, Cons. Stato, V, 21.01.2020, n. 479; V, 24.06.2019, n. 4328; V, 10.09.2018, n. 5282; 11.12.2017, n. 5806; 04.12.2017, n. 5709; VI, 15.09.2017, n. 4349; V, 28.08.2017, n. 4086; 15.03.2017, n. 1172; Adunanza plenaria, 29.02.2016, n. 5)” [Cons. Stato, sez. V, 09.09.2020, n. 5420] (articolo NT+Diritto del 15.01.2024).

APPALTI: Errore in sede di presentazione di parte dell’offerta sulla piattaforma telematica – Presentazione offerta tecnico-qualitativa a valutazione discrezionale – Prevalenza del bando rispetto alle indicazioni della piattaforma telematica – Anomalia del sistema – Mancanza dei flag di obbligatorietà – Principio di autoresponsabilità dei concorrenti – Soccorso istruttorio.
La mancata indicazione nella piattaforma telematica predisposta per la partecipazione alla gara dell’obbligatorietà della trasmissione telematica dell’offerta tecnica qualitativa a valutazione discrezionale, nonché il mancato invio di un alert circa l’incompletezza dell’offerta presentata in via telematica, possono configurare un’anomalia del sistema telematico a fronte delle quali, non essendo invocabile il principio di autoresponsabilità, è applicabile il soccorso istruttorio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.01.2024 n. 295 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
SENTENZA
12. Ed invero le censure di parte appellante non sono in grado di scalfire il limpido ragionamento seguito dal giudice di prime cure, che nell’ottica del principio eurounitario di massima partecipazione nonché del principio di leale collaborazione expressis verbis sancito dall’art. 1, comma 2-bis, della l. 241 del 1990, unitamente al principio di buona fede nel rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino, ha ritenuto corretto l’operato dalla stazione appaltante.
12.1. Giova al riguardo precisare che tale principio è dalla giurisprudenza applicato anche in riferimento alla partecipazione alle procedure di gara con modalità telematiche in ipotesi di anomalie del sistema, a fronte delle quali, non essendo invocabile il principio di autoresponsabilità citato da parte appellante, è applicabile anche il soccorso istruttorio (Cons. Stato, Sez. VII, 02/05/2022, n. 3418 secondo cui il principio della c.d. “autoresponsabilità” della ditta partecipante per le ipotesi di mancata (o tardiva) presentazione, con modalità telematiche, della domanda di partecipazione ad una procedura di gara non può considerarsi assoluto, essendo inevitabilmente condizionato dalla idoneità delle piattaforme informatiche predisposte dalla amministrazione, al fine di assicurare il regolare e tempestivo inoltro delle domande da parte dei candidati; il principio di leale collaborazione tra l’amministrazione e il privato, ora codificato nell’art. 1, comma 2-bis, L. n. 241 del 1990 e s.m.i., induce a ritenere applicabile l’istituto del soccorso istruttorio laddove, nello svolgimento delle operazioni di presentazione per via telematica della domanda di partecipazione, il candidato incontri ostacoli oggettivi, non imputabili in via esclusiva al privato; in senso analogo Cons. Stato, Sez. VI, 01/07/2021, n. 5008 secondo cui il principio di leale collaborazione tra l’amministrazione e il privato, ora scolpito nell’art. 1, comma 2-bis, L. n. 241/1990, evidente precipitato del principio costituzionale di cui all’art. 97 Cost., induce senza ombra di dubbio a ritenere applicabile l’istituto del soccorso istruttorio laddove un candidato incontri ostacoli oggettivamente non superabili nello svolgimento delle operazioni di presentazione della domanda di partecipazione ad una selezione quando queste siano, obbligatoriamente, eseguibili esclusivamente con modalità digitali, anche nel caso in cui egli non abbia dimostrato una brillante dimestichezza nell’utilizzo della metodologia digitale, ma l’amministrazione non abbia messo in campo idonei strumenti di accompagnamento alla procedura e di avvertenza in merito alle insidie che alcune dinamiche di avviamento della presentazione della candidatura avrebbero potuto evidenziare, laddove combinate con concomitanti operazioni di altri candidati idonee a determinare uno stress di sistema).
12.2. Ed invero la mancata indicazione nella piattaforma telematica predisposta per la partecipazione alla procedura di gara de qua dell’obbligatorietà della trasmissione telematica dell’offerta tecnica qualitativa a valutazione discrezionale, in uno all’accettazione telematica dell’offerta dell’aggiudicatario, nonostante la mancata trasmissione telematica di tale componente dell’offerta tecnica, nonché il mancato invio di un alert circa l’incompletezza dell’offerta presentata in via telematica, ben possono, secondo quanto di seguito indicato, avuto riguardo alla prescrizione dell’art. 19 del Bando di gara, configurare l’anomalia del sistema telematico riscontrato dal primo giudice

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale l’acquisto a titolo originario al patrimonio indisponibile del comune che incide sull’iscrizione ipotecaria sull’area di sedime.
---------------
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24, 42 e 117, primo comma, Cost., nonché all’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU (ratificata con la legge 04.08.1955, n. 848), la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985 e dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Secondo le sezioni unite:
   a) un primo parametro leso è l’art. 3 Cost., inteso come principio di ragionevolezza, in quanto “è paradossale”, che il creditore che abbia iscritto ipoteca sul fondo, senza avere alcuna responsabilità nell’abuso edilizio e nel conseguente rifiuto di procedere alla demolizione dell’immobile, veda di fatto cancellato il suo diritto di ipoteca; il tutto senza poter partecipare al procedimento, cioè senza potersi opporre né all’edificazione abusiva né all’ordine di demolizione;
   b) un secondo parametro che appare leso è l’art. 24 Cost., in quanto il creditore ipotecario è titolare di una garanzia che gli consente, attraverso il diritto di sequela e la conseguente possibilità di procedere ad espropriazione del bene, di avere una concreta prospettiva di soddisfacimento delle proprie ragioni; o, almeno, una potenzialità ben maggiore rispetto a quella che può derivare dal diritto al risarcimento dei danni (misura che la Corte ha ritenuto non soddisfacente);
   c) un terzo parametro che appare leso, infine, è l’art. 117, primo comma, Cost., collegato con l’art. 42 Cost., in considerazione del contrasto tra la norma in esame e l’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU.
È pacifica e ormai consolidata, infatti, la giurisprudenza costituzionale secondo cui gli eventuali contrasti tra la norma interna e la CEDU non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale, sicché il giudice comune non ha il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, presentandosi l’asserita incompatibilità tra le due come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza della Corte costituzionale
(sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, nonché, più di recente, le sentenze n. 182 del 2021 e n. 131 del 2022).
La norma censurata, ove dirime il conflitto fra il potere di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del comune dell’immobile costruito in totale difformità o assenza della concessione e il diritto del creditore ipotecario a soddisfarsi sul fondo oggetto della garanzia, affermando l’assoluta prevalenza del primo appare contrastante con la consolidata ed uniforme interpretazione che la giurisprudenza della Corte EDU offre dell’art. 1 del Protocollo addizionale, qui invocato quale parametro interposto
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza interlocutoria 08.01.2024 n. 583 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In linea generale:
   a) le scelte di pianificazione sono espressione di un'amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito;
   b) esse non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente P.R.G.;
   c) non richiedono, inoltre, una motivazione puntuale, che ponga in comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente pianificatore con quelli confliggenti dei privati;
   d) sono censurabili oltre che per violazione di legge, solo per illogicità o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione.
---------------

9.1. Il motivo è infondato.
9.1.1. Infatti in linea generale, a fronte di attività di pianificazione, secondo consolidata giurisprudenza:
   a) le scelte di pianificazione sono espressione di un'amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito (fra le più recenti, cfr. Cons. Stato, Sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 04.05.2020, n. 2824; Sez. II, 09.01.2020, n. 161; Sez. II, 06.11.2019, n. 7560; Sez. IV, 17.10.2019, n. 7051; Sez. IV, 29.08.2019, n. 5960; Sez. II, 07.08.2019, n. 5611; Sez. IV, 25.06.2019, n. 4345; Sez. IV, 28.06.2018, n. 3986);
   b) esse non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente P.R.G. (Cons. Stato, Sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 20.01.2020, n. 456; Sez. IV, 24.06.2019, n. 4297; Sez. IV, 26.10.2018, n. 6094; Sez. IV, 24.03.2017, n. 1326; Sez. IV, 11.11.2016, n. 4666);
   c) non richiedono, inoltre, una motivazione puntuale, che ponga in comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente pianificatore con quelli confliggenti dei privati (Cons. Stato, sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 04.05.2020, n. 2824; Sez. IV, 03.02.2020, n. 844);
   d) sono censurabili oltre che per violazione di legge, solo per illogicità o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (Cons. Stato, Sez. II, 09.01.2020, n. 161; Sez. II, 04.09.2019, n. 6086; Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; Sez. IV, 09.05.2018 n. 2780; sez. IV, 18.08.2017, n. 4037; sez. VI, 05.03.2013, n. 1323; sez. IV, 25.11.2013, n. 5589; sez. IV, 16.04.2014, n. 1871) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.01.2024 n. 256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Con riferimento all’attività pianificatoria in materia di cave, secondo la giurisprudenza, in sede di approvazione del piano cave la Regione non è tenuta a motivare specificatamente le scelte riguardanti le singole aree.
L'attività estrattiva di cava, pur non essendo assoggettata al previo rilascio del permesso di costruire, coinvolge interessi super individuali e valori costituzionali (ambiente, paesaggio, territorio, salute, iniziativa economica), incidendo sul governo del territorio sia per il suo rilevante impatto ambientale che per le esigenze economiche proprie dell'impresa esercente connesse allo sfruttamento delle sempre più scarse risorse naturali disponibili, con la conseguenza che, al pari dell'attività edilizia, non è mai completamente libera, ma deve inserirsi in un contesto di interventi pianificati.
Dalla natura programmatica dell'intervento pubblicistico e dai valori costituzionali in gioco ne discende che in sede di approvazione del piano delle cave, in applicazione della norma sancita dall'art. 3, legge n. 241/1990, le scelte riguardanti le singole aree non abbisognano di una specifica motivazione in considerazione dell'elevato numero di destinatari e dell'interdipendenza reciproca delle varie previsioni, specie se poste a tutela dell'ambiente e del paesaggio.
Il piano cave, in quanto atto di pianificazione generale, non necessita pertanto di una particolare motivazione, tranne nel caso in cui tale piano si discosti dai pareri obbligatori resi in seno al procedimento, onde evitare possibili arbitri.
---------------

9.1.2. Più nello specifico, con riferimento all’attività pianificatoria in materia di cave, va rammentato, come correttamente rilevato dal primo giudice, che secondo la giurisprudenza in sede di approvazione del piano cave la Regione non è tenuta a motivare specificatamente le scelte riguardanti le singole aree.
L'attività estrattiva di cava, pur non essendo assoggettata al previo rilascio del permesso di costruire, coinvolge interessi super individuali e valori costituzionali (ambiente, paesaggio, territorio, salute, iniziativa economica), incidendo sul governo del territorio sia per il suo rilevante impatto ambientale che per le esigenze economiche proprie dell'impresa esercente connesse allo sfruttamento delle sempre più scarse risorse naturali disponibili, con la conseguenza che, al pari dell'attività edilizia, non è mai completamente libera, ma deve inserirsi in un contesto di interventi pianificati.
Dalla natura programmatica dell'intervento pubblicistico e dai valori costituzionali in gioco ne discende che in sede di approvazione del piano delle cave, in applicazione della norma sancita dall'art. 3, legge n. 241/1990, le scelte riguardanti le singole aree non abbisognano di una specifica motivazione in considerazione dell'elevato numero di destinatari e dell'interdipendenza reciproca delle varie previsioni, specie se poste a tutela dell'ambiente e del paesaggio (ex multis Cons. Stato Sez. V, 13/06/2018, n. 3625, in senso analogo Cons. Stato, sez. V, 10/04/2018, n. 2164).
Il piano cave, in quanto atto di pianificazione generale, non necessita pertanto di una particolare motivazione, tranne nel caso in cui tale piano si discosti dai pareri obbligatori resi in seno al procedimento, onde evitare possibili arbitri (Cons. Stato, Sez. VI, 23.12.2008, n. 6519) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.01.2024 n. 256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In sede di procedimento pianificatorio urbanistico, il rigetto o l'accoglimento delle osservazioni dei privati non richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che queste siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali rappresentati dallo strumento pianificatorio.
In questo senso, le osservazioni non sono rimedi giuridici, ma apporti procedimentali di un interesse privato che, come tutti gli apporti "esterni" coinvolti nella pianificazione urbanistica, sono in essa inseriti e con essa vanno contemperati.
Nell'ambito di un procedimento urbanistico, pertanto, le osservazioni costituiscono lo strumento per perseguire -compatibilmente con l'articolato delle scelte urbanistiche da effettuare- l'interesse pubblico con un minore sacrificio di quello privato.
---------------
Con particolare riguardo alle classificazioni dei suoli che eventualmente limitino le facoltà edificatorie dei proprietari, è stato peraltro precisato che le scelte urbanistiche “sono il frutto di complesse valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello politico.
In tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni istituzionali, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla sfera del merito (…).
Le scelte di pianificazione non sono, neppure, condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o di una sua variante, con il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione o da giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione o la modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
---------------

9. Non è fondato il quarto motivo di ricorso.
Deve invece richiamarsi la consolidata giurisprudenza, secondo cui, in sede di procedimento pianificatorio urbanistico, il rigetto o l'accoglimento delle osservazioni dei privati non richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che queste siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali rappresentati dallo strumento pianificatorio.
In questo senso, le osservazioni non sono rimedi giuridici, ma apporti procedimentali di un interesse privato che, come tutti gli apporti "esterni" coinvolti nella pianificazione urbanistica, sono in essa inseriti e con essa vanno contemperati.
Nell'ambito di un procedimento urbanistico, pertanto, le osservazioni costituiscono lo strumento per perseguire -compatibilmente con l'articolato delle scelte urbanistiche da effettuare- l'interesse pubblico con un minore sacrificio di quello privato (cfr. Cons. Stato, sez. II, 06.08.2020, n. 4960; cfr. anche TAR Campania Napoli Sez. VIII, 09.11.2021, n. 7100).
Con particolare riguardo alle classificazioni dei suoli che eventualmente limitino le facoltà edificatorie dei proprietari, è stato peraltro precisato che le scelte urbanistiche “sono il frutto di complesse valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello politico; in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni istituzionali, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla sfera del merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.04.2020, n. 2284; 31.12.2019, n. 8917; 12.05.2016, n. 1907) (…).
Le scelte di pianificazione non sono, neppure, condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o di una sua variante, con il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 06.11.2019, n. 7560; sez. IV, 01.08.2018, n. 4734; sez. IV, 12.04.2018, n. 2204; sez. IV, 25.08.2017, n. 4063) o da giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione (Cons. Stato, Sez. II, 10.07.2020, n. 4467; Sez. VI, 08.06.2020, n. 3632; sez. IV, 25.06.2019, n. 4343) o la modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Cons. Stato Sez. II, 08.05.2020, n. 2893; Sez. IV, 30.12.2016, n. 5547)
” (Cons. Stato, Sez. II, 13.10.2021, n. 6883) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 08.01.2024 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Regolarità fiscale e contributivo-previdenziale: come e quando valutarli?
---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Gara - Requisiti di partecipazione - Regolarità fiscale – Tempo e modalità del controllo – Deferimento alla plenaria.
Vanno deferiti all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato i seguenti quesiti:
   i) se, fermo restando il principio della insussistenza di un potere della stazione appaltante di sindacare le risultanze delle certificazioni dell’Agenzia delle entrate attestanti l’assenza di irregolarità fiscali a carico dei partecipanti a una gara pubblica, le quali si impongono alla stessa amministrazione, il principio della necessaria continuità del possesso in capo ai concorrenti dei requisiti di ordine generale per la partecipazione alle procedure selettive comporti sempre il dovere di ciascun concorrente di informare tempestivamente la stazione appaltante di qualsiasi irregolarità che dovesse sopravvenire in corso di gara;
   ii) se, correlativamente, sussista a carico della stazione appaltante, ferma restando la richiamata regola della sufficienza delle certificazioni rilasciate dalle Autorità competenti, il dovere di estendere la verifica circa l’assenza di irregolarità in capo all’aggiudicatario della procedura in relazione all’intera durata di essa, se del caso attraverso l’acquisizione di certificazioni estese all’intero periodo dalla presentazione dell’offerta fino all’aggiudicazione;
   iii) se, in ogni caso e a prescindere dalla sufficienza o meno delle verifiche condotte dalla stazione appaltante, il concorrente che impugni l’aggiudicazione possa dimostrare, e con quali mezzi, che in un qualsiasi momento della procedura di gara l’aggiudicataria ha perso il requisito dell’assenza di irregolarità con il conseguente obbligo dell’amministrazione di escluderlo dalla procedura stessa. (1)

---------------
   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, la terza sezione del Consiglio di Stato ha deferito alla Plenaria, in relazione ad una vicenda governata dal vecchio codice degli appalti, una triplice questione inerente: i) al possesso dei requisiti fiscali dell’operatore economico partecipante ad una procedura di evidenza pubblica; ii) alla pratica declinazione del c.d. principio della continuità dei requisiti generali di partecipazione; iii) alla prova della continuità.
Il tema di fondo è comune a quello del possesso e della prova della c.d. regolarità contributiva (previdenziale-assistenziale).
L’appello è stato proposto avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sez. I, 10.05.2023, n. 1403, che ha respinto il ricorso principale della società seconda classificata, che aveva tentato di evidenziare l’esistenza della carenza della regolarità fiscale in capo alla società aggiudicataria.
   II. - Questo in sintesi il percorso motivazionale dell’ordinanza (corredato dalla giurisprudenza in materia):
      a) in primis, l’ordinanza in rassegna richiama il consolidato indirizzo giurisprudenziale, che esclude ogni facoltà per la stazione appaltante di sindacare le risultanze delle certificazioni rilasciate dalle autorità competenti (nella specie, l’Agenzia delle entrate), le quali fanno fede della regolarità dell’operatore economico, sotto il profilo fiscale;
      b) nella specie, l’assenza di irregolarità fiscali rilevanti ex lege è stata accertata, attraverso l’acquisizione di certificazioni, acquisite dalla stazione appaltante, in plurimi momenti della procedura di evidenza (e, da ultimo, in sede di verifica sul possesso dei requisiti prima dell’aggiudicazione);
      c) detto indirizzo è radicato sul presupposto, secondo cui le certificazioni sulla regolarità tributaria e contributiva degli operatori economici partecipanti, emanate dagli organi delle amministrazioni e degli enti pubblici ex lege preposti, si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto intrinseco, non residuando alle stesse alcun potere valutativo sul contenuto o sui presupposti di tali certificazioni;
      d) ciò, peraltro, avviene anche riguardo alla valutazione, circa la gravità o meno di carenze contributive, riservata agli enti previdenziali;
      e) tuttavia, a fronte di un tale consolidato orientamento –rileva l’ordinanza in epigrafe– è pur vero che la giurisprudenza ha enunciato anche un ulteriore principio (Cons. Stato, Ad. plen., 20.07.2015, n. 8), secondo cui, “proprio perché la verifica può avvenire in tutti i momenti della procedura (a tutela dell’interesse costante dell’Amministrazione ad interloquire con operatori in via permanente affidabili, capaci e qualificati), allora in qualsiasi momento della stessa deve ritenersi richiesto il costante possesso dei detti requisiti di ammissione” (c.d. principio della continuità);
      f) ciò sia “a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell’impresa di presentare un’offerta credibile” sia a tutela “della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto [negoziale] con un soggetto, che […] sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e tecnico-economico-professionale necessari per contrattare con la P.A.”;
      g) ragion per cui vi sarebbe un “onere di continuità in corso di gara del possesso dei requisiti”, da ritenersi “non solo […] del tutto ragionevole, siccome posto a presidio dell’esigenza della stazione appaltante di conoscere in ogni tempo dell’affidabilità del suo interlocutore “operatore economico” […], ma è altresì non sproporzionato, essendo assolvibile da quest’ultimo […], mediante ricorso all’ordinaria diligenza, che gli operatori professionali devono tenere al fine di poter correttamente insistere e gareggiare nel concorrenziale mercato degli appalti pubblici”;
      h) la qual cosa però equivale a “garantire costantemente la qualificazione loro richiesta e [ma anche] la possibilità concreta della sua dimostrazione e verifica […]”;
      i) di conseguenza, sempre stando all’ordinanza in rassegna, l’applicazione contestuale dei richiamati indirizzi può “condurre […] a conclusioni suscettibili [però] di contraddire o l’uno o l’altro degli indirizzi medesimi (e, quindi, di determinare contrasti o incertezze di giurisprudenza)”;
      j) non è, anzitutto, chiaro normativamente –secondo la terza sezione– se esista sempre un obbligo del concorrente di informarsi e, soprattutto, di informare la stazione appaltante, sulle situazioni di irregolarità fiscale o contributiva, che dovessero sopravvenire in corso di gara; e se, per converso, sussista ininterrottamente un obbligo, per la stazione appaltante, di verificare l’eventuale esistenza di irregolarità, mediante l’acquisizione di certificazioni dell’Agenzia delle entrate (anche riflettenti la posizione “storica” dell’operatore), in ogni fase della procedura di gara, atteso che l’affermazione ricorrente in giurisprudenza, secondo cui la verifica “può” avvenire in ogni momento della procedura di gara, non implica che la stessa “debba” essere esperita;
      k) infine, nell’ipotesi in cui dovesse riaffermarsi la sufficienza di un accertamento “puntuale” ad opera dalla stazione appaltante, mediante l’acquisizione di certificazione, in un determinato momento della procedura (che, di regola, coinciderà con quella della verifica delle dichiarazioni rese dal concorrente sul possesso dei requisiti), emerge il tema processuale se sia consentito al concorrente, il quale impugni l’aggiudicazione, di andare al di là di quanto è sufficiente per la stazione appaltante, e quindi di riuscire a documentare la sussistenza di irregolarità “escludenti”, in un qualsiasi momento della procedura di gara, diverso da quello in cui quest’ultima ha condotto le proprie verifiche, con il conseguente dovere del giudice di accertare l’illegittimità dell’aggiudicazione e annullarla.
   III – Per completezza in materia va osservato quanto segue:
      l) in via preliminare, va precisato che la disciplina normativa, nei diversi dispositivi sui contratti pubblici succedutisi nel tempo, ha, sia pur variamente, sempre distinto il requisito della regolarità fiscale e contributivo-previdenziale nella fase (pubblicistica) del procedimento di gara (spesso assistito da sanzioni preclusive l’affidamento, senza possibilità di sanatoria), dal requisito fiscale e contributivo-previdenziale nella fase (privatistica) dell’esecuzione del contratto, cui consegue sovente, in prima battuta, la sospensione dell’obbligazione del pagamento delle spettanze economiche e solo in via ultimativa la risoluzione del vincolo negoziale, laddove non sopraggiunga la sanatoria della posizione debitoria (o anche la compensazione);
      m) sul c.d. principio di continuità dei requisiti si è espressa da ultimo l’Adunanza plenaria (18.03.2021, n. 5, in Foro it., 2021, III, 660, nonché oggetto News n. 35 del 12.04.2021 a cura dell’US), la quale ha pur ritenuto che: “La consorziata di un consorzio stabile, non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, è equiparabile, ai fini dell’applicazione dell’art. 63 della direttiva n. 24/2014/UE e dell’art. 89, co. 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché la perdita da parte della stessa del requisito impone alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione” e, tuttavia, la sostituzione nell’avvalimento è possibile, in quanto “strumento nuovo e alternativo” (così: Cons. Stato, sez. III, 25.11.2015, n. 5359, in Urb. e app., 2016, 696, con nota di MANZI; Nuovo dir. amm., 2016, 3, 80, con nota di URBANI; nonché Corte di giustizia UE, 14.09.2017, C-223/16, Casertana costruzioni s.r.l., in Giur. it., 2017, 2458, con nota di GIUSTI e Urb. e app., 2018, 183, con nota di MANZI, nonché oggetto della News US in data 05.12.2017), che non lederebbe il principio della continuità nei requisiti, poiché detto istituto restituisce al soggetto avvalso la sua vera natura di soggetto giuridico, che “presta” i propri requisiti al concorrente, senza però partecipare alla compagine (e all’offerta formulata) e, quindi, risponde alla superiore esigenza di evitare l’esclusione del concorrente, singolo o associato, per ragioni a lui non direttamente riconducibili o imputabili;
      n) sulla continuità dei requisiti anche in relazione alla fase della esecuzione, Cons. Stato, sez. V, 14.04.2020, n. 2397 (in Lex.Italia.it, 2020), secondo cui: “La causa di esclusione prevista dall’art. 80, comma 4, d.lgs. 12.04.2016, n. 50 (concernente le violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti) ha carattere definitivo nel caso di notificazione delle seguenti tipologie di atti amministrativi:
a) gli avvisi di accertamento e gli atti di contestazione ex art. 16 d.lgs. 18.12.1997, n. 472;
b) nel caso in cui costituiscano il primo atto di esercizio della pretesa impositiva, anche le cartelle di pagamento
”; inoltre: “Il principio di necessaria continuità del possesso dei requisiti di partecipazione […] si estende a tutti i requisiti generali e speciali di partecipazione e postula che gli stessi siano posseduti senza soluzione di continuità dal momento della presentazione della domanda di partecipazione all’aggiudicazione e per tutta la fase di esecuzione, qualora l’impresa sia aggiudicataria dell’appalto”;
      o) in ordine al c.d. DURC in compensazione, cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.06.2019, n. 4188 (in LexItalia.it, 2019, con nota di IUDICA): “Dalla disciplina dell’art. 13-bis, comma 5, d.l. 07.05.2012, n. 52, conv. in l. 06.07.2012, n. 94 e da quanto previsto dalla circolare della Direzione centrale dell’Inps 30.01.2014, n. 16 (secondo cui “In presenza di una certificazione di uno o più crediti resa dalle amministrazioni statali, dagli enti pubblici nazionali, dalle Regioni, dagli enti locali e dagli enti del Servizio Sanitario Nazionale, che attesti la sussistenza e l’importo di crediti certi, liquidi ed esigibili almeno pari agli oneri contributivi accertati e non ancora versati, gli Istituti previdenziali e le Casse edili sono tenuti ad attestare la regolarità contributiva”), si evince che:
a) è onere dell’impresa attivarsi per ottenere la certificazione dell’esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile nei confronti di un soggetto pubblico (tra quelli elencati nell’art. 1, comma 2, d.lgs. 30.03.2001, n. 165);
b) tale certificazione deve essere rilasciata nel termine di trenta giorni dalla ricezione dell’istanza;
c) ottenuta la certificazione può essere richiesto il rilascio del DURC c.d. in compensazione;
d) il DURC deve attestare la regolarità contributiva dell’imprenditore. Non è stabilito, né dalle norme primarie e secondarie, né dagli atti prassi, un termine entro il quale va richiesta la certificazione dell’esistenza del credito
”;
      p) esclude la possibilità che una impresa concorrente possa fornire la prova contraria delle risultanze del DURC, Cons. Stato sez. V, 14.06.2019, n. 4023 (in l’amministrativista.it del 17.06.2019) che ha precisato: “Il DURC costituisce unico documento attestante il rispetto degli oneri previdenziali ed assistenziali da parte dell’operatore economico partecipante alla procedura di gara, onde, in presenza di DURC regolare a favore dell’operatore economico, la stazione appaltante non è tenuta ad alcuna altra verifica, sebbene segnalazioni in senso contrario a quanto ivi certificato siano pervenute da terzi interessati all’esclusione dell’operatore dalla procedura di gara.
La certificazione relativa alla regolarità contributiva viene in rilievo dinanzi al giudice amministrativo alla stregua di documento probatorio del requisito di partecipazione alla gara e, pertanto, la sua regolarità può essere oggetto di accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo al fine della verifica dell’esistenza o meno del requisito di partecipazione ove detta questione gli sia sottoposta come vizio di legittimità del provvedimento impugnato, spettando alla parte che allega il contrasto tra la certificazione e reale situazione dell’operatore economico fornire la prova in giudizio che l’irregolarità contributiva riportata nel DURC sia in realtà insussistente ovvero, al contrario, che non sussista la regolarità accertata
”;
      q) sull’adempimento tardivo delle obbligazioni contributive alle assicurazioni sociali obbligatorie e sul c.d. preavviso di DURC negativo, ex multis, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15.09.2017, n. 4349 (in Urb. e app., 2018, 69, con ampia nota di GIACALONE-PELOSO): “In applicazione del principio della par condicio e considerato che la regolarità contributiva deve sussistere dalla presentazione dell’offerta e deve permanere per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando irrilevante un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, l’istituto dell’invito alla regolarizzazione (c.d. preavviso di DURC negativo), può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione”; inoltre, sul punto, sono concordi sia Cons. St., Ad. Plen., 29.02.2016, n. 5 (in LexItalia.it, 2016): “L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i) ai fini della partecipazione alla gara d’appalto”, sia Cass. civ., sez. un., 29.03.2017, n. 8117 (in LexItalia.it, 2017): “L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo) può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione (art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, codice degli appalti 2006)”;
      r) sulla impossibilità della regolarizzazione postuma, Cons. Stato, Ad. plen. 25.05.2016, n. 10 (in Foro it., 2017, III, 262, con nota di CORDOVA; in Urb. e app., 2016, 1240, con nota di CALVETTI, nonché oggetto della News US in data 31.05.2016) ha affermato: “Anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 31, comma 8, d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013 n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l'impresa essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva”, ragion per cui: “L’ambito di applicazione dell’art. 31 d.l. n. 69 del 2013 è limitato ai rapporti fra ente previdenziale ed operatore privato richiedente il rilascio del d.u.r.c.: pertanto va escluso che detta disposizione abbia determinato una implicita modifica all’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006”, peraltro: “Il documento unico di regolarità contributiva (d.u.r.c.) ha natura di dichiarazione di scienza e si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione facenti prova fino a querela di falso”, e infine: “Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto l'accertamento circa la regolarità del d.u.r.c., quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara; ed invero, in materia di contratti pubblici, il d.u.r.c. viene in rilievo non in via principale, ma in qualità di presupposto di legittimità di un provvedimento amministrativo adottato dalla stazione appaltante”, per cui la regolarità contributiva è ben suscettibile di accertamento incidentale, ai sensi dell’art. 8 c.p.a.;
      s) nello stesso senso, Cons. Stato, Ad. plen., 29.02.2016, n. 5 e n. 6 (in Foro it., 2017, III, 262; in Urb. e app., 2016, 787, con nota di CARANTA; in Guida dir., 2016, 13, 82, con nota di CORRADO), nonché oggetto della News del 01.03.2016 a cura dell’US) ha rilevato che: “Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del d.l. 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito con modificazioni dalla L. 09.08.2013, n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il cd. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del d.m. 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del d.l. 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, ai fini della partecipazione alla gara d’appalto
”;
      t) Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2015, n. 1321 (in LexItalia.it, 2015), che aveva ritenuto che: “Non rientrano nella giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di contratti della P.A. le questioni in tema di valutazione del DURC, atteso che gli eventuali errori contenuti in detto documento, involgendo posizioni di diritto soggettivo afferenti al sottostante rapporto contributivo, possono essere corretti dal giudice ordinario, o all’esito di proposizione di querela di falso, o a seguito di ordinaria controversia in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria”;
      u) sull’obbligo della stazione appaltante di verificare la continuità del possesso dei requisiti, Cons. Stato Ad. plen., 20.08.2013, n. 20 (in Foro amm-C.d.S., 2013, 1843), 05.06.2013, n. 15 (in Foro it., 2014, III, con nota di A. TRAVI), secondo cui: “Nelle gare pubbliche, ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. g), d.lgs. 12.04.2006 n. 163, non è ammissibile la partecipazione alla procedura selettiva del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell'istanza di rateizzazione del debito tributario”, tanto in considerazione del principio fondamentale della continuità nel possesso dei requisiti che impone all’Amministrazione di verificarne diuturnamente la sussistenza anche in presenza di DURC negativi; nello stesso sensi si era espressa l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici nella determinazione 16.05.2012, n. 1, in www.avcp.it;
      v) Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2012, n. 8 (in Urb. e app. 2016, 88, con nota di GIACALONE; in Foro amm.-C.d.S., 2012, 2234 con nota di GOTTI; in Guida dir., 2012, 23, 82 con nota di PONTE) ha precisato che: “Ai fini del comma 1, lett. i), dell'art. 38, l. 163/2006, si intendono gravi le violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva di cui all'art. 2, comma 2 d.l. 25.09.2002 n. 210 (conv. con l. 266/2002) e pertanto la mancanza di d.u.r.c. comporta una presunzione legale iuris et de iure di gravità delle violazioni previdenziali”;
      w) tanto osservato sulla giurisprudenza amministrativa, va detto che di segno analogo è stata la giurisprudenza comunitaria; infatti, la Corte di giustizia dell’UE, sez. IX, 10.11.2016, causa C-199/15, Ciclat (oggetto di News 15.11.2016 a cura di US) ha precisato che: “L’articolo 45 della direttiva 2004/18/CE non osta ad una normativa nazionale che obbliga l’amministrazione aggiudicatrice ad escludere dall’appalto l’impresa a causa di una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali ed assistenziali risultante da un certificato richiesto d’ufficio dall’amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione sussista alla data di scadenza del termine di partecipazione ad una gara d’appalto, anche se successivamente venuta meno alla data dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio da parte dell’amministrazione aggiudicatrice e nonostante l’ente previdenziale, rilevato il mancato versamento, abbia omesso di invitare l’impresa alla regolarizzazione, come previsto dal diritto italiano, a condizione che l’operatore economico abbia la possibilità di verificare in ogni momento la regolarità della sua situazione presso l’istituto competente”;
      x) inoltre, Corte di giustizia dell’UE, sez. X, 10.07.2014, C-358/12, Libor (in Urb. e app., 2014, 1170, con nota di PATRITO) ha parimenti ritenuto conforme al diritto UE la disciplina italiana in materia di DURC e regolarità contributiva, in particolare: “Gli art. 49 e 56 tfUe, nonché il principio di proporzionalità, vanno interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale che, riguardo agli appalti pubblici di lavori il cui valore sia inferiore alla soglia definita all'art. 7, lett. c), della direttiva 2004/18/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, quale modificata dal regolamento (Ce) n. 1177/2009 della Commissione, del 30.11.2009, obblighi l'amministrazione aggiudicatrice ad escludere dalla procedura un offerente responsabile di un'infrazione in materia di versamento di prestazioni previdenziali, qualora lo scostamento tra le somme dovute e quelle versate sia di importo superiore, al contempo, a Euro 100 e al 5% delle somme dovute”;
      y) tuttavia, la giurisprudenza delle sezioni unite, sia pure nella peculiare sede del controllo sulla giurisdizione, ha censurato l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa teso a declinare facilmente l’accertamento incidentale sulla regolarità fiscale e contributivo-previdenziale; segnatamente:
         y1) Cass. civ., sez. un., 29.03.2017, n. 8117 (in l’amministrativista.it 30.03.2017, nonché oggetto di News 04.04.2017, a cura dell’US): “Il Consiglio di Stato, quando omette di esaminare le censure formulate in ordine all'accertamento della regolarità del DURC, nega indebitamente la propria giurisdizione perché, nelle controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture da parte di soggetti tenuti al rispetto delle regole di evidenza pubblica, costituendo la produzione del DURC uno dei requisiti posti dalla normativa di settore ai fini dell'ammissione alla gara, appartiene alla cognizione del giudice amministrativo verificare la regolarità di tale certificazione”;
         y2) resta tuttavia fermo che: “L'istituto dell'invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo) può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall'impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell'autodichiarazione”; peraltro, in tal senso, già Cass. civ., sez. un., 09.02.2011, n. 3169 (in Foro amm.-C.d.S., 2011, 1462);
      z) ancora, va ricordato che, mentre l’accertamento diretto (davanti al giudice tributario del rapporto fiscale o davanti al giudice del lavoro del rapporto contributivo-previdenziale) ha natura intrinseca è può condurre all’autorità di cosa giudicata tra le parti, su un diverso piano si pone invece l’accertamento incidentale (davanti al giudice amministrativo), rivestendo questo natura estrinseca, quale atto presupposto per la decisione del ricorso giurisdizionale, proposto in via principale, da decidersi invero con c.d. rito speciale abbreviato (art. 119 c.p.a.);
      aa) ciò nonostante, rimane dubbio che, nel rito ex art. 119 c.p.a., possa procedersi ad un’analitica disamina dei titoli di credito/debito pendenti, o risoluti, o esitati, o in riscossione coattiva, o in giudizio tra l’amministrazione o l’ente pubblico e la posizione del contribuente, a mezzo di istruttoria, per consulenza tecnica, bensì pare più plausibile ritenere che sia esperibile un’istruttoria basata su meri chiarimenti e/o interlocuzioni documentali con i soggetti pubblici (es. Agenzia delle entrate o Inps, etc.) depositari del carico del debito fiscale e/o contributivo-previdenziale;
      bb) va rilevato come la regolarità della posizione fiscale dell’operatore economico derivi da una pluralità di valutazioni, circa il rapporto debito/credito con il Fisco, collegato a fasi procedimentali dell’accertamento, della liquidazione e/o del pagamento, ivi compresi c.d. condoni o stralci, o rateizzazioni e a eventuali contenziosi pendenti, i cui elementi valutativi sono a esclusiva conoscenza dell’Agenzia delle entrate in ordine ai quali la detta Agenzia può rilasciare attestazione alla stazione appaltante, essendo, per altro verso, escluso l’accesso agli atti, ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241, per cui “fanno fede” le attestazioni dell’Agenzia, peraltro non parte necessaria del processo amministrativo;
      cc) va rammentato che, in base all’art. 10, comma 3, del d.m. 30.01.2015, il DURC soddisfa il possesso del requisito della regolarità contributiva richiesta dalla disciplina in materia di contratti pubblici; mentre, in virtù dell’art. 1, comma 1, dell’Allegato II.10 (al d.lgs. 31.03.2023, n. 36), recante “Disposizioni in materia di possibile esclusione dell’operatore economico dalla partecipazione a una procedura d’appalto per gravi violazioni in materia fiscale non definitivamente accertate (articoli 94, comma 6 e 95, comma 2, del Codice)”, costituiscono gravi violazioni in materia contributiva e previdenziale quelle ostative al rilascio DURC; peraltro anche gli enti pubblici di previdenza non sono parti necessarie del processo amministrativo;
      dd) resta salva la particolare disciplina in tema di querela di falso (art. 221 c.p.c.) sul contenuto intrinseco delle attestazioni dell’Agenzia delle entrate, degli enti previdenziali e degli altri enti interessati, laddove ne sussistano i presupposti; sul punto, ex multis, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.12.2016, n. 5501, che ha precisato che: “Nelle gare pubbliche, il documento unico di regolarità contributiva (d.u.r.c.) ha natura di dichiarazione di scienza e si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione facenti prova fino a querela di falso; esso viene in rilievo non in via principale, ma in qualità di presupposto di legittimità di un provvedimento amministrativo adottato dalla stazione appaltante”;
      ee) nella più gran parte dei casi, gli atti degli enti preposti in materia tributaria e contributivo-previdenziale, che operano con procedure in toto informatico-telematiche, dichiarano qual sia la posizione fiscale e/o contributivo-previdenziale di un dato soggetto giuridico, per come si presenta, con riferimento al flusso informatico di dati, al momento della consultazione in concreto a disposizione del sistema, il cui input è operato dai professionisti incaricati (cd. tele-amministrazione), che si interfacciano con il portale telematico-informatico dei predetti enti pubblici, inserendo o meno determinati dati e/o informazioni circa l’attività dell’azienda e adempiendo o meno a oneri di dichiarazioni ex lege dovuti e/o a pagamenti periodici;
      ff) quanto alla puntuale disciplina normativa, è utile porre a raffronto, nelle sole parti di interesse, il vecchio codice dei contratti pubblici abrogato (d.lgs. 18.04.2016, n. 50, ma applicabile nel caso di specie ratione temporis) e il nuovo codice (d.lgs. 31.03.2023, n. 36);
            ff.1) in particolare, in base alla abrogata disciplina (art. 80, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50), un operatore economico “è escluso […] se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali”; ciò posto:
1) sono “gravi violazioni” tributarie quelle, definitivamente accertate, che hanno comportato un mancato pagamento superiore all'importo di cui all'art. 48-bis, commi 1 e 2-bis, d.P.R. 29.09.1973, n. 602;
2) sono “gravi violazioni” in materia contributivo-previdenziale quelle ostative al rilascio del DURC (d.m. 30.01.2015);
            ff.2) sempre, in base alla abrogata disciplina (art. 80, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50), un operatore economico “può essere escluso” dalla partecipazione a una procedura d'appalto, se la stazione appaltante è a conoscenza (e può adeguatamente dimostrare), che lo stesso ha commesso “gravi violazioni”, non definitivamente accertate, relativi al pagamento di imposte e tasse o contributi previdenziali; ciò posto:
1) sono “gravi violazioni” tributarie quelle stabilite da apposito decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, che, in ogni caso, devono essere correlate al valore dell'appalto e comunque di importo non inferiore a €. 35.000,00 (d.m. 28.09.2022);
2) sono “gravi violazioni”, non definitivamente accertate, in materia contributivo-previdenziale quelle ostative al rilascio del DURC (d.m. 30.01.2015); tuttavia, l’esclusione facoltativa non opera, quando l'operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, ovvero quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purché l'estinzione, il pagamento o l'impegno si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione delle domande; v’è una “ridondanza” nel testo, quanto alla regolarità del DURC; invero il DURC riporta la posizione dell’operatore economico, unitariamente considerata, esprimendosi in modo positivo, anche quando vi siano vi siano contenziosi pendenti, sulle pretese contributive accertate in via amministrativa o ispettiva; infatti, in base al d.m. 30.01.2015, che disciplina il rilascio del DURC, esso soddisfa il possesso del requisito indicato dall'art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 [ossia dell’art. 80, comma 4, quarto periodo, d.lgs. n. 50 del 2016] e, quindi, il DURC è preso in considerazione dalle disposizioni normative in senso anfibologico sia nel caso di esclusione obbligatoria sia nel caso di esclusione facoltativa;
            ff.3) in virtù della nuova disciplina (art. 94, comma 6, d.lgs. 31.03.2023, n. 36) è escluso (esclusione obbligatoria) l’operatore economico che ha commesso “violazioni gravi”, definitivamente accertate, degli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali; sono “gravi violazioni”, definitivamente accertate, quelle indicate nell’allegato II.10; tuttavia, viene previsto che l’esclusione non operi quando l'operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi, pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o sanzioni, oppure quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purché l'estinzione, il pagamento o l'impegno si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine di presentazione dell’offerta; in sostanza, a differenza del previdente codice, è stata prevista, anche per la c.d. esclusione obbligatoria, la possibilità di regolarizzare la propria posizione, purché però entro la data di scadenza della presentazione delle offerte;
            ff.4) sempre in base alla nuova disciplina (art. 95, comma 2, d.lgs. 31.03.2023, n. 36) la stazione appaltante esclude (rectius: ha la possibilità di escludere), altresì, un operatore economico, qualora ritenga (rectius: possa ritenere e dimostrare) “sulla base di qualunque mezzo di prova adeguato”, che lo stesso ha commesso “gravi violazioni”, non definitivamente accertate, agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse o contributi previdenziali; costituiscono “gravi violazioni” di tal tipo quelle parimenti indicate nell’Allegato II.10; tuttavia, come nel sistema previgente, la gravità va in ogni caso valutata, tenendo conto del valore dell’appalto; inoltre, anche in questo caso, l'operatore economico non va escluso, quanto ha ottemperato ai suoi obblighi, purché entro la data di scadenza della presentazione delle offerte, oppure ancora nel caso in cui l’operatore economico abbia compensato il debito tributario con crediti certificati vantati nei confronti della p.a.
      gg) di seguito, i testi normativi per esteso, utili per una più facile comprensione della pronuncia in rassegna, nelle parti più rilevanti:

- d.lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 80 (Motivi di esclusione) --- Omissis---
   4. Un operatore economico è escluso […] se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti. Costituiscono gravi violazioni quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all'importo di cui all'articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602. Costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle contenute in sentenze o atti amministrativi non più soggetti ad impugnazione. Costituiscono gravi violazioni in materia contributiva e previdenziale quelle ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC), di cui al decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali 30.01.2015, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 125 del 01.06.2015, ovvero delle certificazioni rilasciate dagli enti previdenziali di riferimento non aderenti al sistema dello sportello unico previdenziale. Un operatore economico può essere escluso dalla partecipazione a una procedura d'appalto se la stazione appaltante è a conoscenza e può adeguatamente dimostrare che lo stesso ha commesso gravi violazioni non definitivamente accertate agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse o contributi previdenziali. Per gravi violazioni non definitivamente accertate in materia contributiva e previdenziale s'intendono quelle di cui al quarto periodo. Costituiscono gravi violazioni non definitivamente accertate in materia fiscale quelle stabilite da un apposito decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, […] che, in ogni caso, devono essere correlate al valore dell'appalto e comunque di importo non inferiore a 35.000 euro. Il presente comma non si applica quando l'operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, ovvero quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purché l'estinzione, il pagamento o l'impegno si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione delle domande. --- Omissis---
   6. Le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5. --- Omissis>>:

- d.m. 28.09.2022 “Disposizioni in materia di possibile esclusione dell’operatore economico dalla partecipazione a una procedura d’appalto per gravi violazioni in materia fiscale non definitivamente accertate” [ora abrogato]

- d.lgs. 31.03.2023, n. 36 --- Omissis---
   art. 94. (Cause di esclusione automatica) ---Omissis---
      6. È inoltre escluso l’operatore economico che ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, degli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti. Costituiscono gravi violazioni definitivamente accertate quelle indicate nell’Allegato II.10. Il presente comma non si applica quando l'operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o sanzioni, oppure quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purché l'estinzione, il pagamento o l'impegno si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine di presentazione dell’offerta. ---Omissis---

   art. 95. (Cause di esclusione non automatica) ---Omissis---
      2. La stazione appaltante esclude altresì un operatore economico qualora ritenga, sulla base di qualunque mezzo di prova adeguato, che lo stesso ha commesso gravi violazioni non definitivamente accertate agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse o contributi previdenziali. Costituiscono gravi violazioni non definitivamente accertate in materia fiscale quelle indicate nell’Allegato II.10. La gravità va in ogni caso valutata anche tenendo conto del valore dell’appalto. Il presente comma non si applica quando l'operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o sanzioni, oppure quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purché l'estinzione, il pagamento o l'impegno si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine di presentazione dell’offerta, oppure nel caso in cui l’operatore economico abbia compensato il debito tributario con crediti certificati vantati nei confronti della pubblica amministrazione.

   art. 96. (Disciplina dell’esclusione)
      1. Salvo quanto previsto dai commi 2, 3, 4, 5 e 6, le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura d’appalto, qualora risulti che questi si trovi, a causa di atti compiuti od omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui agli articoli 94 e 95.
      2. L’operatore economico che si trovi in una delle situazioni di cui all’articolo 94, a eccezione del comma 6, e all’articolo 95, a eccezione del comma 2, non è escluso se si sono verificate le condizioni di cui al comma 6 del presente articolo e ha adempiuto agli oneri di cui ai commi 3 o 4 del presente articolo.
      3. Se la causa di esclusione si è verificata prima della presentazione dell’offerta, l’operatore economico, contestualmente all’offerta, la comunica alla stazione appaltante e, alternativamente:
a) comprova di avere adottato le misure di cui al comma 6;
b) comprova l’impossibilità di adottare tali misure prima della presentazione dell’offerta e successivamente ottempera ai sensi del comma 4.
      4. Se la causa di esclusione si è verificata successivamente alla presentazione dell’offerta, l’operatore economico adotta e comunica le misure di cui al comma 6.
      5. In nessun caso l’aggiudicazione può subire dilazioni in ragione dell’adozione delle misure di cui al comma 6.
      6. Un operatore economico che si trovi in una delle situazioni di cui all’articolo 94, a eccezione del comma 6, e all’articolo 95, a eccezione del comma 2, può fornire prova del fatto che le misure da lui adottate sono sufficienti a dimostrare la sua affidabilità. Se tali misure sono ritenute sufficienti e tempestivamente adottate, esso non è escluso dalla procedura d'appalto. A tal fine, l'operatore economico dimostra di aver risarcito o di essersi impegnato a risarcire qualunque danno causato dal reato o dall'illecito, di aver chiarito i fatti e le circostanze in modo globale collaborando attivamente con le autorità investigative e di aver adottato provvedimenti concreti di carattere tecnico, organizzativo e relativi al personale idonei a prevenire ulteriori reati o illeciti. Le misure adottate dagli operatori economici sono valutate considerando la gravità e le particolari circostanze del reato o dell'illecito, nonché la tempestività della loro assunzione. Se la stazione appaltante ritiene che le misure siano intempestive o insufficienti, ne comunica le ragioni all'operatore economico.
      7. Un operatore economico escluso con sentenza definitiva dalla partecipazione alle procedure di appalto o di concessione non può avvalersi della possibilità prevista dai commi 2, 3, 4, 5 e 6 nel corso del periodo di esclusione derivante da tale sentenza.

- allegato II.10 - disposizioni in materia di possibile esclusione dell’operatore economico dalla partecipazione a una procedura d’appalto per gravi violazioni in materia fiscale non definitivamente accertate (articoli 94, comma 6 e 95, comma 2, del Codice)
  
art. 1 (Oggetto)
      1. Ai sensi e per gli effetti dell’articoli 94, comma 6, del codice, costituiscono gravi violazioni quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all'importo di cui all'articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602. Costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle contenute in sentenze o atti amministrativi non più soggetti a impugnazione. Costituiscono gravi violazioni in materia contributiva e previdenziale quelle ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC), di cui al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 30.01.2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 125 del 01.06.2015, ovvero delle certificazioni rilasciate dagli enti previdenziali di riferimento non aderenti al sistema dello sportello unico previdenziale.
      2. In relazione agli articoli 94, comma 6 e 95, comma 2, si considera mezzo di prova, con riferimento ai contributi previdenziali e assistenziali, il documento unico di regolarità contributiva acquisito d'ufficio dalle stazioni appaltanti presso gli istituti previdenziali ai sensi della normativa vigente.

   art. 2 (Ambito di applicazione)
      1. Ai sensi e per gli effetti dell’articolo 95, comma 2, del codice, si considera violazione l’inottemperanza agli obblighi, relativi al pagamento di imposte e tasse derivanti dalla:
a) notifica di atti impositivi, conseguenti ad attività di controllo degli uffici;
b) notifica di atti impositivi, conseguenti ad attività di liqu
idazione degli uffici;
c) notifica di cartelle di pagamento concernenti pretese tributarie, oggetto di comunicazioni di irregolarità emesse a seguito di controllo automatizzato o formale della dichiarazione, ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 600 e dell’art. 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26.10.1972, n. 633.

   art. 3 (Soglia di gravità)
      1. Ai sensi e per gli effetti dell’art. 95, comma 2, del codice, la violazione si considera grave quando comporta l'inottemperanza a un obbligo di pagamento di imposte o tasse per un importo che, con esclusione di sanzioni e interessi, è pari o superiore al 10 per cento del valore dell'appalto. Per gli appalti suddivisi in lotti, la soglia di gravità è rapportata al valore del lotto o dei lotti per i quali l'operatore economico concorre. In caso di subappalto o di partecipazione in raggruppamenti temporanei o in consorzi, la soglia di gravità riferita al subappaltatore o al partecipante al raggruppamento o al consorzio è rapportata al valore della prestazione assunta dal singolo operatore economico. In ogni caso, l'importo della violazione non deve essere inferiore a 35.000 euro. Costituiscono gravi violazioni in materia contributiva e previdenziale quelle ostative al rilascio del DURC, di cui al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 30.01.2015, ovvero delle certificazioni rilasciate dagli enti previdenziali di riferimento non aderenti al sistema dello sportello unico previdenziale.

   art. 4.
      1. Ai sensi e per gli effetti dell’articolo 95, comma 2, del codice, la violazione grave di cui all'articolo 3, comma 1, del presente allegato si considera non definitivamente accertata, e pertanto valutabile dalla stazione appaltante per l'esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici, quando siano decorsi inutilmente i termini per adempiere all'obbligo di pagamento e l'atto impositivo o la cartella di pagamento siano stati tempestivamente impugnati.
      2. Le violazioni di cui al comma 1 non rilevano ai fini dell'esclusione dell'operatore economico dalla partecipazione alla procedura d'appalto se in relazione alle stesse è intervenuta una pronuncia giurisdizionale favorevole all'operatore economico non passata in giudicato, sino all'eventuale riforma della stessa o sino a che la violazione risulti definitivamente accertata, ovvero se sono stati adottati provvedimenti di sospensione giurisdizionale o amministrativa.


- D.M. 30.01.2015 (“Semplificazione in materia di documento unico di regolarità contributiva”) [vigente]

      hh) in dottrina, si rinvia a: BALOCCO, Documento unico di regolarità contributiva e appalti pubblici: una difficoltosa convivenza, in Urb. e app., 2015, 1002; DE NICTOLIS, Appalti pubblici e concessioni, Bologna, 2020, in part. 677 ss., 727 ss.; GAVIOLI, Esclusione dall'appalto per violazioni fiscali, in Prat. fisc., 14.11.2022, n. 43; DIMICHINA, Le violazioni in materia fiscale nel nuovo Codice dei contratti, in Giorn. dir. amm., 2023, 167; sulla prassi, è possibile consultare i seguenti atti:
         - INPS-Direzione centrale entrate, circolare 26.06.2015, n. 126 (“Decreto Interministeriale 30.01.2015 - Semplificazione in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC)”);
         - INPS-Direzione centrale entrate, circolare 31.01.2017, n. 17 (“Semplificazioni in materia di documento unico di regolarità contributiva (DURC). Modifiche al decreto interministeriale 30.01.2015”);
         - INAIL- Direzione centrale rischi, circolare 26.06.2015, n. 61 (“Semplificazioni in materia di documento unico di regolarità contributiva. Decreto interministeriale 30.01.2015");
         - INAIL-Direzione centrale rapporto assicurativo, circolare 14.12.2016, n. 48 (“Semplificazioni in materia di documento unico di regolarità contributiva. Modifiche al decreto interministeriale 30.01.2015”);
         - Agenzia delle entrate, circolare 12.02.2020, n. 1/E (“Articolo 4 del decreto-legge 26.10.2019, n. 124, convertito, con modificazioni, dalla legge 19.12.2019, n. 157 – primi chiarimenti”), con riferimento al c.d. “DURF” (“Documento Unico di Regolarità Fiscale”), introdotto dall’art. 4 decreto-legge del 26.10.2019, n. 124, conv., con md., dalla legge 19.12.2019 n. 157, che ha aggiunto al d.lgs. 09.07.1997, n. 241, l’art. 17-bis, che ha posto alcuni obblighi negli appalti e subappalti, relativi a opere (o servizi) di importo annuo superiore a € 200.000,00 e caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera.
         - ANAC - Autorità nazionale anti-corruzione, delibera 20.06.2023, n. 261: (“Adozione del provvedimento di cui all’articolo 24, comma 4, del decreto legislativo 31.03.2023, n. 36 d’intesa con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e con l’Agenzia per l’Italia Digitale”), che ha istituito il FVOE (ossia il “Fascicolo virtuale dell’operatore economico”), che consente alle stazioni appaltanti la verifica dell’assenza delle cause di esclusione e dei requisiti di partecipazione alle procedure di evidenza pubbliche (detta banca dati sostituisce il previgente sistema ACV-pass); segnatamente, il nuovo sistema FVOE permette alle stazioni appaltanti e agli enti aggiudicatori l’acquisizione dei documenti a comprova del possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economicofinanziario per l’affidamento dei contratti pubblici e per la verifica del mantenimento dei requisiti in fase di esecuzione; agli operatori economici permette di inserire a sistema i documenti la cui produzione è a proprio carico e di utilizzare tali documenti per ciascuna delle procedure di affidamento alle quali partecipa, entro il periodo di validità del documento individuato in via convenzionale in n. 120 giorni dalla data di emissione, ove non diversamente indicato; il FVOE è obbligatorio per tutti gli affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro (Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 04.01.2024 n. 161 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla necessità o meno di verificare che la regolarità fiscale dell’impresa concorrente persista per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica.
---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione – Regolarità fiscale – Irregolarità sopravvenuta – Rilevanza – Rimessione all’Adunanza plenaria.
Vanno rimessi all’Adunanza plenaria i seguenti quesiti:
   i) se, fermo restando il principio della insussistenza di un potere della stazione appaltante di sindacare le risultanze delle certificazioni dell’Agenzia delle entrate attestanti l’assenza di irregolarità fiscali a carico dei partecipanti a una gara pubblica, le quali si impongono alla stessa amministrazione, il principio della necessaria continuità del possesso in capo ai concorrenti dei requisiti di ordine generale per la partecipazione alle procedure selettive comporti sempre il dovere di ciascun concorrente di informare tempestivamente la stazione appaltante di qualsiasi irregolarità che dovesse sopravvenire in corso di gara;
   ii) se, correlativamente, sussista a carico della stazione appaltante, ferma restando la richiamata regola della sufficienza delle certificazioni rilasciate dalle autorità competenti, il dovere di estendere la verifica circa l’assenza di irregolarità in capo all’aggiudicatario della procedura in relazione all’intera durata di essa, se del caso attraverso l’acquisizione di certificazioni estese all’intero periodo dalla presentazione dell’offerta fino all’aggiudicazione;
   iii) se, in ogni caso e a prescindere dalla sufficienza o meno delle verifiche condotte dalla stazione appaltante, il concorrente che impugni l’aggiudicazione possa dimostrare, e con quali mezzi, che in un qualsiasi momento della procedura di gara l’aggiudicataria ha perso il requisito dell’assenza di irregolarità con il conseguente obbligo dell’amministrazione di escluderlo dalla procedura stessa (1).

---------------
   (1) Non risultano precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 04.01.2024 n. 161 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Rivendicazione delle differenze retributive – Svolgimento di mansioni superiori – Operazione di sussunzione trifasica – Verifica delle caratteristiche dell’inquadramento – Raffronto tra le attività in concreto svolte – Contrattazione collettiva nazionale – Contrattazione collettiva integrativa – Mansioni svolte con abitualità e prevalenza – Riconoscimento della superiore qualifica – rilevanza ai fini retributivi – Art. 52, c. 5, D.lgs. n. 165/2001 – Equivalenza formale delle mansioni.
La domanda di inquadramento superiore e quella di rivendicazione delle differenze retributive conseguenti allo svolgimento delle mansioni superiori devono essere distinte. In ambito di mansioni superiori il giudice è tradizionalmente chiamato ad un’operazione di sussunzione su base c.d. trifasica, ovverosia data dalla verifica delle caratteristiche dell’inquadramento posseduto, delle caratteristiche del livello in ragione del quale è calibrata la domanda e, quindi, dal raffronto delle une e delle altre con le attività in concreto svolte.
Il giudizio trifasico dovrà tener conto, oltre che della contrattazione collettiva nazionale, anche di quella integrativa di tempo in tempo vigente, al fine di verificare le mansioni svolte con abitualità e prevalenza in quale inquadramento vadano sussunte, fermo restando che tale operazione di sussunzione, nel pubblico impiego contrattualizzato, non rileva ai fini del riconoscimento della superiore qualifica, ma solo ai fini retributivi ex art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001.
L’operazione trifasica dovrà, altresì, tener conto che in materia di impiego pubblico contrattualizzato, l’equivalenza formale delle mansioni può essere definita dai contratti collettivi anche attraverso la previsione di aree omogenee nelle quali rientrino attività tutte parimenti esigibili e ciò ancorché, secondo una precedente classificazione, tali diverse attività –poi ricomprese nelle medesime aree– fossero da considerare come mansioni di diverso rilievo professionale e retributivo.
Pertanto, al dipendente che abbia svolto, nel previgente regime, mansioni considerate superiori a quelle di inquadramento, ricevendo il corrispondente maggior trattamento retributivo, e prosegua nello svolgimento delle medesime nella vigenza della nuova contrattazione –in cui sia le mansioni di cui al precedente inquadramento, sia quelle richieste, rientrino nell’ambito della stessa area– compete il solo trattamento proprio di quell’area e della posizione meramente economica di inquadramento secondo la nuova contrattazione, senza che, in mancanza di espresse previsioni contrarie di diritto transitorio della contrattazione collettiva sopravvenuta, l’assetto complessivo dei rapporti di lavoro, quale definito da quest’ultima, possa essere sindacato o manipolato, in vista della salvaguardia di pretese individuali fondate sulla previgente disciplina
(Corte di Cassazione, Sez. ordinanza 03.01.2024 n. 154 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Impugnazione terza classificata – Documenti relativi a una procedura di gara – Mancata firma dei verbali della commissione di gara – Mancata firma segretarie che assistevano la commissione.
Qualora il provvedimento che fissa le regole di funzionamento della commissione preveda esclusivamente che i verbali verranno redatti per il tramite dei segretari, non ne consegue la necessità anche della firma da parte degli stessi.
Tale adempimento può essere svolto dai commissari poiché la sigla in calce al verbale di gara, per il ruolo e la funzione rivestita dai commissari stessi, è senz’altro idonea ad attestare, in via assorbente, la effettiva provenienza dell’atto da parte della commissione stessa
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.01.2024 n. 29 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
SENTENZA
7.2. Si lamenta poi, con il secondo dei motivi, che tre verbali della commissione di gara non sarebbero stati firmati anche dalle due segretarie che assistevano la commissione. Al riguardo osserva il collegio che:
   7.2.1. Il motivo non può trovare ingresso in quanto, come correttamente evidenziato dal giudice di primo grado, nessuna norma del codice dei contratti ratione temporis vigente impone, in effetti, una simile formalità;
   7.2.2. Inoltre il provvedimento in data 01.02.2023, con cui si nominavano i membri della commissione e si fissavano alcune delle regole di funzionamento della commissione, così stabiliva: “La Commissione giudicatrice avrà il compito di svolgere le operazioni di gara nel rispetto delle norme di gara, redigendo, per il tramite dei segretari, appositi verbali”.
Dunque si prevedeva che il segretario di commissione dovesse “redigere” il verbale e non anche necessariamente siglarlo o firmarlo. Adempimento questo che ben avrebbe potuto essere svolto dai commissari (come in effetti è stato) la cui sigla in calce al verbale di gara, per il ruolo e la funzione rivestita dai commissari stessi, è senz’altro idonea ad attestare, in via assorbente, la effettiva provenienza dell’atto da parte della commissione stessa;
   7.2.3. In ogni caso non è contestata la provenienza di tali verbali dalla commissione di gara.
Si veda al riguardo la pacifica giurisprudenza sulla assenza di firma dei provvedimenti tributari o amministrativi in generale secondo cui, più da vicino: “Sebbene la firma apposta in calce ad un provvedimento o ad un atto amministrativo costituisce lo strumento per la sua concreta attribuibilità, psichica e giuridica, all’agente amministrativo che risulta averlo formalmente adottato, è pur vero che la giurisprudenza ha recentemente (e condivisibilmente) osservato, anche in omaggio al più generale principio di correttezza e buona fede cui debbono essere improntati i rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino, che non solo la “non leggibilità” della firma, ma anche la stessa autografia della sottoscrizione non possono costituire requisiti di validità dell’atto amministrativo, ove concorrano elementi testuali (indicazione dell’ente competente, qualifica, ufficio di appartenenza del funzionario che ha adottato la determinazione, emergenti anche dal complesso dei documenti che lo accompagnano), che permettono di individuare la sua sicura provenienza (C.d.S., sez. IV, 07.07.200, n. 4356; sez. VI, 29.07.2009, n. 4712); è stato anche rilevato (Cass. sez. lav., 10.06.2009, n. 13375) che l’atto amministrativo esiste come tale allorché i dati emergenti dal procedimento amministrativo consentano comunque di ritenerne la sicura provenienza dall’amministrazione e la sua attribuibilità a chi deve esserne l’autore secondo le norme positive, salva la facoltà dell’interessato di chiedere al giudice l’accertamento dell’effettiva provenienza dell’atto stesso dal soggetto autorizzato a firmarlo” (Cons. Stato, sez. V, 28.05.2012, n. 3119).
Elementi questi (indicazione ente competente, qualifica, ufficio, etc.) che nel caso di specie non solo risultano ad una attenta lettura dei verbali in contestazione ma che, come già anticipato, neppure hanno formato oggetto di più specifica contestazione da parte della difesa di parte appellante;

APPALTI: Circa il motivo di appello secondo cui il RUP non si sarebbe fatto effettivamente assistere dalla commissione di gara per la valutazione di anomalia dell’offerta formulata dalla prima classificata devesi osservare che la norma primaria del codice dei contratti prevede una mera facoltà in tal senso.
La giurisprudenza ha avuto modo, al riguardo, di rilevare che: “Per principio generale il giudizio di congruità delle offerte è riservato alla competenza del RUP il quale può decidere di avvalersi o di delegare, a tal fine, la commissione di gara”.

---------------

7.3. Con il terzo motivo di appello si lamenta, inoltre, che il RUP non si sarebbe fatto effettivamente assistere dalla commissione di gara per la valutazione di anomalia dell’offerta formulata dalla prima classificata. Al riguardo si osserva che:
   7.3.1. La norma primaria del codice dei contratti prevede una mera facoltà in tal senso. La giurisprudenza ha avuto al riguardo avuto modo di rilevare che: “Per principio generale il giudizio di congruità delle offerte è riservato alla competenza del RUP il quale può decidere di avvalersi o di delegare, a tal fine, la commissione di gara (Cons. Stato, sez. V, 11.10.2021, n. 6784; Cons. Stato, sez. III, 11.05.2021, n. 3709; Cons. Stato, sez. III, 11.05.2021, n. 3710)” [Cons. Stato, sez. V, 19.05.2022, n. 3975];
   7.3.2. Anche il disciplinare di gara prevedeva la sola eventualità che il RUP si facesse assistere dal RUP per tale attività. L’art. 23 del richiamato atto di gara prevedeva infatti che: “Al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 97, comma 3, del Codice, e in ogni altro caso in cui, in base a elementi specifici, l’offerta appaia anormalmente bassa, il RPA, avvalendosi, se ritenuto necessario, della commissione giudicatrice, valuta la congruità, serietà, sostenibilità e realizzabilità delle offerte che appaiono anormalmente basse”. Dunque nessun autovincolo dal disciplinare ma soltanto la mera facoltà del RUP (“se ritenuto necessario”) di avvalersi delle competenze tecniche della commissione di gara;
   7.3.3. La difesa di parte appellante afferma che il RUP, con proprio atto del 13.04.2023, avrebbe espressamente affermato che per la valutazione di anomalia si sarebbe avvalso della commissione di gara. Di qui il formarsi di un autovincolo che non sarebbe poi stato in effetti osservato.
Si rileva tuttavia che, anche ad interpretare l’atto RUP del 13.04.2023 alla stregua di autovincolo, con i successivi atti (afferenti al giudizio di anomalia) tale autovincolo è stato sostanzialmente ed implicitamente rimosso nel rispetto del contrarius actus ossia mediante provvedimenti dello stesso RUP che, sebbene per implicito ossia per facta concludentia o meglio attraverso altri specifici atti concludenti dello stesso organo della PA (quelli riguardanti il concreto giudizio di congruità dell’offerta), hanno in concreto manifestato una intenzione di contrario avviso in tal senso (assistenza della commissione di gara) da parte del medesimo RUP;
   7.3.4. Si osserva poi che, con memoria difensiva in data 30.11.2023, la difesa di parte appellante contestava altresì il ritardo con cui sarebbero stati prodotti i giustificativi da parte della prima classificata. Trattasi tuttavia di censura per la prima sollevata nel presente giudizio (peraltro con mera memoria difensiva) e dunque radicalmente inammissibile per violazione del divieto di nova in appello;
   7.3.5. Per tutte le ragioni sopra evidenziate, anche tale motivo deve pertanto essere rigettato
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.01.2024 n. 29 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Come noto, l’interesse all’aggiudicazione del terzo classificato sussiste “solo ove risultino fondate sia le censure proposte avverso la prima classificata, che quelle spese nei confronti della seconda graduata”.
È invece inammissibile per carenza di interesse il ricorso per l’impugnazione degli atti di gara, con il quale la terza classificata lamenti profili di illegittimità limitatamente alla posizione dell’aggiudicatario (ipotesi alla quale è assimilabile quella in cui le censure investano le posizioni sia del primo che del secondo classificati, ma siano fondate solo nei confronti di uno dei due), in quanto l’accoglimento delle suddette censure determinerebbe uno scorrimento della graduatoria a favore dell’impresa seconda classificata, senza recare una concreta utilità al ricorrente, non essendo ravvisabile in capo al medesimo soggetto neppure un interesse strumentale all’annullamento degli atti ai fini della rinnovazione della gara, nella misura in cui i vizi dedotti non si caratterizzino per una generalità tale da determinare l’illegittimità e il travolgimento dell’intera procedura.

---------------

7.4. Con ultimo motivo si lamenta che l’offerta della prima classificata non sarebbe sostenibile. Al riguardo si osserva che:
   7.4.1. In primo luogo la censura è inammissibile, come correttamente evidenziato dalla difesa dell’amministrazione aggiudicatrice, in quanto si contesta la sola offerta della prima e non anche quella della seconda.
La giurisprudenza ha infatti al riguardo affermato che: “Come noto, l’interesse all’aggiudicazione del terzo classificato sussiste “solo ove risultino fondate sia le censure proposte avverso la prima classificata, che quelle spese nei confronti della seconda graduata” (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 07.01.2020, n. 83; Cons. Stato, sez. III, 02.03.2017, n. 972).
È invece inammissibile per carenza di interesse il ricorso per l’impugnazione degli atti di gara, con il quale la terza classificata lamenti profili di illegittimità limitatamente alla posizione dell’aggiudicatario (ipotesi alla quale è assimilabile quella in cui le censure investano le posizioni sia del primo che del secondo classificati, ma siano fondate solo nei confronti di uno dei due), in quanto l’accoglimento delle suddette censure determinerebbe uno scorrimento della graduatoria a favore dell’impresa seconda classificata, senza recare una concreta utilità al ricorrente, non essendo ravvisabile in capo al medesimo soggetto neppure un interesse strumentale all’annullamento degli atti ai fini della rinnovazione della gara, nella misura in cui i vizi dedotti non si caratterizzino per una generalità tale da determinare l’illegittimità e il travolgimento dell’intera procedura (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.11.2020, n. 7065)
” (Cons. Stato, sez. III, 08.05.2023, n. 4584).
La circostanza, poi, secondo cui la difesa di parte appellante non avrebbe potuto muovere contestazione alcuna in tal senso in quanto la S.A. non aveva ancora effettuato un giudizio di anomalia anche nei confronti della seconda classificata (cfr. memoria IT. del 30.11.2023) non ha pregio in quanto era onere della stessa appellante quello di evidenziare almeno un principio di prova circa la possibilità di intaccare e dunque superare, in qualche misura, la posizione della seconda classificata.
La giurisprudenza ha infatti in proposito rilevato che, in siffatte ipotesi, costituisce “preciso e non eludibile onere … non limitarsi a rilevare … che l’offerta della seconda classificata era stata sospettata di anomalia dalla Commissione di gara, bensì evidenziare i profili di illegittimità e/o inaffidabilità della stessa che, a suo avviso, non avrebbero potuto trovare giustificazione nel corso dell’eventuale sub-procedimento di verifica, analogamente a quanto fatto per l’offerta della prima classificata” (Cons. Stato, sez. V, 25.06.2018, n. 3921).
Ed ancora che, in simili casi, il ricorso si rivela “inammissibile per difetto di interesse, non avendo a suo tempo la ricorrente –odierna appellante– dedotto alcuna specifica censura in relazione all’offerta della seconda graduata, al fine di dimostrarne, nel contraddittorio della parte ed in modo definitivo, l’inaffidabilità e/o contrarietà con le vigenti norme di legge”.
Ebbene, poiché tale “dimostrazione minima” è risultata in questa sede del tutto assente, alla luce di quanto emerge dagli atti del giudizio, ne deriva la ineludibile assenza di prova di resistenza da parte della odierna appellante
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.01.2024 n. 29 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Istanza realizzazione opere urbanizzazione primaria – Realizzazione tronco fognante, pubblica illuminazione e tronco gas – Preavviso rigetto – Diniego istanza – Presupposto – Natura agricola dei fondi.
Deve essere rigettata l’istanza di realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria laddove l’esecuzione delle predette opere non sia stata ritenuta legalmente obbligatoria dall’Amministrazione comunale, né corrispondente a criteri di pubblico interesse, essendo le abitazioni dei ricorrenti edificate in zona agricola.
Inoltre, il fatto che il permesso di costruire sia rilasciato a titolo oneroso non comporta automaticamente l’obbligo dell’amministrazione comunale di eseguire le opere di urbanizzazione, atteso che la norma di cui all’art. 16 del d.P.R. 380/2001 prevede l’esecuzione alternativa a carico del privato che richiede l’assenso edilizio (1).

---------------
   (1) Il Collegio nella decisione trae spunto da quanto statuito dal Consiglio di Stato con sentenza n. 6434 del 2018 resa inter partes, nel cui ambito, chiamato a valutare la fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio dai ricorrenti, così come posta a base di un’azione avverso il silenzio della P.a., il giudice di appello afferma che “Secondo il chiaro disposto letterale contenuto nell’art. 31, comma 3 del c.p.a., il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando:
   a) si tratta di attività vincolata;
   b) quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.
11.3. Nel caso di specie, difettano i suddetti presupposti giacché:
   a) la fattispecie de qua non rientra tra i casi di esercizio vincolato del potere, non essendovi alcuna base legale o convenzionale che obblighi l’amministrazione a procedere all’esecuzione delle dette opere in zona agricola (…);
   b) la fattispecie rientra, invece, nell’ambito dell’esercizio discrezionale del potere e sussistono profili e circostanze di fatto che debbono essere valutati dall’ente comunale in sede di amministrazione attiva, la cui verifica resta inibita a questo giudice anche ai sensi dell’art. 34 del c.p.a.”
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 02.01.2024 n. 2 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
SENTENZA
1. La presente controversia concerne il diniego di provvedere alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria, che il Comune di Alberobello oppone ai deducenti, sul presupposto della natura agricola dei fondi di loro proprietà.
Ritiene, in proposito, il Collegio di trarre spunto da quanto statuito dal Consiglio di Stato con sentenza n. 6434 del 2018 resa inter partes, nel cui ambito, chiamato a valutare la fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio dai ricorrenti, così come posta a base di un’azione avverso il silenzio della P.a., il giudice di appello afferma che “Secondo il chiaro disposto letterale contenuto nell’art. 31, comma 3 del c.p.a., il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando:
   a) si tratta di attività vincolata;
   b) quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.
11.3. Nel caso di specie, difettano i suddetti presupposti giacché:
   a) la fattispecie de qua non rientra tra i casi di esercizio vincolato del potere, non essendovi alcuna base legale o convenzionale che obblighi l’amministrazione a procedere all’esecuzione delle dette opere in zona agricola, tenuto conto anche delle risultanze delle relazioni tecniche allegate alle richieste di rilascio del titolo edilizio presentate da due dei ricorrenti in primo grado;
   b) la fattispecie rientra, invece, nell’ambito dell’esercizio discrezionale del potere e sussistono profili e circostanze di fatto che debbono essere valutati dall’ente comunale in sede di amministrazione attiva, la cui verifica resta inibita a questo giudice anche ai sensi dell’art. 34 del c.p.a. (in nessun caso il giudice amministrativo può pronunciare in ordine a poteri non ancora esercitati dall’amministrazione), quali ad esempio: la possibilità di stipulare una convenzione con il privato; di cedere gratuitamente al comune la strada o la porzione di strada interessata; di trovare un accordo in tal senso anche con gli altri comproprietari della strada; di espropriare la sede viaria, sussistendone le ragioni di interesse pubblico; di valutare lo stato di complessiva urbanizzazione di fatto della zona, rispetto alle altre abitazioni eventualmente presenti in loco
.”
2. Le argomentazioni sopra richiamate, pur non vincolanti ai fini della soluzione della odierna controversia, conducono il Collegio ad una decisione di rigetto dell’azione proposta dai germani Mi..
3. Ed invero, il diniego alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria si fonda su una motivazione articolata che permette di comprendere le ragioni per le quali l’esecuzione di dette opere non è stata ritenuta legalmente obbligatoria dall’Amministrazione comunale, né corrispondente a criteri di pubblico interesse.
In particolare, emerge chiaramente che le abitazioni dei ricorrenti sono state edificate in zona agricola. La realizzazione di opere di urbanizzazione primaria in zona agricola appare in contrasto con la tipizzazione agricola della zona, che persegue lo scopo di ridurre l’espansione dell’abitato urbano.
La circostanza ridimensiona l’osservazione per la quale si tratterebbe di immobili “legittimamente costruiti o sottoposti a interventi di manutenzione/ristrutturazione regolarmente assentiti dal Comune di Alberobello, … ubicati in una zona fortemente edificata, a ridosso del centro urbano, attraversata da una strada (la Traversa Contrada Vaccari), asfaltata a cura e spese del Comune, su cui quest’ultimo ha programmato da tempo (deliberazione di G.C. n. 467 del 23.07.1990) la realizzazione delle necessarie opere di urbanizzazione a servizio delle numerose abitazioni presenti in quel territorio.”
E, d’altra parte, l’edificazione di fatto di un brano del territorio comunale non impegna l’amministrazione comunale ad eseguire o completare la rete delle opere di urbanizzazione primaria, trattandosi pur sempre di scelta discrezionale della P.a.
4. Quanto al secondo motivo di ricorso, sostengono i ricorrenti che “dalla lettura dei titoli edilizi rilasciati ai ricorrenti, si evince chiaramente che questi ultimi non hanno mai assunto alcun impegno sostitutivo quanto alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria. Né alcuna autorizzazione in tal senso si rinviene nei provvedimenti concessori, da cui invece si evince che l’Amministrazione comunale si è fatta carico di tali opere, la cui esecuzione era stata infatti approvata sin dal 1990”.
Sennonché, le relazioni tecniche allegate ai titoli edilizi rilasciati in favore dei germani Bi. e Le.Mi. indicano che l’allacciamento alla rete idrica, a quella fognaria e a quella di pubblica illuminazione sarebbe stato a carico del privato richiedente, senza alcun obbligo posto a carico dell’amministrazione.
A tutto concedere, e cioè ammettendo per un attimo la possibilità di realizzare opere di urbanizzazione primaria a servizio di una piccola zona tipizzata quale agricola, il relativo onere va inteso come a carico dei privati.
5. Il fatto che il permesso di costruire sia rilasciato a titolo oneroso –argomento impiegato con il terzo motivo di ricorso– non indica automaticamente l’obbligo dell’amministrazione comunale di eseguire le opere di urbanizzazione, atteso che la norma di cui all’art. 16 del d.P.R. 380/2001 prevede l’esecuzione alternativa a carico del privato che richiede l’assenso edilizio “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione… 2. La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all’atto del rilascio del permesso di costruire… A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione… con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune…”.
6. La stessa amministrazione comunale di Alberobello ha poi chiarito che “le opere di urbanizzazione primaria richieste non sono incluse nel piano triennale delle opere pubbliche, né esiste alcun progetto in tale senso approvato dall’Ente” depotenziando il quarto motivo di ricorso che fa leva sulla presunta esistenza di una programmazione in tal senso, peraltro in epoca assai risalente.
7. Il quinto motivo di ricorso appare superato in forza di quanto osservato dal Consiglio di Stato, con la pronuncia sopra citata, nella parte in cui si evidenzia la mancata sussistenza di una procedura ablatoria di acquisizione di parte della strada privata ad uso pubblico che collega la proprietà dei ricorrenti al resto della zona agricola di cui si discute.
Coerentemente con questo ordine di argomentazioni la P.a. opina nel provvedimento impugnato che “l’acquisizione della strada privata di uso pubblico attraverso una procedura espropriativa necessita della sua previsione e dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio attraverso il PRG e/ o una sua variante; ma ad oggi, tale previsione urbanistica non esiste; una sua previsione imporrebbe la verifica della sussistenza delle ragioni di interesse pubblico: appare difficile immaginare di poter giustificare l’interesse pubblico all’acquisizione coattiva di un tratto st5radale che, per caratteristiche e dimensioni (ridotta sezione stradale e profilo tortuoso che si dipana tra le proprietà private) è inidoneo a svolgere alcuna funzione pubblica, essendo, per di più, poco più che un “tratturo asfaltato” cieco sul quale si affacciano gli immobili dei germani Mi.”.
8. Anche il sesto motivo di ricorso appare non fondato.
Va detto che l’assunto per il quale “I provvedimenti impugnati sono peraltro illegittimi anche per violazione dell’affidamento ingenerato nei ricorrenti in merito all’esecuzione delle opere in questione e dunque per violazione del preciso dovere di correttezza e buona amministrazione in rapporto alla qualificata aspettativa del privato”.
A fronte di una scelta ampiamente discrezionale della p.a. non appare configurabile alcuna aspettativa qualificate nel privato, meritevole di protezione giuridica. 

PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICO IMPIEGO – Prescrizione dei crediti retributivi – Pubblico impiego contrattualizzato – Decorrenza della prescrizione – Rapporto a tempo indeterminato – Rapporto a tempo determinato – Successione di rapporti a tempo determinato – Decorrenza in costanza di rapporto – Inconfigurabilità di un metus – Mera aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego.
La prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre –tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, tanto di rapporto a tempo determinato, così come di successione di rapporti a tempo determinato– in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa), attesa l’inconfigurabilità di un metus.
Nell’ipotesi di rapporto a tempo determinato, anche per la mera aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego, in ordine alla continuazione del rapporto suscettibile di tutela.

----------------
DIRITTO DEL LAVORO – Giurisprudenza e principi regolanti il rapporto lavoro privato e pubblico contrattualizzato – Differenze e limiti costituzionali – D.lgs. n. 29/1993, di “Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. n. 421/1992; d.lgs. n. 165/2001, seguito alla c.d. “seconda privatizzazione” del lavoro pubblico operata dalla L. n. 59/1997 – Artt. 41 2 97 Cost..
Nei principi regolanti i rapporti lavoro, la privatizzazione non ha comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato.
In particolare, permangono nel lavoro pubblico privatizzato quelle peculiarità individuate dalla Corte Costituzionale, in relazione al previgente regime dell’impiego pubblico, come giustificative di un differente regime della prescrizione: sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato (articolo 51, secondo comma d.lgs. 165/2001 e, all’attualità, articolo 63, secondo comma d.lgs. cit.), che, in punto di eccezionalità del lavoro a termine (secondo la disciplina speciale dell’articolo 36 d.lgs. cit.) … ”
(Cass. n. 35676/2021, così, massimata: “In tema di pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, la prescrizione dei crediti retributivi decorre in costanza di rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego e la conseguente inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela”). Pertanto, le modifiche apportate dalla legge n. 92/2012 all’art. 18 non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata legge n. 92, resta quella prevista dall’art. 18 legge cit. nel testo antecedente la riforma; rilevano a tal fine il rinvio ad un intervento normativo successivo ad opera dell’art. 1, ottavo comma, legge n. 92/2012, l’inconciliabilità della nuova normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con le disposizioni di cui al d.lgs. 165/2001, neppure richiamate al sesto comma dell’art. 18 nuova formulazione, la natura fissa e non mobile del rinvio di cui all’art. 51, secondo comma, d.lgs. cit., incompatibile con un automatico recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla natura della tutela del dipendente licenziato” (Cass. n. 11868/2016; Cass. n. 23424/2017).
In particolare, una eventuale modulazione delle tutele nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l’impiego privato; poiché, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest’ultimo il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (Corte Cost. n. 351/2008).
Viene, cioè, in rilievo non l’art. 41, primo e secondo comma, della Costituzione, bensì l’art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.

----------------
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Tutela del lavoratore pubblico – PUBBLICO IMPIEGO – Inconfigurabilità di una situazione psicologica di soggezione del cittadino verso un potere dello Stato – Principi costituzionali – Artt. 2, 18, 21, 24, 28, 39, 48, 49, 113, Cost. e 6 CEDU.
In tema di tutela del diritto al lavoro, deve essere affermata l’inconfigurabilità di una situazione psicologica di soggezione del cittadino verso un potere dello Stato, quale la pubblica amministrazione, nella fisiologia del sistema.
Esso assicura, a tutela del lavoratore pubblico, un concreto ed efficiente assetto di stabilità del rapporto, che si articola in concorrenti profili di garanzia attraverso un articolato ed equilibrato sistema di controlli tra poteri e di bilanciamento di interessi, orientato da quello prioritario generale, fondato sui principi dello Stato costituzionale di diritto.
Il sistema garantisce, infatti, il controllo sulla res publica dei cittadini, che si esprime sia nella forma diretta partecipativa attraverso la composizione degli organi costituzionali rappresentativi con l’esercizio del diritto di voto (art. 48 Cost.) e la vigilanza critica sul loro operato come opinione pubblica (art. 21 Cost.), sia in quella mediata delle formazioni intermedie e della loro libera associazione (artt. 2 e 18 Cost.) e, in particolare, delle organizzazioni sindacali (art. 39 Cost.) e dei partiti politici (art. 49 Cost.); non potendo essere sottaciuta l’essenziale tutela dell’accesso al giudice (artt. 24 Cost. e 6 CEDU), anche nei confronti della pubblica amministrazione attraverso la giurisdizione amministrativa (art. 113 Cost.).
Il rappresentato assetto ordinamentale di diritti e di poteri, tutelato dai reciproci controlli di garanzia, assicura pienamente il lavoratore pubblico negli eventuali comprovati casi di patologia del sistema (che, in quanto tale, costituisce deviazione eccezionale dall’ordinario andamento fisiologico), attraverso la responsabilità diretta de “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici … secondo le leggi penali, civili e amministrative” per gli “atti compiuti in violazione di diritti” (con estensione, in tali casi, della responsabilità civile allo Stato e agli enti pubblici), prevista dal già citato art. 28 Cost..

---------------
PUBBLICO IMPIEGO – Reiterazione della contrattazione a tempo determinato – Mancato rinnovo del contratto a termine da parte del datore – Esclusione di una rilettura e di ampliamento del concetto di metus.
In tema di reiterazione della contrattazione a tempo determinato –tenuto anche conto in ordine alla mancanza di prova di una “prassi” di “stabilizzazioni” da parte della P.A., a fronte di una normativa limitativa del ricorso alla contrattazione a tempo determinato e di un suo obbligo di periodica informazione alle organizzazioni sindacali sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate, per combatterne gli abusi– appare ostativa la corretta qualificazione giuridica del metus (non già del licenziamento, ma) del mancato rinnovo del contratto a termine da parte del datore.
Contrariamente al pubblico impiego contrattualizzato, che si colloca all’interno di un rapporto di lavoro fonte (qualora cessato per illegittimo recesso datoriale) di una posizione giuridica qualificabile alla stregua di diritto soggettivo tutelabile, il mancato rinnovo del contratto a tempo determinato suscita (non tanto un “timore” siffatto, quanto piuttosto) un’apprensione, che, per quanto meritevole di giustificabile comprensione, integra tuttavia una mera aspettativa di fatto, non giustiziabile per la sua irrilevanza giuridica.
Infine, giova richiamare la radicale negazione dell’esistenza del metus quale delineato dal giudice costituzionale
(come chiarito da Cass. S.U. n. 575/2003),
per il riconoscimento ai rapporti a termine, in caso di illegittimità del recesso, di una piena tutela attraverso la condanna al pagamento delle retribuzioni dovute e il risarcimento del danno (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 28.12.2023 n. 36197 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla formazione del silenzio-assenso in materia di installazione di stazioni radio base per telefonia mobile.
---------------
Comunicazioni elettroniche – Silenzio-assenso – Istanza per l’installazione di stazione radio base per telefonia mobile – Decorso del termine di legge – Domanda non corredata di tutti gli elementi occorrenti alla valutazione della pubblica amministrazione -Formazione – Esclusione – Difetto delle condizioni sostanziali – Formazione - Configurabilità.
L’assenso tacito sull’istanza per l’installazione di una stazione radio base per telefonia mobile si forma allorquando sulla domanda, se corredata di tutti gli elementi occorrenti alla valutazione della pubblica amministrazione, sia decorso il termine di legge senza che questa abbia provveduto, mentre non può essere escluso per difetto delle condizioni sostanziali per il suo accoglimento, ossia, per contrasto della richiesta con la normativa di riferimento (1).
Il Consiglio di Stato ha precisato che ove l’istanza non sia stata corredata da tutta la documentazione necessaria ovvero si presenti imprecisa o foriera di possibili equivoci, in modo tale che l’amministrazione destinataria sia stata impossibilitata per il comportamento dell’istante a svolgere un compiuto accertamento di spettanza del bene, il silenzio-assenso non può formarsi, per cui si avrà un’ipotesi di inesistenza dello stesso e non di sua illegittimità.

---------------
   (1) Precedenti conformi: di recente, sul silenzio-assenso in materia edilizia e sulla configurabilità del silenzio-assenso anche nel caso in cui l’attività oggetto del provvedimento di cui si chiede l’adozione non sia conforme alle norme, Cons. Stato, sez. VI, 30.11.2023, n. 10383; Cons. Stato, sez. IV, 04.09.2023, n. 8156; Cons. Stato, sez. II, 22.05.2023, n. 5072; Cons. Stato, sez. VI, 16.12.2022, n. 11034; Cons. Stato, sez. VI, 08.07.2022, n. 5746. Di recente, sul silenzio-assenso in relazione alle fattispecie di tutela degli intessi paesaggistici, Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2023, n. 8610.
       Precedenti difformi: riteneva necessaria per la formazione del silenzio-assenso la sussistenza di tutte le condizioni e i presupposti richiesti dalla legge, Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 876 che richiama Cons. Stato, sez. VI, 21.09.2010, n. 7012; Tar per il Lazio, sez. III-ter, 31.05.2012, n. 4976; Tar per il Lazio, sez. II-ter, 18.01.2011, n. 401
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.12.2023 n. 11203 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
... per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, Sezione Seconda, n. 429 dell’11.04.2023.
...
3. Il Tar per la Liguria, Sezione Seconda, con la sentenza n. 429 dell’11.04.2023, ha dichiarato il ricorso inammissibile con la seguente motivazione:
Si rammenta che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, ai fini dell’impugnazione dei titoli abilitativi relativi ad infrastrutture di comunicazione elettronica non è sufficiente la sussistenza di una situazione legittimante determinata dallo stabile collegamento con il sito di installazione (“vicinitas”), ma è necessaria anche la dimostrazione degli specifici pregiudizi in cui risiede l’interesse ad agire, consistenti nel peggioramento delle condizioni di vita e di salute o nel deterioramento delle concrete connotazioni urbanistico e ambientali dell’area ovvero, ancora, nel deprezzamento delle unità immobiliari poste in prossimità del nuovo impianto.
Considerando che le infrastrutture in questione sono assimilate alle opere di urbanizzazione primaria e di pubblica utilità in quanto funzionali all’erogazione di un servizio a carattere generale, l’esigenza dell’allegazione e della prova di tali pregiudizi si impone in modo ancora più intenso di quanto non si verifichi nel caso degli ordinari titoli edilizi.
Tanto precisato, la documentazione versata in giudizio dai ricorrenti pare sufficiente a dimostrare la sussistenza della vicinitas quale requisito di legittimazione ad agire: la fotografia aerea …, infatti, comprova l’esistenza di almeno un’abitazione che, per la contenuta distanza (40 m circa), può ritenersi legata da uno stabile collegamento materiale con l’area di intervento.
Fa difetto, invece, la rigorosa dimostrazione dell’interesse ad agire che, secondo la prospettazione di parte ricorrente, risiederebbe nell’esigenza di conservare le visuali consolidate, di preservare la salute e il valore delle unità immobiliari nonché, infine, di garantire la “tenuta sismica” di un’area soggetta a frane.
Infatti, come dimostra la documentazione versata in giudizio, il sito di installazione è al di fuori del centro abitato. Non risultano vincoli ambientali o valori paesaggistici meritevoli di particolare tutela. Le fotografie prodotte dai ricorrenti … non offrono evidenza univoca dell’interferenza dell’impianto sulle visuali godibili dall’abitato: una di esse (non numerata, ma identificabile come n. 3) rappresenta l’antenna addossata alle pendici della collina retrostante, un’altra (identificabile come n. 5) la raffigura in posizione apparentemente più bassa, quasi confusa sullo sfondo del paesaggio urbano, e una terza fotografia … mostra l’antenna immersa nella vegetazione, senza traccia di abitazioni vicino ad essa.
Sulla base di tali elementi, non può ritenersi dimostrato che l’impianto posto all’esterno dell’abitato cagioni un apprezzabile vulnus alle condizioni di vita nella zona, alla godibilità delle singole unità abitative o al valore delle stesse
”.
4. Sulle condizioni soggettive dell’azione in materia edilizia, con la sentenza n. 22 del 2021, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha recentemente espresso i seguenti principi di diritto: “riaffermata la distinzione e l’autonomia tra legittimazione e interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario in via di principio che ricorrano entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di differenziazione, valga da solo ed in automatico a soddisfare anche l’interesse al ricorso” e che “lo specifico pregiudizio derivante dall’intervento edilizio che si assume illegittimo, e che è necessario sussista, può comunque ricavarsi, in termini di prospettazione, dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso, suscettibili di essere precisate e comprovate laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o dai rilievi del giudicante, essendo questione rilevabile d’ufficio nel rispetto dell’art. 73, comma 3, c.p.a. e quindi nel contraddittorio tra le parti”.
Tali principi, mutatis mutandis, devono ritenersi applicabili anche all’installazione di una stazione radio base, la quale, comunque, consiste nella realizzazione di una struttura avente rilievo urbanistico ed edilizio.
5. Il Collegio ribadisce quanto già evidenziato nell’ordinanza cautelare n. 2767 del 2023, vale a dire che sussistono entrambe le condizioni soggettive dell’azione per ritenere ammissibile il ricorso, in quanto, oltre allo stabile collegamento con il sito di installazione della stazione radio base, la c.d. vicinitas, gli appellanti non solo hanno prospettato problematiche afferenti la nocività dell’impianto che, in ragione della vicinitas, sarebbero sufficienti a connotarne l’interesse ad agire, ma hanno documentato anche che, a seguito, dell’installazione dell’antenna di consistenti dimensioni, la veduta dalla loro abitazione risulta alterata (in proposito, assumono rilievo le fotografie di cui al doc. 3 depositato in giudizio).
In particolare, le statuizioni del giudice di primo grado sembrano sovrapporre piani differenti, in quanto la mera prospettazione della nocività per la salubrità dell’ambiente connota la sussistenza dell’interesse agire, laddove escludere la stessa si presenta come una valutazione di merito, inconferente con la questione di rito.
In altri termini, al fine di radicare l’interesse al ricorso, è sufficiente che il ricorrente prospetti una possibile nocività per l’ambiente circostante, un’alterazione delle vedute e del paesaggio, una possibile diminuzione del valore degli immobili, mentre attiene alle valutazioni di merito, e non di rito, accertare se in concreto la nocività per l’ambiente è comprovata ovvero se il ricorrente ha fornito una prova congrua, o un consistente principio di prova, del fatto che l’alterazione della veduta e, comunque, l’installazione dell’antenna, possa riflettersi sulla qualità di vita e sull’effettiva quotazione dell’immobile.
Pertanto, il mancato accertamento della nocività dell’installazione potrebbe comportare, nel merito, l’infondatezza della relativa censura, ma non può determinare a monte l’inammissibilità dell’azione, così come non può tradursi nell’assenza dell’interesse ad agire, operando anch’esso sul piano del merito, la mancata dimostrazione che l’alterazione della veduta sia talmente significativa da incidere sulla qualità della vita ed eventualmente sul valore del bene posto nei pressi dell’antenna eretta o erigenda.
Ne consegue che, in ragione della fondatezza del primo motivo d’appello, la sentenza del Tar deve essere riformata, in quanto, in presenza di entrambe le condizioni soggettive dell’azione, il ricorso di primo grado è ammissibile.
6. Nel merito, l’appello è parimenti fondato.
6.1. L’art. 87, comma 9, del d.lgs. n. 259 del 2003 –nel testo applicabile ratione temporis ai fatti di causa- sancisce una paradigmatica ipotesi di silenzio-significativo della pubblica amministrazione.
Infatti, ai sensi di tale disposizione, “Le istanze di autorizzazione si intendono accolte qualora, entro il termine perentorio di novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda non sia stato comunicato un provvedimento di diniego o un parere negativo da parte dell’organismo competente ad effettuare i controlli, di cui all’articolo 14 della legge 22.02.2001, n. 36, e non sia stato espresso un dissenso, congruamente motivato, da parte di un’Amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale o dei beni culturali. Nei predetti casi di dissenso congruamente motivato, ove non sia stata adottata la determinazione decisoria finale nel termine di cui al primo periodo, si applica l’articolo 2, comma 9-ter, della legge 07.08.1990, n. 241. Gli Enti locali possono prevedere termini più brevi per la conclusione dei relativi procedimenti ovvero ulteriori forme di semplificazione amministrativa, nel rispetto delle disposizioni stabilite dal presente comma. Decorso il suddetto termine, l’amministrazione procedente comunica, entro il termine perentorio di sette giorni, l’attestazione di avvenuta autorizzazione, scaduto il quale è sufficiente l’autocertificazione del richiedente. Sono fatti salvi i casi in cui disposizioni del diritto dell’Unione europea richiedono l’adozione di provvedimenti espressi”.
6.2. La questione controversa, vale a dire l’intervenuta formazione o meno del silenzio-assenso nella fattispecie in esame, involge la tematica centrale dell’istituto, ossia se il provvedimento tacito di accoglimento dell’istanza consegue al mero decorrere del tempo oppure consegue al decorrere del tempo unitamente alla concreta sussistenza dei presupposti normativi per l’attribuzione del bene della vita.
In altri termini, è necessario accertare se la mancata conformità della fattispecie concreta ai presupposti disciplinati e richiesti dal modello legale di riferimento determina comunque la formazione del silenzio significativo, incidendo solo quale vizio di legittimità del provvedimento amministrativo tacito, ovvero se impedisce in radice la formazione del silenzio-assenso (cfr. sul tema Cons. Stato, VI, 16.08.2023, n. 7774).
6.3. Per una prima tesi, la formazione tacita del provvedimento è subordinata alla mera presentazione dell’istanza ed al decorrere del tempo previsto dalla legge, mentre, per un’altra consistente prospettazione (a lungo maggioritaria), la formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per silenzio-assenso presuppone, quale sua condizione imprescindibile, non solo il decorso del tempo dalla presentazione della domanda senza che sia intervenuta risposta dall’Amministrazione, ma anche la contestuale presenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge, ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l’avvenuto perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio-assenso non si forma nel caso in cui la fattispecie rappresentata non sia conforme a quella normativamente prevista (cfr., ex multis, Cons. Stato IV, n. 569 del 2020; Cons. Stato, VI n. 5384 del 2019; Cons. Stato, VI, n. 2115 del 2019).
Un denominatore comune alle differenti teorie consiste nel principio per cui non è possibile ottenere per silentium, quel che non sarebbe altrimenti possibile ottenere mediante l’esercizio espresso del potere da parte della P.A.
La differenza tra le prospettazioni che si contrappongono, quindi, afferisce al fatto che, per una tesi, il binomio è costituito dai concetti esistenza/inesistenza del silenzio-assenso, con il corollario che può esistere solo un provvedimento tacito di accoglimento legittimo, mentre, per altra tesi, il binomio, una volta decorso il termine di legge, è costituito dai concetti legittimità/illegittimità del silenzio-assenso, con il corollario che può esistere un provvedimento tacito di accoglimento illegittimo.
In special modo in materia edilizia, con riferimento al silenzio-assenso maturato sulle domande di permesso di costruire, è stato lungamente dibattuto se la conformità urbanistica dell’intervento rappresenti o meno una condizione per la formazione del silenzio-assenso.
In definitiva, ad una tesi, più radicale, che attribuisce alla difformità della fattispecie dal modello legale di riferimento, la conseguenza della mancata formazione del silenzio, vale a dire la sua inesistenza, si contrappone una diversa tesi, che limita alla presentazione della domanda ed al fluire del tempo la formazione del provvedimento amministrativo tacito di accoglimento, con conseguente illegittimità –e non inesistenza– del provvedimento viziato per difformità dal modello legale.
6.4. L’istituto del silenzio-assenso risponde ad una valutazione legale tipica in forza della quale l’inerzia “equivale” a provvedimento di accoglimento e tale “equivalenza” significa che gli effetti promananti dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo, sicché, ove sussistano i requisiti di formazione del silenzio-assenso, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme a legge, ferma restando la possibilità di agire in autotutela per l’amministrazione e di impugnativa giudiziale per il controinteressato (v., in particolare, la sentenza di questa Sezione n. 5746 dell’08.07.2022)
Diversamente, ad avviso del Collegio, ritenere che la fattispecie sia produttiva di effetti soltanto ove corrispondente alla disciplina sostanziale, significherebbe sottrarre i titoli così formatisi alla disciplina della annullabilità e tale trattamento differenziato opererebbe (in modo del tutto eventuale) in dipendenza del comportamento attivo o inerte della pubblica amministrazione.
Inoltre, l’impostazione di “convertire” i requisiti di validità della fattispecie “silenziosa” in altrettanti elementi costitutivi necessari al suo perfezionamento, vanificherebbe in radice le finalità di semplificazione dell’istituto, atteso che nessun vantaggio avrebbe l’operatore se l’amministrazione potesse, senza oneri e vincoli procedimentali, in qualunque tempo disconoscere gli effetti della domanda.
In altri termini, il Collegio rappresenta che, ove si ammettesse che il silenzio-assenso non possa formarsi per difetto delle condizioni sostanziali, verrebbe in concreto svuotata di contenuto la previsione di legge, consentendo di fatto all’amministrazione di poter provvedere in ogni tempo e ciò in spregio delle ragioni sottese alla norma (v. altresì, da ultimo, la previsione di cui all’art. 2, comma 8-bis, della l. 241 del 1990, introdotta con il d.l. 76 del 2020, destinata a revocare in dubbio la teoria tradizionale sull’inesauribilità del potere amministrativo), che, da un canto, tutelano l’interesse del privato e, d’altro canto, pongono l’esigenza di responsabilizzare la pubblica amministrazione, in tal modo tutelando l’interesse pubblico attraverso la garanzia del buon andamento dell’attività amministrativa, non tollerandosi la sua inerzia sull’istanza rivolta dall’interessato.
La pubblica amministrazione, peraltro, come anticipato, una volta formatosi il provvedimento tacito, ha la possibilità di intervenire in via di autotutela, laddove non sussistano le condizioni per l’adozione dell’atto e per il conseguimento del bene, così come il terzo controinteressato ben può esperire in sede giurisdizionale l’azione di annullamento del silenzio-assenso avente carattere provvedimentale.
Se, infatti, il decorso del tempo senza che l’amministrazione abbia provveduto rende possibile l’esistenza di un provvedimento implicito di accoglimento dell’istanza presentata dal privato cittadino, nondimeno, perché tale provvedimento sia legittimo, occorre che sussistano tutte le condizioni, normativamente previste, per la sua emanazione, non potendosi ipotizzare, come già sottolineato, che, attraverso il silenzio, possa ottenersi ciò che non sarebbe altrimenti possibile ottenere mediante l’esercizio espresso del potere da parte dell’amministrazione.
La necessità del possesso dei requisiti di volta in volta prescritti –perché possa parlarsi di legittimo provvedimento implicito di assenso– risulta dalla stessa legge generale del procedimento amministrativo n. 241/1990 (art. 21, comma 1), laddove essa richiede che, nei casi previsti dai precedenti artt. 19 e 20, l’interessato debba “dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti”.
6.5. Tra le due opzioni descritte, che considerano, l’una, il contrasto con il modello legale di riferimento preclusivo della formazione del silenzio-assenso e, quindi, causa di inesistenza del provvedimento amministrativo tacito, ovvero, l’altra, il contrasto non preclusivo alla formazione del silenzio-assenso e, quindi, causa di illegittimità di un provvedimento amministrativo tacito esistente ed efficace, il Collegio ritiene sostenibile un’interpretazione, esplicitata nel successivo capo della presente sentenza, che, prendendo spunto dalle ragionevoli giustificazioni di ambedue le tesi, conduca ad una interpretazione univoca della fattispecie (cfr. la richiamata sentenza di questa Sezione n. 7774 del 16.08.2023).
Nel quadro delle riforme amministrative degli anni ’90, il ruolo della semplificazione amministrativa, quale insieme degli interventi aventi il fine di diminuire il carico burocratico che grava su cittadini ed imprese, ha assunto un consistente rilievo.
In tale contesto, il silenzio-assenso costituisce una figura centrale e, in ambito eurounitario, la direttiva 2006/123/CE sui “servizi nel mercato interno” (c.d. direttiva Bolkenstein), al fine di prevenire gli effetti negativi sul mercato derivanti dall’incertezza giuridica, anche sotto il profilo dell’incertezza temporale delle procedure amministrative, ha operato nella duplice direzione di limitare il regime della previa autorizzazione (liberalizzazione), in cui il conseguimento del bene della vita non costituisce più oggetto di potere amministrativo, come ad esempio nella scia o nel rinvio all’autoregolamentazione dei privati, e di (mantenere fermo il potere amministrativo ma di) introdurre il principio della tacita autorizzazione, ovvero la regola del silenzio-assenso (semplificazione), vale a dire la possibilità di esternare la volontà provvedimentale con forme diverse dal provvedimento espresso.
Nella specifica materia delle comunicazioni elettroniche, come già evidenziato, l’installazione di impianti di telecomunicazione è soggetta ad una speciale disciplina autorizzatoria fissata a suo tempo dall’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003, da cui emerge un favor legislativo per la realizzazione di tali strutture anche attraverso l’istituto del silenzio-assenso.
6.6. Il Collegio, al fine di delibare sulla controversia, ritiene opportuno operare ulteriori precisazioni sulla ratio dell’istituto.
La formazione di un provvedimento implicito di assenso in ragione del mero decorrere del tempo dalla data di presentazione dell’istanza non comporta alcuna deresponsabilizzazione della pubblica amministrazione competente, che deve ugualmente svolgere, proprio come nell’ipotesi in cui fosse obbligata all’adozione di un provvedimento espresso, una puntuale ed esaustiva istruttoria al fine di verificare se sussistono i presupposti ed i requisiti previsti dalla legge per l’attribuzione del bene richiesto.
Peraltro, l’amministrazione pubblica competente, effettuati i dovuti e necessari accertamenti, può decidere, in luogo dell’adozione di un provvedimento espresso, di far formare un provvedimento tacito.
Tale è la fisiologia del procedimento amministrativo ove sia presentata un’istanza a carattere pretensivo per la quale, decorso il termine normativamente previsto, si forma il silenzio-assenso.
Viceversa, l’omesso o l’incompleto svolgimento dell’istruttoria da parte dell’amministrazione competente -fermo restando che, con la precisazione che si dirà, il decorso del tempo comporta comunque, a tutela dell’affidamento del richiedente, la formazione dell’atto tacito- costituisce una situazione patologica.
Per molti aspetti l’istituto del silenzio-assenso, che come noto ha accompagnato la nascita della legge n. 241 del 1990, dimostra e conferma l’intuizione dottrinale secondo la quale, delle fasi in cui si scompone convenzionalmente il procedimento amministrativo, quella centrale è data proprio dall’istruttoria, di cui la fase decisoria –che sia tacita oppure espressa– rappresenta piuttosto un precipitato e una conseguenza logica.
Va da sé tuttavia che, per l’espletamento di una efficace istruttoria, l’istanza debba essere corredata da tutti gli elementi necessari a consentire l’accertamento della spettanza del bene della vita, per cui il silenzio-assenso può formarsi solo in tale ipotesi, nel qual caso l’eventuale discrasia della fattispecie rispetto al modello legale di riferimento determina l’illegittimità dell’atto tacito, ma non ne impedisce il venirne ad esistenza.
L’opzione ermeneutica più idonea alla tutela degli interessi in conflitto, in altri termini, deve essere individuata nel fatto che l’assenso tacito si forma allorquando sulla domanda, se corredata di tutti gli elementi occorrenti alla valutazione della P.A., sia decorso il termine di legge senza che questa abbia provveduto, mentre non può essere escluso per difetto delle condizioni sostanziali per il suo accoglimento, ossia, per contrasto della richiesta con la normativa di riferimento.
Diversamente, ove l’istanza non sia stata corredata da tutta la documentazione necessaria ovvero si presenti imprecisa o foriera di possibili equivoci, in modo tale che l’amministrazione destinataria sia stata impossibilitata per il comportamento dell’istante a svolgere un compiuto accertamento di spettanza del bene, il silenzio-assenso non può formarsi, per cui si avrà un’ipotesi di inesistenza dello stesso e non di sua illegittimità.
In tale direzione, militano sia la ratio del sistema, atteso che, come sottolineato, il concetto di semplificazione amministrativa non coincide con quello di deresponsabilizzazione amministrativa, ma, anzi ne è l’esatto contrario, tutelando l’esigenza di certezza delle posizioni giuridiche dei cittadini, ma non facendo affatto venire meno l’obbligo per l’amministrazione di accertare in fase istruttoria la presenza dei presupposti e requisiti di legge necessari all’attribuzione del bene, sia il dato normativo letterale, in quanto l’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990, dispone che, con la segnalazione o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20, l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti.
Né può ritenersi applicabile alla fattispecie il comma 5 dell’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003, secondo cui “il responsabile del procedimento può richiedere per una sola volta, entro quindici giorni dalla data di ricezione dell’istanza, il rilascio di dichiarazioni e l’integrazione della documentazione prodotta”, atteso che la norma si riferisce evidentemente ad una documentazione prodotta che necessita di essere integrata, non già ad una documentazione totalmente carente o carente in una sua parte rilevante, di cui l’Amministrazione può ignorare l’esistenza al momento della presentazione della domanda.
Sulla base di tali considerazioni, quindi, deve ritenersi che l’istanza idonea a far decorrere il termine per la formazione del silenzio-assenso sia solo ed esclusivamente quella corredata dalla dichiarazione di sussistenza dei presupposti e requisiti di legge previsti e, quindi, quella corredata dalla documentazione necessaria al corretto espletamento dell’attività istruttoria da parte dell’Amministrazione.
In assenza di tale essenziale documentazione, infatti, la volontà provvedimentale dell’Amministrazione procedente non può compiutamente formarsi e, di conseguenza, non può essere effettivamente manifestata né in forma espressa, né in forma tacita.
In definitiva, il silenzio-assenso è un istituto giuridico alternativo al provvedimento conclusivo, ma non certo allo svolgimento del procedimento e, in particolare, alla sua fase istruttoria.
Nondimeno, se l’interessato ha posto in essere tutti gli adempimenti necessari affinché il procedimento possa essere dall’amministrazione compiutamente e correttamente svolto, il silenzio significativo si forma ugualmente, non potendo l’inerzia dell’amministrazione ridondare in danno della parte istante pienamente diligente, con conseguente omissione di atti d’ufficio dell’amministrazione che, pur essendo stata messa nelle condizioni di poter procedere, non ha svolto la propria attività.
6.7. Sempre in linea generale, il Collegio, per quanto attiene alle specifiche competenze delle Agenzie Regionali Protezione Ambiente nel procedimento in questione, ritiene che l’ARPA non possa limitarsi a prendere atto di quanto evidenziato dalla parte interessata nella propria richiesta ed a dettare prescrizioni che restano nella sfera dell’operatore autorizzato, ma debba svolgere una puntuale attività di verifica e di controllo sulla effettività di quanto dichiarato dal richiedente e di quanto contenuto nei relativi allegati, nonché, successivamente, sul rispetto del prescrizioni date e dei valori dichiarati.
Un parere tecnico che si limiti a prendere atto dei dati trasmessi dall’impresa, infatti, si rivela un atto formale, privo delle caratteristiche sostanziali che dovrebbero essere imposte, in generale dall’esercizio dell’attività amministrativa e, in particolare, dalla delicatezza e dalla sensibilità della materia in trattazione (cfr. Cons. Stato, VI, 20.09.2023, n. 8436).
6.8. Nella fattispecie in esame, devono ritenersi fondate, con assorbimento delle altre doglianze con cui sono stati prospettati vizi di legittimità meno radicali, le censure con cui i ricorrenti, in vari motivi, hanno sostenuto, da un lato, che i documenti dimostrerebbero come Iliad abbia fornito indicazioni errate, dall’altro, che il meccanismo di silenzio-assenso previsto dall’art. 87, comma 9, del d.lgs. n. 259 del 2003 non eliderebbe le fasi del procedimento, mentre il procedimento, nella fattispecie, non sarebbe mai stato avviato.
In particolare, il silenzio-assenso non può ritenersi formato perché l’Amministrazione non ha svolto il procedimento che avrebbe dovuto svolgere ai sensi dell’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003, anche per omissioni ed incompletezze documentali di Iliad.
6.8.1. In primo luogo, occorre considerare che, in esito all’incombente istruttorio disposto dalla Sezione con l’ordinanza cautelare n. 2767 del 2023, volto a conoscere gli atti endoprocedimentali posti in essere, il Comune di Boissano ha depositato unicamente una e-mail, in data 21.10.2021, con cui l’Amministrazione ha informato il progettista incaricato nonché responsabile dei lavori per l’intervento in discorso che lo Sportello Unico per le Attività Produttive è gestito in servizio associato dal Comune di Pietra Ligure, per cui la pratica avrebbe dovuto essere presentata al SUAP dello stesso Comune.
Il Comune di Boissano, infatti, ha aderito alla convenzione per la gestione in forma associata dei servizi di sportello unico attività produttive con ente capofila il Comune di Pietra Ligure.
Tale circostanza, peraltro, non può escludere ogni sua attività, essendo tenuto il Comune convenzionato a condividere e a collaborare attivamente al perseguimento dei principi di funzionamento del SUAP.
Nessun altro documento è stato depositato, sicché è da ritenere che il procedimento non sia stato svolto, ad eccezione di quanto di competenza dell’ARPAL, tanto che non è stato comunicato il nome del responsabile del procedimento ai sensi dell’art. 87, comma 2, d.lgs. n. 259 del 2003.
Iliad Italia, nella propria memoria cautelare, ha evidenziato di avere presentato la richiesta di autorizzazione, in data 05.10.2021, all’ARPAL (ed al SUAP del Comune di Boissano) e, in data 20.10.2021, presso il SUAP del Comune di Pietra Ligure.
Tuttavia, costituisce un dato oggettivo, in assenza di qualunque elemento contrario, che il procedimento non è stato svolto né dal Comune di Boissano né dal SUAP presso il Comune di Pietra Ligure, pur competente per gli impianti di telecomunicazione, per cui, nella fattispecie, il silenzio non ha sostituito solo il provvedimento finale, ma, in contrasto con il dettato legislativo in materia, l’intero procedimento.
L’assenza di comunicazione del responsabile del procedimento, inoltre, induce a ritenere che Iliad fosse consapevole dell’assenza di ogni atto endoprocedimentale, ma ciò nonostante, non ha sollecitato l’amministrazione alla nomina.
Ora, se rispetto ad un privato cittadino, potrebbe reputarsi che non sussista l’onere di sollecitare l’amministrazione competente a svolgere il procedimento attraverso la nomina del suo responsabile, nel caso di un operatore telefonico che svolge con professionalità ed abitualità l’attività in discorso, la detta sollecitazione costituisce un adempimento certamente esigibile.
6.8.2. Iliad, nell’istanza di autorizzazione ai sensi dell’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003, del 04.10.2021, presentata al SUAP Comune di Boissano ed all’ARPAL per l’impianto sito in Boissano, via Gaitte, foglio 7, mappale n. 93, ha indicato come tipologia di intervento “modifica stazione radio base esistente per rete di telefonia mobile di Iliad Italia s.p.a.”, per cui l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale del Lazio (ARPAL), con nota del 16.11.2021 indirizzata sia ad Iliad Italia che al Comune di Boissano, ha fatto riferimento nell’oggetto alla “realizzazione di nuovo impianto” ex art. 87 d.lgs. 259 del 2003 ed ha specificato nel testo come l’istanza di autorizzazione sia stata proposta per “l’installazione dell’impianto in oggetto (nuovo impianto su nuova struttura di supporto)”.
L’istanza di autorizzazione presentata al SUAP Comune di Pietra Ligure non indica la tipologia dell’intervento e la sezione “descrizione dell’impianto e delle aree circostanti” non è stata compilata in sintesi, ma reca un mero riferimento agli allegati, laddove la prima istanza del 05.10.2021 indicava in tale sezione “progetto per la modifica di una stazione radio base per la telefonia mobile a servizio del gestore ILIAD Italia s.p.a., sita nel Comune di Boissano in via Gaitte, snc al N.C.T. del Comune di Boissano al Foglio n. 7, Mappale n. 93”.
Con successiva nota del 21.09.2022, avente ad oggetto “misure di campo elettromagnetico a Radiofrequenza effettuate nel giorno 19/09/2022 presso gli impianti per radiotelecomunicazione situati in via Zurmagli, via Gaitte e zone limitrofe, Comune di Boissano”, l’ARPAL ha indicato, tra l’altro, che:
il cartello di cantiere riporta la frase “Modifica di Stazione Radio Base”, tuttavia trattandosi, a tutti gli effetti, di una installazione (ovvero nuovo impianto su nuova struttura di supporto) tale frase deve essere cambiata in “Realizzazione di nuova Stazione Radio Base”, conformemente ad istanza di progetto presentata da Iliad con prot. Arpal 29041 del 05.10.2021”.
In definitiva, non può sussistere dubbio sul fatto che l’istanza di autorizzazione di Iliad, quantomeno quella indirizzata al SUAP del Comune di Boissano e ad Arpal, senza che quella successivamente indirizzata al SUAP del Comune di Pietra Ligure offrisse sufficienti elementi di specificazione, riportasse in modo inesatto che l’intervento in discorso fosse una modifica alla 0stazione radio base e non una installazione di una nuova stazione radio base.
6.8.3. Per quanto attiene ai possibili rischi di frane, gli appellanti hanno evidenziato che le norme generali geotecniche del Comune di Boissano definiscono normativamente la zona in cui sorge la stazione radio base come instabile, a rischio franoso, escludendo ogni intervento urbanistico.
In particolare, hanno documentato che la zona in cui sorge l’antenna è la CPI, vale a dire secondo la terminologia utilizzata nel Piano Urbanistico Comunale del Comune di Boissano, area caratterizzata da copertura detritica di varia natura medio-potenti attualmente potenzialmente instabili.
Di talché, la zona, compresa nella tavola 31B del PUC di Boissano “Suscettività di Piani di Bacino Varatella e Nimbalto”, non sarebbe stabile e, considerando la consistenza dell’antenna e del relativo basamento, sussisterebbe una grave incidenza del manufatto sul terreno ed un elevato rischio di cedimento e franosità della zona.
Iliad, di contro, ha evidenziato che le norme generali geotecniche del Comune di Boissano non avrebbero previsto alcun divieto assoluto di installazione e, comunque, che il proprio impianto ricadrebbe in area Pg3a e non in area Pg3b “a suscettività al dissesto elevata”.
Ad ogni buon conto, a prescindere da valutazioni di merito, l’istanza proposta da Iliad avrebbe dovuto contenere una maggiore attenzione a tale aspetto geotecnico, di indubbia delicatezza, onde sollecitare le valutazioni sul punto dell’Amministrazione competente.
6.8.4. Infine, si rivela fondata la doglianza con cui la parte appellante ha prospettato l’erroneità (per meglio dire l’imprecisione) contenuta nell’istanza del 4/05.10.2021 relativa all’assenza di vincoli paesaggistici ed ambientali, atteso che gli stessi progetti forniti collocano l’antenna in zona Assetto Insediativo ANI-MA IS-MA, ammettendo l’esistenza di vincoli prima negati.
Infatti, mentre nell’istanza di autorizzazione è stata indicata la conformità alla disciplina paesaggistica ed ambientale, nella relazione tecnica asseverata, è specificato che la zona di piano territoriale di coordinamento paesistico si caratterizza per assetto insediativo: ANI-MA IS.MA.
Le norme di attuazione al PTCP Regione Liguria, all’art. 10, prevedono che l’indirizzo generale di mantenimento (MA) si applica:
   a) nelle situazioni in cui l’assetto territoriale ha raggiunto soddisfacenti condizioni di equilibrio tra fattori antropici ed ambiente naturale, tali da escludere l’opportunità di significative trasformazioni pur ammettendosi marginali potenzialità di completamento;
   b) nelle situazioni in cui debbono considerarsi già sostanzialmente esaurite le potenzialità di espansione pur non configurandosi soddisfacenti condizioni di equilibrio tra fattori antropici ed ambiente naturale.
L’obiettivo, pertanto, è quello, nel primo caso, di tutelare le situazioni di particolare pregio paesistico presenti alla scala territoriale e, nel secondo, di evitare ulteriori compromissioni del quadro paesistico-ambientale quali sarebbero indotte da nuovi consistenti insediamenti.
In entrambi i casi, specifica l’art. 10 delle NTA al PTCP, la pianificazione dovrà essere informata a criteri di sostanziale conferma dell’assetto attuale, con una più marcata attenzione agli aspetti qualitativi e strutturali nel primo caso e a quelli quantitativi nel secondo caso.
7. Sulla base di tutto quanto esposto, l’appello proposto si rivela fondato, atteso che, nel caso di specie, nessun silenzio-assenso si sarebbe potuto formare, in quanto se è vero che la normativa in materia prevede la formazione del silenzio-assenso decorsi novanta giorni dalla presentazione dell’istanza, è altrettanto vero che la stessa presuppone che l’istanza sia completa e sufficientemente dettagliata onde consentire all’amministrazione competente di svolgere il procedimento, che, nella fattispecie, invece, non ha avuto luogo.
8. La fondatezza delle descritte doglianze, assorbite le ulteriori censure con cui sono stati prospettati vizi di legittimità meno radicali, determina la fondatezza dell’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, l’accoglimento del ricorso proposto in primo grado con conseguente annullamento (più propriamente, declaratoria in inesistenza) del provvedimento tacito di assenso impugnato ed obbligo per il Comune di Boissano e lo Sportello Unico Attività Produttive di Pietra Ligure di riesaminare (rectius: di esaminare) l’istanza proposta nell’ottobre 2021 da Iliad Italia s.p.a., nell’ambito del quale dovranno essere valutate anche le questioni relative all’applicazione del c.d. Piano Antenne (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.12.2023 n. 11203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Sull’attuale validità dei principi enunciati dall’Adunanza plenaria n. 17 del 2021 sulle concessioni balneari marittime.
---------------
Concessioni amministrative – Concessioni di beni e servizi – Concessioni demaniali marittime – Principi enunciati dall’Adunanza plenaria n. 17 del 2021 – Validità - Conseguenze.
I principi enunciati dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza del 09.11.2021, n. 17 sono tutt’ora validi dato che, a differenza della sentenza n. 18 del 2021, annullata per diniego di giurisdizione dalla sentenza delle sezioni unite n. 32559 del 23.11.2023, quest’ultima non risulta essere stata impugnata. Ne consegue che, alla luce di tali principi, le proroghe delle concessioni disposte dai comuni risultano tamquam non esset (1).
Il Consiglio di Stato ha ricordato che secondo l’Adunanza plenaria n. 17 del 2021:
   i) le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative - compresa la moratoria introdotta in correlazione con l'emergenza epidemiologica da Covid-19 dall'art. 182, comma 2, d.l. n. 34 del 2020, convertito in l. n. 77 del 2020 - sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l'art. 49 TFUE e con l'art. 12 della direttiva 2006/123/CE; tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione;
   ii) ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla p.a. deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari; non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della p.a. in quanto l'effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata; la non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo dell'effetto legale di proroga adottato dalla p.a. o l'esistenza di un giudicato.

---------------
   (1) Precedenti conformi: non risultano precedenti negli esatti termini. La sezione ha disapplicato anche la più recente disposizione normativa recante una previsione di proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime ad uso turistico ricreativo contenuta nell'art. 10-quater, comma 3, del d.l. 29.12.2022, n. 198, convertito, con modificazioni, in l. 24.02.2023, n. 14, Cons. Stato, sez. VI, 01.03.2023, n. 2192; applica i principi enunciati dalle Adunanze plenarie n. 17 e 18 del 2021 anche Cons. Stato, sez. VI, 19.04.2023, n. 3964; Cons. Stato, sez. VII, 07.07.2023, n. 6675; Cons. Stato, sez. VI, 28.08.2023, n. 7992.
       Precedenti difformi: di diverso avviso, di recente, Tar per la Puglia, Lecce, sez. I, decreto 21.12.2023, n. 614, secondo il quale, l’Adunanza plenaria n. 17 del 2021, ancorché formalmente estranea all’ambito di decisione della sentenza delle sezioni unite n. 32559 del 2023, deve essere riguardata come mero presupposto e, in quanto tale, deve essere valutata anche sotto il profilo della sua nullità, in quanto affetta dai medesimi vizi radicali ed insanabili della sentenza cassata (n. 18 del 2021), della quale non può non condividerne le sorti
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.12.2023 n. 11200 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
7. Procedendo ad esaminare i motivi di ricorso in appello il Collegio rileva, in primo luogo, come molte delle questioni oggetto del presente giudizio siano già state affrontate e decise dalla Sezione con le sentenze, del 18.04.2023, n. 3901, del 19.04.2023, n. 3964, e del 13.07.2023, n. 6862, relative a controversie analoghe. Non si ravvisano ragioni per discostarsi dai principi affermati da tali sentenze, che saranno esposti nel prosieguo della trattazione.
8. In via preliminare occorre verificare se il rinnovo della concessione demaniale comporti una parziale improcedibilità del ricorso in appello (come dedotto dal Comune) o la cessazione della materia del contendere per soddisfazione integrale della pretesa (come dedotto da parte appellante).
Sul punto possono richiamarsi i principi già affermati dalle sentenze n. 3901/2023 e n. 3964/2023 della Sezione.
8.1. La Sezione ha osservato come l’inesauribilità del potere amministrativo, persistente in capo alla parte pubblica anche in pendenza del giudizio, pone l’Amministrazione in condizione di riesaminare i provvedimenti censurati in sede giurisdizionale, pervenendo ad una rinnovata regolazione del rapporto sostanziale.
Al fine di ricostruire il regime giuridico delle determinazioni sopravvenute e di verificare gli effetti che tali atti sono suscettibili di produrre sul giudizio pendente, occorre distinguere a seconda che il riesame in sede amministrativa:
   i) si concluda con un atto favorevole al privato, in quanto idoneo a realizzare l’interesse sostanziale sotteso alla proposizione del ricorso, ovvero dia luogo ad un atto sfavorevole, perché ostativo al conseguimento del bene della vita ambito con l’azione giudiziaria;
   ii) sia imposto da un ordine giudiziale ovvero sia il risultato di una decisione autonomamente assunta dall’Amministrazione procedente.
8.2. In ordine al primo profilo si osserva come, di regola, i provvedimenti assunti in corso di giudizio sono idonei a determinare la cessata materia del contendere soltanto ove, autonomamente assunti dall’Amministrazione, determinino la realizzazione piena dell’interesse sostanziale sotteso alla proposizione dell’azione giudiziaria, permettendo al ricorrente in primo grado di ottenere in via amministrativa il bene della vita atteso, sì da rendere inutile la prosecuzione del processo (Consiglio di Stato, Sez. V, 13.08.2020, n. 5031).
I provvedimenti sopravvenuti determinano, invece, l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, qualora attuino un assetto di interesse inoppugnabile, ostativo alla realizzazione dell’interesse sostanziale sotteso al ricorso, anche in tale caso rendendo inutile la prosecuzione del giudizio -anziché per l’ottenimento- per l’impossibilità sopravvenuta del conseguimento del bene della vita ambito dal ricorrente.
8.3. Questo Consiglio precisa che l’inutilità di una pronuncia di merito sulla domanda articolata dalla parte può affermarsi solo all’esito di una indagine “condotta con il massimo rigore, onde evitare che la declaratoria in oggetto si risolva in un’ipotesi di denegata giustizia e quindi nella violazione di un diritto costituzionalmente garantito” (Consiglio di Stato, Sez. VII, 10.08.2022, n. 7076; Id., Sez. VI, 12.09.2022, n. 7895).
In particolare, “la dichiarazione di improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse presuppone che, per eventi successivi alla instaurazione del giudizio, debba essere esclusa l’utilità dell’atto impugnato, ancorché meramente strumentale o morale, ovvero che sia chiara e certa l’inutilità di una pronuncia di annullamento dell’atto impugnato” (Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, 03.07.2020, n. 536).
8.4. La cessata materia del contendere e l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse trovano, dunque, giustificazione nella natura soggettiva della giurisdizione amministrativa, che non risulta preordinata ad assicurare la generale legittimità dell’operato amministrativo, bensì tende a tutelare la posizione giuridica del ricorrente, correlata ad un bene della vita coinvolto nell’esercizio dell’azione autoritativa oggetto di censura. Adendo la sede giurisdizionale, la parte ricorrente fa valere una pretesa sostanziale, avente ad oggetto la conservazione di un bene della vita già compreso nel proprio patrimonio individuale, pregiudicato dall’esercizio del potere amministrativo, ovvero l’acquisizione (o comunque la chance di acquisizione) di un bene della vita soggetto a pubblica intermediazione.
Come precisato dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, “nel nostro sistema di giurisdizione soggettiva, la verifica della legittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati non va compiuta nell’astratto interesse generale, ma è finalizzata all’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte attrice. Poiché il ricorso non è mera “occasione” del sindacato giurisdizionale sull’azione amministrativa, il controllo della legittimazione al ricorso assume sempre carattere pregiudiziale rispetto all’esame del merito della domanda, in coerenza con i principi della giurisdizione soggettiva e dell’impulso di parte” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 07.04.2011, n. 4).
La pronuncia giudiziaria risulta utile qualora, nel riscontrare l’illegittimità dell’azione amministrativa, consenta la realizzazione dell’interesse sostanziale di cui è portatrice la parte ricorrente, impedendo la sottrazione o garantendo l’acquisizione (o chance di acquisizione) di utilità giuridicamente rilevanti e salvaguardando, per l’effetto, la sfera giuridica individuale da azioni autoritative difformi dal paradigma normativo di riferimento. Qualora, invece, tale interesse sia stato già realizzato ovvero non possa più essere soddisfatto, il giudizio non può concludersi con l’esame, nel merito, delle censure svolte nell’atto di parte, la cui fondatezza non potrebbe, comunque, arrecare alcuna utilità concreta in capo al ricorrente.
8.5. Declinando i principi esposti al caso di specie si osserva che la questione relativa alla durata della concessione demaniale in esame non è, invero, oggetto di giudizio atteso che l’ordinanza si limita ad imporre la demolizione delle opere abusive e che l’apposito procedimento per la revoca della concessione risulta avviato dal Comune ma non concluso.
In sostanza, si tratta, in primo luogo, di due aspetti distinti: da un lato vi è il tema relativo alla conformità edilizia-urbanistica (oggetto dell’ordinanza n. 18/2014); dall’altro il tema relativo alla possibile decadenza della concessione che non risulta, tuttavia, disposta essendo stato il procedimento soltanto avviato.
Ne consegue che la proroga della concessione demaniale non è atto idoneo a far venir meno il provvedimento che sanziona dal punto di vista edilizio le opere realizzate; né, del resto, si tratta di provvedimento che incide su una decadenza soltanto ipotizzata e non disposta dal Comune.
8.6. Inoltre, va considerato che la proroga della concessione disposta dal Comune in data 18.09.2020, risulta tamquam non esset, in applicazione dei principi enunciati dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza del 9 novembre 2021, n. 17 (che, a differenza della sentenza n. 18/2021, annullata per diniego di giurisdizione dalla sentenza delle SS.UU. n. 32559/2023, non risulta impugnata), secondo la quale:
   i) le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative -compresa la moratoria introdotta in correlazione con l'emergenza epidemiologica da Covid-19 dall'art. 182, comma 2, D.L. n. 34/2020, convertito in legge n. 77/2020- sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l'art. 49 TFUE e con l'art. 12 della direttiva 2006/123/CE; tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione;
   ii) ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla P.A. deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari; non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della P.A. in quanto l'effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata; la non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo dell'effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o l'esistenza di un giudicato (cfr., inoltre, Consiglio di Stato, Sez. VI, 01.03.2023 n. 2192, che ha disapplicato anche la più recente disposizione normativa recante una previsione di proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime ad uso turistico ricreativo contenuta nell'art. 10-quater, comma 3, del d.l. 29.12.2022, n. 198, convertito, con modificazioni, in l. 24.02.2023, n. 14; cfr., inoltre, Id., Sez. VI, 19.04.2023, n. 3964; Id., Sez. VII, 07.07.2023, n. 6675; Id., Sez. VI, 28.08.2023, n. 7992).
8.7. Pertanto, anche perché si tratta di un atto tamquam non esset, la proroga disposta non è, in alcun modo, idonea ad eliminare i precedenti provvedimenti assunti dall’Amministrazione e a decretare né la sopravvenuta carenza di interesse, né tanto meno la cessazione della materia del contendere (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.12.2023 n. 11200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenza sul piano urbanistico–edilizio è limitata ai soli interventi accessori di modesta entità e privi di autonomia funzionale.
Sul piano urbanistico, la pertinenza è concetto meno ampio di quello definito dall'art. 817 c.c. e, dunque, non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale.
Il carattere pertinenziale in senso urbanistico va, quindi, riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non siano valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono.
---------------
Nel caso di specie viene in evidenza non già una pertinenza, ma un distinto lotto di terreno che, sebbene confinante con quello sul quale vi è l’officina del ricorrente, è nettamente distinto per destinazione e classificazione, sul quale la realizzazione di un muro di cinta di così ragguardevoli dimensioni
(i.e. muro di recinzione in calcestruzzo armato, di altezza pari a mt 2.50, per l’intero perimetro del lotto di terreno agricolo avente una superficie complessiva di mq 540 circa, con pavimentazione in battuto di cemento armato e lisciato su fondazione in misto calcareo) –in tal senso differenziandosi dalla semplice recinzione, la quale ha caratteristiche tipologiche di minima entità al fine della mera delimitazione della proprietà– è soggetta al rilascio del permesso di costruire, inverandosi la nozione di nuova costruzione quante volte l'intervento edilizio produca, come in questo caso, un effettivo e rilevante impatto sul territorio e, dunque, in relazione alle opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi determinandone una significativa trasformazione.
Si deve qualificare l'intervento edilizio quale nuova costruzione, infatti, quante volte abbia l'effettiva idoneità –come nella specie– di determinare significative trasformazioni urbanistiche ed edilizie, modificando l’assetto del territorio, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa.
Quest'ultimo concetto è infatti comprensivo di qualunque manufatto autonomo ovvero modificativo di altro preesistente, che sia stabilmente infisso al suolo o ai muri di quello preesistente, ma comunque capace di trasformare in modo durevole l'area coperta, ovvero ancora le opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi.
---------------

... per l'annullamento
   - del provvedimento a firma del Responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di Capodrise prot. 21197 del 19/12/2022, rif. pratica edilizia n. 84/2022, con cui si comunica il “parere non favorevole” alla domanda presentata dal ricorrente avente ad oggetto l’accertamento di conformità ex art. 31 T.U.E. ai sensi del T.U. dell'edilizia n. 380/2001 e succ. mod. ed integrazioni;
...
6. – Nello specifico, l’abuso contestato al ricorrente consiste nella “costruzione di un muro di recinzione in calcestruzzo armato, di altezza pari a mt 2.50, per l’intero perimetro del lotto di terreno agricolo avente una superficie complessiva di mq 540 circa, con pavimentazione in battuto di cemento armato e lisciato su fondazione in misto calcareo, realizzata senza permesso a costruire”.
6.1. – Le ragioni del diniego richiamano la destinazione della zona in cui ricade il muro, che è zona agricola di tipo “E” - attività produttive di tipo agricolo -del vigente PRGC, nonché zona “E2”- Agricola urbana di previsione urbanistica – dell’adottato PUC.; ai sensi della normativa tecnica di attuazione allegata al vigente PRGC nonché dalla normativa tecnica di attuazione allegata all'adottato PUC, come riferito dal Comune, la zona “E” risulta destinata ad attività produttive di tipo agricolo e sono ammesse solo costruzioni destinate ad attività ad esse collegate, mentre le aree in zona “E2”, nelle more della definizione del Piano Operativo e di Pianificazione Attuativa, in accordo con l'art. 44 delle Norme Tecniche dì Attuazione del Piano Territoriale di Coordinamento dalla Provincia dì Caserta, sono destinate ad attività rurali in regime di inedificabilità, salvo il recupero dell'edilizia esistente senza incremento del carico insediativo.
Di qui la ritenuta incompatibilità dei manufatti con la vigente strumentazione urbanistica e la conseguente reiezione dell’istanza di sanatoria.
7. – A fronte di tale compendio motivazionale le censure di parte ricorrente, che si appuntano essenzialmente sulla asserita natura pertinenziale delle opere per le quali è richiesto l’accertamento di conformità, ad avviso del Collegio non risultano persuasive. In relazione –soprattutto– alla consistenza delle opere in contestazione (che coprono un’area di 540 mq), infatti, va condivisa la qualificazione fatta propria dal Comune, sulla scorta degli orientamenti giurisprudenziali già espressi in materia.
7.1. – La nozione di pertinenza sul piano urbanistico–edilizio è limitata ai soli interventi accessori di modesta entità e privi di autonomia funzionale (TAR Napoli, sez. VII, 11/04/2023, n. 2220).
7.2. – Sul piano urbanistico, la pertinenza è concetto meno ampio di quello definito dall'art. 817 c.c. e, dunque, non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale; il carattere pertinenziale in senso urbanistico va, quindi, riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non siano valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono (Cons. Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3127; Tar Napoli, sez. VIII, 02.01.2023, n. 21).
7.3. – Nel caso di specie, diversamente da quanto sostenuto, viene in evidenza non già una pertinenza, ma un distinto lotto di terreno che, sebbene confinante con quello sul quale vi è l’officina del ricorrente, è nettamente distinto per destinazione e classificazione, sul quale la realizzazione di un muro di cinta di così ragguardevoli dimensioni –in tal senso differenziandosi dalla semplice recinzione, la quale ha caratteristiche tipologiche di minima entità al fine della mera delimitazione della proprietà (Cons. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4169)– è soggetta al rilascio del permesso di costruire, inverandosi la nozione di nuova costruzione quante volte l'intervento edilizio produca, come in questo caso, un effettivo e rilevante impatto sul territorio e, dunque, in relazione alle opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi determinandone una significativa trasformazione (v., ex plurimis, Cons. Stato sez. VI, 17/05/2023, n. 4889; Cons. Stato, Sez. II, 24.03.2020, n. 2050; Cons. Stato, Sez. II, 09.01.2020, n. 212; Cons. Stato, Sez. VI, 09.07.2018, n. 4169).
7.4. – Si deve qualificare l'intervento edilizio quale nuova costruzione, infatti, quante volte abbia l'effettiva idoneità –come nella specie– di determinare significative trasformazioni urbanistiche ed edilizie, modificando l’assetto del territorio, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa.
Quest'ultimo concetto è infatti comprensivo, come è stato condivisibilmente ritenuto (Cons. Stato sez. VI, 09/07/2018, n. 4169), di qualunque manufatto autonomo ovvero modificativo di altro preesistente, che sia stabilmente infisso al suolo o ai muri di quello preesistente, ma comunque capace di trasformare in modo durevole l'area coperta, ovvero ancora le opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi.
8. – I rilievi del ricorrente tesi a valorizzare la dedotta natura pertinenziale delle opere, in conclusione, non colgono nel segno e pertanto non si rivelano in grado di intaccare le ragioni sostanziali del diniego, correlate alla incompatibilità dell’intervento con la vigente strumentazione urbanistica comunale.
9. – Nemmeno, d’altro canto, assume rilevanza viziante la censura di carattere procedimentale incentrata sulla violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990, atteso che, come osservato, gli elementi deduttivi e istruttori forniti dalla parte privata –che nella specie, come detto, si focalizzano sull’assunto della natura pertinenziale delle opere– non sono idonei a porre in dubbio, stante anche il carattere vincolato delle determinazioni in materia di abusi edilizi (e, quindi, anche delle determinazioni di sanatoria: cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. VI, 10.02.2020 n. 1029; TAR Campania, Napoli, sez. III, 04.02.2019 n. 609; Cons. Stato, Sez. IV, 12.02.2010 n. 772) che, in caso di osservanza delle disposizioni procedimentali in concreto violate, il contenuto dispositivo dell'atto sarebbe stato identico a quello in concreto assunto (Cons. Stato sez. VI, 12/04/2023, n. 3672).
10. – Siccome infondato, il ricorso va dunque respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 27.12.2023 n. 7234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Abusi edilizi, niente accesso agli atti se l’istanza del consigliere comunale è generica. Occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare
Secondo il Tar Basilicata (sentenza 21.11.2023 n. 679) non è accoglibile -perché non ricollegabile al mandato elettorale– la generica istanza con cui un consigliere comunale chieda di accedere a tutti gli atti di accertamento di abusi edilizi compiuti dal Comune in un determinato periodo: verbali della Polizia municipale, relazioni dell’ufficio tecnico, ordinanze di demolizione eccetera.
Gli atti comunali di vigilanza edilizia, quand'anche trasmessi alla Procura della Repubblica per le valutazioni di competenza, non integrano, di per sé, atti polizia giudiziaria astretti dal regime di segretezza secondo la disciplina sull'accesso agli atti.
Tuttavia non è sufficiente rivestire la carica di consigliere per essere legittimati, sempre e comunque, all'accesso; ma occorre dare atto che l'istanza muova da un'effettiva esigenza collegata all'esame di questioni proprie dell'assemblea consiliare.
Del resto, la finalizzazione dell'accesso ai documenti in relazione all'espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del consigliere.
Quanto a contenuto, non si tratta di un diritto assoluto e senza limiti. E ciò lo si si ricava dalla particolare funzione pubblica consiliare cui è servente questo tipo di accesso; e che lo contiene nei termini dei definiti poteri del Consiglio comunale, essendo l'accesso strumentale all'esercizio del mandato consiliare.
Perciò il particolare diritto di accesso del consigliere non è illimitato, vista la sua potenziale pervasività e la capacità di interferenza con altri interessi primariamente tutelati. Il descritto limite implica che il bisogno di conoscenza del titolare della carica elettiva debba porsi in rapporto operativo con la funzione di cui è collegialmente rivestito il consiglio comunale, e alle prerogative attribuite singolarmente a ciascun componente dell'organo elettivo.
Su queste basi un'istanza d'accesso motivata in ragione della generica necessità di espletamento del mandato elettorale di consigliere comunale, è come tale sprovvista di elementi idonei a comprovare che essa muova da un'effettiva esigenza collegata all'esame di questioni proprie dell'assemblea consiliare; secondo quanto inderogabilmente richiesto ai fini del riscontro del parametro di utilità prescritto dalla disciplina degli enti locali, laddove è chiarito che i consiglieri hanno diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e le informazioni da considerare utili all'espletamento del loro mandato.
Un tale deficit di concretezza nella formulazione dell'istanza di accesso si riflette negativamente anche sulla possibilità stessa di condurre la doverosa verifica, spettante all'Amministrazione, di preminenza o meno dell'interesse acquisitivo rispetto ai confliggenti interessi vantati dai soggetti controinteressati: in specie, quello di rango costituzionale alla tutela della privacy. Precludendosi l'individuazione di equilibrio e bilanciamento tra diritti fondamentali (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 18.01.2024).
----------------
SENTENZA
4. Il ricorso è infondato.
Ed invero, pur dovendosi ritenere che gli atti comunali di vigilanza edilizia (quand’anche trasmessi alla Procura della Repubblica per le valutazioni di competenza) non integrano, di per sé, atti polizia giudiziaria astretti dal regime di segretezza di cui all’art. 24, co. 1, lett. a), e co. 7, della L. n. 241/1990 (cfr. sul punto, Consiglio di Stato, sez. V, 10/10/2022, n. 8667), è opinione del Collegio che sussistano agli atti del giudizio convincenti elementi che –ancorché non enunciati nell’avversato provvedimento di parziale diniego- non consentono l’accertamento della spettanza, in capo alla ricorrente, del diritto ad accedere alla documentazione non ancora esibita dal Comune.
Dal punto di vista processuale, valga il richiamo al costante orientamento giurisprudenziale, secondo cui “il giudizio in materia di accesso, pur seguendo lo schema impugnatorio, è rivolto all'accertamento della sussistenza o meno del diritto dell'istante all'accesso medesimo e, in tal senso, si atteggia quale giudizio sul rapporto, come desumibile dall'art. 116, co. 4, cod. proc. amm., secondo cui il giudice, sussistendone i presupposti, ordina l'esibizione dei documenti richiesti. In tal caso, il G.A. è chiamato a svolgere un giudizio di accertamento e non di impugnazione, con la conseguenza, tra l'altro, che anche argomenti non espressi nel provvedimento impugnato possono trovare ingresso all'interno del processo” (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, ad. plen. 02/04/2020, n. 10).
Nel merito, rilevano le documentate argomentazioni esposte dalla difesa comunale e dianzi richiamate.
Va, infatti, evidenziato come –fermo restando che l'accesso ai sensi dell’art. 43, co. 2, del T.U.E.L. non è condizionato alla dimostrazione di un personale interesse (alla conoscenza dell'atto ovvero alla acquisizione dell'informazione) o alla presentazione di una giustificazione– il più recente (e condivisibile) orientamento giurisprudenziale ha precisato che:
   - “quanto a contenuto, non si tratta di un diritto assoluto e senza limiti: lo si si ricava dalla particolare funzione pubblica consiliare cui è servente questo tipo di accesso, che lo contiene nei termini dei definiti poteri del Consiglio comunale (essendo l'accesso strumentale all'esercizio del mandato consiliare). Perciò il particolare diritto di accesso del consigliere non è illimitato, vista la sua potenziale pervasività e la capacità di interferenza con altri interessi primariamente tutelati” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 03/02/2022, n. 769);
   - “non appare sufficiente rivestire la carica di consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all'accesso, ma occorre dare atto che l'istanza muova da un'effettiva esigenza collegata all'esame di questioni proprie dell'assemblea consiliare. Del resto, la finalizzazione dell'accesso ai documenti in relazione all'espletamento del mandato costituisce il presupposto legittimante ma anche il limite dello stesso, configurandosi come funzionale allo svolgimento dei compiti del consigliere" (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 2/1/2019, n. 12);
   - “il descritto limite implica che il bisogno di conoscenza del titolare della carica elettiva debba porsi in rapporto di strumentalità con la funzione di cui è collegialmente rivestito il consiglio comunale (art. 42, t.u.e.l.), e alle prerogative attribuite singolarmente al componente dell’organo elettivo (art. 43)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 11/03/2021, n. 2089).
Di talché, l’istanza di accesso per cui è causa –essendo motivata, come emerge dalla sua lettura, in ragione della generica necessità di espletamento del mandato elettorale di consigliere comunale– risulta ictu oculi sprovvista di elementi idonei a comprovare che essa muova da un'effettiva esigenza collegata all'esame di questioni proprie dell'assemblea consiliare, secondo quanto inderogabilmente richiesto ai fini del riscontro del parametro di utilità prescritto dall’art. 43, co. 3, del T.U.E.L. (ivi chiarendosi che i consiglieri hanno diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e le informazioni "utili all'espletamento del loro mandato").
Tale deficit di concretezza nella formulazione dell’istanza di accesso si riflette negativamente anche sulla possibilità stessa di condurre la doverosa verifica, spettante all’Amministrazione, di preminenza o meno dell’interesse acquisitivo rispetto ai confliggenti (ed equiordinati) interessi vantati dai soggetti controinteressati (in specie, quello di rango costituzionale alla tutela della riservatezza dei destinatari dell’attività di polizia edilizia); ciò precludendo, altresì, l’individuazione, sempre da parte dell’Amministrazione, di eventuali modalità realizzative di un equilibrato e ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali di pari rango (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 11/03/2021, n. 2089).
Infine, con valenza autonoma, è provato che l’istanza di accesso per cui è causa, oltre che carente dei richiamati elementi circostanziali, è inquadrabile nel contesto di numerose analoghe iniziative da parte della ricorrente (nel numero di 40), concentrate in un ristretto torno temporale (dal 09/05/2023 al 04/09/2023), rivelatrici –unitariamente intese– di un modus agendi idoneo ad integrare un controllo generalizzato dell’operato dell’Amministrazione e, dunque, vietato ai sensi dell’art. 24, co. 3, della L. n. 241/1990.
Regola, quest’ultima, opponibile anche a tale tipologia di accesso, in quanto espressiva della tutela dei principi costituzionali di razionalità e buon funzionamento dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), come riconosciuto da costante giurisprudenza secondo cui l’accesso ai documenti da parte dei consiglieri comunali incontra un “limite proprio nell'ipotesi in cui lo stesso si traduca in strategie ostruzionistiche o di paralisi dell'attività amministrativa con istanze che, a causa della loro continuità e numerosità, determinino un aggravio notevole del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull'attività dell'amministrazione (Cons. Stato, IV, 12.02.2013, n. 846). L'accesso, in altri termini, deve avvenire in modo da comportare il minore aggravio possibile per gli uffici comunali, e non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche o meramente emulative” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 02/03/2018, n. 1298).
5. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso va respinto.

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 31, co. 2, del D.P.R. n. 380/2001, «[i]l dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’art. 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione (…)» sicché tra le variazioni essenziali -in presenza delle quali scatta il potere-dovere del dirigente di ingiungere la demolizione del manufatto abusivo- è testualmente contemplata la «violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali» [art. 32, co. 1, lett. e)].
---------------

23. – Con il quinto dei motivi aggiunti, i ricorrenti hanno eccepito l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione nella parte in cui viene contestata l’inosservanza della normativa antisismica.
La censura dei ricorrenti è limitata alla asserita incompetenza del Comune a muovere contestazioni in materia antisismica, essendo la relativa competenza radicata in capo all’autorità giudiziaria (ai sensi dell’art. 98, co. 3, del D.P.R. n. 380/2001) o, in caso di accertata prescrizione, alla Regione (art. 100, co. 1). Solo con la memoria di replica depositata il 03.10.2023, i ricorrenti hanno poi sostenuto che «il Comune non può ordinare la demolizione laddove l’Autorità competente non abbia accertato la violazione della normativa antisismica ed abbia verificato che la stessa non dipenda da fatti procedurali».
Esula, dunque, dalla materia del contendere, come delimitata dalle censure formulate dai ricorrenti con i motivi aggiunti, la questione della fondatezza del provvedimento comunale in relazione al carattere sostanziale o formale della violazione della normativa antisismica contestata (questione rispetto alla quale assumerebbe rilevanza la nota della Regione Umbria del -OMISSIS-, depositata in corso di causa da parte ricorrente con il doc. n. 80, con la quale, in relazione alla segnalazione del Comune di Preci «per illecito edilizio e presunta violazione sismica», il competente ufficio regionale ha ritenuto di non avviare alcun procedimento a carico degli odierni ricorrenti, non ravvisandone i presupposti sostanziali).
Restando al profilo relativo alla competenza – e salva ogni eventuale valutazione dell’Amministrazione in ordine alla portata sostanziale della nota regionale del -OMISSIS- – è dirimente l’osservazione che, ai sensi dell’art. 31, co. 2, del D.P.R. n. 380/2001, «[i]l dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione (…)» e che tra le variazioni essenziali in presenza delle quali scatta il potere-dovere del dirigente di ingiungere la demolizione del manufatto abusivo è testualmente contemplata la «violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali» [art. 32, co. 1, lett. e)].
Il motivo, nei limiti in cui lo stesso è stato formulato, è pertanto infondato
(TAR Umbria, sentenza 02.11.2023 n. 604 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I titoli edilizi e il certificato di agibilità sono correlati a presupposti diversi e sono soggetti a discipline, anche sanzionatorie, non sovrapponibili, dal momento che
   - il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti (come espressamente recita l’art. 24 del D.P.R. n. 380/2001), mentre
   - oggetto della specifica funzione del titolo edilizio è il controllo del rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche.
Dunque, il certificato di agibilità ha una sua propria funzione, consistente nel garantire che l’edificio sia idoneo ad essere utilizzato per le destinazioni ammissibili, e non preclude agli uffici comunali la possibilità di contestare, anche successivamente alla sua emissione, la presenza di difformità rispetto al titolo edilizio, non essendo pertanto d’ostacolo all’esercizio dei poteri di repressione degli abusi.

---------------

24. – Infine, nemmeno il sesto dei motivi aggiunti può trovare accoglimento.
Nessun affidamento legittimo può essersi formato nei ricorrenti rispetto alla regolarità edilizia ed urbanistica del manufatto ed alla rinuncia dell’Amministrazione comunale ad esercitare i suoi doverosi poteri di vigilanza sull’attività edilizia per effetto del rilascio della dichiarazione di agibilità del -OMISSIS-.
Come è stato rilevato dalla giurisprudenza, anche di questo Tribunale, i titoli edilizi e il certificato di agibilità sono correlati a presupposti diversi e sono soggetti a discipline, anche sanzionatorie, non sovrapponibili, dal momento che il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti (come espressamente recita l’art. 24 del D.P.R. n. 380/2001), mentre oggetto della specifica funzione del titolo edilizio è il controllo del rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche (TAR Umbria, 26.08.2019, n. 483).
Dunque, il certificato di agibilità ha una sua propria funzione, consistente nel garantire che l’edificio sia idoneo ad essere utilizzato per le destinazioni ammissibili, e non preclude agli uffici comunali la possibilità di contestare, anche successivamente alla sua emissione, la presenza di difformità rispetto al titolo edilizio, non essendo pertanto d’ostacolo all’esercizio dei poteri di repressione degli abusi (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2021, n. 3666; TAR Campania, Napoli, sez. II, 08.11.2021, n. 7055; TAR Campania, Salerno, sez. II, 27.05.2019, n. 847; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 08.06.2017, n. 3097; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 05.06.2017, n. 731; TAR Veneto, sez. II, 18.01.2017, n. 42; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.01.2011, n. 94)
(TAR Umbria, sentenza 02.11.2023 n. 604 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il muro di contenimento tra due fondi posti a livelli differenti, qualora il dislivello derivi dall'opera dell'uomo o il naturale preesistente dislivello sia stato artificialmente accentuato, deve considerarsi costruzione a tutti gli effetti e soggetta, pertanto, agli obblighi delle distanze previste dall'art. 873 cod. civ. e dalle eventuali norme integrative, a nulla rilevando, sotto questo profilo, che esso assolva anche alla funzione di contenimento e sostegno del terrapieno.
---------------

Il secondo motivo del ricorso principale denunzia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, specificamente dell'art. 873 cod. civ. e dei regolamenti locali ovvero dell'art. 47 delle Norme di attuazione del Piano regolatore generale del comune di Imperia, relative alla disciplina delle distanze tra fabbricati, lamentando che la Corte territoriale abbia qualificato l'intervento come nuova costruzione senza considerare che, nel caso di specie, trattandosi di luoghi in dislivello naturale, il muro assolveva alla funzione di sostegno e di contenimento.
Il motivo è infondato.
La qualifica del manufatto de quo quale costruzione accolta dalla Corte genovese e le conseguenze che essa ne ha tratto appaiono esenti da censure e conformi all'indirizzo di questa Corte, che ha avuto modo in più occasioni di precisare che il muro di contenimento tra due fondi posti a livelli differenti, qualora il dislivello derivi dall'opera dell'uomo o il naturale preesistente dislivello sia stato artificialmente accentuato, deve considerarsi costruzione a tutti gli effetti e soggetta, pertanto, agli obblighi delle distanze previste dall'art. 873 cod. civ. e dalle eventuali norme integrative, a nulla rilevando, sotto questo profilo, che esso assolva anche alla funzione di contenimento e sostegno del terrapieno (Cass. n. 1217 del 2010; Cass. n. 8144 del 2001) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 20.10.2021 n. 29166).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce ius receptum nella giurisprudenza della Suprema Corte che la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra pubblica amministrazione e privato richiedente o costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati, regolati dalle disposizioni dettate dal codice civile e dalle leggi speciali in materia edilizia, nonché dalle norme dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori generali locali.
Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie, sono irrilevanti tanto la esistenza della concessione (salva la ipotesi della cosiddetta licenza in deroga), quanto il fatto di avere costruito in conformità alla concessione, non escludendo tali circostanze, in sé, la violazione dei diritti dei terzi di cui al codice civile e agli strumenti urbanistici locali, così come è del pari irrilevante la mancanza della licenza o della concessione, quando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le disposizioni normative sopraindicate.

---------------

Il terzo motivo di ricorso denunzia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, lamentando che la decisione impugnata abbia trascurato che la parte convenuta Co. aveva ottenuto dal comune in data 09.12.2002 la concessione in sanatoria del terrapieno.
Il mezzo è infondato in quanto il fatto la cui valutazione sarebbe stata omessa è irrilevante ai fini della controversia.
Costituisce invero ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte che la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra pubblica amministrazione e privato richiedente o costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati, regolati dalle disposizioni dettate dal codice civile e dalle leggi speciali in materia edilizia, nonché dalle norme dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori generali locali.
Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie, sono irrilevanti tanto la esistenza della concessione (salva la ipotesi della cosiddetta licenza in deroga), quanto il fatto di avere costruito in conformità alla concessione, non escludendo tali circostanze, in sé, la violazione dei diritti dei terzi di cui al codice civile e agli strumenti urbanistici locali, così come è del pari irrilevante la mancanza della licenza o della concessione, quando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le disposizioni normative sopraindicate (Cass. 12405 del 2007)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 20.10.2021 n. 29166).

AGGIORNAMENTO AL 09.01.2024

Nei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, se il Sindaco "vuole" firmare (legittimamente) "atti gestionali" indefettibilmente:

   1- si devono preventivamente adottare “disposizioni regolamentari organizzative” che autorizzino la deroga al principio di distinzione delle funzioni tra organi tecnici e organi politici;
   2-
deve sussistere il mancato affidamento del relativo incarico al segretario comunale;
   3-
si deve, ogni anno in sede di deliberazione (approvazione) del bilancio, documentare con apposito atto l'effettivo contenimento della spesa;
   4- lo stesso Sindaco
non può auto-attribuirsi il potere di natura gestionale (ai sensi dell’art. 107 del TUEL) laddove, al contrario, è quanto mai opportuna (se non necessaria) l'adozione di apposita deliberazione di Giunta Comunale in tal senso.

COMPETENZE GESTIONALI: Come noto, ai sensi dell’art. 5, comma 3, del d.lgs. 285/1992 (codice della strada) «i provvedimenti per la regolamentazione della circolazione sono emessi dagli enti proprietari, attraverso gli organi competenti a norma degli artt. 6 e 7, con ordinanze motivate e rese note al pubblico mediante i prescritti segnali», con la precisazione, di cui al successivo art. 4, comma 5, lett. d), che le ordinanze de quibus sono emanate dal Sindaco qualora abbiano ad oggetto strade comunali o vicinali.
Ebbene, in linea generale l’orientamento giurisprudenziale prevalente considera che a seguito dell’emanazione del TUEL tutte le disposizioni normative previgenti che stabiliscono una competenza in capo al Sindaco nell’emanazione di ordinanze “ordinarie”, sono da intendersi implicitamente attributive del medesimo potere ai dirigenti o ai responsabili di servizio, se rientranti nell'ambito delle competenze gestionali di cui al riparto dei poteri; principio generale che è stato affermato anche in subiecta materia, ove è stato chiarito che «secondo l'orientamento ormai consolidatosi in giurisprudenza in materia, i provvedimenti con i quali si disciplina la circolazione sulla viabilità comunale, la modalità di accesso alla stessa ed i relativi orari, l'eventuale divieto per talune categorie di veicoli, i controlli e le sanzioni, ai sensi degli artt. 6 e 7 del d.lgs. 285 del 1992, assumono natura tipicamente gestoria ed esecutiva e, quindi, appartengono alla competenza dei dirigenti e non del Sindaco».
Con specifico riferimento alla circolazione stradale la giurisprudenza ha però precisato che, nonostante le misure previste dall'art. 7 del Codice della Strada devono intendersi oggi, di norma, rimesse alla competenza della dirigenza comunale, tale regola generale subisce una deroga «per le misure di maggiore impatto sull'intera collettività locale, per le quali lo stesso articolo del Codice prevede l'intervento di un organo politico».
Tant’è che in un caso analogo a quello in esame è stato sancito che «non vi è dubbio che la chiusura definitiva di un passaggio a livello senza barriere e l'interdizione, altrettanto definitiva, della circolazione nel tratto di strada vicinale che lo interseca, rappresentano limitazioni a carattere permanente che l'ente proprietario della strada (nel caso di specie il sindaco) può legittimamente disporre ai sensi dell'art. 6, comma 4, lett. b), del d.lgs. n. 285/1992, laddove, nella comparazione tra opposti interessi, debba prevalere quello pubblico alla sicurezza stradale e del traffico veicolare».
A ciò si aggiunga che il caso sottoposto all’esame del Collegio è ulteriormente peculiare perché il provvedimento è stato emanato dal Sindaco di un Comune di circa 800 abitanti ed è, pertanto, sussumibile nel disposto dell’art. 53, comma 23, della l. 388/2000, secondo cui «gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale».
---------------

... per l'annullamento
   - dell'ordinanza del Sindaco del Comune di Tavagnasco n. 10 del 20.09.2021, pubblicata il 19.11.2021, nonché di tutti gli atti a essa connessi, ancorché non conosciuti, ivi compresi, per quanto di interesse:
...
1. L’impianto idroeletrico della ricorrente è dotato di due accessi: uno principale (posto sul lato sud dello stabilimento, con accesso da via Ganassini) e l’altro “secondario” (posto a nord dell’impianto con ingresso da via Quincinetto, la quale è attraversata, da un passaggio a livello posto al km 43+782 della linea ferroviaria).
2. Con una serie di provvedimenti, la Rete Ferroviaria Italiana - RFI S.p.A., la Regione Piemonte, la Città Metropolitana di Torino, il Consorzio per il Bacino Imbrifero - BIM della Dora Baltea e i Comuni territorialmente interessati hanno avviato un intervento di messa in sicurezza della tratta ferroviaria Torino-Aosta, che comportava anche la chiusura di una serie di passaggi a livello.
3. Nello specifico e per quanto qui di interesse, con la Deliberazione della Giunta Comunale n. 32 del 28.05.2018, il Comune di Tavagnasco ha avviato le procedure per la chiusura del passaggio a livello posto al km 43+782 della linea ferroviaria, che avrebbe comportato l’impossibilità per la ricorrente di usufruire efficientemente del proprio accesso secondario.
4. Il 03.09.2018 la ricorrente ha rappresentato al Comune che l’impossibilità di utilizzare tale via d’accesso potrebbe divenire una fonte di criticità in caso di forti esondazioni, che potrebbero rendere non percorribile l’accesso principale.
5. Il 20.09.2021 il Comune ha disposto la chiusura del passaggio a livello (ordinanza numero 10 del 20.09.2021) e con ricorso, notificato il 18.11.2021 e depositato il successivo 24 novembre, la ricorrente ha impugnato i provvedimenti di cui in epigrafe, chiedendone l’annullamento, previa sospensione cautelare, perché asseritamente illegittimi.
6. Con motivi aggiunti, notificati e depositati il 14.12.2021, la ricorrente ha esteso l’impugnazione agli atti depositati in giudizio dal Comune (Deliberazione di Consiglio Comunale di Tavagnasco n. 12 del 03.05.2021, Deliberazione di Giunta Comunale di Tavagnasco n. 32 del 28.05.2018, Responsabile del Servizio di Polizia Municipale del Comune di Tavagnasco del 11.03.2021) e ha indicato nuovi profili di illegittimità degli atti già gravati.
...
3. Nel merito, con il primo motivo di ricorso la ricorrente censura l’incompetenza del Sindaco a emanare l’ordinanza n. 10 del 20.09.2021, posto che, nonostante gli artt. 5, 6 e 7 del Codice della Strada attribuiscano tale potere al sindaco, a seguito dell’entrata in vigore del TUEL esso sarebbe stato attribuito ai dirigenti in omaggio al disposto del suo art. 107.
A ciò si aggiungerebbe, per la tesi in esame, che il provvedimento de quo non potrebbe essere inquadrato nel novero delle ordinanze contingibili e urgenti in quanto il relativo procedimento sarebbe stato avviato nel 2017.
La censura è stata approfondita con il primo motivo dei motivi aggiunti, in cui la ricorrente ha anche esteso il contraddittorio all’Avvocatura Distrettuale dello Stato.
Il motivo è infondato.
Come noto, ai sensi dell’articolo 5, comma 3, del d.lgs. 285/1992 (codice della strada) «i provvedimenti per la regolamentazione della circolazione sono emessi dagli enti proprietari, attraverso gli organi competenti a norma degli articoli 6 e 7, con ordinanze motivate e rese note al pubblico mediante i prescritti segnali», con la precisazione, di cui al successivo art. 4, comma 5, lett. d), che le ordinanze de quibus sono emanate dal Sindaco qualora abbiano ad oggetto strade comunali o vicinali.
Ebbene, in linea generale l’orientamento giurisprudenziale prevalente considera che a seguito dell’emanazione del TUEL tutte le disposizioni normative previgenti che stabiliscono una competenza in capo al Sindaco nell’emanazione di ordinanze “ordinarie”, sono da intendersi implicitamente attributive del medesimo potere ai dirigenti o ai responsabili di servizio, se rientranti nell'ambito delle competenze gestionali di cui al riparto dei poteri; principio generale che è stato affermato anche in subiecta materia, ove è stato chiarito che «secondo l'orientamento ormai consolidatosi in giurisprudenza in materia, i provvedimenti con i quali si disciplina la circolazione sulla viabilità comunale, la modalità di accesso alla stessa ed i relativi orari, l'eventuale divieto per talune categorie di veicoli, i controlli e le sanzioni, ai sensi degli artt. 6 e 7 del d.lgs. 285 del 1992, assumono natura tipicamente gestoria ed esecutiva e, quindi, appartengono alla competenza dei dirigenti e non del Sindaco» (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 13.07.2017, n. 3460).
Con specifico riferimento alla circolazione stradale la giurisprudenza ha però precisato che, nonostante le misure previste dall'art. 7 del Codice della Strada devono intendersi oggi, di norma, rimesse alla competenza della dirigenza comunale, tale regola generale subisce una deroga «per le misure di maggiore impatto sull'intera collettività locale, per le quali lo stesso articolo del Codice prevede l'intervento di un organo politico» (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 07.09.2022, n. 7790).
Tant’è che in un caso analogo a quello in esame è stato sancito che «non vi è dubbio che la chiusura definitiva di un passaggio a livello senza barriere e l'interdizione, altrettanto definitiva, della circolazione nel tratto di strada vicinale che lo interseca, rappresentano limitazioni a carattere permanente che l'ente proprietario della strada (nel caso di specie il sindaco) può legittimamente disporre ai sensi dell'art. 6, comma 4, lett. b), del d.lgs. n. 285/1992, laddove, nella comparazione tra opposti interessi, debba prevalere quello pubblico alla sicurezza stradale e del traffico veicolare» (cfr. TAR Marche, sez. I, 05.06.2015, n. 455).
A ciò si aggiunga che il caso sottoposto all’esame del Collegio è ulteriormente peculiare perché il provvedimento è stato emanato dal Sindaco di un Comune di circa 800 abitanti ed è, pertanto, sussumibile nel disposto dell’articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, secondo cui «gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale».
Poiché, quindi, il Comune di Tavagnasco ha una popolazione di circa 800 abitanti ed è, tra l’altro, privo di figure dirigenziali in organico, appare corretto affermare che le funzioni de quibus possano essere assunte dai componenti dell’organo esecutivo, ivi compreso il sindaco (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 03.11.2023 n. 859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Competenza del Sindaco e dei consiglieri all'irrogazione diretta di sanzioni.
Quesiti
Si chiede se sia configurabile la
competenza del Sindaco e dei consiglieri all'irrogazione diretta di sanzioni per violazione Codice della Strada e in materia di infrazioni relative all'errato conferimento/abbandono di rifiuti sul territorio.
Risposta
L’articolo 57, comma 1, lett. c), codice procedura penale stabilisce che “....sono ufficiali di polizia giudiziaria:
   c) il sindaco dei comuni ove non abbia sede un ufficio della polizia di Stato ovvero un comando dell'arma dei carabinieri o della guardia di finanza
”.
L’art. 13, comma 4, legge n. 689/1981, prevede che “All'accertamento delle violazioni punite con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro possono procedere anche gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, i quali, oltre che esercitare i poteri indicati nei precedenti commi, possono procedere, quando non sia possibile acquisire altrimenti gli elementi di prova, a perquisizioni in luoghi diversi dalla privata dimora, previa autorizzazione motivata del pretore del luogo ove le perquisizioni stesse dovranno essere effettuate. Si applicano le disposizioni del primo comma dell'art. 333 e del primo e secondo comma dell'art. 334 c.p.p.
Infine l’articolo 194, codice della strada, prescrive che “In tutte le ipotesi in cui il presente codice prevede che da una determinata violazione consegua una sanzione amministrativa pecuniaria, si applicano le disposizioni generali contenute nelle Sezioni I e II del capo I della legge 24.11.1981, n. 689, salve le modifiche e le deroghe previste dalle norme del presente capo”.
Da tale normativa si evincono i seguenti principi, in relazione al quesito proposto:
   1. sicuramente
consiglieri e assessori comunali non hanno nessuna competenza all’accertamento e contestazione di violazioni amministrative;
   2.
il sindaco, invece, ha competenza all’accertamento, contestazione, verbalizzazione di sanzioni amministrative, sia generali, e sia del codice della strada, ma esclusivamente se si trovi nella situazione di cui all’articolo 57, comma 1, lett. c), codice procedura penale, in quanto ufficiale di P.G., in relazione al potere attribuito agli organi di P.G. dall’articolo 13, legge n. 689/1981;
   3.
nel caso in cui, nel Comune abbia sede un ufficio della Polizia di Stato, un Comando Carabinieri o G.d.f., il Sindaco non avrà alcun potere di accertare, contestazione, verbalizzare alcuna violazione amministrativa (30.08.2023 - tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it).

COMPETENZE GESTIONALI: L. Oliveri, Comuni con meno di 5.000 abitanti: chi incarica sindaco e assessori delle funzioni gestionali? La pretesa paradossale di applicare norme ordinare a deroghe mostruose all’ordinamento (12.07.2023 - tratto da e link a https://leautonomie.asmel.eu).
---------------
Questioni di lana caprina, conseguenze inevitabili di un obbrobrio giuridico come l’articolo 53, comma 23, della legge 388/2000.
Una norma mostruosa, che ferisce profondamente l’ordinamento consentendo negli enti con meno di 5.000 abitanti l’attribuzione di funzioni gestionali agli organi di governo, non può che scaturire ulteriori aberrazioni, come il problema connesso alla concreta specificazione delle persone fisiche, sindaco e assessori, chiamati a svolgere le funzioni gestionali. Specificazione, si ricordi, che fa totalmente a meno di qualsiasi di quelle valutazioni su titolo di studio, attitudine, esperienze, competenze, necessari per il reclutamento, perfino (in parte) di figure fiduciarie come gli articoli 110, altra aberrazione giuridica che si trascina da decenni.
Dunque, posto che un comune di piccole dimensioni intenda avvalersi dell’aberrazione dell’articolo 53, comma 23, chi incarica sindaco e assessori delle funzioni di responsabile di servizio?
Come dimostra l’articolo di Amedeo Scarsella “A chi compete la nomina del sindaco come Responsabile di servizio negli Enti con popolazione inferiore a 5mila abitanti?”, pubblicato su La Gazzetta degli enti locali l’11.07.2023, si è aperta la fiera delle suggestioni. Alla domanda rispondono “giunta” il Servizio consulenza della Regione Friuli Venezia Giulia (parere 06.06.2023) ed Anac (nella propria recente
delibera 20.06.2023 n. 291, della quale continua a sfuggire, tuttavia, il fondamento).
Ribatte lo Scarsella, con argomentazioni interessanti, concernenti l’impossibilità della traslazione delle competenze da un organo all’altro sulla base di un conflitto di interessi, che invece la competenza debba essere individuata nel vice-sindaco.
Tale soggetto sostituisce il sindaco in caso di assenza o impedimento temporaneo (nonché nella sciagurata ipotesi di sospensione dall’esercizio delle funzioni).
Ma, allora, tale soluzione non appare appagante. L’impedimento temporaneo è cosa molto diversa dal conflitto di interessi: la funzione vicaria rimedia ad una situazione limitata nel tempo di natura fattuale, che non consenta al sindaco di esercitare proprie funzioni.
Nel caso dell’articolo 53, comma 23, se si ritenga sussistere conflitto di interessi da ruolo di sindaco ed esercizio della competenza a nominare il soggetto politico che svolga funzioni gestionali, allora non si tratta di un impedimento temporaneo, bensì di una vera e propria totale incompatibilità tra ruolo e funzioni. La soluzione del vice sindaco, dunque, non è pertinente.
Per altro, quanto è credibile che il vice sindaco, eventualmente, attribuisca gli incarichi di responsabile di servizio in modo autonomo e non obbedendo alle indicazioni del sindaco? Quanto è credibile, ciò, in misura superiore al meno zero? Le soluzioni ai problemi debbono superare un vaglio non solo di legittimità, ma anche fattuale.
Il problema che dell’incompatibilità è così sintetizzato dall’Anac: “occorre evitare che sia lo stesso interessato ad effettuare autonomamente la valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione alla propria situazione. Pertanto, ogni Comune che conferisce al Sindaco o ad un Assessore funzioni gestionali deve definire in un apposito atto (ad esempio mediante Statuto, regolamento o comunque in atti del Consiglio comunale o della Giunta), tenendo conto delle proprie specificità organizzative, le modalità con cui gli stessi possono rendere le dichiarazioni ai sensi degli articoli 6, comma 1, del d.PR. n. 62/2013 e 6-bis della legge n. 241/1990, nonché quelle relative alle procedure di aggiudicazione rispetto alle quali adottino atti”.
Tuttavia, la vera domanda da porsi è se realmente si pongano questioni connesse al conflitto di interessi.
Leggiamo, allora, gli articoli citati dall’Anac, quale fonte delle dichiarazioni sul conflitto di interessi:
   - articolo 6, comma 1, dPR 62/2013: “Fermi restando gli obblighi di trasparenza previsti da leggi o regolamenti, il dipendente, all’atto dell’assegnazione all’ufficio, informa per iscritto il dirigente dell’ufficio di tutti i rapporti, diretti o indiretti, di collaborazione con soggetti privati in qualunque modo retribuiti che lo stesso abbia o abbia avuto negli ultimi tre anni, precisando:
         a) se in prima persona, o suoi parenti o affini entro il secondo grado, il coniuge o il convivente abbiano ancora rapporti finanziari con il soggetto con cui ha avuto i predetti rapporti di collaborazione;
        b) se tali rapporti siano intercorsi o intercorrano con soggetti che abbiano interessi in attività o decisioni inerenti all’ufficio, limitatamente alle pratiche a lui affidate”;
   - articolo 6-bis, della legge 241/1990: “Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”.
La prima norma è chiarissimamente rivolta in via esclusiva ai dipendenti pubblici: del resto, è parte del codice di comportamento appunto dei dipendenti, come tale inapplicabile agli organi di governo. La seconda, solo apparentemente è più neutra: in realtà si salda con l’articolo 5 della legge 241/1990, ai sensi del quale “Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all’unità la responsabilità della istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento nonché, eventualmente, dell’adozione del provvedimento finale”. Ancora una volta, si comprende che le norme riguardano i dipendenti, non gli organi elettivi.
L’articolo ircocervo 53, comma 23, della legge 388/2000 non trasforma gli amministratori locali in dipendenti cui siano da applicare norme riservate a chi conduca con la PA un rapporto di lavoro pubblico. Essi sono e restano sindaco e componenti della giunta.
Allora, forse, appare più producente rassegnarsi: se deroga al sistema generale di separazione delle competenze deve essere, deroga sia. Una deroga totale e non a scartamento ridotto.
La legge rimette ai regolamenti locali la scelta di attivare la mostruosità ivi prevista? Siano i regolamenti a stabilire anche quale organo incarica i componenti della giunta delle funzioni gestionali. Oggettivamente, la questione andrebbe risolta così, dando rilevanza in via esclusiva agli atti che dalla legge ricevono la legittimazione a vulnerare l’ordinamento con la orripilante deroga prevista.
Dovessimo prendere posizione su come scrivere i regolamenti, suggeriremmo, proprio perché è una deroga illimitata, di lasciare al sindaco la competenza ad incaricare se stesso o gli assessori delle funzioni gestionali, come in un nostalgico ritorno all’ordinamento locale ante 1990.
Hanno da rilasciare dichiarazioni di assenza di conflitto di interesse? Le rilascino al segretario comunale, che svolge le funzioni latamente intese come “notarili”.
Considerazione finale: non si combattono i conflitti di interesse con la forma e gli espedienti, tipo la giunta che decide di incaricare sindaco e assessori al posto dei dipendenti, il quale sindaco dice al vice sindaco di incaricare gli assessori per evitare il conflitto di interesse che poi non si sa chi deve dichiarare di non possedere a chi.
I conflitti di interesse andrebbero evitati, intanto, con norme sagge e tali da scongiurare simili confusioni.
E’ l’articolo 53, comma 23, la deformità: tutto quel che lo attua non può che essere conseguentemente un ulteriore raccapriccio giuridico.

COMPETENZE GESTIONALI: A. Scasella, FAQ sull’attribuzione ai componenti della giunta di competenze gestionali nei Piccoli Comuni (12.07.2023 - tratto da e link a www.lagazzettadeglientilocali.it).
---------------
Si pubblicano di seguito le risposte alle domande più frequenti (FAQ) in relazione al tema della attribuzione ai componenti della giunta di competenze gestionali nei Piccoli Comuni.

È possibile affidare la responsabilità degli uffici e dei servizi nei Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti ai componenti dell’organo esecutivo?
  
L’art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000 stabilisce che “gli Enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.

È sufficiente la previsione contenuta nell’art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000 per attribuire l’incarico di responsabile degli uffici e dei servizi ai componenti dell’organo esecutivo negli Enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti?
  
NO. La norma in commento attribuisce solo la facoltà, per gli Enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, di mutare l’organizzazione dell’Ente in termini derogatori rispetto al principio di distinzione delle funzioni tra organi politici e gestionali, a condizione che:
     - siano previamente adottate apposite disposizioni regolamentari;
      - sia documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio, un contenimento di spesa.
   La previsione regolamentare, però, non è di per sé sufficiente ad autorizzare i componenti dell’organo esecutivo ad adottare atti gestionali, in quanto è sempre richiesto un atto successivo di conferimento delle funzioni, adeguatamente motivato da un punto di vista organizzativo e/o economico.
   È proprio tale successivo atto di assegnazione della responsabilità degli uffici e dei servizi che legittima l’adozione da parte del politico degli atti gestionali.

Primo presupposto perché possano legittimamente attribuirsi funzioni gestionali ai componenti dell’organo esecutivo è l’adozione di “disposizioni regolamentari organizzative”.
È quindi necessaria l’approvazione di una modifica regolamentare?
  
SI, tale soluzione appare ampiamente preferibile.
   Tuttavia, si segnala che accanto a questa interpretazione, che ritiene necessaria una previsione regolamentare, secondo un altro orientamento giurisprudenziale consolidato, “la disposizione legislativa non necessariamente indica l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato dalla giunta comunale, quale organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 23.02.2009 n. 1070; V, 06.03.2007 n. 1052; TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2011 n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter, 22.03.2011 n. 2534)”.
   Secondo tale interpretazione “le disposizioni regolamentari organizzative cui fa riferimento la norma non necessariamente indicano l’approvazione di un regolamento, e, in ogni caso, ai sensi dell’art. 48 del TUEL è altresì di competenza della giunta l’adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi” (così espressamente TAR Lombardia, 18.07.2017 n. 1644).

Secondo presupposto perché possano legittimamente attribuirsi funzioni gestionali ai componenti dell’organo esecutivo è il contenimento della spesa che “deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
La norma fa quindi riferimento al bilancio di previsione?
  
SI. La norma sembrerebbe fare riferimento al bilancio di previsione, che per il carattere programmatico e autorizzatorio, dovrebbe abilitare l’esercizio della facoltà, prevista dalle disposizioni regolamentari dell’Ente.
   La giurisprudenza, però, ha chiarito che “l’effettività del contenimento della spesa deve poi essere autonomamente confermata con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”, facendo intendere che, se il contenimento della spesa è un motivo necessario per il conferimento delle funzioni gestionali ai politici, lo stesso può essere dimostrato anche in un momento successivo rispetto a quello in cui viene adottato l’atto di attribuzione delle funzioni gestionali.

L’attribuzione della responsabilità degli uffici e dei servizi consente al componente dell’organo esecutivo di effettuare tutti gli atti connessi con la funzione?
   SI. Pertanto, lo stesso non solo adotta determinazioni, ordinanze gestionali, atti di gestione dei rapporti di lavoro, ma partecipa anche come presidente nelle commissioni.

L’art. 35, comma 3, lett. e), del d.lgs. n. 165/2001 impone che i componenti delle commissioni di concorso siano esperti e “non siano componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali”.
È possibile presiedere le Commissioni di concorso per il componente dell’organo esecutivo nominato responsabile del personale?
  
In realtà sul punto sussistevano molti dubbi che sono stati risolti dal Consiglio di Stato, Sez. V, con sentenza 29.04.2021 n. 3436 dove si legge che
“L’art. 53, comma 23, cit., infatti, introduce una deroga espressa alla norma che riserva ai dirigenti comunali la responsabilità degli uffici e dei servizi (l’art. 107 del TUEL.
All’interno di questa disposizione è contenuta anche la norma che attribuisce ai dirigenti «la presidenza delle commissioni di gara e di concorso» [comma 3, lett. a)]; funzione il cui svolgimento, nel disegno dell’art. 107 cit., discende direttamente dal conferimento dell’incarico di dirigente dell’ufficio o del servizio.
Pertanto, la possibilità di conferire l’incarico dirigenziale (o di responsabile del servizio) anche ai componenti dell’organo esecutivo implica necessariamente l’attribuzione delle funzioni e dei compiti che a quell’incarico sono, per legge, ricollegati”.

L’incarico di RUP può essere conferito ad un titolare di incarico politico avvalendosi della deroga di cui all’art. 53, co. 23 della l. 388/2000?
  
SI, ma ciò soltanto in caso di carenza in organico di figure idonee a ricoprire la funzione di RUP e qualora detta carenza non possa essere altrimenti superata senza incorrere in maggiori oneri per l’amministrazione.
   Si tratta di una posizione espressa dall’ANAC prima nella FAQ n. 1, relativa alla delibera 1007/2017 con cui sono state aggiornate le Linee guida n. 3/2016, poi confermata nella recentissima
delibera 20.06.2023 n. 291.

Il titolare dell’incarico politico cui è affidata la responsabilità degli uffici e dei servizi è tenuto a rendere, all’atto dell’assegnazione all’Ufficio, la dichiarazione sostitutiva ai sensi degli artt. 6, co. 1, del d.P.R. n. 62/2013 e 6-bis della l. n. 241/1990?
  
SI, in quanto lo stesso è da ritenersi parte dell’organizzazione dell’ente e conseguentemente tenuto a tale dichiarazione.
   Inoltre, dovrà rendere anche una dichiarazione riferita alla singola procedura di gara nell’ipotesi in cui ritenga di trovarsi in una situazione di conflitto di interessi rispetto alla specifica procedura di gara e alle circostanze conosciute che potrebbero far insorgere detta situazione.
   Quando le funzioni gestionali relative all’Ufficio tecnico sono assegnate al sindaco o a un assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli obblighi dichiarativi derivanti dall’applicazione dell’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016 per le procedure e i contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati prima del 01.07.2023 (o, nel caso di contratti senza pubblicazione del bando o avviso, siano stati inviati gli avvisi a presentare offerte entro il suddetto termine).
   Per le procedure indette a partire dal 01.07.2023, le dichiarazioni si configurano quale misura adeguata alla gestione del conflitto di interessi che la stazione appaltante è tenuta ad adottare ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. 36/2023, al fine di garantire il rispetto degli adempimenti relativi all’obbligo di comunicare situazioni di conflitto di interessi e all’obbligo di astensione da parte dei soggetti coinvolti nella procedura di aggiudicazione e nella fase di esecuzione del contratto (
delibera 20.06.2023 n. 291 dell'ANAC).

La dichiarazione relativa ad eventuali situazioni di conflitto di interessi effettuata dal sindaco può essere indirizzata a se stesso?
   NO, è necessario che il Comune, tenendo conto della propria organizzazione, individui i soggetti cui le dichiarazioni sul conflitto di interesse debbano essere rese. A tal fine occorre sempre evitare che sia lo stesso interessato ad effettuare autonomamente la valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione alla propria situazione.
   Ad esempio, il destinatario delle dichiarazioni del sindaco o di un assessore potrebbe essere lo stesso che riceve quelle degli altri dirigenti (segretario generale, Ufficio del personale, RPTC); oppure la dichiarazione potrebbe essere resa alla giunta comunale in quanto organo deputato alla nomina del sindaco/assessore quale responsabile dell’Ufficio (
delibera 20.06.2023 n. 291 dell'ANAC).
   Sulle perplessità relative alla nomina da parte della giunta comunale del sindaco/assessore quale responsabile dell’Ufficio si veda l’approfondimento della presente Newsletter: A chi compete la nomina del sindaco come Responsabile di servizio negli enti con popolazione inferiore a 5mila abitanti?

COMPETENZE GESTIONALI: A. Scasella, A chi compete la nomina del sindaco come Responsabile di servizio negli Enti con popolazione inferiore a 5mila abitanti? (11.07.2023 - tratto da e link a www.lagazzettadeglientilocali.it).
---------------
L’art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000 stabilisce che “gli Enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
La norma in commento attribuisce solo la facoltà, per gli Enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, di mutare l’organizzazione dell’ente in termini derogatori rispetto al principio di distinzione delle funzioni tra organi politici e gestionali, a condizione che:
   - siano previamente adottate apposite disposizioni regolamentari;
   - sia documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio, un contenimento di spesa.
La previsione regolamentare, però, non è di per sé sufficiente ad autorizzare i componenti dell’organo esecutivo ad adottare atti gestionali, in quanto è sempre richiesto un atto successivo di conferimento delle funzioni, adeguatamente motivato da un punto di vista organizzativo e/o economico. È proprio tale successivo atto di assegnazione della responsabilità degli uffici e dei servizi che legittima l’adozione da parte del politico degli atti gestionali.
Secondo l’art. 50, comma 10, del TUEL il sindaco nomina i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuisce e definisce gli incarichi dirigenziali secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli artt. 109 e 110, nonché dallo statuto e dai regolamenti comunali.
Se la nomina deve essere fatta al sindaco, chi provvede in tal senso, versando lo stesso in una situazione di conflitto di interessi?
A questa domanda di recente è stata fornita la seguente risposta: provvede la giunta comunale. Tale conclusione si legge sia nel parere 06.06.2023 del Servizio consulenza della Regione Friuli Venezia Giulia, sia nella
delibera 20.06.2023 n. 291 dell'ANAC.
Personalmente la soluzione non mi convince affatto, in quanto sposta la competenza da un organo di governo ad un altro sulla base del conflitto di interessi di un soggetto.
In realtà, se all’interno del consiglio comunale vi è la maggioranza dei consiglieri che ha un obbligo di astensione con una determinata proposta, la competenza non si sposta alla giunta comunale (si pensi all’approvazione degli strumenti urbanistici, che ha comportato la necessità di individuare soluzioni differenti allo spostamento di competenza, anche con modifiche normative). Lo stesso avviene nel caso di un atto di competenza della giunta comunale, in caso di obbligo di astensione della maggioranza dei componenti, non è che si è mai ipotizzato il sorgere di una competenza consiliare.
In realtà, principio fondamentale dell’ordinamento degli Enti locali è che le competenze attribuite dal legislatore ad un organo di governo non possono essere esercitate da altri organi, pena l’illegittimità dei provvedimenti per incompetenza. Sotto tale aspetto, va rilevato che –per il principio di legalità– un organo amministrativo può delegare ad un altro organo i poteri di cui sia titolare solo qualora una legge lo consenta. Infatti, solo una disposizione di rango primario può consentire ad un organo amministrativo di devolvere ulteriori poteri ad un altro organo, con i relativi obblighi e le relative responsabilità. Il legislatore prevede una deroga al principio dell’immodificabilità delle competenze esclusivamente per le deliberazioni attinenti alle variazioni di bilancio, di competenza del consiglio comunale, che possono essere adottate in via d’urgenza dalla giunta comunale, che necessitano però della ratifica del consiglio nei sessanta giorni successivi, a pena di decadenza (art. 42, comma 4, TUEL).
In realtà, la nostra problematica appare più semplice da risolvere, anche grazie alla presenza nel nostro ordinamento di una figura chiamata a sostituire il sindaco in caso di assenza o impedimento, ossia il vice-sindaco (art. 53, comma 2, del TUEL).
A mio modo di vedere, nel rispetto del principio di immodificabilità delle competenze degli organi amministrativi, è solo il vice-sindaco che può intervenire in sostituzione del sindaco a conferire l’incarico di responsabile di servizio allo stesso sindaco ai sensi dell’art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000.

COMPETENZE GESTIONALI: Conflitto di interessi, bussola Anac per i piccoli Comuni che affidano compiti operativi a sindaco e assessori. Una delibera dell'Anac affronta e risolve le possibili criticità.
Anac fornisce agli enti di piccola dimensione chiarimenti e misure da adottare nel caso in cui vengano attribuiti poteri di natura tecnica gestionale ai componenti degli organi esecutivi. A seguito di alcuni esposti ricevuti e stante la valenza generale della questione, l'Autorità con la delibera 20.06.2023 n. 291 ha individuato una serie di misure per affrontare le specifiche criticità che ne possono derivare.
La norma di riferimento è l'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 con cui il legislatore ha inteso valorizzare il principio di separazione tra attività di indirizzo e di controllo, di competenza degli organi politici, e attività di gestione, di competenza dei dirigenti degli uffici, ridimensionando la portata dell'articolo 107 del Tuel, stabilendo che gli enti locali di piccole dimensioni possono adottare disposizioni regolamentari organizzative che attribuiscono ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi e il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale; questo è possibile in presenza di alcuni presupposti quali: popolazione inferiore a 5.000 abitanti; qualora non siano state affidate le relative funzioni al segretario comunale e in ragione del conseguimento di risparmi di spesa.
La giurisprudenza, tra cui il Consiglio di Stato, qualifica la predetta norma (art. 53, comma 23, legge 388/2000) quale disposizione da considerarsi speciale e derogatoria rispetto al principio di separazione tra politica-amministrazione sancito dall'articolo 107 del Tuel, richiedendo in proposito l'adozione da parte dell'ente locale di specifiche norme regolamentari organizzative.
Per Anac, anche per gli organi di governo delle stazioni appaltanti che adottano atti di gestione trovano applicazione le norme sul conflitto di interessi contenute nel codice dei contratti pubblici, pertanto ogni comune che conferisce al Sindaco o ad un Assessore funzioni gestionali deve definire in un apposito atto le modalità con cui gli stessi rendono le dichiarazioni ai sensi degli articoli 6, comma 1, del Dpr 62/2013 e 6-bis della legge 241/1990, nonché quelle relative alle procedure di aggiudicazione rispetto alle quali adottino atti.
Nei casi in cui sono attribuiti poteri di natura tecnica gestionale ai componenti degli organi esecutivi negli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, per prevenire il verificarsi di ipotesi di conflitto di interessi, Anac ricorda che: solo in caso di carenza in organico di figure idonee a ricoprire la funzione di Rup e qualora detta carenza non possa essere altrimenti superata, l'incarico di Rup può essere conferito ad un titolare di incarico politico avvalendosi della deroga di cui all'articolo 53, co. 23, della legge 388/2000; il titolare dell'incarico politico cui è affidata la responsabilità degli uffici e dei servizi è da ritenersi parte dell'organizzazione dell'ente e conseguentemente è tenuto a rendere, all'atto dell'assegnazione all'Ufficio, le dichiarazioni sostitutive ai sensi degli articoli 6, co. 1, del Dpr n. 62/2013 e 6-bis della legge 241/1990.
Inoltre, dovrà rendere anche una dichiarazione riferita alla singola procedura di gara nell'ipotesi in cui ritenga di trovarsi in una situazione di conflitto di interessi rispetto alla specifica procedura di gara; quando le funzioni gestionali relative all'Ufficio tecnico sono assegnate al Sindaco o ad un Assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli obblighi dichiarativi derivanti dall'applicazione delle disposizioni sul conflitto di interessi contenute nel codice dei contratti pubblici.
In proposito Anac precisa che occorre sempre evitare che sia lo stesso interessato ad effettuare autonomamente la valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione alla propria situazione, ad esempio, il destinatario delle dichiarazioni del Sindaco o di un assessore potrebbe essere lo stesso che riceve quelle degli altri Dirigenti (Segretario Generale, Ufficio del personale, Rptc); oppure la dichiarazione potrebbe essere resa alla Giunta comunale in quanto organo deputato alla nomina del Sindaco/Assessore quale Responsabile dell'Ufficio.
Anac invita i piccoli comuni a valutare di adottare nell'ambito della sezione anticorruzione e trasparenza del Piao le seguenti misure di prevenzione:
   - prevedere che un incarico di responsabile di un ufficio o di un servizio conferito ad un Sindaco o ad un componente della Giunta possa essere oggetto di rotazione nel corso della consiliatura tra i componenti della medesima Giunta;
   - indicare le modalità operative che favoriscano una maggiore compartecipazione del personale alle attività degli uffici la cui responsabilità è affidata al Sindaco o ad un componente della Giunta;
   - assicurare la doppia firma sull'atto di aggiudicazione di un contratto pubblico nelle ipotesi in cui sia demandata al Sindaco o ad un componente della Giunta la responsabilità dell'ufficio Tecnico o lo stesso abbia svolto la funzione di Rup;
   - favorire la partecipazione a specifici percorsi formativi in tema di conflitto di interesse finalizzati a supportare, anche attraverso casi pratici, i titolari di incarico politico cui è affidata la responsabilità degli uffici e dei servizi
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 03.07.2023).

COMPETENZE GESTIONALI: Oggetto: Attribuzione ai titolari di incarichi politici del potere di adottare atti di natura tecnica gestionale. Indicazioni di ANAC ai fini dell’adozione di misure di prevenzione della corruzione e del conflitto di interessi in materia di contratti pubblici ex art. 42 del d.lgs. n. 50/2016 (oggi art. 16 D.lgs. 36/2023 recante nuovo codice dei contratti pubblici) (ANAC, delibera 20.06.2023 n. 291 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
Secondo gli orientamenti giurisprudenziali, affinché la deroga prevista dalla legge n. 388/2000 possa esplicare la sua portata applicativa, sussiste la necessità per i comuni di prevedere una espressa e inequivoca modifica organizzativa interna agli enti da realizzarsi mediante Statuto, regolamento o comunque in atti del Consiglio comunale o della Giunta.
Invero,
   - la concreta applicazione dell’art. 53, co. 23, della l. n. 388/2000 richiede l’adozione da parte dell’ente locale di specifiche norme regolamentari organizzative (cfr. parere 01.12.2016 n. 167 della Sez. regionale di controllo per il Molise);
   -
quella di cui all’art. 53, co. 23, della l. 388/2000 è “una disposizione che fa eccezione ad un principio generale, sicché, in conformità al canone interpretativo restrittivo di cui all’art. 14 disp. prel. cod. civ., è necessario che le relative disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale (art. 42 TUEL) o della giunta (art. 48, comma 3, TUEL, relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi)” (cfr. TAR Liguria, Sez. I, sentenza 31.03.2021 n. 284);
   -  la norma introdotta dalla legge finanziaria del 2001 è da qualificarsi quale norma "speciale e derogatoria" rispetto sia al principio di separazione tra politica-amministrazione sancito dall’art. 107 del TUEL che dell’art. 84 del Codice dei contratti pubblici all’epoca vigente, in merito alle cause di inconferibilità per la nomina dei commissari di gara (di cui all’art. 77, d.lgs. 50/2016 e ora previste all’art. 93, co. 5, del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 36/2023) (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.11.2015 n. 5296);
   - da ultimo, di questi principi ha fatto applicazione il medesimo TAR Liguria, Sez. II, nella recente sentenza 03.02.2022 n. 83
, accogliendo il ricorso di un cittadino avverso una ordinanza sindacale di ingiunzione -ex art. 31 d.PR. n. 380/2001- adottata ai sensi dell’art. 27 del d.PR. n. 380/2001, ove si attribuisce invece ai dirigenti la vigilanza in materia edilizia e urbanistica.
Il TAR Liguria, infatti, non avendo rilevato il rigoroso rispetto della preventiva regolazione derogatoria dell’assetto organizzativo interno da parte della giunta comunale, ha ritenuto, in via derivata, l’illegittimità, in quanto viziata da incompetenza, dell’ordinanza del Sindaco.
Ciò in quanto quest’ultimo si era autonomamente attribuito il potere di natura gestionale ai sensi dell’art. 107 del TUEL, senza una preventiva, necessaria, disposizione regolamentare o, quantomeno, di una apposita deliberazione di giunta in tal senso.
---------------
  
Nei casi in cui, ai sensi di quanto disposto dalla legge n. 388/2000, art. 53, co. 23, sono attribuiti poteri di natura tecnica gestionale ai componenti degli organi esecutivi negli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, per prevenire il verificarsi di ipotesi di conflitto di interessi, si ricorda a tali amministrazioni che:
         1- soltanto in caso di carenza in organico di figure idonee a ricoprire la funzione di RUP e qualora detta carenza non possa essere altrimenti superata senza incorrere in maggiori oneri per l’amministrazione, l’incarico di RUP può essere conferito ad un titolare di incarico politico avvalendosi della deroga di cui all’art. 53, co. 23, della l. 388/2000;
         2- il titolare dell’incarico politico cui è affidata la responsabilità degli uffici e dei servizi è da ritenersi parte dell’organizzazione dell’ente e conseguentemente è tenuto a rendere, all’atto dell’assegnazione all’Ufficio, la dichiarazione sostitutiva ai sensi degli artt. 6, co. 1, del d.PR n. 62/2013 e 6-bis della l. n. 241/1990.
Inoltre, dovrà rendere anche una dichiarazione riferita alla singola procedura di gara nell’ipotesi in cui ritenga di trovarsi in una situazione di conflitto di interessi rispetto alla specifica procedura di gara e alle circostanze conosciute che potrebbero far insorgere detta situazione;

         3- quando le funzioni gestionali relative all’Ufficio tecnico sono assegnate al Sindaco o ad un Assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli obblighi dichiarativi derivanti dall’applicazione dell’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016 per le procedure e i contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati prima del 01.07.2023 (o, nel caso di contratti senza pubblicazione del bando o avviso, siano stati inviati gli avvisi a presentare offerte entro il suddetto termine).
Per le procedure indette a partire dal 01.07.2023, le dichiarazioni si configurano quale misura adeguata alla gestione del conflitto di interessi che la stazione appaltante è tenuta ad adottare ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. 36/2023, al fine di garantire il rispetto degli adempimenti relativi all’obbligo di comunicare situazioni di conflitto di interessi e all’obbligo di astensione da parte dei soggetti coinvolti nella procedura di aggiudicazione e nella fase di esecuzione del contratto;

         4- è necessario che il comune, tenendo conto della propria organizzazione, individui i soggetti cui le dichiarazioni sul conflitto di interesse debbano essere rese. A tal fine occorre sempre evitare che sia lo stesso interessato ad effettuare autonomamente la valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione alla propria situazione.
Ad esempio, il destinatario delle dichiarazioni del Sindaco o di un assessore potrebbe essere lo stesso che riceve quelle degli altri Dirigenti
(Segretario Generale, Ufficio del personale, RPTC); oppure la dichiarazione potrebbe essere resa alla Giunta comunale in quanto organo deputato alla nomina del Sindaco/Assessore quale Responsabile dell’Ufficio.

  
Ferma restando la facoltà per la singola amministrazione di prevedere diverse e/o ulteriori misure a seconda delle proprie peculiarità e organizzazione, ai fini della elaborazione delle misure di prevenzione della corruzione, i Comuni possono valutare di adottare nell’ambito della sezione anticorruzione e trasparenza del PIAO le seguenti misure di prevenzione, ove compatibili con la struttura organizzativa:
         a- prevedere che un incarico di responsabile di un ufficio o di un servizio conferito ad un Sindaco o ad un componente della Giunta possa essere oggetto di rotazione nel corso della consiliatura tra i componenti della medesima Giunta;
         b- indicare le modalità operative che favoriscano una maggiore compartecipazione del personale alle attività degli uffici la cui responsabilità è affidata al Sindaco o ad un componente della Giunta;
         c- assicurare la doppia firma sull’atto di aggiudicazione di un contratto pubblico nelle ipotesi in cui sia demandata al Sindaco o ad un componente della Giunta la responsabilità dell’ufficio Tecnico o lo stesso abbia svolto la funzione di RUP;
         d- favorire la partecipazione a specifici percorsi formativi in tema di conflitto di interesse finalizzati a supportare, anche attraverso casi pratici, i titolari di incarico politico cui è affidata la responsabilità degli uffici e dei servizi.

---------------
Considerato in fatto
Nell’ambito di alcuni esposti pervenuti a questa Autorità, è stata segnalata la sussistenza di situazioni di conflitto di interessi in casi in cui ai sensi di quanto disposto dalla legge n. 388/2000, art. 53, co. 23, come modificato dall'art. 29, co. 4, della legge 448/2001 sono attribuiti poteri di natura tecnica gestionale ai componenti degli organi esecutivi negli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti.
Considerata la valenza generale della questione, il Consiglio dell’Autorità ha demandato agli uffici di formulare chiarimenti in merito, da un lato, alle disposizioni applicabili ai titolari di incarichi politici che assumono, specie negli enti locali di piccole dimensioni, anche funzioni gestionali e, dall’altro, all’individuazione di misure per affrontare le specifiche criticità che ne possono derivare.
Detti chiarimenti si rendono necessari anche alla luce dell’indagine condotta da ANAC sulle modalità di gestione nei comuni delle situazioni di conflitto di interesse negli affidamenti diretti dei contratti pubblici che ha evidenziato una scarsa applicazione della normativa e una sostanziale inadeguatezza nella gestione del conflitto di interesse (cfr. Comunicato del Presidente del 11.01.2023).
Considerato in diritto
Il quadro normativo per gli enti locali
Il d.lgs. n. 267/2000 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” (TUEL), stabilisce all’art. 107, comma 2, che sono attribuiti ai dirigenti “tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’Ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale“.
Il legislatore ha inteso quindi valorizzare il principio di separazione tra attività d’indirizzo e di controllo, di competenza degli organi politici, ed attività di gestione, di competenza dei dirigenti degli uffici.
L’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 (legge finanziaria 2001), come modificato dall’art. 29, co. 4, della l. n. 448/2001, ha tuttavia ridimensionato la portata applicativa del citato art. 107 del TUEL. Tale norma ha infatti stabilito che enti locali di piccole dimensioni possono adottare disposizioni regolamentari organizzative che attribuiscono ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi e il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Ciò in presenza di alcuni presupposti quali:
   a) popolazione inferiore a 5.000 abitanti;
   b) laddove non abbiano affidato le relative funzioni al segretario comunale in base all'art. 97, co. 4, lett. d), del d.lgs. n. 267/2000;
   c) in ragione del conseguimento di risparmi di spesa.
Gli orientamenti giurisprudenziali
La deroga prevista dalla legge n. 388/2000 è stata più volte oggetto di pronunce giurisprudenziali che hanno ribadito, affinché questa possa esplicare la sua portata applicativa, la necessità per i comuni di prevedere una espressa e inequivoca modifica organizzativa interna agli enti da realizzarsi mediante Statuto, regolamento o comunque in atti del Consiglio comunale o della Giunta.
Si cita in primo luogo il parere 01.12.2016 n. 167 della Sez. regionale di controllo per il Molise nella quale la giurisprudenza contabile, nel riportare alcune posizioni della giurisprudenza amministrativa (in particolare, TAR Campania, Napoli sez. VIII, sentenza 29.07.2008 n. 9545), ha precisato che la concreta applicazione dell’art. 53, co. 23, della l. n. 388/2000 richiede l’adozione da parte dell’ente locale di specifiche norme regolamentari organizzative.
La medesima posizione è stata assunta dal giudice amministrativo. Si consideri, in tal senso, il TAR Liguria, Sez. I, sentenza 31.03.2021 n. 284, secondo cui quella di cui all’art. 53, co. 23, della l. 388/2000 è “una disposizione che fa eccezione ad un principio generale, sicché, in conformità al canone interpretativo restrittivo di cui all’art. 14 disp. prel. cod. civ., è necessario che le relative disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale (art. 42 TUEL) o della giunta (articolo 48, comma 3, TUEL, relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi)”.
Lo stesso Consiglio di Stato (Sez. V, sentenza 20.11.2015 n. 5296) qualifica la norma introdotta dalla legge finanziaria del 2001 quale norma da considerarsi speciale e derogatoria rispetto sia al principio di separazione tra politica-amministrazione sancito dall’art. 107 del TUEL che dell’art. 84 del Codice dei contratti pubblici all’epoca vigente, in merito alle cause di inconferibilità per la nomina dei commissari di gara (di cui all’art. 77 d.lgs. 50/2016 e ora previste all’art. 93, co. 5, del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 36/2023).
Da ultimo, di questi principi ha fatto applicazione il medesimo TAR Liguria, Sez. II, nella recente sentenza 03.02.2022 n. 83, accogliendo il ricorso di un cittadino avverso una ordinanza sindacale di ingiunzione -ex art. 31 d.PR. n. 380/2000- adottata ai sensi dell’art. 27 del d.PR. n. 380/2001, ove si attribuisce invece ai dirigenti la vigilanza in materia edilizia e urbanistica. Il TAR Liguria, infatti, non avendo rilevato il rigoroso rispetto della preventiva regolazione derogatoria dell’assetto organizzativo interno da parte della giunta comunale, ha ritenuto, in via derivata, l’illegittimità, in quanto viziata da incompetenza, dell’ordinanza del Sindaco. Ciò in quanto quest’ultimo si era autonomamente attribuito il potere di natura gestionale ai sensi dell’art. 107 del TUEL, senza una preventiva, necessaria, disposizione regolamentare o, quantomeno, di una apposita deliberazione di giunta in tal senso.
Gli orientamenti di ANAC
L’Autorità ha già affrontato il tema dell’interpretazione della deroga di cui all’art. 53, co. 23 della l. 388/2000 con riguardo a diversi profili attinenti alla disciplina dei contratti pubblici.
Nella FAQ n. 1, relativa alla delibera 11.10.2017 n. 1007 con cui sono state aggiornate le Linee guida n. 3/2016, di attuazione del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni”, ANAC ha fornito indicazioni sull’applicazione della disposizione derogatoria in esame nel caso di conferimento dell’incarico di RUP ai componenti della giunta comunale.
Al riguardo è stato chiarito che il presupposto della “necessità” statuito all’art. 53, co. 23, della legge 388/2000 impone che la deroga sia applicata soltanto in caso di carenza in organico di figure idonee a ricoprire l’incarico di RUP e qualora detta carenza non possa essere altrimenti superata senza incorrere in maggiori oneri per l’amministrazione.
In questo caso la stazione appaltante deve verificare, in via prioritaria, la possibilità di attribuire l’incarico ad un qualsiasi dirigente o dipendente amministrativo in possesso dei requisiti o, in mancanza, ad una struttura di supporto interna formata da dipendenti che, anche per sommatoria, raggiungano i requisiti minimi richiesti dalle Linee guida n. 3/2016 o, ancora, di svolgere la funzione in forma associata con altri Comuni, senza incorrere in maggiori oneri.
L’Autorità si è poi espressa anche in merito alla sussistenza dell’obbligo dichiarativo, ai sensi dell’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016, per i soggetti che compongono gli organi politici nelle ipotesi in cui siano coinvolti nella gestione di un contratto pubblico.
In particolare, nelle Linee Guida n. 15 (adottate con delibera 05.06.2019 n. 494) recanti "Individuazione e gestione dei conflitti di interesse nelle procedure di affidamento di contratti pubblici", l’Autorità ha in primis precisato come le disposizioni contenute nell’art. 42 del codice dei contratti pubblici trovino applicazione in tutte le procedure di aggiudicazione, ivi incluse quelle sotto soglia.
Quanto al “personale” di una stazione appaltante, rispetto al quale deve essere valutata la eventuale sussistenza di conflitti di interesse con conseguente obbligo di astensione, come richiesto dalla norma, è stato indicato che “Si tratta dei dipendenti in senso stretto, ossia dei lavoratori subordinati dei soggetti giuridici ivi richiamati e di tutti coloro che, […] rivestano, di fatto o di diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna. Si fa riferimento, ad esempio, ai membri degli organi di amministrazione e controllo della stazione appaltante che non sia un’amministrazione aggiudicatrice, agli organi di governo delle amministrazioni aggiudicatrici laddove adottino atti di gestione e agli organi di vigilanza esterni”.
Ai soggetti così individuati –quindi anche agli organi di governo delle stazioni appaltanti che adottano atti di gestione- trova applicazione l’articolo 42 qualora siano coinvolti in una qualsiasi fase della procedura di gestione del contratto pubblico (programmazione, progettazione, preparazione documenti di gara, selezione dei concorrenti, aggiudicazione, sottoscrizione del contratto, esecuzione, collaudo, pagamenti) o possano influenzarne in qualsiasi modo l’esito in ragione del ruolo ricoperto all’interno dell’ente.
Inoltre, nell’ipotesi in cui tali soggetti ritengano di trovarsi in una situazione di conflitto di interessi rispetto alla specifica procedura di gara e alle circostanze conosciute che potrebbero far insorgere detta situazione è necessaria anche la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 445/2000 riferita alla singola procedura di gara.
Da ultimo si consideri che nel PNA 2022, nella sezione dedicata al confitto di interessi in materia di contratti pubblici, l’Autorità ha rilevato che i soggetti che compongono gli organi politici, in coerenza con il principio di separazione tra politica e amministrazione (art. 14 del d.lgs. n. 165/2001 e art. 80 del d.lgs. n. 267/2000), in via generale, non assumono incarichi di natura amministrativa, compresi quelli connessi alla gestione degli affidamenti.
Tuttavia, tenuto conto che in alcune situazioni residuali, quali ad esempio quelle relative ad affidamenti gestiti da enti locali di ridotte dimensioni, in base all’art. 53, co. 23, della legge n. 388/2000 il soggetto che assolve un incarico di natura politica potrebbe svolgere un ruolo gestionale, in tali casi sussiste per il titolare dell’incarico politico l’obbligo dichiarativo, ai sensi dell’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016. Tale obbligo va comunque modulato a seconda che i contratti utilizzino o meno i fondi PNRR e i fondi strutturali (cfr. PNA 2022, Parte speciale, Conflitti di interessi in materia di contratti pubblici).
Vale precisare che dal 01.04.2023 è entrato in vigore il d.lgs. n. 36/2023 recante nuovo “Codice dei contratti pubblici in attuazione dell'articolo 1 della legge 21.06.2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici” che sostituisce il d.lgs. 50/2016. L’art. 16 del nuovo Codice è dedicato al conflitto di interessi e presenta profili in parte innovativi rispetto alla vecchia disciplina. Resta comunque fermo che la disciplina prevista dall’art. 42 d.lgs. 50/2016 e le indicazioni date da ANAC sopra richiamate sono ancora valide per le procedure e i contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati prima del 01.07.2023 (o, nel caso di contratti senza pubblicazione del bando o avviso, siano stati inviati gli avvisi a presentare offerte entro il suddetto termine) data al decorrere della quale acquistano efficacia le disposizioni del nuovo codice (cfr. art. 226, co. 2, d.lgs. 36/2023).
Da ultimo, l’Autorità ha fornito indicazioni anche in merito ai soggetti ai quali le dichiarazioni di assenza di conflitto di interessi vanno rese.
Nella delibera 07.12.2022 n. 585 ANAC ha esaminato il caso di un comune in cui il Sindaco era titolare dell’Ufficio tecnico. Valorizzando la considerazione per cui nell’espletamento delle funzioni gestorie anche l’organo politico può ritenersi parte dell’organizzazione dell’ente, l’Autorità ha valutato che il destinatario delle dichiarazioni del Sindaco potesse essere lo stesso soggetto che riceveva quelle degli altri Dirigenti (Segretario Generale, Ufficio del personale, RPTC etc.). Questa opzione, tuttavia, potrebbe comportare delle criticità quando il RPTC, che riveste anche il ruolo di Segretario comunale e Responsabile di un servizio, sia tenuto, a sua volta, a rendere le proprie dichiarazioni al Sindaco.
Si è inoltre prospettato, tenendo conto che la nomina del Sindaco quale Responsabile dell’Ufficio/Servizio era stata disposta dalla Giunta Comunale, che potesse essere la stessa Giunta a ricevere le dichiarazioni di (in)sussistenza di situazioni di conflitto di interessi ed a valutare eventuali questioni che dovessero porsi al riguardo.
In ogni caso, è stato ribadito che occorre evitare che sia lo stesso interessato ad effettuare autonomamente la valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione alla propria situazione. Pertanto, ogni Comune che conferisce al Sindaco o ad un Assessore funzioni gestionali deve definire in un apposito atto (ad esempio mediante Statuto, regolamento o comunque in atti del Consiglio comunale o della Giunta), tenendo conto delle proprie specificità organizzative, le modalità con cui gli stessi possono rendere le dichiarazioni ai sensi degli articoli 6, comma 1, del d.PR. n. 62/2013 e 6-bis della legge n. 241/1990, nonché quelle relative alle procedure di aggiudicazione rispetto alle quali adottino atti.
Per tutto quanto esposto,
DELIBERA
  
Nei casi in cui, ai sensi di quanto disposto dalla legge n. 388/2000, art. 53, co. 23, come modificato dall'art. 29, co. 4, della legge 448/2001, sono attribuiti poteri di natura tecnica gestionale ai componenti degli organi esecutivi negli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, per prevenire il verificarsi di ipotesi di conflitto di interessi, si ricorda a tali amministrazioni che:
      1- soltanto in caso di carenza in organico di figure idonee a ricoprire la funzione di RUP e qualora detta carenza non possa essere altrimenti superata senza incorrere in maggiori oneri per l’amministrazione, l’incarico di RUP può essere conferito ad un titolare di incarico politico avvalendosi della deroga di cui all’art. 53, co. 23, della l. 388/2000;
      2- il titolare dell’incarico politico cui è affidata la responsabilità degli uffici e dei servizi è da ritenersi parte dell’organizzazione dell’ente e conseguentemente è tenuto a rendere, all’atto dell’assegnazione all’Ufficio, la dichiarazione sostitutiva ai sensi degli artt. 6, co. 1, del d.PR n. 62/2013 e 6-bis della l. n. 241/1990.
Inoltre, dovrà rendere anche una dichiarazione riferita alla singola procedura di gara nell’ipotesi in cui ritenga di trovarsi in una situazione di conflitto di interessi rispetto alla specifica procedura di gara e alle circostanze conosciute che potrebbero far insorgere detta situazione;
      3- quando le funzioni gestionali relative all’Ufficio tecnico sono assegnate al Sindaco o ad un Assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli obblighi dichiarativi derivanti dall’applicazione dell’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016 per le procedure e i contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati prima del 01.07.2023 (o, nel caso di contratti senza pubblicazione del bando o avviso, siano stati inviati gli avvisi a presentare offerte entro il suddetto termine).
Per le procedure indette a partire dal 01.07.2023, le dichiarazioni si configurano quale misura adeguata alla gestione del conflitto di interessi che la stazione appaltante è tenuta ad adottare ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. 36/2023, al fine di garantire il rispetto degli adempimenti relativi all’obbligo di comunicare situazioni di conflitto di interessi e all’obbligo di astensione da parte dei soggetti coinvolti nella procedura di aggiudicazione e nella fase di esecuzione del contratto;
      4- è necessario che il comune, tenendo conto della propria organizzazione, individui i soggetti cui le dichiarazioni sul conflitto di interesse debbano essere rese. A tal fine occorre sempre evitare che sia lo stesso interessato ad effettuare autonomamente la valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione alla propria situazione.
Ad esempio, il destinatario delle dichiarazioni del Sindaco o di un assessore potrebbe essere lo stesso che riceve quelle degli altri Dirigenti (Segretario Generale, Ufficio del personale, RPTC); oppure la dichiarazione potrebbe essere resa alla Giunta comunale in quanto organo deputato alla nomina del Sindaco/Assessore quale Responsabile dell’Ufficio.
  
Ferma restando la facoltà per la singola amministrazione di prevedere diverse e/o ulteriori misure a seconda delle proprie peculiarità e organizzazione, ai fini della elaborazione delle misure di prevenzione della corruzione, i Comuni possono valutare di adottare nell’ambito della sezione anticorruzione e trasparenza del PIAO le seguenti misure di prevenzione, ove compatibili con la struttura organizzativa:
      a- prevedere che un incarico di responsabile di un ufficio o di un servizio conferito ad un Sindaco o ad un componente della Giunta possa essere oggetto di rotazione nel corso della consiliatura tra i componenti della medesima Giunta;
      b- indicare le modalità operative che favoriscano una maggiore compartecipazione del personale alle attività degli uffici la cui responsabilità è affidata al Sindaco o ad un componente della Giunta;
      c- assicurare la doppia firma sull’atto di aggiudicazione di un contratto pubblico nelle ipotesi in cui sia demandata al Sindaco o ad un componente della Giunta la responsabilità dell’ufficio Tecnico o lo stesso abbia svolto la funzione di RUP;
      d- favorire la partecipazione a specifici percorsi formativi in tema di conflitto di interesse finalizzati a supportare, anche attraverso casi pratici, i titolari di incarico politico cui è affidata la responsabilità degli uffici e dei servizi. Tenuto conto delle ridotte dimensioni degli enti, ANAC auspica sia la stipula di accordi tra gli stessi sia che i comuni di grandi dimensioni o le Province e le Città Metropolitane possano intraprendere, utilizzando le proprie strutture, attività di formazione a favore degli enti di ridotte dimensioni.

COMPETENZE GESTIONALIArea Tecnica. Conferimento responsabilità a Sindaco.
L’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della sua concreta applicazione, richiede che l’attribuzione di responsabilità degli uffici e dei servizi comunali ai componenti degli organi esecutivi, ed il conseguente potere degli stessi di adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano essere previsti da specifiche norme regolamentari organizzative.
Per quanto concerne la competenza ad adottare l’atto che conferisce tale responsabilità, si ritiene che, qualora il destinatario sia il Sindaco, sarebbe preferibile l’adozione di una deliberazione dell’organo giuntale.

Il Comune rappresenta di avere circa 3.500 abitanti e di essere sprovvisto di un titolare di posizione organizzativa del Servizio Tecnico.
È stata verificata la possibilità –senza esito positivo- di conferire detto incarico ad altri dipendenti o di convenzionarsi con altre amministrazioni locali. Ciò posto, l’Ente chiede se sia possibile attribuire la responsabilità in argomento al Sindaco e, in caso di risposta affermativa, con quale atto si debba procedere per la nomina (decreto/delibera).
Com’è noto l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, come novellato dall’art. 29, comma 4, lett. a) e b), della l. 448/2001, prevede che gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[1], anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni [2], e all’articolo 107 [3] del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Si sottolinea preliminarmente che la disposizione in esame si riferisce all’attribuzione di funzioni gestionali a componenti dell’organo esecutivo delle amministrazioni locali: ne consegue l’applicabilità della stessa nei confronti del sindaco e degli assessori.
La predetta norma ha espressamente introdotto la possibilità di deroga al generale principio di separazione dei poteri, nei piccoli enti, al fine di favorire anche il contenimento della spesa e consentire comunque soluzioni di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi emergenti nelle realtà di modeste dimensioni demografiche.
Come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa
[4], si tratta di una previsione che ha l'evidente scopo di assicurare la necessaria funzionalità ai comuni "polvere", i cui organici sono privi di posizioni dirigenziali, permettendo loro di coprire le posizioni apicali all'interno della propria "micro-struttura" mediante ricorso ai componenti dell'organo di direzione politica.
Si osserva che l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della sua concreta applicazione, richiede comunque che l’attribuzione di responsabilità degli uffici e dei servizi comunali ai componenti degli organi esecutivi, ed il conseguente potere degli stessi di adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano essere previsti da specifiche norme regolamentari organizzative
[5]. L’adozione della richiesta norma organizzativa si pone, pertanto, quale condizione necessaria per l’applicazione dell’articolo in esame, con la conseguenza che, in mancanza di detto preliminare adempimento, si renderebbe, di fatto, inapplicabile la norma stessa [6].
E’ da notare inoltre che la modifica apportata alla norma in esame dall’art. 29, comma 4, della l. 448/2001, non solo ha esteso tale facoltà anche ai comuni con popolazione fino a 5mila abitanti
[7] (comma 4, lett. a) ma ha anche abrogato la condizione precedentemente prevista, che imponeva la verifica preliminare dell’assenza non rimediabile, nella struttura comunale, di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti (comma 4, lett. b).
Per quanto concerne infine la competenza ad adottare l’atto che conferisce tale responsabilità, si ritiene che, trattandosi nel caso di specie del Sindaco, sarebbe preferibile l’adozione di una deliberazione dell’organo giuntale.
---------------
[1] In virtù di tale norma il segretario comunale esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco.
[2] Ora art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] La norma, in attuazione del principio di separazione delle funzioni tra organi politici e burocratici, prevede l’attribuzione ai dirigenti di tutti i compiti non compresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo.
[4] Cfr. Cons. di Stato, sez. V,
sentenza n. 5296 del 20.11.2015.
[5] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
sentenza 29.07.2008 n. 9545.
[6] Il giudice amministrativo ha individuato proprio nella determinazione di carattere organizzativo la fonte legittimante del potere esercitato (nella fattispecie esaminata) dal Sindaco cui erano state attribuite le funzioni di responsabile del Servizio tecnico (Cfr. TAR Emilia Romagna, sez. staccata di Parma
sentenza n. 160 del 2009).
La Corte dei conti (cfr. sez. reg. di controllo per l’Emilia Romagna,
deliberazione 24.12.2021 n. 272, punto 3.1.3) ha rimarcato che non appare conforme all’ordinamento vigente che il sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle responsabilità connaturate alla carica elettiva ricoperta, anche quelle di responsabile del servizio (nella fattispecie esaminata, servizio finanziario) di un ente locale, senza che tale attribuzione sia stata espressamente prevista da disposizioni regolamentari organizzative e che ne sia stato documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio, il conseguente, effettivo contenimento della spesa, così come previsto dalla normativa di riferimento.
[7] Nella precedente formulazione la norma era riferita esclusivamente ai Comuni con popolazione fino a 3mila abitanti
(06.06.2023 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

COMPETENZE GESTIONALI: La giurisprudenza ormai consolidata, incentrata sulla disposizione dell’art. 107, comma 5, t.u.e.l., ritiene che i provvedimenti con i quali si disciplina la circolazione sulla viabilità comunale, le modalità di accesso alla stessa e i relativi orari, i controlli, le sanzioni, ai sensi degli artt. 6 e 7 cod. strada, assumono natura tipicamente gestoria ed esecutiva e, quindi, appartengono alla competenze dei dirigenti comunali e non del Sindaco, ovviamente nell’ipotesi in cui non ricorra il presupposto dell’urgenza che potrebbe giustificare l’adozione di un’ordinanza contingibile e urgente.
---------------
Nella fattispecie de qua agitur, l’avocazione sindacale della titolarità del settore vigilanza è stata legittimamente disposta.
Invero, l’art. 20 del regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici (rubricato “Funzioni di supplenza e di sostituzione temporanea del responsabile - Responsabile di struttura apicale”) dispone:
   “1. Il Sindaco, in caso di ferie o impedimento o assenza temporanea del responsabile titolare, può, con proprio atto, assegnare ad interim, per un periodo di tempo determinato, eventualmente rinnovabile, uno o più settori apicali, ad altro dipendente appartenente alla medesima categoria, già responsabile di altra struttura organizzativa ed in possesso dei requisiti per tale funzione, riconoscendo in caso di incarico di durata superiore a trenta giorni consecutivi, un incremento dell’indennità di posizione, nella misura del 20% di quella prevista per il responsabile del settore che viene retto ad interim.
   2. Qualora non sia possibile procedere alla sostituzione secondo le modalità previste dal precedente comma, il sindaco può, nel rispetto di quanto statuito dall’art. 53, comma 23, della Legge n. 388/2000, così come modificato dall’art. 29, comma 4, della Legge 28/12/2001 n. 448, avocare a sé o ad altro membro della Giunta comunale, con proprio decreto, la responsabilità/titolarità di uno o più Settori, con attribuzione del relativo potere di adottare atti anche di natura tecnica-gestionale”.
Con il secondo comma, il Comune ha, evidentemente, inteso fruire della facoltà prevista dal citato art. 53, co. 23, di attribuire ai “componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale” in una ipotesi (“scopertura” del posto) non espressamente prevista dal regolamento, ma che -per identità di ratio- può essere fronteggiata con la medesima misura organizzativa, giusta applicazione analogica della norma regolamentare.
D’altro canto, a voler diversamente ritenere e dal momento che il regolamento non ha previsto una specifica disciplina al riguardo, l’impossibilità della sostituzione (rectius: avocazione) paralizzerebbe l’operatività del settore interessato.
----------------
Come affermato in giurisprudenza, “i provvedimenti limitativi della circolazione stradale sono espressione di scelte ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede giurisdizionale se non per manifesta illogicità o irragionevolezza. La regolamentazione del traffico è una disciplina funzionale alla pluralità degli interessi pubblici meritevoli di tutela ed alle diverse esigenze, e sempre che queste rispondano a criteri di ragionevolezza il cui sindacato va compiuto dal giudice amministrativo, in ossequio al principio di separazione dei poteri ed alla tassatività dei casi di giurisdizione di merito, ab externo nei limiti della abnormità”.
---------------

... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia
(con il ricorso introduttivo)
   - dell'ordinanza settoriale - Settore Vigilanza del Comune di -OMISSIS-, n. -OMISSIS-, pubblicata all'Albo Pretorio comunale dal 18.01.2021 al 02.02.2021, al n. 43 del registro Albo Pretorio, con la quale è stato disposto il divieto di sosta con rimozione permanente in via -OMISSIS-, nonché di ogni altro atto prodromico, connesso e consequenziale.
(con il ricorso per motivi aggiunti)
   - Per quanto d’interesse, del regolamento del Comune di -OMISSIS- sull’ordinamento generale dei servizi e degli uffici, art. 20, come modificato con deliberazione della Giunta Municipale n. 49 del 20.05.2015 e pubblicato sul sito istituzionale del Comune in data 14.04.2021; della deliberazione della Giunta Municipale del Comune di -OMISSIS- n. 49 del 20.05.2015 di modifica dell’art. 20 del predetto regolamento generale sull’ordinamento degli uffici e dei servizi; del decreto sindacale del Comune di -OMISSIS- n. 18 del 06.10.2017, prot. n. 6064, nonché di ogni altro atto prodromico, connesso e consequenziale.
...
1 - Con il presente ricorso ritualmente notificato e depositato, i ricorrenti in epigrafe indicati hanno chiesto annullarsi l’ordinanza n. -OMISSIS- con la quale il Comune di -OMISSIS- ha disposto il divieto di sosta con rimozione permanente in via -OMISSIS-, tratto di strada antistante la loro abitazione.
1.1 - A sostegno del gravame i ricorrenti hanno dedotto:
   I) l’ordinanza è stata emessa dall’attuale Sindaco di -OMISSIS- (ex dipendente comunale) che non avrebbe potuto assumere la responsabilità del settore vigilanza del Comune, secondo quanto stabilito dagli artt. 14 e 20 del regolamento comunale sull’ordinamento generale dei servizi e degli uffici;
   II) il Comune ha omesso di tenere in debito conto che la -OMISSIS- (già titolare dell’autorizzazione al parcheggio per disabili n. 33/2016, emessa dal Comune di -OMISSIS-) aveva presentato fin dal novembre 2020 istanza per l’istituzione di uno stallo di sosta riservato davanti alla sua abitazione, in ragione delle sue condizioni di salute; il Comune, lungi dal perseguire un interesse pubblico, ha inteso favorire altro cittadino residente in zona che, per contro, aveva chiesto di istituire un divieto di sosta al fine di agevolare la “transitabilità veicolare” nel suo accesso privato.
1.2 - Con successivo ricorso per motivi aggiunti, i ricorrenti hanno poi impugnato in parte qua, il regolamento del Comune di -OMISSIS- sull’ordinamento generale dei servizi e degli uffici -come risultante dalla modifica ex d.G.M n. 49/2015- che al comma 2 dell’art. 20 dispone: “Qualora non sia possibile procedere alla sostituzione secondo le modalità previste dal precedente comma, il sindaco può, nel rispetto di quanto statuito dall’art. 53, comma 23, della Legge n. 388/2000, così come modificato dall’art. 29, comma 4, della Legge 28/12/2001 n. 448, avocare a sé o ad altro membro della Giunta comunale, con proprio decreto, la responsabilità/titolarità di uno o più Settori, con attribuzione del relativo potere di adottare atti anche di natura tecnica-gestionale”.
Opinano i ricorrenti che nessun effetto -in termini di competenza- può spiegare sulla gravata ordinanza settoriale la modifica dell’art. 20 (disposta con d.G.M n. 49/2015), essendo stato il regolamento modificato pubblicato soltanto il 14/4/2021, in corso di causa.
La modifica de qua violerebbe, inoltre, l’art. 53, comma 23, della L. 23.12.2000 n. 388 (come modificato dall’art. 29, comma 4, della L. 28.12.2001 n. 448) poiché non indica alcun beneficio economico derivante per l’Ente, né fa alcun riferimento al contenimento della spesa. Le medesime carenze si registrano in relazione al decreto sindacale del Comune di -OMISSIS- n. 18 del 06.10.2017, prot. n. 6064 (oggetto di impugnativa) con il quale, giusta l’art. 20 del nuovo regolamento, il Sindaco –nelle more di una riorganizzazione dell’ente- ha avocato a sé l’incarico di responsabile del settore vigilanza.
...
4 – La domanda non è meritevole di accoglimento.
4.1 - L’ordinanza n. -OMISSIS- è stata emessa dal Sindaco nella qualità di Responsabile del Settore Vigilanza, giusta avocazione della titolarità del settore disposta con proprio decreto n. 18/2016 (impugnato con il ricorso per motivi aggiunti).
Con tale decreto, il Sindaco, “dato atto della carenza di organico ed in particolare dell’assenza di un responsabile del settore vigilanza”, ha avocato a sé la titolarità di tale ultimo settore, avvalendosi della facoltà di cui all’art. 20 del regolamento sull’ordinamento degli uffici “nelle more di una riorganizzazione dell’Ente”.
Nel decreto è inserito un richiamo all’art. 53, co. 23, della l. 388/2000, a mente del quale: “Gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
4.1.1 - Giova premettere in argomento che “La giurisprudenza ormai consolidata, incentrata sulla disposizione dell’art. 107, comma 5, t.u.e.l., dalla quale il Collegio non ha seria ragione di discostarsi, ritiene infatti che i provvedimenti con i quali si disciplina la circolazione sulla viabilità comunale, le modalità di accesso alla stessa e i relativi orari, i controlli, le sanzioni, ai sensi degli artt. 6 e 7 cod. strada, assumono natura tipicamente gestoria ed esecutiva e quindi appartengono alla competenze dei dirigenti comunali e non del Sindaco, ovviamente nell’ipotesi in cui non ricorra il presupposto dell’urgenza che potrebbe giustificare l’adozione di un’ordinanza contingibile e urgente (in termini, tra le tante, Cons. Stato, V, 13.07.2017, n. 3460; V, 13.11.2015, n. 5191)” - orientamento, da ultimo confermato da Consiglio di Stato sez. V, sent. 3932/2023.
4.1.2 – Ciò posto, opina il Tribunale che, nella fattispecie, l’avocazione della titolarità del settore vigilanza sia stata legittimamente disposta.
L’art. 20 del regolamento (rubricato “Funzioni di supplenza e di sostituzione temporanea del responsabile - Responsabile di struttura apicale”) dispone, infatti:
   “1. Il Sindaco, in caso di ferie o impedimento o assenza temporanea del responsabile titolare, può, con proprio atto, assegnare ad interim, per un periodo di tempo determinato, eventualmente rinnovabile, uno o più settori apicali, ad altro dipendente appartenente alla medesima categoria, già responsabile di altra struttura organizzativa ed in possesso dei requisiti per tale funzione, riconoscendo in caso di incarico di durata superiore a trenta giorni consecutivi, un incremento dell’indennità di posizione, nella misura del 20% di quella prevista per il responsabile del settore che viene retto ad interim.
   2. Qualora non sia possibile procedere alla sostituzione secondo le modalità previste dal precedente comma, il sindaco può, nel rispetto di quanto statuito dall’art. 53, comma 23, della Legge n. 388/2000, così come modificato dall’art. 29, comma 4, della Legge 28/12/2001 n. 448, avocare a sé o ad altro membro della Giunta comunale, con proprio decreto, la responsabilità/titolarità di uno o più Settori, con attribuzione del relativo potere di adottare atti anche di natura tecnica-gestionale
”.
Con il secondo comma, il Comune ha, evidentemente, inteso fruire della facoltà prevista dal citato art. 53, co. 23, di attribuire ai “componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale” in una ipotesi (“scopertura” del posto) non espressamente prevista dal regolamento, ma che -per identità di ratio- può essere fronteggiata con la medesima misura organizzativa, giusta applicazione analogica della norma regolamentare. D’altro canto, a voler diversamente ritenere e dal momento che il regolamento non ha previsto una specifica disciplina al riguardo, l’impossibilità della sostituzione (rectius: avocazione) paralizzerebbe l’operatività del settore interessato.
...
5 - Va, poi, riscontrata l’infondatezza del gravame (rectius: del ricorso introduttivo) anche con riferimento alle censure incentrate sulla carenza istruttoria e sullo sviamento di potere da cui sarebbe affetta l’ordinanza n. -OMISSIS-.
5.1 - Come affermato in giurisprudenza, “i provvedimenti limitativi della circolazione stradale sono espressione di scelte ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede giurisdizionale se non per manifesta illogicità o irragionevolezza. La regolamentazione del traffico è una disciplina funzionale alla pluralità degli interessi pubblici meritevoli di tutela ed alle diverse esigenze, e sempre che queste rispondano a criteri di ragionevolezza il cui sindacato va compiuto dal giudice amministrativo, in ossequio al principio di separazione dei poteri ed alla tassatività dei casi di giurisdizione di merito, ab externo nei limiti della abnormità (Cons. Stato, sez. VI, 08.04.2022, n. 2599; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, n. 2031/2017; id., n. 2255/2015)” - Consiglio di Stato, sez. V, sent. 07/03/2023 n. 2366.
Nel caso in esame, si osserva che parte ricorrente non contesta che la misura adottata sia abnorme o irragionevole rispetto alla finalità di assicurare un più agevole accesso alle proprietà private pregiudicate da “soste non autorizzate” (secondo quanto emerso anche all’atto del sopralluogo del 19/11/2020 - all. 003: 04 prod. Comune del 18/05/2021). Inoltre, la documentazione fotografica versata in atti rivela che –effettivamente– il divieto di sosta è funzionale ad un agevole accesso a (nonché ad un’agevole uscita da) la stradina adiacente la proprietà dei ricorrenti, cui sarebbe di oggettivo ostacolo la presenza di auto, anche tenuto conto della ridotta larghezza della sede stradale (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 05.06.2023 n. 3439 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: E' illegittimo per incompetenza il provvedimento del Sindaco (nella duplice qualità sia di ufficiale di governo, sia di capo della locale Polizia) che ha disposto la chiusura dell’attività di somministrazione con intrattenimento e svago di cui alla presentata dichiarazione di inizio attività.
Invero, l’ordinanza sindacale non fa riferimento alcuno agli artt. 50, comma 3, e 54, comma 4, del testo unico di cui al dlgs 267/2000, né tanto meno a situazioni di turbativa dell’ordine e sicurezza pubblica. Sicché, essa non può pertanto essere ricondotta alle attribuzioni del sindaco quale ufficiale di governo ai sensi delle medesime disposizioni.
Attraverso il richiamo agli artt. 10, comma 3, della legge 25.08.1991, n. 287 (Aggiornamento della normativa sull’insediamento e sull’attività dei pubblici esercizi), e 17-ter, comma 3, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, risulta invece che il provvedimento impugnato è stato adottato in ragione dell’esercizio di un’«attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande senza l’autorizzazione». Sotto il profilo ora evidenziato ne va dunque confermata la natura gestionale quale atto di esercizio del potere di controllo sul regolare esercizio delle attività commerciali di somministrazione, e di repressione di quelle abusivamente svolte.
Non sono inoltre configurabili gli ulteriori presupposti prospettati dall’appello per derogare alla generale competenza dirigenziale discendente della natura giuridica ora esposta, ai sensi dell’art. 107 del testo unico delle leggi di ordinamento degli enti locali.
Infatti, secondo il principio di legalità cui sono informati i poteri amministrativi, l’art. 2 della legge quadro sull’ordinamento della polizia locale, a mente del quale il sindaco «adotta i provvedimenti previsti dalle leggi e dai regolamenti», richiede una specifica base normativa, ulteriore a quella espressa dalla disposizione ora in esame in modo generalizzato, la cui funzione consiste unicamente nel definire sul piano ordinamentale il ruolo e le funzioni di polizia locale del vertice dell’amministrazione comunale.
Di talché, la possibilità consentita dalla legge finanziaria per il 2001 (art. 53, comma 23, legge 23.12.2000 388, ndr) di devolvere ai componenti dell’organo esecutivo il potere di adottare atti di gestione amministrativa presuppone modifiche «regolamentari organizzative» che nel caso di specie nemmeno si deduce essere state adottate.
---------------

FATTO
1. Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Campania - sezione staccata di Salerno, integrato da motivi aggiunti, il signor Er.Cr., che in data 04.06.2009 aveva presentato al Comune di Atrani una dichiarazione di inizio attività di somministrazione con intrattenimento e svago presso l’immobile nella sua disponibilità, sito in piazzale ... 1, sotto l’insegna “M.”, e che in precedenza era stato richiesto dall’amministrazione comunale di integrare la pratica, senza esito, impugnava dapprima il provvedimento sindacale con cui era diffidato dall’intraprendere l’attività (prot. n. 1472 del 06.07.2009), e quindi l’ordine di cessazione della stessa (n. 21 del 28.12.2009).
2. Con la sentenza indicata in epigrafe, dichiarato il ricorso improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, erano accolti i motivi aggiunti contro l’ordine di chiusura dell’esercizio.
3. Premesso che quest’ultimo atto era stato adottato «ai sensi degli artt. 17-ter, comma 3, del Regio Decreto 18.06.1931, n. 773 (cd. T.U.L.P.S.) e 10, comma 3, della legge del 25/08/1991, n. 287, sul presupposto dell’inesistenza di una valida autorizzazione all’esercizio dell’attività in questione», la sentenza ne ha ravvisato la «natura tipicamente gestionale – e non anche di indirizzo politico», rientrante pertanto nella competenza dirigenziale, ai sensi dell’art. 107 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
4. Contro la sentenza di primo grado il Comune di Atrani ha proposto il presente appello, al quale resiste l’originario ricorrente, e in cui si sostiene che nel caso di specie il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo da un lato e gestionali dall’altro, sancito in quest’ultima disposizione, sarebbe derogato da altre disposizioni di carattere speciali applicabili in ragione delle funzioni amministrative esercitate e della consistenza demografica dell’amministrazione comunale.
DIRITTO
1. L’appello censura la sentenza per non avere considerato che l’ordinanza comunale ex adverso impugnata con i motivi aggiunti è stata adottata dal sindaco, sulla base del verbale della polizia municipale in data 30.11.2009, nella seguente duplice qualità: «sia quale ufficiale di governo, sia quale capo della locale Polizia», ai sensi delle disposizioni normative richiamate dalla medesima sentenza.
In ragione dei descritti presupposti si sostiene che nella presente fattispecie la generale competenza dirigenziale sarebbe derogata da quella riservata al sindaco:
   - sia quale ufficiale di governo, ai sensi degli artt. 50, comma 3, e 54, comma 4, del medesimo testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267;
   - che in qualità di vertice dell’amministrazione comunale cui fa capo la polizia municipale, ai sensi dell’art. 2 della legge quadro sull’ordinamento di quest’ultima, 07.03.1986, n. 65.
L’appello sottolinea al riguardo che, per un verso, le ora richiamate disposizioni di ordinamento degli enti locali sulle funzioni del sindaco quale ufficiale di governo sono espressamente fatte salve dal sopra citato art. 107, comma 5, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267; e per altro verso che la legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale è tuttora in vigore nella sua versione originaria, anche dopo l’introduzione del principio di separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle gestionali.
2. Sotto un distinto profilo, la competenza sindacale sarebbe nel caso di specie ricavabile dall’art. 53, comma 23, della legge finanziaria per il 2001 (legge 23.12.2000, n. 388), che per ragioni di contenimento della spesa facoltizza gli «enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti» -quale il Comune di Atrani- a devolvere «ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale», sulla base di apposite «disposizioni regolamentari organizzative».
3. Con specifico riguardo alle funzioni del sindaco quale ufficiale di governo, si aggiunge che per effetto di successivi interventi normativi queste sono state ampliate (in particolare, in relazione all’epoca di adozione del provvedimento impugnato, con il decreto-legge 23.05.2008, n. 92, recante Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica; convertito dalla legge 24.07.2008, n. 125), nel senso di consentire al sindaco di emettere ordinanze in materia di ordine e sicurezza pubblica. Nella descritta prospettiva si sottolinea che nel caso di specie il potere sindacale è stato esercitato a fronte dell’accertamento svolto dalla polizia municipale relativamente all’esistenza di un’attività commerciale svolta in assenza delle necessarie licenze.
4. Le censure così sintetizzate sono infondate.
5. In primo luogo, l’ordinanza sindacale non fa riferimento alcuno ai più volte citati artt. 50, comma 3, e 54, comma 4, del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, né tanto meno a situazioni di turbativa dell’ordine e sicurezza pubblica. Come controdedotto dall’originario ricorrente, per le ragioni ora esposte essa non può pertanto essere ricondotta alle attribuzioni del sindaco quale ufficiale di governo ai sensi delle medesime disposizioni.
6. Attraverso il richiamo agli artt. 10, comma 3, della legge 25.08.1991, n. 287 (Aggiornamento della normativa sull’insediamento e sull’attività dei pubblici esercizi), e 17-ter, comma 3, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, risulta invece che il provvedimento impugnato è stato adottato in ragione dell’esercizio di un’«attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande senza l’autorizzazione». Sotto il profilo ora evidenziato ne va dunque confermata la natura gestionale, già ritenuta dalla sentenza di primo grado, quale atto di esercizio del potere di controllo sul regolare esercizio delle attività commerciali di somministrazione, e di repressione di quelle abusivamente svolte.
7. Non sono inoltre configurabili gli ulteriori presupposti prospettati dall’appello per derogare alla generale competenza dirigenziale discendente della natura giuridica ora esposta, ai sensi dell’art. 107 del testo unico delle leggi di ordinamento degli enti locali.
Infatti, secondo il principio di legalità cui sono informati i poteri amministrativi, l’art. 2 della legge quadro sull’ordinamento della polizia locale, a mente del quale il sindaco «adotta i provvedimenti previsti dalle leggi e dai regolamenti», richiede una specifica base normativa, ulteriore a quella espressa dalla disposizione ora in esame in modo generalizzato, la cui funzione consiste unicamente nel definire sul piano ordinamentale il ruolo e le funzioni di polizia locale del vertice dell’amministrazione comunale.
La possibilità consentita dalla legge finanziaria per il 2001 di devolvere ai componenti dell’organo esecutivo il potere di adottare atti di gestione amministrativa presuppone invece modifiche «regolamentari organizzative» che nel caso di specie nemmeno si deduce essere state adottate.
8. L’appello deve pertanto essere respinto, per cui va confermata la sentenza di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.03.2023 n. 2518 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: L. Oliveri, Il sindaco non può legittimamente svolgere le funzioni di responsabile del tributo (28.12.2022 - link a https://leautonomie.asmel.eu).
---------------
L’ordinanza 16.12.2022 n. 37022 della Corte di Cassazione, Sez. V civile, nel considerare legittima la sottoscrizione di un avviso di accertamento di un tributo incorre in un errore molto grave.
Spiace dover constatare quante volte la Cassazione inciampi in pronunce totalmente in violazione delle leggi, che pure dovrebbe applicare, come avvenuto nel caso della fissazione triennale della durata minima degli incarichi ai sensi dell’articolo 110 del d.lgs. 267/2000 indicazione totalmente erronea e in contrasto formidabile proprio con le previsioni dell’articolo 110 citato.
Nel caso di specie, il ricorso si fonda, col secondo motivo, sulla violazione e falsa applicazione di norme di diritto, dovuta alla circostanza che l’avviso di accertamento per la Tarsu oggetto del contenzioso è stato sottoscritto dal Sindaco e non dal funzionario comunale responsabile del tributo secondo quanto dispone l’art. 74 del D.lgs. 507 del 1993. In particolare, il ricorrente chiede la dichiarazione della nullità della motivazione della sentenza di merito, poiché il giudice di secondo grado si è limitato ad affermare che l’avviso è regolarmente sottoscritto in quanto firmato dal sindaco.
Il ricorrente ha evidenziato, ancora, che vi è stata una violazione di legge visto che il comune non ha incaricato il responsabile del tributo né ad un funzionario, né quanto meno al sindaco, aggiungendo che tale organo, ai sensi dell’articolo 107 del d.lgs. 267/2000 non può invadere le funzioni della dirigenza.
Sorprendentemente e con grave errore, la Cassazione ritiene il motivo è infondato, sulla base di motivazioni davvero prive di basi.
In primo luogo, l’ordinanza rileva che “Il Sindaco è il legale rappresentante dell’ente, cui spetta di manifestare all’esterno la volontà dell’ente e anche di esprimere il potere impositivo, pertanto può firmare gli avvisi in difetto di nomina del funzionario responsabile”.
Si tratta di affermazioni totalmente fuorvianti e in chiarissimo contrasto con l’impianto complessivo delle competenze degli organi.
La circostanza che la legge inquadri il sindaco come legale rappresentante dell’ente e, quindi, in grado di manifestare la volontà dell’ente è totalmente priva di pregio.
La rappresentanza legale del sindaco è solo istituzionale e non certo gestionale, posto che lo svolgimento delle funzioni che determinano una diretta incisione della sfera giuridica dei terzi è assegnato dalla legge ai vertici o ai responsabili dell’apparato amministrativo.
Quindi, la rappresentanza del sindaco si ferma di fronte all’esercizio delle funzioni gestionali e negoziali, che per legge spettano in via esclusiva ai dirigenti o ai responsabili di servizio, se nell’ente non sia presente la dirigenza.
Questa conclusione è necessitata dalla chiarissima previsione dell’articolo 107, comma 2, del d.lgs. 267/2000: “Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108”.
Non c’è nessuno dubbio che un avviso di accertamento tributario non abbia nulla a che vedere con l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo, ma attenga alla gestione.
Il comma 4 dell’articolo 107 ricordato sopra aggiunge: “Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all’articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”.
Il d.lgs. 267/2000, dunque, oltre a disciplinare specificamente che le funzioni gestionali, tutte, spettano ai vertici organizzativi, corrobora tale disposizione con la previsione dell’inderogabilità: solo una legge può intervenire sull’assetto delle competenze e modificarlo.
La Cassazione nell’affermare che l’attribuzione al sindaco della rappresentanza legale consente di considerare tale organo come abilitato a manifestare la volontà dell’ente incorre, allora, in duplice errore:
   1. da un lato, attribuisce alla rappresentanza legale la possibilità di andare in contrasto con le previsioni dell’articolo 107; cosa ovviamente paradossale, in quanto se così fosse si ammetterebbe che il d.lgs. 267/2000 a un tempo dispone il bianco e il nero, un precetto ed il suo contrario. Ovviamente, le cose non stanno così: la rappresentanza legale del sindaco è istituzionale e connessa all’esercizio delle funzioni politiche di indirizzo e controllo e si ferma a tali funzioni. Quelle gestionali spettano in via esclusiva ai vertici dell’apparato, dotati a loro volta di una rappresentanza, meglio dire di un rapporto organico che ex lege li abilita ad incidere la sfera dei terzi;
   2. dall’altro, connette l’esercizio della competenza alla “manifestazione” della volontà. Ma, prima ancora di essere manifestata, la volontà va formata. Ammesso che la rappresentanza legale permetta al sindaco di manifestare la volontà dell’ente –conclusione da rigettare, visto che la manifestazione della volontà espressa nell’ambito della gestione amministrativa è anch’essa spettanza esclusiva della dirigenza, poiché la manifestazione della volontà è parte integrante del procedimento– in ogni caso il sindaco, per le ragioni viste sopra, non può formare la volontà. Né avrebbe senso relegare il sindaco alla funzione di un mero nuncius della volontà altrui.
L’ordinanza, proseguendo nell’erronea trattazione, afferma che, conseguentemente alla rappresentanza legale spettante al sindaco, questo “può firmare gli avvisi in difetto di nomina del funzionario responsabile”.
Ad appesantire ulteriormente il fardello degli errori interpretativi, l’ordinanza aggiunge che “eventuali conflitti di attribuzioni con i dirigenti, ma nel caso di specie non risulta che vi sia un dirigente del servizio che il Sindaco abbia esautorato dalla sue funzioni, possono avere eventuale rilevanza interna, ma non incidono sulla validità dell’avviso di accertamento”. Per questa ragione “Il giudice di primo grado ha pertanto correttamente ritenuto infondato il motivo d’appello osservando che l’avviso non presenta difetto di sottoscrizione essendo firmato dal Sindaco”.
Tutte affermazioni non condivisibili in alcun modo. Partiamo dalla suggestione secondo la quale il sindaco potrebbe firmare gli avvisi in difetto della nomina del funzionario responsabile.
L’articolo 74, comma 1, del d.lgs. 507/1993 sancisce: “Il comune designa un funzionario cui sono attribuiti la funzione e i poteri per l’esercizio di ogni attività organizzativa e gestionale relativa alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni; il predetto funzionario sottoscrive le richieste, gli avvisi, i provvedimenti relativi e dispone i rimborsi”.
Si nota facilmente quanto segue:
   1. il comune non ha la semplice facoltà di designare il responsabile del tributo, ma deve designarlo. Infatti, la norma coniuga il verbo designare all’indicativo presente, che nel lessico del legislatore equivale ad imperativo. I comuni hanno l’obbligo imperativo di designare il funzionario;
   2. a tale funzionario sono attribuite funzioni che riguardano l’organizzazione e la gestione. Quindi, si conferma che si tratta non di competenze inerenti indirizzo politico amministrativo e controllo, ma appunto la gestione.
Pertanto, per un verso il comune non può sottrarsi all’obbligo di designare il funzionario responsabile, anche perché ha l’obbligo di comprovare, davanti al contribuente ed al giudice, la fonte di legittimazione del potere gestionale esercitato dal responsabile medesimo. Le modalità per procedere sono: la previsione nel regolamento sui tributi dell’attribuzione in generale della funzione al dirigente o responsabile di servizio, con la regolazione del potere di questo di attribuire, a sua volta, l’incarico ad altro funzionario designato, in applicazione combinata della legge 241/1990 con l’articolo 74 del d.lgs. 507/1993.
Per altro verso, poiché le funzioni del responsabile dei tributi sono gestionali, è da considerare priva di ogni fondamento la tesi secondo la quale, nel caso di sua mancata designazione, allora dette funzioni possono essere svolte dal sindaco.
Ciò presupporrebbe che il sindaco disponga della competenza del responsabile del tributo a titolo originario, della quale si potrebbe disfare a titolo precario mediante propri atti di incarico o delega, riappropriandosi della competenza in assenza di designazione o delega.
Ma, così non è. Poiché le funzioni del responsabile del tributo sono solo gestionali, esse spettano a titolo originario al vertice gestionale, dirigente o responsabile di servizio e mai al sindaco. Solo negli enti con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, per effetto dell’
art. 53, comma 23, della legge 388/2000 il sindaco potrebbe assumere le funzioni gestionali; ma anche in tal caso il comune allora dovrebbe disciplinare in modo espresso l’attribuzione al sindaco-gestione anche delle funzioni di responsabile del tributo.
Sbagliatissimo, poi, è affermare, come fa la Cassazione, che eventuali “conflitti di attribuzione” tra sindaco e dirigenza abbiano solo “rilevanza interna”.
Incredibilmente, gli ermellini prendono per conflitto di attribuzione una chiarissima e manifesta questione di illegittimità del provvedimento per violazione della competenza. Non si tratta per nulla di un conflitto di attribuzione interno, ma del corretto esercizio del potere attribuito dalla legge, che nel caso di specie risulta vulnerata in modo plateale, poiché il sindaco ha adottato un provvedimento gestionale in totale carenza di potere.
E il vizio di competenza non ha certo rilevanza esclusivamente interna, perché inficia la legittimità del provvedimento e, quindi, la sua capacità di incidere sulla sfera giuridica dei cittadini (efficacia).
Sia il giudice di merito, sia la Cassazione pare abbiano, inoltre, confuso la questione di legittimità con quella dell’esistenza del provvedimento, cadendo nell’errore di guardare alla questione sul piano, quindi, dell’eventuale sua nullità.
E’ chiaro che l’avviso di accertamento esiste sul piano giuridico e non è nullo, poiché è sottoscritto. Ma, è stato adottato da organo incompetente. Questo era l’oggetto della doglianza, rimasta senza giustizia a causa del clamoroso errore della Cassazione.

COMPETENZE GESTIONALI: È incontestato tra le parti che il Comune, avendo una popolazione inferiore a 5.000 abitanti, al fine di assicurare un contenimento delle spese, avrebbe potuto modificare i regolamenti in modo da attribuire le funzioni gestionali a membri della giunta.
Ai sensi dell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, infatti, è consentito nei Comuni con meno di 5.000 abitanti l’attribuzione ai componenti dell’organo esecutivo della responsabilità degli uffici e dei servizi nonché del potere di adottare atti anche di natura tecnico-gestionale.
Il Comune con deliberazione di Giunta -OMISSIS- del 2019 si è avvalso della facoltà di attribuire ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi dell’area amministrativa e del potere di adottare atti di natura tecnico-amministrativo, il che consente di ritenere rientrante nella competenza del predetto assessore (nominato responsabile del terzo settore) anche l’adozione dell’atto impugnato.
In senso contrario non valgono i profili di censura con i quali la ricorrente deduce che l’attribuzione all’assessore delle funzioni amministrative in argomento sarebbe contraria ai principi generali sulla separazione fra funzione d'indirizzo politico e funzione amministrativa, dettati dal d.lgs. 267 del 2000 (TUEL) e ripresi nell’art. 33 dello statuto comunale e nell’art. 2, comma 7, del regolamento per l’organizzazione degli uffici del comune, posto che la suddetta deroga al principio di separazione è stata introdotta dal legislatore con norma di rango primario, quale è il richiamato dell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000.
---------------

... per l'annullamento
   - della deliberazione di giunta comunale -OMISSIS- del 09.02.2019, con la quale è stata conferita all'assessore -OMISSIS- la responsabilità gestionale del terzo settore comunale;
   - dell'ordinanza -OMISSIS- del 29.05.2019 con la quale è stato disposto l'annullamento in autotutela del permesso di costruire -OMISSIS- del 16.01.2019;
   - dell'ordinanza -OMISSIS- del 24.06.2019 con la quale è stata ordinata la demolizione e la remissione in pristino dei luoghi già interessati dai lavori regolarmente autorizzati con precedenti atti;
   - nonché di ogni ulteriore atto precedente o successivo a quelli impugnati, ancorché allo stato non conosciuti.
...
1. Con il primo motivo la ricorrente contesta la delibera -OMISSIS- del 09.02.2019 di conferimento dell’incarico di responsabile del terzo settore comunale all’assessore, che quindi non avrebbe avuto alcuna competenza nell’adottare l’avversata determinazione di revoca del permesso di costruire -OMISSIS-/2019.
La tesi non convince.
È incontestato tra le parti che il Comune, avendo una popolazione inferiore a 5.000 abitanti, al fine di assicurare un contenimento delle spese, avrebbe potuto modificare i regolamenti in modo da attribuire le funzioni gestionali a membri della giunta.
Ai sensi dell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, infatti, è consentito nei Comuni con meno di 5.000 abitanti l’attribuzione ai componenti dell’organo esecutivo della responsabilità degli uffici e dei servizi nonché del potere di adottare atti anche di natura tecnico-gestionale.
Il Comune di Carpino con deliberazione di Giunta -OMISSIS- del 2019 si è avvalso della facoltà di attribuire ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi dell’area amministrativa e del potere di adottare atti di natura tecnico-amministrativo, il che consente di ritenere rientrante nella competenza del predetto assessore (nominato responsabile del terzo settore) anche l’adozione dell’atto impugnato.
2. In senso contrario non valgono i profili di censura con i quali la ricorrente deduce che l’attribuzione all’assessore delle funzioni amministrative in argomento sarebbe contraria ai principi generali sulla separazione fra funzione d'indirizzo politico e funzione amministrativa, dettati dal d.lgs. 267 del 2000 (TUEL) e ripresi nell’art. 33 dello statuto comunale e nell’art. 2, comma 7, del regolamento per l’organizzazione degli uffici del comune di Carpino, posto che la suddetta deroga al principio di separazione è stata introdotta dal legislatore con norma di rango primario, quale è il richiamato dell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000.
3. Allo stesso modo con convince l’ulteriore deduzione secondo cui la delibera -OMISSIS- del 09.02.2019, con la quale è stata conferita all’assessore -OMISSIS- la responsabilità gestionale del terzo settore comunale avrebbe ecceduto le attribuzioni riservate alla giunta in ambiti, come quello della modifica dei principi generali in tema di organizzazione degli uffici, di esclusiva competenza del consiglio comunale ai sensi degli artt. 42 e 48 del TUEL.
In primo luogo, l’art. 48, comma 3, del medesimo TUEL dispone che “3. È, altresì, di competenza della giunta l'adozione dei regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio”.
Ciò premesso non risulta che la giunta con la contestata delibera -OMISSIS- del 2019 abbia inteso modificare i principi generali in tema di organizzazione degli uffici stabiliti dal Consiglio, in via stabile, ma piuttosto fare applicazione della deroga prevista dal citato art. 53, comma 23, proprio al fine di “operare un contenimento della spesa”.
In secondo luogo, l’art. 48, comma 3, sopra richiamato attribuisce espressamente alla giunta l’adozione di atti organizzativi come quello in esame, il quale peraltro risulta giustificato dalla drammatica carenza di organico che affligge il Comune resistente, descritta e comprovata dalle allegazioni del medesimo ente locale (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 19.12.2022 n. 1753 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - COMPETENZE GESTIONALI: In tema di conflitto di interessi in materia di contratti pubblici.
In generale, quando le funzioni gestionali relative all’Ufficio tecnico sono assegnate -ai sensi dell’art. 53, co. 23, della l. n. 388/2000- al Sindaco o ad un Assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli obblighi dichiarativi derivanti dall’applicazione dell’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016; per assicurare l’effettività della prevenzione dei conflitti di interessi nei contratti pubblici, i comuni che si avvalgono della predetta facoltà dovrebbero definire, al contempo, le modalità ed il destinatario delle dichiarazioni, tenendo conto della propria organizzazione.
---------------

La vicenda esaminata nel presente procedimento richiede la trattazione di una questione di carattere generale, in tema di conflitto di interessi in materia di contratti pubblici, che è già stata oggetto di attenzione nello schema di PNA 2022-2024 posto in consultazione dall’Autorità.
Infatti, piuttosto spesso i piccoli Comuni si avvalgono della facoltà agli stessi riconosciuta di attribuire “…..ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” (art. 53, co. 23, della l. n. 388/2000).
Così, è avvenuto nel caso di specie, in cui il Sindaco –in quanto competente in materie tecniche– si è visto assegnare anche la titolarità dell’ufficio tecnico del Comune, con la conseguenza di trovarsi ad adottare gli atti di pertinenza di detto settore. Peraltro, sebbene la disposizione richiamata abbia carattere generale e possa trovare applicazione per tutti gli Uffici dirigenziali di un piccolo Comune, l’Ufficio tecnico è proprio quello di cui, nella maggior parte dei casi esaminati dall’Autorità, il Sindaco o un Assessore assumono la responsabilità.
Proprio per questo motivo, la sezione del già richiamato schema di PNA, relativa alla gestione dei conflitti di interessi nei contratti pubblici, rileva che i soggetti che compongono gli organi politici, in coerenza con il principio di separazione tra politica e amministrazione (art. 14 del d.lgs. n. 165/2001 e art. 80 del d.lgs. n. 267/2000), non assumono incarichi di natura amministrativa e, pertanto, non sono sottoposti alle regole di cui all’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016. Al contempo, però, chiarisce anche che quando ciò avviene lo svolgimento di un ruolo gestionale e l’espletamento di funzioni che riguardano l’aggiudicazione di contratti pubblici comporta necessariamente l’operatività degli obblighi dichiarativi previsti dalla normativa.
Al riguardo, occorre rammentare che le Linee Guida ANAC n. 15 (delibera 05.06.2019 n. 494) hanno chiarito come
le disposizioni contenute nell’art. 42 del codice dei contratti pubblici trovino applicazione in tutte le procedure di aggiudicazione, ivi incluse quelle sotto soglia. Quanto agli obblighi dichiarativi correlati all’applicazione della richiamata disciplina, l’Autorità ha anche chiarito che, oltre alla dichiarazione sostitutiva ai sensi degli articoli 6, comma 1, del dPR n. 62/2013 e 6-bis della legge n. 241/1990 da rendere all’atto dell’assegnazione all’Ufficio, è necessaria anche la dichiarazione sostitutiva riferita alla singola procedura di gara.
Quest’ultima dichiarazione deve essere sempre resa rispetto alla specifica procedura di gara ed ha ad oggetto ogni situazione potenzialmente idonea a porre in dubbio la sua imparzialità e indipendenza.
Come evidenziato nelle Linee Guida, si tratta di adempimenti che non possono considerarsi alla stregua di un mero obbligo formale, giacché costituiscono il principale strumento attraverso il quale le stazioni appaltanti possono prevenire possibili situazioni di rischio, facendole emergere anticipatamente.
Così,
anche il Sindaco incaricato di funzioni gestionali non può ritenersi esentato dal rendere le prescritte dichiarazioni sia al momento dell’assunzione della responsabilità dell’Ufficio ma soprattutto -per quanto è qui di interesse- in relazione a ciascun affidamento, per il quale svolga il ruolo di RUP, oppure altra funzione rilevante.
Per queste ragioni, le considerazioni svolte nella memoria pervenuta dal Comune, secondo cui le disposizioni dell’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016 si applicherebbero solo ai dipendenti degli enti, non possono ritenersi condivisibili, come pure non può ritenersi dirimente la mancata attribuzione di una retribuzione per lo svolgimento delle funzioni dirigenziali; ciò, in quanto dovendo, comunque, operare in nome o per conto della stazione appaltante nell’ambito di procedure di aggiudicazione, al pari degli altri Dirigenti, vi è anche la necessità di evitare che la sussistenza di un interesse personale possa in qualsiasi modo influenzarne l’esito.
Infatti,
riguardo ai soggetti che devono ritenersi sottoposti agli obblighi derivanti dall’art. 42, nelle Linee Guida, l’Autorità ha precisato che “Il conflitto di interesse individuato all’articolo 42 del codice dei contratti pubblici è la situazione in cui la sussistenza di un interesse personale in capo ad un soggetto operante in nome o per conto della stazione appaltante che interviene a qualsiasi titolo nella procedura di gara o potrebbe in qualsiasi modo influenzarne l’esito è potenzialmente idonea a minare l’imparzialità e l’indipendenza della stazione appaltante nella procedura di gara. In altre parole, l’interferenza tra la sfera istituzionale e quella personale del funzionario pubblico, si ha quando le decisioni che richiedono imparzialità di giudizio siano adottate da un soggetto che abbia, anche solo potenzialmente, interessi privati in contrasto con l’interesse pubblico”.
Le Linee Guida chiariscono, infine, che “
L’articolo 42 si applica ai soggetti individuati ai punti precedenti che siano coinvolti in una qualsiasi fase della procedura di gestione del contratto pubblico (programmazione, progettazione, preparazione documenti di gara, selezione dei concorrenti, aggiudicazione, sottoscrizione del contratto, esecuzione, collaudo, pagamenti) o che possano influenzarne in qualsiasi modo l’esito in ragione del ruolo ricoperto all’interno dell’ente”.
Nei casi come quello qui in esame, dunque, valorizzando la considerazione per cui nell’espletamento delle funzioni gestorie anche l’organo politico può ritenersi parte dell’organizzazione dell’ente, il destinatario delle dichiarazioni del Sindaco potrebbe essere lo stesso che riceve quelle degli altri Dirigenti (Segretario Generale, Ufficio del personale, RPTC etc.); in tal caso, occorrerà anche tener presente che questa opzione potrebbe comportare delle criticità, quando l’RPTC, che sia anche Segretario comunale e Responsabile di un servizio sia tenuto, a sua volta, a rendere le proprie dichiarazioni al Sindaco, come già suggerito da questa Autorità in un altro caso già esaminato (Atto del Presidente 13.07.2022 – prot. 61305.2022).
Altra opzione che potrebbe essere valutata dal Comune è quella che tiene conto che la nomina del Sindaco quale Responsabile dell’Ufficio/Servizio è stata disposta dalla Giunta Comunale; pertanto, potrebbe essere anche quest’ultimo organo a ricevere le dichiarazioni di (in) sussistenza di situazioni di conflitto di interessi ed a valutare eventuali questioni che dovessero porsi al riguardo.
In ogni caso, occorre evitare che sia lo stesso interessato ad effettuare autonomamente la valutazione di questioni che dovessero porsi in relazione alla propria situazione; pertanto, è opportuno che il Comune interessato, in caso di assegnazione al Sindaco o ad un Assessore di funzioni gestionali definisca in concreto, tenendo conto delle proprie specificità organizzative, le modalità con cui gli stessi possano rendere le dichiarazioni ai sensi degli articoli 6, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n. 62/2013 e 6-bis della legge n. 241/1990, nonché quelle relative alle procedure di aggiudicazione rispetto alle quali adottino atti.
Passando ad esaminare al legame che riguarda il Sindaco -omissis- del comune di -omissis- e l’aggiudicatario dei contratti oggetto del presente procedimento, Il sig. -omissis-, nella relazione è stato asserito che non sussiste alcun conflitto di interesse, in quanto sebbene quest’ultimo sia stato consigliere, assessore e vicesindaco nel doppio mandato che lo stesso -omissis- ha ricoperto a -omissis- nel periodo 2009-2019, non vi è stata, né vi è alcuna frequentazione abituale che potrebbe o può influenzare l’espletamento delle funzioni gestionali assegnate dalla Giunta comunale.
Fermo restando che il compito di verificare, caso per caso, la sussistenza di situazioni di conflitto di interessi spetta alle stazioni appaltanti, al riguardo si può evidenziare quanto segue.
È noto l’orientamento, che anche l’ANAC ha richiamato nella Delibera 15.01.2020 n. 25 (Indicazioni per la gestione di situazioni di conflitto di interessi a carico dei componenti delle commissioni giudicatrici di concorsi pubblici e dei componenti delle commissioni di gara per l'affidamento di contratti pubblici), espresso dalla giurisprudenza con riferimento ai commissari di concorso, nella sentenza 27.11.2020 n. 7462 del Consiglio di Stato, Sez. V, secondo cui allo scopo di valutare una situazione di conflitto di interessi… “non è sufficiente evocare il mero rapporto di “colleganza” ovvero di “conoscenza”, in quanto espressione di un approccio congetturale".
Più in generale, si può osservare che l’aver prestato servizio nella medesima amministrazione/ufficio, soprattutto se in ambito pubblico, non pare possa costituire un indice rilevante una comunanza di interessi (economici), come nel caso dei soci in affari.
Tuttavia, non può escludersi che il rapporto tra un Sindaco e la figura vicaria dallo stesso scelta sulla base dell’appartenenza politica possa, invece, avere un rilievo, potendo essere percepito come una minaccia alla imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di concessione, tanto più nel caso in esame in cui si è protratto per due mandati consecutivi. Occorre sempre considerare, infatti, che l’obiettivo della normativa in esame è anche quello di preservare l’immagine di imparzialità della stazione appaltante.
Al riguardo, si osserva anche che in base all’art. 7 del d.P.R. 62/2013, a cui fa rinvio l’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016, l’obbligo di astensione può sorgere non solo nelle ipotesi puntualmente individuati, ivi inclusa quella della abituale frequentazione, ma anche “….in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza.”.
Pertanto, si ritiene che il Sindaco del Comune di -omissis- avrebbe dovuto dichiarare il proprio precedente rapporto con il professionista aggiudicatario degli affidamenti oggetto del presente procedimento, rimettendo ad un soggetto terzo la valutazione in ordine alla sussistenza di un obbligo di astensione.
Per tutto quanto esposto,
DELIBERA
   - di ritenere che:
        
1- in generale, quando le funzioni gestionali relative all’Ufficio tecnico sono assegnate -ai sensi dell’art. 53, co. 23, della l. n. 388/2000- al Sindaco o ad un Assessore, anche a questi ultimi devono estendersi gli obblighi dichiarativi derivanti dall’applicazione dell’art. 42 del d.lgs. n. 50/2016; per assicurare l’effettività della prevenzione dei conflitti di interessi nei contratti pubblici, i comuni che si avvalgono della predetta facoltà dovrebbero definire, al contempo, le modalità ed il destinatario delle dichiarazioni, tenendo conto della propria organizzazione;
        
2- nel caso esaminato, il Sindaco del Comune di -omissis- avrebbe dovuto rendere le prescritte dichiarazioni in materia di conflitto di interessi, rimettendo al destinatario della stessa le valutazioni del caso in ordine alla necessità di astenersi, piuttosto che effettuarla autonomamente;
   - di raccomandare al Comune di -omissis- di rivedere il proprio operato, dando piena attuazione all’
art. 42 del d.lgs. n. 50/2016, mediante l’individuazione e l’adozione di tutte le misure necessarie, ivi inclusa l’acquisizione delle dichiarazioni sensi degli articoli 6, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n. 62/2013 e 6-bis della legge n. 241/1990, nonché quelle relative alle singole procedure di aggiudicazione;
   - di dare mandato all’Ufficio Istruttore di comunicare la presente delibera al Comune di -omissis- ed al RPTC dello stesso ente.
Il Comune interessato è invitato a comunicare all’ANAC le eventuali determinazioni al riguardo assunte, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione della presente delibera, che sarà pubblicata sul sito istituzionale dell’Autorità, ai sensi dell’art. 22, comma 1, del Regolamento di Vigilanza sui contratti pubblici del 04.07.2018
(ANAC, delibera 07.12.2022 n. 585 - link a www.anticorruzione.it).

COMPETENZE GESTIONALIL’affidamento di incarichi amministrativi agli organi politici può avvenire solo in casi eccezionali, nei soli comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, secondo quanto previsto dall’art. 53 della legge 23.12.2000, 388, che a tal fine richiede
   - la concreta necessità di conseguire risparmi di spesa e
   - il mancato affidamento del relativo incarico al segretario comunale, presupposti di base cui si aggiunge, secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, la necessità che
   - il meccanismo sostitutivo trovi fondamento in apposita deliberazione della Giunta o del Consiglio comunale.
---------------

... per l'annullamento:
   a) della determinazione 08.06.2017, n. 10 (notificata al ricorrente in data 13.06.2017), con la quale il Comune di Castiadas ha dichiarato che il ricorrente è decaduto dalla concessione demaniale marittima 29.08.2002, n. 102, ai sensi dell'art. 47, lettere a), b), d) ed f), del Codice della Navigazione;
   b) ove occorrer possa, della determinazione 04.06.2014, n. 7, con cui il Comune resistente ha rilasciato alla controinteressata la concessione demaniale marittima in relazione ad uno spazio in parte sovrapposto a quello già concesso al ricorrente con la predetta concessione n. 102/2002;
   c) di ogni altro atto ad essi presupposto, preordinato, consequenziale e/o comunque connesso, ivi inclusa, ove occorra, la comunicazione del Comune di Castiadas prot. n. 2686/VI/8 dell'08.04.2016 (mai notificata al ricorrente e, ancora oggi, non conosciuta dal medesimo).
...
5. Ciò premesso si può ora passare all’esame nel merito della domanda di annullamento della determinazione comunale n. 10/2017, con cui il Comune di Castiadas ha dichiarato l’intervenuta decadenza della concessione demaniale a suo tempo rilasciata in favore del ricorrente.
5.1. Assume carattere prioritario la quarta censura dedotta in ricorso, con cui si deduce l’incompetenza inficiante l’impugnato provvedimento di decadenza perché adottato e sottoscritto dall’allora Sindaco del Comune di Castiadas, dott. Qu.So., invece che dal Responsabile dell’Area Tecnica, in violazione del noto canone di separazione tra attività politica e gestionale.
Tale censura è fondata.
5.2. Si deve ricordare, infatti, che il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (TUEL), approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ha sancito il principio di separazione tra l’attività d’indirizzo e controllo, spettante agli organi politici, e l’attività gestionale spettante agli uffici ed ai servizi (ed ai relativi responsabili), stabilendo che, all’art. 107, comma 2, che competono ai dirigenti “tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’Ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale“.
5.3. La portata applicativa del principio è stata peraltro ridimensionata, per ragioni di economia di spesa pubblica, con specifico riguardo agli enti locali fino a 5.000 abitanti.
Infatti, l’art. 53, comma 23, della legge 388/2000 (legge finanziaria 2001) ha stabilito che “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio".
Tale disposizione detta tuttavia una deroga ad un principio generale ed è stata interpretata in modo rigoroso. Il Ministero dell’Interno (con parere 18.12.2014) ha quindi ritenuto che il carattere speciale della norma richieda necessariamente il rispetto delle condizioni poste dalla norma medesima per la sua legittima applicazione, essendo necessaria sia la sussistenza di un apposito atto di giunta o regolamentare che disciplini la fattispecie, sia la documentazione annuale del risparmio di spesa in sede di approvazione del bilancio.
5.4. Ciò posto, si osserva, in primo luogo, che la motivazione dell’atto impugnato non reca alcuna concreta giustificazione di tale ingerenza dell’organo sindacale nello svolgimento di attività tipicamente amministrativa, a eccezione di un sintetico riferimento al pregresso “decreto comunale 31.03.2016, n. 3” con cui sarebbe stata, in via generale, prevista la possibilità per il Sindaco di sostituire il Responsabile dell'Area tecnica “nei casi di assenza e/o impedimento della titolare”.
Neppure nel presente giudizio la difesa comunale ha eccepito alcunché di specifico riguardo alla censura ora in esame, limitandosi a contestarne genericamente la fondatezza e omettendo di depositare agli atti il sopra citato “decreto comunale”.
5.5. In tale contesto, dunque, il Collegio ritiene che non possano considerarsi sussistenti, o quanto meno adeguatamente dimostrati, i presupposti di operatività del citato meccanismo sostitutivo, non avendo peraltro il Comune neppure allegato, in sede amministrativa prima e giurisdizionale poi, l’effettiva assenza/impedimento del Responsabile dell’Area Tecnica, alla data di assunzione dell’impugnato provvedimento di decadenza, ovvero qualunque altro elemento concretamente in grado di giustificare la sopra descritta ingerenza dell’organo politico in una attività tipicamente amministrativa.
5.6. Aspetti, questi, che appaiono tanto più dirimenti in considerazione del fatto che, come si è detto, l’affidamento di incarichi amministrativi agli organi politici può avvenire solo in casi eccezionali, nei soli comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, secondo quanto previsto dall’art. 53 della legge 23.12.2000, 388, che a tal fine richiede la concreta necessità di conseguire risparmi di spesa e il mancato affidamento del relativo incarico al segretario comunale, presupposti di base cui si aggiunge, secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, la necessità che il meccanismo sostitutivo trovi fondamento in apposita deliberazione della Giunta o del Consiglio comunale (cfr., da ultimo, TAR Liguria, Sez. II, sentenza 03.02.2022 n. 83), tutti profili, questi, di cui non si fa alcuna menzione nell’atto impugnato (vedi supra).
6. L’accertata fondatezza della censura in esame comporta, oltre all’accoglimento della domanda proposta, l’assorbimento degli altri motivi dedotti, non essendovi motivi per discostarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale, inaugurato con la nota pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 27.04.2015, n. 5, secondo cui “in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus” (conformi, ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 12.02.2020, n. 1104; TAR Sardegna, Sez. II, 23.03.2004, n. 393).
7. La domanda in esame merita, dunque, accoglimento sotto il profilo del vizio di incompetenza dell’organo procedente, con il conseguente annullamento dell’impugnata determinazione 08.06.2017, n. 10, recante la decadenza del sig. Ma.Fe. dalla concessione demaniale sopra richiamata (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 24.06.2022 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: E. De Carlo, L’attribuzione dei poteri gestionali nei piccoli comuni al Sindaco. Necessaria la preventiva deliberazione giuntale (24.03.2022 - tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it).
--------------
Il principio di separazione tra attività d’indirizzo e controllo ed attività gestionale
Il TUEL, in coerenza con il principio di separazione tra attività d’indirizzo e di controllo spettante agli organi politici ed attività di gestione spettante agli uffici ed ai servizi (ed ai relativi responsabili), sancisce all’art. 107, comma 2, che competono ai dirigenti “tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’Ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale“.
La deroga per i piccoli comuni
Tuttavia, la portata applicativa del suddetto principio da tempo è stata ridimensionata, sia pure per ragioni di economia di spesa pubblica, con specifico riguardo agli enti locali fino a 5.000 abitanti.
Infatti, l’art. 53, comma 23, L. 388/2000 (legge finanziaria 2001) ha stabilito che “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio“.
I presupposti per la deroga
Invero, la disciplina anzidetta, come modificata dall'art. 29, comma 4, della legge 488/2001, in presenza dei seguenti presupposti:
   a. popolazione inferiore a 5.000 abitanti;
   b. non aver affidato le relative funzioni al segretario comunale in base all'art. 97, c. 4, lett. d), del D.Lgs. n. 267/2000;
   c. poter conseguire risparmi di spesa,
consente agli enti locali la possibilità di adottare disposizioni regolamentari organizzative, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale, senza la necessità di dimostrare la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee.
La giurisprudenza e la prassi ministeriale
La giurisprudenza contabile (cfr.
parere 01.12.2016 n. 167 della sez. regionale di controllo per il Molise) e amministrativa, qualificano la norma introdotta dalla legge finanziaria del 2001 quale norma speciale e derogatoria, rispetto sia al principio di separazione politica-amministrazione sancito dall’art. 107 del TUEL che del Codice dei contratti pubblici.
Secondo la giurisprudenza, “Si tratta di una disposizione che fa eccezione ad un principio generale, sicché, in conformità al canone interpretativo restrittivo di cui all’art. 14 disp. prel. cod. civ., è necessario che le relative disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale (art. 42 TUEL) o della giunta (articolo 48, comma 3, TUEL, relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi)” (cfr. TAR Liguria sez. I,
sentenza 31.03.2021 n. 284).
Anche il Ministero dell’Interno (
parere 18.12.2014) ha ritenuto che il carattere speciale della norma richieda necessariamente il rispetto delle condizioni poste dalla norma medesima per la sua legittima applicazione, essendo necessaria sia la sussistenza di un apposito atto di giunta o regolamentare che disciplini la fattispecie, sia la documentazione annuale del risparmio di spesa in sede di approvazione del bilancio.
In merito all’applicazione dell’istituto derogatorio oggetto della presente trattazione, invero, lo stesso Ministero dell’Interno (si veda, ad esempio parere sopra citato) ha evidenziato che, in base all’art. 15 del CCNL 22.01.2004, negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo l’ordinamento organizzativo dell’ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli articoli 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999. Pertanto, alla luce delle citate disposizioni, è apparso evidente al Ministero che negli enti privi di qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa. Pur dovendosi ritenere tuttora applicabile l’articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 il ricorso a tale disposizione resta, comunque, limitato e subordinato alla non concessione della posizione organizzativa al personale in possesso della qualifica apicale dell’ente, al fine del conseguimento di un effettivo risparmio di spesa.
La necessaria preliminare approvazione da parte della Giunta
Come già anticipato nelle note che precedono, l’esercizio di eventuali poteri gestionali da parte del Sindaco (o degli assessori) non può basarsi né sulla prerogativa sindacale di potere sindacale di affidare con proprio decreto le funzioni e la responsabilità dei servizi prevista dall’articolo 50, comma 10, TUEL, ma richiede necessariamente che sia preceduto da una apposita deliberazione di Giunta avente valenza ed efficacia regolamentare.
Infatti, la previsione della precitata disposizione dell’articolo 50, comma 10, TUEL, per il suo stesso tenore e per il contesto in cui è contenuta, non regola il potere di cui all’articolo 53 della legge n. 388/2000, ma riguarda semplicemente il potere di nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi.
Stante la deroga ad un principio generale, allora, occorre che la modifica organizzativa interna all’ente –assegnando agli organi politici anche l’esercizio di poteri gestionali– sia espressa e inequivoca.
La sentenza del TAR Liguria, n. 83/2022
Di questi principi ha fatto applicazione, infatti, il TAR Liguria, sez. II, nella recente
sentenza 03.02.2022 n. 83, che ha accolto il ricorso di un cittadino avverso una ordinanza sindacale adottata ai sensi dell’articolo 27 del D.P.R. n. 380/2001, che attribuisce ai dirigenti la vigilanza in materia edilizia e urbanistica, che aveva ingiunto ex articolo 31 D.P.R. n. 380/2001 “di provvedere entro il termine di 90 giorni dalla data di notifica della presente ordinanza a ripristinare lo stato dei luoghi originario mediante rimozione di tutti i materiali abbancati in assenza di alcun titolo edilizio …”.
Il TAR Liguria, infatti, non avendo rilevato il rigoroso rispetto della preventiva regolazione derogatoria dell’assetto organizzativo interno da parte della giunta comunale ha ritenuto, in via derivata, l’illegittimità dell’ordinanza emessa dal Sindaco.
In particolare, nella citata sentenza i giudici hanno ritenuto illegittima, in quanto viziata da incompetenza, l’ordinanza sindacale impugnata che aveva disposto l’immediata rimozione di alcuni materiali abbancati, idonei a configurare la realizzazione di deposito di materiale, rientrante, ex art. 3, comma 1, lett. e.7), D.P.R. n. 380/2001 nella definizione di “interventi di nuova costruzione”, che necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ex articolo 10, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001.
Ciò in quanto, come detto, il Sindaco si era autonomamente attribuito il potere di natura gestionale ai sensi dell’articolo 107 del TUEL, senza una preventiva, necessaria, disposizione regolamentare o, quantomeno, di una apposita deliberazione di Giunta in tal senso.
Ulteriori orientamenti
Infine, meritano di essere segnalati alcuni orientamenti che limitano, comunque, l’applicazione della disposizione derogatoria in determinati casi come quelli dell’attività di responsabile finanziario e di RUP per gli appalti pubblici.
Infatti, da un lato, la Corte dei conti sez. controllo Lombardia (si veda la
deliberazione n. 219/2015) ha ritenuto che non appare conforme all'ordinamento vigente che il Sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle responsabilità connaturate alla carica elettiva, anche quelle di responsabile del servizio finanziario dell'ente; dall’altro, l’ANAC nelle proprie FAQ ha ritenuto che, in caso di carenza in organico di figure idonee a ricoprire l’incarico di RUP, la stazione appaltante deve verificare, in via prioritaria, la possibilità di attribuire l’incarico ad un qualsiasi dirigente o dipendente amministrativo in possesso dei requisiti o, in mancanza, ad una struttura di supporto interna formata da dipendenti che, anche per sommatoria, raggiungano i requisiti minimi richiesti dalle Linee guida n. 3/2016 o, ancora, di svolgere la funzione in forma associata con altri Comuni, senza incorrere in maggiori oneri.

COMPETENZE GESTIONALIL’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, e s.m.i., secondo cui
   - “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs 18.08.2000,n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”
non è immediatamente precettivo, richiedendo che gli enti locali ne recepiscano il contenuto nell’ambito di “disposizioni regolamentari organizzative”.
---------------
In caso di contrasto tra lo "Statuto comunale" ed il
"Regolamento degli Uffici e dei Servizi" va rammentato che
   (i) nella gerarchia delle norme emanate a livello comunale, sono collocate al livello più elevato, e come tali sono vincolanti, quelle contenute nello statuto del comune, e che
   (ii) l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 non impedisce ai comuni di recepirne il contenuto introducendo più stringenti limitazioni alla possibilità di conferire funzioni tecnico-gestorie all’organo politico, ragione per cui non si può dubitare della legittimità dell’art. 43 dello Statuto del Comune laddove esso, discostandosi dall’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, stabilisce che solo nel caso di assoluta mancanza, preventivamente accertata, all’interno della compagine organizzativa comunale, di figure professionali idonee ad assolvere una specifica funzione gestionale, è possibile il conferimento di funzioni dirigenziali e/o di gestione all’organo esecutivo.

---------------

17. Con il secondo motivo d’appello il Comune di Senerchia ha contestato il capo della sentenza che ha ritenuto gli atti impugnati inficiati da vizio di incompetenza, stante l’avvenuta, e non adeguatamente giustificata, avocazione, da parte dell’organo politico dell’Ente, dell’esercizio di poteri gestionali, tipicamente assegnati alla competenza amministrativa dirigenziale.
17.1. Ha osservato il TAR, riassuntivamente, che il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa ha carattere generale, trova il suo fondamento nell'art. 97 Cost., e, costituendo declinazione del più generale principio di imparzialità, tollera solo deroghe legalmente tipizzate.
Una di queste è contemplata nell’art. 43 dello statuto del Comune di Senerchia (secondo cui “in caso di mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti Responsabili di Uffici e Servizi, nelle ipotesi e con i limiti previsti dall’
art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 (Finanziaria 2001), con provvedimento motivato del Sindaco possono essere attribuiti ai componenti della Giunta la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnico-gestionale”), che però, secondo il primo giudice, consentirebbe di conferire i poteri tecnico-gestionali all’organo politico “solo nel caso di assoluta mancanza, preventivamente accertata, all’interno della compagine organizzativa comunale, di figure professionali idonee ad assolvere una specifica funzione gestionale giustifica, in via eccezionale, la deroga alla regola ordinaria della separazione dei poteri.”.
Nel caso di specie il conferimento di funzioni al Sindaco, disposto con la delibera di Giunta comunale datata 11.01.2017, è avvenuto sul presupposto che il Responsabile dell’Area Tecnica aveva chiesto e ottenuto la trasformazione del suo rapporto di lavoro in part-time, circostanza questa che non giustificava l’avocazione delle funzioni in favore del Sindaco.
17.2. L’appellante ha contestato tali statuizioni allegando che
   (i) l’avocazione, al Sindaco, delle funzioni gestorie era stata decisa solo dopo la trasformazione del rapporto di lavoro del funzionario responsabile, la quale aveva determinato una situazione di carenza irrimediabile nell’ufficio; e che
   (ii) l’operazione nel complesso aveva portato all’Ente un risparmio di spesa di circa 15.000,00 euro annue, circostanza questa che di per sé giustificava l’avocazione delle funzioni in capo all’organo politico, tenuto conto del fatto che l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, come modificato dalla L. 448/2001 (“Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000,n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993,n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”) dal 28.12.2001 non richiede più -ai fini dell’intestazione in capo all’organo politico di funzioni gestorie- il riscontro della mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti; sicché le esigenze di contenimento della spesa sarebbero ormai diventate, secondo il Comune appellante, l’unico elemento necessario a giustificare l’attribuzione in capo ai componenti dell’organo esecutivo della responsabilità di uffici e servizi e del potere di adottare atti anche di natura tecnica e gestionale.
17.3. Il Collegio non ritiene tali considerazioni sufficienti a superare gli argomenti del primo giudice.
17.4. L’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, e s.m.i., non è immediatamente precettivo, richiedendo che gli enti locali ne recepiscano il contenuto nell’ambito di “disposizioni regolamentari organizzative” interne, cosa che il Comune di Senerchia ha fatto con l’art. 43 dello Statuto (sopra riportato) e con l’art. 19, comma 5-bis, del vigente Regolamento degli Uffici e dei Servizi del Comune (introdotto con delibera di G.C. n. 83 del 28.12.2016), il quale prevede che “l’incarico di Responsabile di Area e/o Settore può essere, altresì, conferito dall’art. 53, comma 23, della legge 388/2000 (finanziaria 2001), come successivamente modificata dalla legge n. 448/2000 (finanziaria 2002). L’attribuzione ai Sindaco della responsabilità di Area e/o Settore avviene previa apposita deliberazione di Giunta Comunale”.
17.5. E’ vero che l’art. 19 del Regolamento, da ultimo citato, contrasta con l’art. 43 dello Statuto, nella misura in cui solo quest’ultimo condiziona alla “mancanza non rimediabile” di figure professionali idonee, nell’organico dell’ente, l’attribuzione all’organo politico della responsabilità di uffici e di funzioni di gestione. Tuttavia va rammentato che
   (i) nella gerarchia delle norme emanate a livello comunale, sono collocate al livello più elevato, e come tali sono vincolanti, quelle contenute nello statuto del comune, e che
   (ii) l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 non impedisce ai comuni di recepirne il contenuto introducendo più stringenti limitazioni alla possibilità di conferire funzioni tecnico-gestorie all’organo politico, ragione per cui non si può dubitare della legittimità dell’art. 43 dello Statuto del Comune laddove esso, discostandosi dall’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, stabilisce che solo nel caso di assoluta mancanza, preventivamente accertata, all’interno della compagine organizzativa comunale, di figure professionali idonee ad assolvere una specifica funzione gestionale, è possibile il conferimento di funzioni dirigenziali e/o di gestione all’organo esecutivo.
17.6. Nell’ambito del Comune di Senerchia, dunque, l’avocazione al Sindaco di funzioni gestorie deve avvenire nel rispetto dell’art. 43 dello Statuto.
17.7. Tale condizione, però, non è stata rispettata.
Infatti, all’epoca in cui, con delibera di Giunta Comunale dell’11.01.2017, sono state conferite al Sindaco le funzioni di responsabile del settore tecnico-manutentivo, il precedente Responsabile era ancora dipendente del Comune, e il fatto che vi lavorasse a tempo parziale nulla cambiava, ai fini di che trattasi, poiché ne era comunque garantita la presenza in ufficio per un tempo e con una continuità sufficiente ad attendere alle pratiche: il tempo parziale, al limite, poteva ingenerare un rallentamento nella trattazione delle pratiche –e naturalmente di tale aspetto il Comune avrebbe potuto e dovuto tenere conto prima di decidere se accordare al dipendente il part-time- ma non si può certo affermare che il Comune fosse totalmente impossibilitato a garantire l’esercizio delle funzioni attinenti all’Ufficio Tecnico con personale dell’Ente.
18. Le considerazioni che precedono sono da sole sufficienti a confermare l’illegittimità degli atti impugnati in quanto adottati dal Sindaco, che non avrebbe potuto assumere la responsabilità del settore tecnico-manutentivo, e di quelli viziati per illegittimità derivata dall’illegittimità degli atti adottati dal Sindaco.
19. L’impugnata sentenza va, pertanto confermata, con assorbimento delle ulteriori censure (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.03.2022 n. 1860 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIIllegittimi gli atti gestionali adottati dal sindaco senza disposizioni regolamentari organizzative.
Negli enti con popolazione inferiore a 5mila abitanti, l'attribuzione di poteri gestionali ai componenti dell'organo esecutivo richiede la preventiva adozione di «disposizioni regolamentari organizzative". Occorrono dunque deroghe esplicite al principio organizzativo della separazione tra la funzione di indirizzo politico e quella di gestione, senza le quali gli atti di natura gestionale adottati sono illegittimi.

La sentenza 03.02.2022 n. 83 del TAR Liguria, Sez. II, può essere di aiuto al fine della corretta impostazione degli atti nei piccoli enti che spesso suppliscono l'assenza di un responsabile del servizio affidando il ruolo mancante al sindaco o agli assessori.
Nel caso specifico la controparte, di fronte ad un atto in materia edilizia, ha eccepito l'incompetenza del provvedimento adottato dal sindaco.
L'articolo 107, comma 2, del Dlgs 267/2000 attribuisce alla competenza dei dirigenti «tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'Ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale». In materia edilizia, poi, l'articolo 27 del Dpr 380/2001 assegna ai dirigenti la vigilanza in materia edilizia e urbanistica.
Non risolve il richiamo della norma contenuta nell'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 secondo cui «Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio».
Con la sentenza 31.03.2021 n. 284, il Tar Liguria aveva già osservato che quest'ultima disposizione fa eccezione a un principio generale e, pertanto, in conformità al canone interpretativo restrittivo di cui all'articolo 14 delle disposizioni preliminari del codice civile, è necessario che le relative norme organizzative rivestano la forma "regolamentare", ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale (articolo 42 del Tuel) o della giunta (articolo 48, comma 3, del Tuel, relativamente al regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi).
Nel caso giudicato, il decreto con cui il Sindaco si è attribuito il potere non è stato preceduto da un'apposita deliberazione di giunta, né trova il suo presupposto legittimante in una disposizione regolamentare. Nella fattispecie, di cui all'articolo 53 della legge 388/2000, tale riferimento avrebbe dovuto essere espresso e inequivoco, operando una deroga al fondamentale principio organizzativo della separazione tra la funzione di indirizzo politico e quella di gestione. La mancanza del suddetto richiamo comporta, dunque, l'illegittimità del decreto adottato dal sindaco.
Infine, ricordiamo l'obbligo di deliberare ogni anno il risparmio di spesa, in sede di approvazione del bilancio di previsione, come di recente dalla Corte dei conti per l'Emilia Romagna (NT+ Enti locali & edilizia del 1° febbraio) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 14.02.2022).

COMPETENZE GESTIONALI: I presupposti per il corretto conferimento ai componenti dell'organo politico di funzioni gestionali nei piccoli comuni.
Negli enti con popolazione inferiore a 5.000 abitanti l’attribuzione di poteri gestionali ai componenti dell’organo esecutivo richiede la preventiva adozione di “disposizioni regolamentari organizzative” che autorizzano la deroga al principio di distinzione delle funzioni tra organi tecnici e organi politici.
In assenza di previsioni regolamentari che, in modo espresso e inequivoco, operano una deroga al fondamentale principio organizzativo della separazione tra la funzione di indirizzo politico e quella di gestione, sono illegittimi gli atti di natura gestionale adottati dal sindaco.
---------------

Il sig. Ro.Al. ha impugnato gli atti in epigrafe ed in particolare l’ordinanza 16.07.2020 n. 15 con cui il Sindaco ha ingiunto ex art. 31 D.P.R. 380/2001 "di provvedere entro il termine di 90 giorni dalla data di notifica della presente ordinanza a ripristinare lo stato dei luoghi originario mediante rimozione di tutti i materiali abbancati in assenza di alcun titolo edilizio" perché "i suddetti abbancamenti si configurano come una realizzazione di deposito di materiale e rientrano, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.7), D.P.R. 380/2001 nella definizione di "interventi di nuova costruzione", che necessitano del preventivo rilascio dell'idoneo titolo edilizio, permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. a), D.P.R. 380/2001".
Il ricorrente ha esposto nella narrativa in fatto di essere titolare di una discarica in località Calcinara di Uscio e di avere collocato del materiale inerte nel piazzale della stessa al fine di provvedere alla successiva chiusura della stessa discarica.
L’amministrazione comunale ha, invece, ravvisato nel comportamento del ricorrente una ipotesi di abuso edilizio con conseguente adozione dell’ordinanza impugnata.
L’amministrazione ha, altresì, respinto l’istanza di autotutela medio tempore presentata dal ricorrente.
Anche tale ultimo provvedimento è stato impugnato.
Il ricorso è stato affidato ai seguenti motivi:
   1) Violazione dell'art. 27 D.P.R. 380/2001. Violazione degli artt. 48 e 107 D.Lgs. 267/2000. Violazione dell'art. 53, comma 23, L. 388/2000. Violazione dell'art. 42 dello Statuto del Comune di Uscio. Incompetenza;
   2) Violazione degli artt. 3, 6 e 31 D.P.R. 380/2001. Eccesso di potere per difetto di presupposto, travisamento, difetto di istruttoria e di motivazione.

Si è costituita in giudizio l’amministrazione intimata.
Con successivo atto il ricorrente ha dedotto i seguenti motivi aggiunti:
   1) Violazione dell'art. 27 D.P.R. 380/2001. Violazione degli artt. 48 e 107 D.Lgs. 267/2000. Violazione dell'art. 53, comma 23, L. 388/2000. Violazione dell'art. 42 dello Statuto del Comune di Uscio. Incompetenza.
   2) Violazione dell’art. 6-bis L. 241/1990. Violazione dell’art. 7 D.P.R. 62/2013. Violazione dell'art. 27 D.P.R. 380/2001. Violazione degli artt. 48 e 107 D.Lgs. 267/2000. Violazione dell'art. 53, comma 23, L. 388/2000. Violazione dell'art. 42 dello Statuto del Comune di Uscio. Incompetenza;
   3) Violazione dell’art. 6-bis L. 241/1990. Violazione dell’art. 7 D.P.R. 62/2013. Violazione dell'art. 27 D.P.R. 380/2001. Violazione degli artt. 48 e 107 D.Lgs. 267/2000. Violazione dell'art. 53, comma 23, L. 388/2000. Violazione dell'art. 42 dello Statuto del Comune di Uscio. Incompetenza.

...
Il ricorso è fondato avuto riguardo al vizio di incompetenza dedotto con il primo motivo è successivamente sviluppato nei motivi aggiunti.
Risulta, infatti, che il provvedimento impugnato sia stato adottato dal Sindaco.
Orbene sono concordi sia l’art. 107, comma 2, D.Lgs. 267/2000 che attribuisce alla competenza dei dirigenti "tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'Ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale", sia l’art. 27 D.P.R. 380/2001 che attribuisce ai dirigenti la vigilanza in materia edilizia e urbanistica.
Né può soccorrere, per sostenere la competenza sindacale, la previsione di cui all’art. 53, comma 23, L. 388/2000 secondo cui "Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio".
A tal riguardo è stato precisato che “Si tratta di una disposizione che fa eccezione ad un principio generale, sicché, in conformità al canone interpretativo restrittivo di cui all’art. 14 disp. prel. cod. civ., è necessario che le relative disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale (art. 42 T.U.E.L.) o della giunta (articolo 48, comma 3, T.U.E.L., relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi)” (TAR Liguria I, sentenza 31.03.2021 n. 284).
Nella specie il decreto con cui il Sindaco si è attribuito il potere non è stato preceduto da una apposita deliberazione di Giunta né trova il suo presupposto legittimante in una disposizione regolamentare.
A tal riguardo non deve trarre in inganno la previsione di cui all’art. 14 del regolamento degli uffici del Comune di Uscio, approvato con deliberazione della Giunta 12.01.2005 n. 1 secondo cui “spetta comunque al sindaco affidare con proprio decreto le funzioni e la responsabilità dei servizi”.
Tale norma, infatti, per il suo stesso tenore e per il contesto in cui è contenuta non regola il potere di cui all’art. 53 l. 388/2000, ma riguarda semplicemente il potere di nomina dei responsabili degli Uffici e dei servizi ai sensi dell’art. 50, comma 10, tuel.
Deve, infatti, rilevarsi come, ove la disposizione avesse inteso riferirsi anche alla fattispecie di cui all’art. 53 l. 388/2000, tale riferimento avrebbe dovuto essere espresso e inequivoco, operando una deroga al fondamentale principio organizzativo della separazione tra la funzione di indirizzo politico e quella di gestione. Nella specie, invece, tale inequivoco riferimento è del tutto assente.
Consegue a quanto evidenziato l’illegittimità del decreto 21.03.2019 n. 4 e della ordinanza impugnata in principalità (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 03.02.2022 n. 83 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALISindaco responsabile finanziario, la Corte dei conti «ricorda» l'obbligo di deliberare nel preventivo il risparmio di spesa.
L'ente, in cui il sindaco assume la funzione di responsabile del servizio finanziario, deve disporre di un regolamento che preveda l'attribuzione e, ogni anno in sede di deliberazione del bilancio, documentare con apposito atto l'effettivo contenimento della spesa.

A richiamare sulle regole in cui la mancanza di figure professionali nei Comuni porta il sindaco ad assumere il doppio ruolo è la Corte dei conti per l'Emilia Romagna (deliberazione 24.12.2021 n. 272).
I giudici contabili osservano che, alla luce del principio di separazione dell'azione amministrativa dalla gestione dell'indirizzo politico dell'ente locale, la coesistenza di tale duplice ruolo in capo alla medesima persona (il sindaco) non è conforme all'ordinamento vigente. Ciò in quanto il principio di organizzazione della pubblica amministrazione, introdotto dal Dlgs 29/1993, poi trasfuso nel Dlgs 165/2001 e richiamato dalla legge 15/2009, individua come responsabile dell'azione amministrativa l'organo al vertice della struttura burocratica. Anche dagli articoli 50 e 107 del Dlgs 267/2000 si evince in modo inequivoco che, anche a livello locale, vige la netta distinzione fra atti di indirizzo politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed atti di gestione (spettanti agli organi burocratici).
Nel nostro ordinamento, una deroga a tale principio è consentita, in ragione delle ridotte dimensioni demografiche del Comune, dall'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000.
Secondo tale disposizione, gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, ove le relative funzioni non siano state affidate al segretario comunale in base all'articolo 97, comma 4, lett. d), del Tuel, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici, dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Ogni anno, con apposta deliberazione in sede di approvazione del bilancio di previsione, deve poi essere documentato il contenimento della spesa.
A ciò si aggiunge tuttavia, concludono i giudici contabili, che la carenza di una figura professionale con le necessarie competenze tecniche può creare grave pregiudizio alla corretta ed efficiente gestione contabile dell'ente (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.02.2022).

COMPETENZE GESTIONALIFunzioni gestionali assunte dagli organi politici nei piccoli Comuni.
La deliberazione 24.12.2021 n. 272 della Corte dei conti, sezione regionale Emilia Romagna, contiene una precisa analisi delle criticità dell'attribuzione al sindaco delle funzioni gestionali, nei piccoli Comuni, ai sensi dell'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000.
Oltre all'eccezionalità derogatoria di questa scelta gestionale, rispetto al principio fondamentale di separazione del ruolo di indirizzo e controllo da quello amministrativo e gestionale, è evidenziata la non conformità all'ordinamento di questa scelta quando essa non sia espressamente prevista da disposizioni regolamentari organizzative e non sia stato documentato, ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio, il conseguente effettivo contenimento della spesa.
I magistrati contabili rammentano che le amministrazioni sono tenute a ricercare altre soluzioni organizzative, interne, esterne, associative o collaborative con altri enti, a non reiterare nel tempo la suddetta opzione (legittimabile solo se temporanea e contingente) oltre a rimarcare che la carenza di una figura professionale con le necessarie competenze tecniche (nella fattispecie esaminata, il sindaco era incaricato delle funzioni di responsabile del servizio finanziario) può creare grave pregiudizio alla corretta ed efficiente gestione (contabile, nel caso) dell'ente (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.01.2022).
---------------
DELIBERAZIONE
3.1. Commistione tra i ruoli istituzionali di sindaco e di responsabile del servizio finanziario (cfr. Corte conti, Sez. reg. contr. Emilia Romagna, deliberazione 18.09.2020 n. 80).
3.1.1. Dall’istruttoria è emerso che la funzione di responsabile del servizio finanziario, dall’ottobre 2019, è in capo al Sindaco.
Tale situazione si è protratta nel tempo, stante la carenza nell’organico di un responsabile del servizio di ragioneria e l’asserita difficoltà nel reperire personale qualificato per tale ruolo.
Peraltro,
la scelta del Comune di far assumere dal Sindaco le funzioni del responsabile del servizio finanziario non è conforme al regolamento sull’ordinamento generale degli uffici e dei servizi adottato con delibera della Giunta comunale n. 20 del 21.05.2018, fornito dal Comune in sede istruttoria in quanto non disponibile sul sito istituzionale dell’Ente, che, all’art. 35, prescrive che il responsabile di Area, in qualsiasi caso di assenza e/o impedimento, può essere sostituito da altro responsabile di Area purché in possesso dei requisiti professionali necessari, nominato ad interim dal Sindaco il quale, in caso di necessità, potrà avvalersi anche del segretario ovvero di un responsabile di altro ente (in quest’ultimo caso attivando appositi istituti quali “comando”, “servizio/utilizzo in convenzione”, ecc.).
3.1.2. Al riguardo, pur prendendo atto della peculiarità del caso in esame, così come rappresentata dal Comune, in ragione della ridotta struttura amministrativa dell’Ente, il Collegio deve rilevare che,
alla luce del principio di separazione dell’azione amministrativa dalla gestione dell’indirizzo politico dell’ente locale, la coesistenza di tale duplice ruolo in capo alla medesima persona (il Sindaco, nel caso di specie) non è conforme all’ordinamento vigente in quanto il principio di organizzazione della pubblica amministrazione, introdotto dal d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nel d.lgs. n. 165/2001 e richiamato dalla legge n. 15/2009, individua quale responsabile dell’azione amministrativa l’organo al vertice della struttura burocratica.
Anche dagli artt. 50 e 107 del d.lgs. n. 267/2000 si evince in modo inequivoco che,
anche a livello locale, vige la netta distinzione fra atti di indirizzo politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed atti di gestione (spettanti agli organi burocratici).
3.1.3.
Una deroga a tale principio, consentita in ragione delle ridotte dimensioni demografiche del Comune, dall’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388, è applicabile solo ai casi e nei modi espressamente regolati (cfr. Sezione regionale di controllo Lombardia, parere 10.12.2012 n. 513; Sezione regionale di controllo Molise, parere 01.12.2016 n. 167 e Sezione regionale di controllo Lazio, parere 16.03.2018 n. 5), trattandosi di fattispecie derogatoria e, come tale, da interpretare restrittivamente.
Ne consegue che
non appare conforme all’ordinamento vigente che il sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle responsabilità connaturate alla carica elettiva ricoperta, anche quelle di responsabile del servizio finanziario dell’ente, senza che tale attribuzione sia stata espressamente prevista da disposizioni regolamentari organizzative e che ne sia stato documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio, il conseguente, effettivo contenimento della spesa, così come prevede la citata disposizione di cui all’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000.
3.1.4. A tale rilievo si aggiunge l’ulteriore considerazione, non meno pertinente, che
la carenza di una figura professionale con le necessarie competenze tecniche può creare grave pregiudizio alla corretta ed efficiente gestione contabile dell’ente.

COMPETENZE GESTIONALI: Alla luce del principio di separazione dell’azione amministrativa dalla gestione dell’indirizzo politico dell’ente locale, la coesistenza del duplice ruolo di sindaco e di responsabile del servizio finanziario in capo alla medesima persona (il Sindaco, nel caso di specie) non è conforme all’ordinamento vigente in quanto il principio di organizzazione della pubblica amministrazione, introdotto dal d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nel d.lgs. n. 165/2001 e richiamato dalla legge n. 15/2009, individua quale responsabile dell’azione amministrativa l’organo al vertice della struttura burocratica.
Anche dagli artt. 50 e 107 del d.lgs. n. 267/2000 si evince in modo inequivoco che, anche a livello locale, vige la netta distinzione fra atti di indirizzo politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed atti di gestione (spettanti agli organi burocratici).
Una deroga a tale principio, consentita in ragione delle ridotte dimensioni demografiche del Comune, dall’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388, è applicabile solo ai casi e nei modi espressamente regolati (cfr. Sezione regionale di controllo Lombardia, parere 10.12.2012 n. 513; Sezione regionale di controllo Molise, parere 01.12.2016 n. 167 e Sezione regionale di controllo Lazio, parere 16.03.2018 n. 5
), trattandosi di fattispecie derogatoria e, come tale, da interpretare restrittivamente.
Ne consegue che non appare conforme all’ordinamento vigente che il sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle responsabilità connaturate alla carica elettiva ricoperta, anche quelle di responsabile del servizio finanziario dell’ente, senza che tale attribuzione sia stata espressamente prevista da disposizioni regolamentari organizzative e che ne sia stato documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio, il conseguente, effettivo contenimento della spesa, così come prevede la citata disposizione di cui all’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000.
---------------

3.1. Commistione tra i ruoli istituzionali di sindaco e di responsabile del servizio finanziario (cfr. Corte conti, Sez. reg. contr. Emilia Romagna, deliberazione 18.09.2020 n. 80).
3.1.1. Dall’istruttoria è emerso che la funzione di responsabile del servizio finanziario, dall’ottobre 2019, è in capo al Sindaco. Tale situazione si è protratta nel tempo, stante la carenza nell’organico di un responsabile del servizio di ragioneria e l’asserita difficoltà nel reperire personale qualificato per tale ruolo.
Peraltro, la scelta del Comune di far assumere dal Sindaco le funzioni del responsabile del servizio finanziario non è conforme al regolamento sull’ordinamento generale degli uffici e dei servizi adottato con delibera della Giunta comunale n. 20 del 21.05.2018, fornito dal Comune in sede istruttoria in quanto non disponibile sul sito istituzionale dell’Ente, che, all’art. 35, prescrive che il responsabile di Area, in qualsiasi caso di assenza e/o impedimento, può essere sostituito da altro responsabile di Area purché in possesso dei requisiti professionali necessari, nominato ad interim dal Sindaco il quale, in caso di necessità, potrà avvalersi anche del segretario ovvero di un responsabile di altro ente (in quest’ultimo caso attivando appositi istituti quali “comando”, “servizio/utilizzo in convenzione”, ecc.).
3.1.2. Al riguardo, pur prendendo atto della peculiarità del caso in esame, così come rappresentata dal Comune, in ragione della ridotta struttura amministrativa dell’Ente, il Collegio deve rilevare che, alla luce del principio di separazione dell’azione amministrativa dalla gestione dell’indirizzo politico dell’ente locale, la coesistenza di tale duplice ruolo in capo alla medesima persona (il Sindaco, nel caso di specie) non è conforme all’ordinamento vigente in quanto il principio di organizzazione della pubblica amministrazione, introdotto dal d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nel d.lgs. n. 165/2001 e richiamato dalla legge n. 15/2009, individua quale responsabile dell’azione amministrativa l’organo al vertice della struttura burocratica.
Anche dagli artt. 50 e 107 del d.lgs. n. 267/2000 si evince in modo inequivoco che, anche a livello locale, vige la netta distinzione fra atti di indirizzo politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed atti di gestione (spettanti agli organi burocratici).
3.1.3. Una deroga a tale principio, consentita in ragione delle ridotte dimensioni demografiche del Comune, dall’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388, è applicabile solo ai casi e nei modi espressamente regolati (cfr. Sezione regionale di controllo Lombardia, parere 10.12.2012 n. 513; Sezione regionale di controllo Molise, parere 01.12.2016 n. 167 e Sezione regionale di controllo Lazio, parere 16.03.2018 n. 5), trattandosi di fattispecie derogatoria e, come tale, da interpretare restrittivamente.
Ne consegue che non appare conforme all’ordinamento vigente che il sindaco assuma su di sé, in aggiunta alle responsabilità connaturate alla carica elettiva ricoperta, anche quelle di responsabile del servizio finanziario dell’ente, senza che tale attribuzione sia stata espressamente prevista da disposizioni regolamentari organizzative e che ne sia stato documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio, il conseguente, effettivo contenimento della spesa, così come prevede la citata disposizione di cui all’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000.
3.1.4. A tale rilievo si aggiunge l’ulteriore considerazione, non meno pertinente, che la carenza di una figura professionale con le necessarie competenze tecniche può creare grave pregiudizio alla corretta ed efficiente gestione contabile dell’ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, deliberazione 24.12.2021 n. 272).

COMPETENZE GESTIONALI: E’ centrale, per la risoluzione della controversia, la questione del rapporto tra, da un lato, l’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000; e, dall’altro lato, l’art. 107, comma 3, lett. a), del TUEL (che espressamente attribuisce ai dirigenti dell’ente locale «la presidenza delle commissioni di gara e di concorso») e l’art. 35, comma 3, lett. e), del d.lgs. n. 165 del 2001 (secondo cui i componenti delle commissione esaminatrici non devono far parte dell’organo di direzione politica dell’amministrazione e non devono ricoprire cariche politiche; norma originariamente introdotta dall’art. 8, comma 1, lett. d), del d.lgs. 03.02.1993, n. 29).
Sul punto, questo Consiglio di Stato ha da tempo affermato l’applicabilità della norma al fine di consentire ai comuni «nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione tra politica e amministrazione, di cui al T.U.E.L. (D.Lgs. n. 267/2000)» (Cons. Stato, sez. III, 26.06.2013 n. 3490, riferito alla nomina del Sindaco a presidente di commissione edilizia comunale integrata; in precedenza anche Cons. St., IV, 23.02.2009 n. 1070, per il possibile conferimento al Sindaco dell’incarico di responsabile dell’ufficio tecnico; più di recente, per l’attribuzione al Sindaco della competenza ad emanare le concessioni edilizie, cfr. Cons. St, IV, 20.04.2018 n. 2397).
E’ pur vero che la natura derogatoria o eccezionale della norma in questione impone un’interpretazione restrittiva, ma il fatto che l’enunciato normativo non contempli espressamente la possibilità di derogare anche ai principi in tema di composizione della commissione esaminatrice nei concorsi non impedisce di ricomprendere, nella deroga, anche quest’ultimo caso.
L’art. 53, comma 23, cit., infatti, introduce una deroga espressa alla norma che riserva ai dirigenti comunali la responsabilità degli uffici e dei servizi (l’art. 107 del TUEL). All’interno di questa disposizione è contenuta anche la norma che attribuisce ai dirigenti «la presidenza delle commissioni di gara e di concorso» [comma 3, lett. a)]; funzione il cui svolgimento, nel disegno dell’art. 107 cit., discende direttamente dal conferimento dell’incarico di dirigente dell’ufficio o del servizio.
Pertanto la possibilità di conferire l’incarico dirigenziale (o di responsabile del servizio) anche ai componenti dell'organo esecutivo implica necessariamente l’attribuzione delle funzioni e dei compiti che a quell’incarico sono, per legge, ricollegati.
---------------

1. – Con bando pubblicato il 22.02.2019 il Comune di Siligo indiceva un concorso per l’assunzione a tempo indeterminato e parziale di n. 1 «collaboratore tecnico da assegnare al settore tecnico – servizi manutentivi e gestione piscina». All’esito delle prove d’esame, veniva approvata la graduatoria finale di merito nella quale il sig. Ca.Sa., con un totale di 27,25 punti, era collocato al primo posto e dichiarato vincitore del concorso.
2. - Alla procedura concorsuale partecipava anche il sig. Ma.Gi., che si collocava al sesto posto della graduatoria, e il sig. Sa.Sa., escluso dalla graduatoria finale, non avendo superato la prova scritta.
3. - I due concorrenti impugnavano il bando di concorso, la graduatoria finale e gli altri atti della procedura concorsuale, con ricorso innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, che –con sentenza 09.03.2020, n. 140– lo ha accolto, annullando gli atti della procedura concorsuale «fin dalla nomina della Commissione di concorso».
In particolare, il primo giudice ha accolto la censura di illegittima composizione della commissione esaminatrice (il cui presidente, durante lo svolgimento del concorso, ricopriva anche la carica di Sindaco del Comune di Siligo), per la violazione dell’art. 35, comma 3, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, ritenendo che anche nei comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti (per i quali l’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388, ha introdotto la possibilità di attribuire «ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale») la presidenza della commissione di concorso non possa essere ricoperta da soggetti titolari di organi di direzione politica, dovendo sempre prevalere il principio di distinzione tra organi di indirizzo politico e organi di gestione amministrativa (che, per quanto concerne le procedure di concorso pubblico per l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni, è contemplato nell’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001 cit.).
4. - Il Comune di Siligo ha proposto appello, ritenendo ingiusta la sentenza per la violazione dell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000 cit., sul presupposto che la norma introduca una deroga generale al principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni di gestione, superando anche l’art. 35 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165.
Ripropone, inoltre, l’eccezione di inammissibilità del ricorso in primo grado, per difetto di procura speciale alle liti e conseguente violazione dell’art. 40 del Codice del processo amministrativo, in quanto la procura sarebbe stata conferita su foglio separato privo di qualsivoglia elemento di collegamento al ricorso.
...
7. - L’appello è fondato nel merito. Pertanto, si può prescindere dall’esame dell’eccezione di inammissibilità del ricorso in primo grado, reiterata in appello dal Comune di Siligo.
8. - E’ centrale, per la risoluzione della controversia, la questione del rapporto tra, da un lato, l’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000; e, dall’altro lato, l’art. 107, comma 3, lett. a), del TUEL (che espressamente attribuisce ai dirigenti dell’ente locale «la presidenza delle commissioni di gara e di concorso») e l’art. 35, comma 3, lett. e), del d.lgs. n. 165 del 2001 (secondo cui i componenti delle commissione esaminatrici non devono far parte dell’organo di direzione politica dell’amministrazione e non devono ricoprire cariche politiche; norma originariamente introdotta dall’art. 8, comma 1, lett. d), del d.lgs. 03.02.1993, n. 29).
8.1. - Sul punto, questo Consiglio di Stato ha da tempo affermato l’applicabilità della norma al fine di consentire ai comuni «nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione tra politica e amministrazione, di cui al T.U.E.L. (D.Lgs. n. 267/2000)» (Cons. Stato, sez. III, 26.06.2013, n. 3490, riferito alla nomina del Sindaco a presidente di commissione edilizia comunale integrata; in precedenza anche Cons. St., IV, 23.02.2009, n. 1070, per il possibile conferimento al Sindaco dell’incarico di responsabile dell’ufficio tecnico; più di recente, per l’attribuzione al Sindaco della competenza ad emanare le concessioni edilizie, cfr. Cons. St, IV, 20.04.2018, n. 2397).
8.2. - E’ pur vero che la natura derogatoria o eccezionale della norma in questione impone un’interpretazione restrittiva, ma il fatto che l’enunciato normativo non contempli espressamente la possibilità di derogare anche ai principi in tema di composizione della commissione esaminatrice nei concorsi non impedisce di ricomprendere, nella deroga, anche quest’ultimo caso.
L’art. 53, comma 23, cit., infatti, introduce una deroga espressa alla norma che riserva ai dirigenti comunali la responsabilità degli uffici e dei servizi (l’art. 107 del TUEL). All’interno di questa disposizione è contenuta anche la norma che attribuisce ai dirigenti «la presidenza delle commissioni di gara e di concorso» [comma 3, lett. a)]; funzione il cui svolgimento, nel disegno dell’art. 107 cit., discende direttamente dal conferimento dell’incarico di dirigente dell’ufficio o del servizio.
Pertanto la possibilità di conferire l’incarico dirigenziale (o di responsabile del servizio) anche ai componenti dell'organo esecutivo implica necessariamente l’attribuzione delle funzioni e dei compiti che a quell’incarico sono, per legge, ricollegati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.04.2021 n. 3436 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: E' illegittimo il diniego di permesso di costruire sottoscritto dal Sindaco.
Premesso che il diniego di permesso di costruire è atto gestionale che ricade pacificamente nella competenza dirigenziale ex art. 107, comma 3, lett. f), del T.U.E.L., e che le attribuzioni dei dirigenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative (art. 107, comma 4, T.U.E.L.), assume rilievo l’art. 53, comma 23, L. 23.12.2000, n. 388, a mente del quale “gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale”.
Si tratta di una disposizione che fa eccezione ad un principio generale, sicché, in conformità al canone interpretativo restrittivo di cui all’art. 14 disp. prel. cod. civ., è necessario che le relative disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale (art. 42 T.U.E.L.) o della giunta (art. 48, comma 3, T.U.E.L., relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi).
Nel caso si specie, il sindaco si è invece auto-attribuito la responsabilità del servizio tecnico con un proprio atto, senza la necessaria copertura regolamentare prescritta dalla legge: donde la violazione dell’art. 107 del T.U.E.L.
Violazione cha appare viepiù palese alla luce della circostanza che, proprio in virtù dell’accertata mancanza di personale di qualifica dirigenziale nella dotazione organica del Comune di Riomaggiore, lo statuto comunale prevede la facoltà per il sindaco di attribuire al segretario comunale l’esercizio diretto delle funzioni di direzione degli uffici e servizi comunali (art. 65, comma 1), cioè proprio la facoltà fatta salva dal sopra citato art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388.
---------------

Con il ricorso in epigrafe, notificato il 14.03.2012 e depositato l’08.05.2012, i signori Th.Ma. e Mo.Re.Na., entrambi residenti in Germania, espongono:
   - di essere comproprietari di un terreno con soprastante fabbricato catastalmente classificato come “fabbricato rurale”, siti nel Comune di Riomaggiore, località Manarola, distinti al N.C.T. al foglio 15 rispettivamente al mappale 1418 e al mappale 1419, in forza di atto di compravendita del 09.12.2005;
   - che, in data 19.05.2004, la loro dante causa signora Va.Ro. aveva presentato al Comune di Riomaggiore istanza prot. 3580 al fine di ottenere il titolo edilizio per l'ampliamento e il cambio d'uso del suddetto fabbricato;
   - che la Commissione edilizia comunale integrata, esaminato il progetto, esprimeva parere favorevole;
   - che, con il parere favorevole della Soprintendenza per i beni culturali ed ambientali della Regione Liguria, in data 30.11.2010 il Comune di Riomaggiore rilasciava l'autorizzazione paesistica;
   - che, in considerazione del lungo tempo trascorso dall'avvio della procedura, in data 15.09.2011 notificavano al comune atto di diffida al rilascio del titolo edilizio;
   - che, con nota prot. 10956 del 03.10.2011, l'amministrazione comunale comunicava loro l’apertura di un procedimento amministrativo volto ad accertare la legittimità dell'istanza, preannunciando che, ad un primo esame istruttorio, l'area interessata dal progetto, diversamente da quanto attestato dai certificati di destinazione urbanistica, non sarebbe risultata in zona “AN”, bensì compresa in zona “E” agricola, ove, in base agli artt. 85, 86 e 87 delle norme di attuazione del P.R.G., non sarebbe assentibile l'intervento proposto.
Impugnano il provvedimento 06.12.2011, prot. n. 14392, con cui il Sindaco di Riomaggiore ha respinto l’istanza di permesso di costruire per l’ampliamento ed il cambio d’uso del fabbricato rurale ed ha annullato i certificati di destinazione urbanistica prot. n. 5704 del 28.09.1999 e n. 10303 del 16.11.2005, che certificavano la destinazione urbanistica “AN” dell’immobile.
A sostegno del gravame hanno dedotto quattro motivi di ricorso, come segue.
   1. Violazione e falsa applicazione degli art. 50 e ss. e dell'art. 107 L. 267/2000 (T.U.E.L.), dell'art. 20, comma 6, del D.P.R 380/2001 e dell'art. 6 della L. 241/1990. Incompetenza.
Il rilascio o il diniego dei permessi di costruire rientrerebbe nella competenza funzionale dei dirigenti comunali, e non del sindaco.
...
Ciò posto, il primo motivo è fondato.
Premesso che il diniego di permesso di costruire è atto gestionale che ricade pacificamente nella competenza dirigenziale ex art. 107, comma 3, lett. f), del T.U.E.L., e che le attribuzioni dei dirigenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative (art. 107, comma 4, T.U.E.L.), assume rilievo l’art. 53, comma 23, L. 23.12.2000, n. 388, a mente del quale “gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale”.
Si tratta di una disposizione che fa eccezione ad un principio generale, sicché, in conformità al canone interpretativo restrittivo di cui all’art. 14 disp. prel. cod. civ., è necessario che le relative disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale (art. 42 T.U.E.L.) o della giunta (articolo 48, comma 3, T.U.E.L., relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi).
Nel caso si specie, il sindaco si è invece auto-attribuito la responsabilità del servizio tecnico con un proprio atto (cfr. il decreto 23.06.2011, n. 1 – doc. 2 delle produzioni di parte comunale), senza la necessaria copertura regolamentare prescritta dalla legge: donde la violazione dell’art. 107 del T.U.E.L.
Violazione cha appare viepiù palese alla luce della circostanza che, proprio in virtù dell’accertata mancanza di personale di qualifica dirigenziale nella dotazione organica del Comune di Riomaggiore, lo statuto comunale prevede la facoltà per il sindaco di attribuire al segretario comunale l’esercizio diretto delle funzioni di direzione degli uffici e servizi comunali (art. 65, comma 1), cioè proprio la facoltà fatta salva dal sopra citato art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388.
Il rilievo dell’incompetenza riveste carattere assorbente degli altri motivi (cfr. Cons. di St., Ad. Plen., 27.4.2015, n. 5), attinenti propriamente al merito della vicenda, sulla quale dovrà esprimersi l’organo competente per legge ad esercitare i relativi poteri (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 31.03.2021 n. 284 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: E' illegittimo il diniego di sanatoria gravato, stante l’avvenuta, e non adeguatamente giustificata, avocazione, da parte dell’organo politico dell’Ente (Sindaco), dell’esercizio di poteri gestionali, tipicamente assegnati alla competenza amministrativa dirigenziale.
Nel caso in esame, un atto di esercizio della funzione amministrativa, di espressione, cioè, della scelta discrezionale, comparativa e ponderativa dei contrapposti interessi in gioco, è stato posto in essere da un organo politico, tradizionalmente deputato all’attività di indirizzo degli obiettivi pubblici da perseguire.
E’ anzitutto evidente la vulnerazione della separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa, che, come tale, costituisce un principio di carattere generale, rinveniente il suo fondamento nell'art. 97 Cost. Una netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie costituisce una condizione necessaria per garantire il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell'azione amministrativa.
Al principio di imparzialità sancito dall'art. 97 Cost. si accompagna, come naturale corollario, la separazione tra politica e amministrazione, tra l'azione del governo —che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza— e l'azione dell'Amministrazione, che, nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall'ordinamento.
Senza dubbio, il principio de quo ammette delle deroghe legalmente tipizzate.
Una di queste è contemplata proprio nell’art. 43 dello statuto del Comune che così recita “in caso di mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti Responsabili di Uffici e Servizi, nelle ipotesi e con i limiti previsti dall’art. 53, comma 23, della Legge n. 388/2000 (Finanziaria 2001), con provvedimento motivato del Sindaco possono essere attribuiti ai componenti della Giunta la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnico-gestionale”.
L’interpretazione letterale del dettato de quo consente di ritenere che soltanto l’assoluta mancanza, preventivamente accertata, all’interno della compagine organizzativa comunale, di figure professionali idonee ad assolvere una specifica funzione gestionale giustifica, in via eccezionale, la deroga alla regola ordinaria della separazione dei poteri.
Orbene, nel caso in esame, non si ravvisano i presupposti giustificativi di tale evenienza.
Dalla documentazione versata in atti e, segnatamente, dal contenuto della delibera di Giunta comunale datata 11.01.2017, si desume, a contrario, la presenza del Responsabile dell’Area Tecnica, Ing. Sa., il quale, tra l’altro, in data 14.11.2016 aveva chiesto la trasformazione del suo rapporto di lavoro in part-time.
Del tutto inconferente è l’assunto di parte resistente, la quale asserisce che, soltanto a seguito della predetta richiesta, il Sindaco avrebbe avocato a sé tutte le funzioni del Settore Economico-Finanziario-Tributi e del Settore Tecnico-Manutentivo, unitamente alla circostanza, parimenti addotta dal Comune, dell’impossibilità dell’Ing. Sa. di assolvere i suoi compiti istituzionali a tempo pieno.
Ed invero, le controdeduzioni di parte resistente sono prive di pregio.
La trasformazione di un rapporto di lavoro in part-time non elide la connotazione sostanziale e funzionale della relazione lavorativa instauratasi, bensì incide unicamente sulle modalità di esecuzione della prestazione dedotta nel contenuto negoziale, diversamente articolata nel tempo.
Tanto basta per ascrivere al contratto di lavoro de quo una spiccata configurazione di specialità.
Da tutto quanto premesso, deriva l’illegittimità degli atti gravati per vizio assorbente di incompetenza relativa, in ragione del fatto che l’atto doveva essere posto in essere da altro organo (dirigente) appartenente al medesimo plesso amministrativo.
Ma vi è di più.
Il richiamato art. 53, comma 23, (dall’art. 43 dello statuto comunale) così recita: “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni (ora articolo 4, commi 2, 3 e 4, dlgs n. 165 del 2001), e all’art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
Nella fattispecie, tale contenimento della spesa non è stato accertato con deliberazione del consiglio comunale, ma con una nota postuma del 05.07.2019, a firma dello stesso Sindaco.
Va pertanto applicato il principio secondo cui la deroga legislativa di cui all’art. 53, comma 23, “subordina l’attribuzione di poteri all’adozione preventiva di apposite disposizioni regolamentari organizzative, con successiva documentazione annuale del reale contenimento di spesa. Nella specie, non risulta che il competente organo consiliare abbia adottato le prescritte modifiche regolamentari (né, logicamente, in assenza di determinazioni siffatte, può essere stato valutato l’eventuale contenimento di spesa)”.
---------------

... per l'annullamento,
quanto al ricorso n. 900 del 2019:
   - della determinazione del Responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo, che dispone di acquisire gratuitamente, ai sensi dell'art. 7, commi 3 e 4, della L. 28/02/1985 n. 47, così come modificata dall'art. 31 del D.P.R. 380/2001, al patrimonio dell’Ente l'immobile (piscina) abusivamente realizzato, insistente sulla particella di terreno censita catastalmente al fl. 5 p.lla 258 (ex p.lla 44), unitamente all'area su cui insite lo stesso manufatto, per una superficie catastale pari a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita pari a 13,60m x 7,60 x 10 = 1.033,60 mq; di provvedere alla trascrizione presso i Registri immobiliari dell'acquisizione al patrimonio dell’Ente del predetto bene;
   - dell'ordinanza-ingiunzione n. 8 del 27.05.2019 (prot. n. 1233 del 27.05.2019), di irrogazione della “somma di 20.000 euro (ventimila/00) quale sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 31 del DPR 380/2001 comma 4-bis, per non avere ottemperato alla Disposizione n. 1 del 24/11/2017, in atti al prot. 2991 del 27/11/2017”;
   - di ogni altro atto e/o provvedimento, connesso e consequenziale;
nonché per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali;
...
In data 05.06.2002 il Sig Ma. presentava DIA prot. n. 1689 per la realizzazione di una piscina in acciaio; trattasi di una piccola vasca prefabbricata, completamente interrata, senza opere fuori terra, priva di locali tecnici e/o accessori e di opere impiantistiche, occupante un’area di circa 72 mq. rispetto ai complessivi 2.790 mq. del fondo, ubicata in zona E2-agricola del Piano di Fabbricazione approvato nel 1975 (art. 22 R.E.C.), in zona sottoposta a vincolo idrogeologico non elevato.
In data 30.12.2010, a seguito di atto di donazione del 30.12.2010, il fondo de quo entrava in comproprietà della parte ricorrente.
In data 17.11.2017, il Comune procedeva ad un accertamento di illegittimità della piscina come da verbale prot. n. 2911 e, con disposizione n. 1 del 27.11.2017, prot. n. 2991, ordinava la sua demolizione, contestando la difformità del manufatto rispetto al titolo abilitativo ed in particolare rilevando che “la piscina è stata costruita su di un’area di sedime differente rispetto a quanto indicato nell’elaborato planimetrico allegato alla Denuncia di Inizio attività prot. n. 1689 del 05.06.2002 in totale difformità al titolo edilizio e che l’intervento come realizzato ha determinato una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio con durevole modifica dello stato dei luoghi e che lo stesso, per le sue dimensioni, rientra tra gli interventi di nuova costruzione di cui all’art. 3, c. 1, lett. e)”.
In data 18.06.2018, il ricorrente epigrafato otteneva l’autorizzazione prot. n. 3620 dalla Comunità Montana Terminio Cervialto a sanatoria del mutamento di destinazione d’uso dei terreni sottoposti a vincolo idrogeologico e, con nota del 09.03.2018, prot. n. 690, presentava istanza per il rilascio del permesso in sanatoria, in ragione della diversa localizzazione dell’opera rispetto alla DIA.
Il Comune di Senerchia esitava la richiesta, formalizzando il diniego della stessa, con nota prot. n. 2896 del 14.12.2018, avverso la quale il Sig. Ma. proponeva, dapprima, ricorso straordinario al Capo dello Stato e, successivamente, per effetto della trasposizione in giudizio dello stesso (su esplicito atto di opposizione del Comune di Senerchia, notificato in data 09.09.2020), gravame RG 2019/1661, notificato in data 07.11.2019 e depositato in data 08.11.2019.
Le censure di illegittimità articolate nei motivi di ricorso possono così sintetizzarsi.

   1) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE (ARTT. 2, 3, 41, 42 e 97 COST.; ARTT. 3, 6, 6-BIS, 22, 23, 31, 34, 37 D.P.R. 380/2001; ARTT. 3, 7, 10-bis, 21-nonies L. 241/1990). VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 43 DELLO STATUTO COMUNALE APPROVATO CON DELIBERA DI C.C. n. 25 DELL’11.08.2001 E MODIFICATO CON DELIBERA DI C.C. n. 27 DELL’08.07.2016. VIOLAZIONE DELL’ART. 53, COMMA 23, L. 388/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 48 e 107 D.L.VO 267/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DI LEGALITA’. INCOMPETENZA DEL SINDACO. ECCESSO DI POTERE PER TRAVISAMENTO DEI PRESUPPOSTI DI FATTO E DI DIRITTO. MANIFESTA INGIUSTIZIA. SVIAMENTO DI POTERE. CARENZA DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE.
La parte ricorrente lamenta, principalmente, l’illegittimità degli atti impugnati, per violazione sia dell’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, sia dell’art. 43 dello Statuto Comunale, attesa l’incompetenza del Sindaco del Comune di Senerchia ad esercitare i poteri amministrativi, di tipo sanzionatorio, di cui al Titolo IV del Testo Unico dell’Edilizia.
Si duole, altresì, del vizio motivazionale nonché del vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria, stante l’erronea ed imprecisa, a suo dire, valutazione degli elementi fattuali che vengono in rilievo e, segnatamente, delle caratteristiche strutturali e funzionali dell’opera oggetto di diniego gravato, che, secondo la sua prospettazione, non sarebbe sussumibile tra gli interventi di nuova costruzione, assentibile, perciò solo, con permesso di costruire.
Insiste, poi, sull’illegittimità dell’atto impugnato, anche sotto il profilo del vizio procedimentale ex art. 10-bis, non avendo, a suo dire, il Comune di Senerchia considerato, con adeguata ed esaustiva argomentazione, le controdeduzioni prospettate dal ricorrente nella nota del 17.09.2018.

In data 09.12.2019, si costituiva in giudizio il Comune di Senerchia, depositando documenti e memoria, in cui, articolando eccezioni di inammissibilità ed infondatezza del ricorso, concludeva per il suo rigetto.
Con ricorso per motivi aggiunti, notificato e depositato il 30.06.2020, il ricorrente epigrafato impugnava, unitamente a tutti gli atti connessi e presupposti, la successiva relazione tecnica n. 937 del 20.05.2020, a firma del Responsabile dell’Attività di Tutela Paesaggistica e del Responsabile dell’Area Tecnica Manutentiva del Comune di Senerchia.
I motivi di doglianza sono così articolati:

   1) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE (ART. 97 COST. E ART. 3 L. N. 241/1990), SOTTO IL PROFILO DEL C.D. “DIVIETO DI MOTIVAZIONE POSTUMA” DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI OGNI NORMA E PRINCIPIO IN MATERIA DI DIRITTO DI DIFESA. ECCESSO DI POTERE PER SVIAMENTO. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI OGNI NORMA E PRINCIPIO IN MATERIA DI IMPARZIALITÀ E BUON ANDAMENTO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
La ricorrente sottolinea l’illegittimità dell’atto gravato, per l’introduzione di nuove e postume argomentazioni contenute nella relazione tecnica n. 937 del 20.05.2020, in contrasto, a suo dire, con il divieto di motivazione postuma.

   2) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE (ART. 96 COSTITUZIONE, ARTT. 3, 23, 32, 36 e 138 D.P.R. 380/2001, ART. 44 L.R. CAMPANIA N. 16/2004, ART. 146 D.LVO 490/1999, ART. 142 D.L.VO 42/2004, ART. 4 D.L. 398/1993, COME SOSTITUITO DALL’ART. 2 L. 662/1996. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE. SVIAMENTO DAL FINE. ILLOGICITÀ, IRRAGIONEVOLEZZA.
La parte ricorrente insiste sul vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria, stante, a suo dire, la mancanza del vincolo paesaggistico e la piena legittimità della DIA presentata nel 2002.

   3) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE (ARTT. 2, 3, 41, 42 e 97 COST.; ARTT. 3, 6, 6-BIS, 22, 23, 31, 34, 37 D.P.R. 380/2001; ARTT. 3, 7, 10-bis, 21-nonies L. 241/1990). VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 43 DELLO STATUTO COMUNALE APPROVATO CON DELIBERA DI C.C. n. 25 DELL’11.08.2001 E MODIFICATO CON DELIBERA DI C.C. n. 27 DELL’08.07.2016. VIOLAZIONE DELL’ART. 53, COMMA 23, L. 388/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 48 e 107 D.L.VO 267/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DI LEGALITA’. INCOMPETENZA DEL SINDACO. ECCESSO DI POTERE PER TRAVISAMENTO DEI PRESUPPOSTI DI FATTO E DI DIRITTO. MANIFESTA INGIUSTIZIA. SVIAMENTO DI POTERE. CARENZA DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE.

La ricorrente insiste sull’incompetenza del Sindaco ad emanare gli atti presupposti (Decreto Sindacale n. 15 del 04.01.2017 e della Deliberazione di G.C. n. 4 dell’11.01.2017), che costituiscono l’antecedente logico della relazione gravata, in quanto adottati in manifesta violazione sia dell’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, sia dell’art. 43 del vigente Statuto Comunale.

In data 03.08.2020, si costituiva in giudizio il Comune di Senerchia, depositando memoria e documenti.
Con determina n. 71 del 27.05.2019, il Comune, in conseguenza dell’inottemperanza dell’ordinanza demolitoria n. 1 del 24.11.2017, disponeva l’acquisizione gratuita dell’immobile (la piscina unitamente all’area di sedime su cui insiste) e con ordinanza ingiunzione n. 8 del 27.05.2019, irrogava il pagamento della sanzione pecuniaria di 20.000 euro.
Avverso i suddetti atti, il ricorrente proponeva gravame, notificato in data 13.06.2019 e depositato in data 14.06.2019, formulando i seguenti motivi di legittimità.

   1) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 107 D.L.VO 267/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 43 DELLO STATUTO COMUNALE APPROVATO CON DELIBERA DI C.C. n. 25 DELL’11.08.2001 E MODIFICATO CON DELIBERA DI C.C. n. 27 DELL’08.07.2016. VIOLAZIONE DELL’ART. 53, COMMA 23, L. 388/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 48 e 107 D.L.VO 267/2000. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEI PRINCIPI DI LEGALITA’ E TIPICITA’ DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA. INCOMPETENZA DEL SINDACO. ECCESSO DI POTERE PER MANIFESTA INGIUSTIZIA. LESIONE DEL DIRITTO DI PROPRIETA’. SVIAMENTO DAL FINE. ERRONEA VALUTAZIONE DEI PRESUPPOSTI DI FATTO E DI DIRITTO. ASSENZA DI ISTRUTTORIA. CARENZA DI MOTIVAZIONE. ILLOGICITA’. IRRAGIONEVOLEZZA. GENERICITA’ ED INDETERMINATEZZA DELL’OGGETTO DELL’ATTO ACQUISITIVO.
La parte ricorrente lamenta l’illegittimità degli atti impugnati, per violazione sia dell’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, sia dell’art. 43 dello Statuto Comunale, attesa l’incompetenza del Sindaco del Comune di Senerchia ad esercitare i poteri amministrativi, di tipo sanzionatorio, di cui al Titolo IV del Testo Unico dell’Edilizia.
In riferimento all’illegittimità della determinazione acquisitiva n. 71 del 27.05.2019, si evidenziano i seguenti rilievi:
   1. la precedente ordinanza di demolizione n. 1 del 2017 non sarebbe stata notificata ai destinatari, con conseguenziale preclusione dell’effetto acquisitivo del bene, dell’area di sedime e delle aree ulteriori, presupponendo il medesimo la consapevolezza dell’inadempimento;
   2. la sanzione acquisitiva è stata adottata in carenza di un valido ed efficace ordine demolitorio, atteso che la presentazione dell’istanza di sanatoria avrebbe, a suo dire, l’effetto di rendere l’atto ripristinatorio inefficace, con necessario riesercizio del potere;
   3. l’atto gravato sarebbe affetto dal vizio di carenza motivazionale nonché di difetto di istruttoria, in ordine alla maggiore estensione della piscina indicata in mq 103 in luogo dei 72 mq.

Analoghi profili di illegittimità, richiamati per relationem, vengono mossi in riferimento all’ordinanza ingiunzione 8/2019.
In data 01.07.2019, si costituiva il Comune di Senerchia, in persona del legale rappresentante pro tempore, depositando memoria volta a sconfessare, con una serie di argomentazioni, le prospettazioni di parte ricorrente.
...
Va disposta la riunione dei due gravami, RG 2019/1661 ed RG 2019/900, stante la sussistenza di evidenti ragioni di connessione soggettiva ed oggettiva nonché l’afferenza al medesimo thema decidendum.
Sono delibate le questioni preliminari di rito.
Viene scrutinato il gravame RG 2019/1661.
...
E’ scrutinato il merito.
Il ricorso principale è fondato e merita accoglimento, sulla base del vizio assorbente del difetto di competenza dell’autorità emanante, che dispiega, già di per sé, valenza dirimente della res controversa.
Il ricorrente si duole sostanzialmente dell’illegittimità del diniego di sanatoria gravato, stante l’avvenuta, e non adeguatamente giustificata, avocazione, da parte dell’organo politico dell’Ente, dell’esercizio di poteri gestionali, tipicamente assegnati alla competenza amministrativa dirigenziale.
Nel caso in esame, un atto di esercizio della funzione amministrativa, di espressione, cioè, della scelta discrezionale, comparativa e ponderativa dei contrapposti interessi in gioco, è stato posto in essere da un organo politico, tradizionalmente deputato all’attività di indirizzo degli obiettivi pubblici da perseguire.
E’ anzitutto evidente la vulnerazione della separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa, che, come tale, costituisce un principio di carattere generale, rinveniente il suo fondamento nell'art. 97 Cost. Una netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie costituisce una condizione necessaria per garantire il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell'azione amministrativa.
Al principio di imparzialità sancito dall'art. 97 Cost. si accompagna, come naturale corollario, la separazione tra politica e amministrazione, tra l'azione del governo —che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza— e l'azione dell'Amministrazione, che, nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall'ordinamento (TAR Napoli, Sez. I, 09.01.2020 n. 112).
Senza dubbio, il principio de quo ammette delle deroghe legalmente tipizzate.
Una di queste è contemplata proprio nell’art. 43 dello statuto del Comune di Senerchia, che così recita “in caso di mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti Responsabili di Uffici e Servizi, nelle ipotesi e con i limiti previsti dall’art. 53, comma 23, della Legge n. 388/2000 (Finanziaria 2001), con provvedimento motivato del Sindaco possono essere attribuiti ai componenti della Giunta la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnico-gestionale”.
L’interpretazione letterale del dettato de quo consente di ritenere che soltanto l’assoluta mancanza, preventivamente accertata, all’interno della compagine organizzativa comunale, di figure professionali idonee ad assolvere una specifica funzione gestionale giustifica, in via eccezionale, la deroga alla regola ordinaria della separazione dei poteri.
Orbene, nel caso in esame, non si ravvisano i presupposti giustificativi di tale evenienza.
Dalla documentazione versata in atti e, segnatamente, dal contenuto della delibera di Giunta comunale datata 11.01.2017, si desume, a contrario, la presenza del Responsabile dell’Area Tecnica, Ing. Sa., il quale, tra l’altro, in data 14.11.2016 con nota prot. n. 2483, aveva chiesto la trasformazione del suo rapporto di lavoro in part-time.
Del tutto inconferente è l’assunto di parte resistente, la quale asserisce che, soltanto a seguito della predetta richiesta, il Sindaco avrebbe avocato a sé tutte le funzioni del Settore Economico-Finanziario-Tributi e del Settore Tecnico-Manutentivo, unitamente alla circostanza, parimenti addotta dal Comune, dell’impossibilità dell’Ing. Sa. di assolvere i suoi compiti istituzionali a tempo pieno.
Ed invero, le controdeduzioni di parte resistente sono prive di pregio.
La trasformazione di un rapporto di lavoro in part-time non elide la connotazione sostanziale e funzionale della relazione lavorativa instauratasi, bensì incide unicamente sulle modalità di esecuzione della prestazione dedotta nel contenuto negoziale, diversamente articolata nel tempo.
Tanto basta per ascrivere al contratto di lavoro de quo una spiccata configurazione di specialità.
Da tutto quanto premesso, deriva l’illegittimità degli atti gravati per vizio assorbente di incompetenza relativa, in ragione del fatto che l’atto doveva essere posto in essere da altro organo (dirigente) appartenente al medesimo plesso amministrativo.
Ma vi è di più.
Il richiamato art. 53, comma 23, (dall’art. 43 dello statuto comunale) così recita: “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni (ora articolo 4, commi 2, 3 e 4, decreto legislativo n. 165 del 2001), e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
Nella fattispecie, tale contenimento della spesa non è stato accertato con deliberazione del consiglio comunale, ma con una nota postuma del 05.07.2019, a firma dello stesso Sindaco.
Va pertanto applicato il principio affermato dalla sentenza di annullamento della Sez. I di questo Tribunale 01.03.2019 n. 349, secondo cui la deroga legislativa di cui all’art. 53, comma 23, “subordina l’attribuzione di poteri all’adozione preventiva di apposite disposizioni regolamentari organizzative, con successiva documentazione annuale del reale contenimento di spesa. Nella specie, non risulta che il competente organo consiliare abbia adottato le prescritte modifiche regolamentari (né, logicamente, in assenza di determinazioni siffatte, può essere stato valutato l’eventuale contenimento di spesa)”.
Il ricorso per motivi aggiunti va dichiarato inammissibile, stante la natura di atto endoprocedimentale, di natura istruttoria, tipico della relazione tecnica gravata, come tale insuscettibile di determinare la lesione di una situazione giuridicamente rilevante (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.10.2020 n. 1576 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALINon sussiste l'incompetenza del sindaco a sottoscrivere il permesso di costruire in sanatoria e la certificazione di compatibilità paesaggistico.
Invero, nel caso di specie, il Comune -di circa 1.200 abitanti- si è dotato in data 17.05.2010 di una disposizione di carattere regolamentare in forza della quale è stato previsto, tra l’altro, che “le mansioni inerenti urbanistica, edilizia privata, igiene pubblica, ambiente ed ecologia sono svolte direttamente dal Sindaco che assumerà anche le competenze di Responsabile del Servizio”.
E ciò in conformità all
art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 il quale ha previsto che “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti (…) possono adottare disposizioni regolamentari organizzative (…) attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale (…)”.
---------------

2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente ha lamentato l’incompetenza del sindaco a sottoscrivere il permesso di costruire in sanatoria e la certificazione di compatibilità paesaggistica, trattandosi di atti di competenza del dirigente ovvero, nei comuni sprovvisti di personale di qualifica dirigenziale, del responsabile dell’ufficio o del servizio.
Anche tale censura è infondata.
L’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 ha previsto che “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti (…) possono adottare disposizioni regolamentari organizzative (…) attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale (…)”.
Il Comune di Limone sul Garda, comune di circa 1.200 abitanti, si è dotato in data 17.05.2010 di una disposizione di carattere regolamentare in forza della quale è stato previsto, tra l’altro, che “le mansioni inerenti urbanistica, edilizia privata, igiene pubblica, ambiente ed ecologia sono svolte direttamente dal Sindaco che assumerà anche le competenze di Responsabile del Servizio”.
Alla luce di tali disposizioni, del tutto legittimamente, nel caso di specie, gli atti in questione sono stati sottoscritti dal sig. -OMISSIS- in qualità di Sindaco e di Responsabile del Servizio Urbanistica – Edilizia Privata del Comune di Limone sul Garda, in pieno ossequio ai disposti della norma regolamentare sopra citata, adottata dall’amministrazione comunale nel rispetto dei principi di cui all’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 02.04.2020 n. 262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sussiste l'incompatibilità del Sindaco a ricoprire il ruolo di Presidente della commissione di concorso, anche nei comuni sino a 5.000 abitanti. Segnatamente, per quanto attiene lo specifico ambito concorsuale l’art. 35, comma 3, dlgs 165/2001, risulta speciale (e quindi “prevalente”) rispetto all’art. 53, comma 23, della L. 388/2000.
La soluzione della controversia attiene alla ricostruzione dei rapporti fra principio generale di “separazione delle funzioni politiche da quelle gestionali” e (eventuali) possibili deroghe, con definizione del quadro normativo di riferimento. Con definizione dei rapporti di generalità-specialità ed eventuali deroghe sia nei confronti della prima che a carico della seconda.
Da un lato gli artt. 35, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001 e 9 del D.P.R. n. 487/1994 e, dall’altro, l’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, che, al ricorrere di determinati presupposti, consente di derogare il principio per l’assunzione di “determinati incarichi interni amministrativi”.
L’art. 35, comma 3, lett. “e”, d.lgs. n. 165/2001 (nel quale è stato trasfuso senza rilevanti modifiche il contenuto dell’abrogato art. 8 del d.lgs. n. 29/1993) definisce (con sostanziale identità nella formulazione dell’art. 9 D.P.R. n. 487/1994) il principio della rigorosa “separazione” fra funzioni-cariche politiche e attività amministrative, imponendo, in materia di composizione delle Commissioni di concorso che:
   “Le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti principi: composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, CHE NON SIANO COMPONENTI DELL'ORGANO DI DIREZIONE POLITICA DELL'AMMINISTRAZIONE, CHE NON RICOPRANO CARICHE POLITICHE e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali;”
L’art. 53, comma 23, legge n. 388/2000 consente però che:
   “Gli enti locali con POPOLAZIONE INFERIORE A CINQUEMILA ABITANTI fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, ATTRIBUENDO AI COMPONENTI DELL'ORGANO ESECUTIVO LA RESPONSABILITÀ DEGLI UFFICI E DEI SERVIZI ED IL POTERE DI ADOTTARE ATTI ANCHE DI NATURA TECNICA GESTIONALE. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
L’argomento dell’Amministrazione resistente, secondo cui la norma “speciale”, l’art. 53, comma 23, sarebbe disposizione “in assoluto” derogante il principio di separazione fra funzione di indirizzo politico e di gestione, non è condivisibile.
La ratio dell’art. 35, comma 3, lett. “e”, del d.lgs. n. 165/2001 è evidente, e risiede nell’esigenza di evitare che la delicata funzione di commissario di concorso possa essere esercitata nel perseguimento (anche) di finalità, collegate all’attività politica del commissario, estranee a quelle che presiedono le procedure pubbliche di selezione del personale (individuazione del miglior concorrente o dei migliori fra i concorrenti). In sostanza, l’ordinamento vuole neutralizzare il rischio di una (possibile) strumentalizzazione della carica di commissario in connessione con gli interessi del titolare della carica politica.
La relazione fra le due disposizioni (ritenute dall’Amministrazione in rapporto di prevalenza, per specialità), il Collegio ritiene di dover definire “
a tre livelli” l’intreccio fra le varie disposizioni invocate dalle parti.
L’art. 53, comma 23, della L. 388/2000 si pone in un rapporto di specialità (e prevalenza), per i piccoli Comuni, rispetto alla portata generale del principio contenuto all’art. 35, comma 3, lett. e), 165/2001. Tra le norme in questione sussiste una relazione astratta di genus ad speciem. Con compatibilità di incarichi gestionali ad appartenenti all’organo politico, nei Comuni inferiori di 5.000 abitanti.
Ma la portata di tale relazione non può essere considerata con un ambito oggettivo “assoluto” e generalizzato nelle competenze di riferimento (oggetto di incarico). Le funzioni espletabili debbono essere circoscritte, in questi casi (nomina del politico) in senso stretto e non anche estensibili a funzioni “ulteriori”.
Il rapporto fra disposizioni (norma generale e norma speciale) deve consentire la “riattivazione” degli effetti del divieto in relazione ad eventuali assegnazioni di compiti “ulteriori”, che non fanno parte, in senso stretto, alle competenze direttive del settore-area.
Dal combinato delle disposizioni risulta, dunque, che:
   § i Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti possono, tramite Regolamento, attribuire funzioni di gestione (“la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale”, tipicamente rientranti nella sfera di competenza dei dirigenti) anche a chi ricopra cariche politiche (e, in particolare, ai “componenti dell’organo esecutivo”),
   § ferma restando l’impossibilità per questi ultimi di esercitare l’“ulteriore” specifica funzione gestionale “specifica” di “commissario di concorso”.
Funzione scorporabile dall’ambito delle competenze connesse all’incarico amministrativo. Di responsabilità di un ufficio. Con conseguente “riespansione”, anche rispetto ai Comuni con meno di 5.000 abitanti, in riferimento allo “specifico settore” delle selezioni concorsuali del personale, dell’irrinunciabile principio generale di “separazione” delle funzioni, del quale l’art. 35, comma 3, lett. e) cit.. è espressione (nel particolare campo dei concorsi pubblici). Dunque con “scissione” fra le funzioni generali attribuibili al responsabile dell’Area di riferimento (ammesse) e “specifiche” funzioni di appartenenza a commissioni di concorso (inammissibili).
Per quanto attiene lo specifico ambito concorsuale l’art. 35, comma 3, dlgs 165/2001, risulta speciale (e quindi “prevalente”) rispetto all’art. 53, comma 23, della L. 388/2000.
Il carattere derogatorio al principio di separazione delle funzioni, di cui all’art. 53, comma 23, cit. non implica, di per sé, che detta norma non possa subire, a sua volta, delle eccezioni, con limitazione del suo ambito di applicazione in presenza di altra norma (l’art. 35, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001).
In questo senso depone una lettura delle disposizioni alla luce della ratio della previsione di cui all’art. 35, comma 3, lett. e) cit., ove si consideri che il rischio di strumentalizzazione della funzione di commissario è tanto più alto quanto più sono piccole le dimensioni dell’ente che indice il concorso (dagli atti risulta che il Comune di Siligo nel 2019 contava appena 847 abitanti).
Un rischio che non è meramente potenziale, ma concreto, in quanto il commissario Sa.Ma. ricopre la carica di Sindaco presso lo stesso Comune che ha indetto la procedura contestata.
In considerazione di tali elementi (il basso numero di abitanti del Comune procedente e la titolarità della massima funzione politica all’interno dello stesso ente) non è possibile escludere in astratto un’interferenza fra la carica politica del commissario e la procedura concorsuale.
Unica (e limitata) circostanza di inapplicabilità della causa di incompatibilità fissata all’art. 35, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001 è stata ammessa nel caso di conferimento delle funzioni di commissario ad un soggetto titolare di cariche politiche in Comuni “diversi”.
Aderire ad una diversa soluzione interpretativa significherebbe, in sostanza, ammettere, specificamente per i concorsi, l’esistenza di due diversi regimi normativi in dipendenza del numero di abitanti dell’ente locale, introducendo una diversità di trattamento basata su un elemento privo di reale “efficacia differenziante” idonea a giustificarla.
Il “settore concorsuale” non può essere “attratto” alle <competenze operative del settore conferito>. Per le composizioni degli organi di concorso permane il divieto di commistione, applicabile in tutti i casi, a prescindere dal numero degli abitanti. Un settore delicato, con coinvolgimento di interessi e beni della vita per il quale l’ordinamento non può tollerare deroghe (diversamente dal conferimento di un settore “operativo-gestionale” all’interno del Comune).
In questo caso il Responsabile dell’Area finanziaria, autore del provvedimento, preso atto della <concentrazione>, in capo al sig. Sa.Ma., delle funzioni di “Responsabile dell'Area” cui era destinato il vincitore del concorso (“Servizio tecnico manutentivo”) e di “Sindaco” del Comune di Siligo, avrebbe dovuto astenersi dal nominarlo quale Presidente della Commissione, individuando per tale carica altra idonea figura (Segretario comunale o soggetto esterno all’ente) in applicazione dell’art. 55 del Regolamento comunale di Organizzazione degli Uffici e dei Servizi.
In definitiva, il provvedimento di nomina della Commissione è illegittimo in quanto adottato in violazione dell’art. 35, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001 (e dell’art. 9 D.P.R. n. 487/1994). Permanendo, anche nei Comuni inferiori ai 5.000 abitanti, l’operatività del principio che scolpisce l’incompatibilità di funzioni politico-amministrative di gestione.
---------------

Con bando pubblicato nella Gazzetta ufficiale -4a serie speciale- n. 15 del 22.02.2019 il Comune di Siligo ha indetto un concorso, per soli esami, per l’assunzione a tempo indeterminato e parziale di n. 1 “collaboratore tecnico da assegnare al settore tecnico - servizi manutentivi e gestione piscina”.
I ricorrenti hanno partecipato alla selezione e sono stati ammessi con Determinazione del Responsabile del Servizio Finanziario n. 134 dell’08.04.2019.
In data 16.04.2019, con Determinazione del Responsabile del Servizio Finanziario n. 150, è stata nominata la Commissione esaminatrice, formata da n. 3 componenti nelle persone dei sig.ri:
   * SA.Ma., “RESPONSABILE DEL SERVIZIO TECNICO MANUTENTIVO”, in qualità di PRESIDENTE;
   * Ing. De.Ma., Funzionario di categoria D in servizio presso il Comune di Sorso, in qualità di membro esperto;
   * Ing. Ma.Sa., libero professionista, in qualità di membro esperto.
Il componente-Presidente Sa., al momento della nomina e durante lo svolgimento del concorso, ricopriva anche la carica di “Sindaco” del Comune di Siligo, congiuntamente alla titolarità dell’incarico di “Responsabile del Servizio tecnico manutentivo”. Quest’ultimo ruolo amministrativo era stato assunto con avocazione a sé della responsabilità degli uffici e dei servizi dell’“Area Tecnico-Manutentiva-Vigilanza” tramite decreto sindacale (dallo stesso Sa. redatto) n. 6 del 09.05.2018, con scadenza al 30.04.2019. Il suddetto incarico veniva poi rinnovato con successivo decreto sindacale n. 8 del 29.05.2019, sino alla scadenza del mandato politico di Sindaco.
Espletate le prove scritta e orale (rispettivamente il 14 e il 28.05.2019), la Commissione provvedeva all’elaborazione della graduatoria finale. Successivamente, con Determinazione del Responsabile del Servizio Finanziario n. 239 del 18.06.2019, la graduatoria è stata approvata, unitamente ai verbali delle operazioni selettive.
Al primo posto si collocava il sig. Ca.Sa., con un totale di 27,25 punti, vincitore del concorso. Il ricorrente Ma.Gi. si collocava al sesto posto della graduatoria, con un punteggio totale di 24,50. Il ricorrente Sa.Sa. non è stato ammesso alla prova orale (non avendo egli conseguito, in sede di prova scritta, la votazione minima di 21/30 prevista dall’art. 10 del bando).
A seguito della pubblicazione della graduatoria, alcuni candidati, fra cui gli odierni ricorrenti, presentavano al Comune un’istanza di autotutela (per 3 motivi), principalmente finalizzata ad ottenere l’annullamento da parte dell’Ente della Determinazione n. 150 del 16.04.2019 di “nomina della Commissione di concorso” per illegittima commistione dei ruoli politico-amministrativo.
La predetta istanza veniva riscontrata negativamente dallo stesso Sindaco-Responsabile di Area tecnica, con la nota del 21.06.2019, ove si prospettava la commissione di reato (art. 368 c.p.) da parte degli richiedenti .
Con Determinazione del Responsabile del Servizio Finanziario n. 341 del 03.09.2019 il vincitore del concorso, Ca.Sa., è stato assunto. Il relativo contratto individuale di lavoro veniva sottoscritto il successivo 9 settembre.
Con ricorso depositato il 30.09.2019, i ricorrenti hanno chiesto l’annullamento degli atti indicati in epigrafe, deducendo le seguenti censure:
   1) Violazione dell’art. 8 del d.lgs. n. 29/1993, dell’art. 9 del d.p.r. n. 487/1994, dell’art. 35, comma 3, lett. e), del d.lgs. n. 165/2001, dell’art. 13 del Regolamento concorsi del Comune di Siligo e dell’art. 14 delle Disposizioni preliminari al codice civile
- il sig. Sa.Ma., Presidente della Commissione esaminatrice, non avrebbe potuto essere nominato quale componente dell’organo giudicatore, in quanto Sindaco del Comune di Siligo;
   2) Violazione dell’art. 13 Regolamento concorsi del Comune di Siligo e dell’art. 97 Costituzione
-
gli atti della procedura successivi al 30.04.2019 sarebbero illegittimi in quanto in tale data il sig. Sa.Ma. era cessato dall’incarico di “Responsabile del Servizio tecnico manutentivo” (qualifica che aveva determinato la nomina a Presidente della Commissione secondo il disposto dell’art. 13 del Regolamento concorsi del Comune di Siligo);
   3) Violazione dell’art. 14 d.p.r. n. 487/1994
- la Commissione non avrebbe dato avviso ai concorrenti della possibilità di assistere alle operazioni immediatamente successive alla conclusione della prova scritta previste dalla disposizione (riunione delle buste aventi lo stesso numero in un’unica busta, dopo il distacco della linguetta numerata);
   4) Illegittimità derivata e incompetenza
- la nota del Sindaco, datata 21.06.2019, confermativa dei precedenti atti illegittimi, proviene da un organo (il Sindaco) privo del potere di provvedere in ordine ad un’istanza di autotutela.
...
Nel merito il ricorso è fondato.
   I) Primo motivo - INCOMPATIBILITÀ DEL SINDACO a ricoprire il ruolo di PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE DI CONCORSO.
Con la prima censura i ricorrenti contestano la legittimità del provvedimento di nomina della Commissione esaminatrice (Determinazione n. 150/2019 del Responsabile del Servizio Finanziario del 16.04.2019), censurandolo per violazione di legge, in relazione a diversi parametri normativi.
La contestazione principale (e prodromica) si incentra, in particolare, sulla “composizione” della Commissione di concorso.
L’organo è formato da tre componenti:
   - il “Responsabile del Servizio tecnico manutentivo” (cioè l’Area cui sarebbe stato assegnato il vincitore del concorso), con funzioni di Presidente,
   - e due soggetti competenti nelle materie oggetto della selezione, in qualità di “Membri esperti”.
Ma il “Responsabile del Servizio tecnico manutentivo”, Sa.Ma., rivestiva, al momento della nomina, anche la carica di Sindaco dello stesso Comune di Siligo.
I ricorrenti sostengono che tale circostanza integrerebbe una palese violazione dell’art. 35, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001, che espressamente esclude la possibilità per i “titolari di funzioni politiche” di svolgere anche la funzione di commissario di concorso (analogo contenuto i precedenti art. 8 d.lgs. n. 29/1993 - oggi abrogato, cfr. art. 43 d.lgs. n. 80/1998; e art. 9 D.P.R. n. 487/1994).
I ricorrenti hanno impugnato anche l’art. 13 del “Regolamento dei concorsi del Comune di Siligo” (doc. 4 parte ricorrente), qualora interpretato nel senso dell’ammissibilità del cumulo di funzioni. Sul punto, peraltro, si rileva che il testo normativo comunale citato non risulta quello attualmente vigente, essendo stato superato da nuovo Regolamento del 2014, depositato dal Comune (doc. 1); che disciplina la fattispecie della composizione della Commissione e dell’’incompatibilità dei membri agli artt. 55 e 56.
Al comma 1° dell’art. 55 il vigente Regolamento stabilisce che:
   “1. La commissione esaminatrice è composta, con funzioni di presidente, dal responsabile del area in cui è previsto il posto interessato alla procedura di mobilità, o da un esperto esterno all’ente, o previo decreto del sindaco, dal segretario comunale, e da due esperti (interni o esterni al Comune) nelle materie oggetto della selezione di categoria almeno pari a quella del posto da coprire.”
Ma al comma 4° precisa anche che:
   “Ai sensi dell’art. 36 del D.lgs 165/2001 non possono far parte delle commissioni esaminatrici i componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, coloro che ricoprono cariche politiche o che siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali.”
Il precedente regolamentare comunale testo definiva, all’art. 13, in termini affini, lo stesso principio:
   - “La Commissione giudicatrice, nominata con atto dell’Amministrazione comunale, è, di regola, presieduta dal Responsabile del Settore a cui appartiene il posto messo a concorso; la Giunta comunale può, tuttavia, attribuire , con provvedimento motivato, la funzione di Presidente della Commissione al segretario comunale o a un Dirigente di altro ente territoriale”;
   - Non possono far parte della commissione ai sensi dell’art. 6 del D.lgs. 546/1993 i componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, coloro che ricoprono cariche politiche o che siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali
.”
L’impugnazione del Regolamento viene circoscritta all’ipotesi in cui la disposizione fosse interpretata nel senso di consentire la partecipazione alle Commissioni di concorso dei Responsabili di Area “anche” nel caso in cui titolare di detto Ufficio sia il Sindaco dell’ente.
La difesa dell’Amministrazione sostiene, per contro, la piena legittimità dell’azione del Comune, in quanto sostanzialmente ammessa da altra e “prevalente” disposizione, ostativa all’applicazione nella fattispecie concreta della causa di incompatibilità invocata dai ricorrenti. Il riferimento è all’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, il quale, in relazione ai Comuni con popolazione “inferiore a 5mila abitanti”, consente l’<attribuzione di funzioni gestionali apicali> anche ai titolari di funzioni politiche, segnatamente ai “componenti dell’organo esecutivo” dell’ente locale.
Nella prospettazione di parte resistente tale norma sarebbe in grado di paralizzare l’operatività dell’art. 35, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 9 D.P.R. n. 487/1994 che contemplerebbe una “deroga espressa” al principio di separazione delle funzioni politiche da quelle gestionali; con caratterizzazione di norma speciale e, per l’effetto, prevalente sul divieto normato, in via generale, dai articoli 35 e 9 citati.
Il ricorso è fondato.
La soluzione della controversia attiene alla ricostruzione dei rapporti fra principio generale di “separazione delle funzioni politiche da quelle gestionali” e (eventuali) possibili deroghe, con definizione del quadro normativo di riferimento. Con definizione dei rapporti di generalità-specialità ed eventuali deroghe sia nei confronti della prima che a carico della seconda.
Da un lato gli artt. 35, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001 e 9 del D.P.R. n. 487/1994 e, dall’altro, l’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, che, al ricorrere di determinati presupposti, consente di derogare il principio per l’assunzione di “determinati incarichi interni amministrativi”.
L’art. 35, comma 3, lett. “e”, d.lgs. n. 165/2001 (nel quale è stato trasfuso senza rilevanti modifiche il contenuto dell’abrogato art. 8 del d.lgs. n. 29/1993) definisce (con sostanziale identità nella formulazione dell’art. 9 D.P.R. n. 487/1994) il principio della rigorosa “separazione” fra funzioni-cariche politiche e attività amministrative, imponendo, in materia di composizione delle Commissioni di concorso che:
   “Le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti principi: composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, CHE NON SIANO COMPONENTI DELL'ORGANO DI DIREZIONE POLITICA DELL'AMMINISTRAZIONE, CHE NON RICOPRANO CARICHE POLITICHE e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali;”
L’art. 53, comma 23, legge n. 388/2000 consente però che:
   “Gli enti locali con POPOLAZIONE INFERIORE A CINQUEMILA ABITANTI fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, ATTRIBUENDO AI COMPONENTI DELL'ORGANO ESECUTIVO LA RESPONSABILITÀ DEGLI UFFICI E DEI SERVIZI ED IL POTERE DI ADOTTARE ATTI ANCHE DI NATURA TECNICA GESTIONALE. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
L’argomento dell’Amministrazione resistente, secondo cui la norma “speciale”, l’art. 53, comma 23, sarebbe disposizione “in assoluto” derogante il principio di separazione fra funzione di indirizzo politico e di gestione, non è condivisibile.
La ratio dell’art. 35, comma 3, lett. “e”, del d.lgs. n. 165/2001 è evidente, e risiede nell’esigenza di evitare che la delicata funzione di commissario di concorso possa essere esercitata nel perseguimento (anche) di finalità, collegate all’attività politica del commissario, estranee a quelle che presiedono le procedure pubbliche di selezione del personale (individuazione del miglior concorrente o dei migliori fra i concorrenti). In sostanza, l’ordinamento vuole neutralizzare il rischio di una (possibile) strumentalizzazione della carica di commissario in connessione con gli interessi del titolare della carica politica.
La relazione fra le due disposizioni (ritenute dall’Amministrazione in rapporto di prevalenza, per specialità), il Collegio ritiene di dover definire “a tre livelli” l’intreccio fra le varie disposizioni invocate dalle parti.
L’art. 53, comma 23, della L. 388/2000 si pone in un rapporto di specialità (e prevalenza), per i piccoli Comuni, rispetto alla portata generale del principio contenuto all’art. 35, comma 3, lett. e), 165/2001. Tra le norme in questione sussiste una relazione astratta di genus ad speciem. Con compatibilità di incarichi gestionali ad appartenenti all’organo politico, nei Comuni inferiori di 5.000 abitanti.
Ma la portata di tale relazione non può essere considerata con un ambito oggettivo “assoluto” e generalizzato nelle competenze di riferimento (oggetto di incarico). Le funzioni espletabili debbono essere circoscritte, in questi casi (nomina del politico) in senso stretto e non anche estensibili a funzioni “ulteriori”.
Il rapporto fra disposizioni (norma generale e norma speciale) deve consentire la “riattivazione” degli effetti del divieto in relazione ad eventuali assegnazioni di compiti “ulteriori”, che non fanno parte, in senso stretto, alle competenze direttive del settore-area.
Dal combinato delle disposizioni risulta, dunque, che:
   § i Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti possono, tramite Regolamento, attribuire funzioni di gestione (“la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale”, tipicamente rientranti nella sfera di competenza dei dirigenti) anche a chi ricopra cariche politiche (e, in particolare, ai “componenti dell’organo esecutivo”),
   § ferma restando l’impossibilità per questi ultimi di esercitare l’“ulteriore” specifica funzione gestionale “specifica” di “commissario di concorso”.
Funzione scorporabile dall’ambito delle competenze connesse all’incarico amministrativo. Di responsabilità di un ufficio. Con conseguente “riespansione”, anche rispetto ai Comuni con meno di 5.000 abitanti, in riferimento allo “specifico settore” delle selezioni concorsuali del personale, dell’irrinunciabile principio generale di “separazione” delle funzioni, del quale l’art. 35, comma 3, lett. e) cit.. è espressione (nel particolare campo dei concorsi pubblici). Dunque con “scissione” fra le funzioni generali attribuibili al responsabile dell’Area di riferimento (ammesse) e “specifiche” funzioni di appartenenza a commissioni di concorso (inammissibili).
Per quanto attiene lo specifico ambito concorsuale l’art. 35, comma 3, dlgs 165/2001, risulta speciale (e quindi “prevalente”) rispetto all’art. 53, comma 23, della L. 388/2000.
Il carattere derogatorio al principio di separazione delle funzioni, di cui all’art. 53, comma 23, cit. non implica, di per sé, che detta norma non possa subire, a sua volta, delle eccezioni, con limitazione del suo ambito di applicazione in presenza di altra norma (l’art. 35, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001).
In questo senso depone una lettura delle disposizioni alla luce della ratio della previsione di cui all’art. 35, comma 3, lett. e) cit., ove si consideri che il rischio di strumentalizzazione della funzione di commissario è tanto più alto quanto più sono piccole le dimensioni dell’ente che indice il concorso (dagli atti risulta che il Comune di Siligo nel 2019 contava appena 847 abitanti).
Un rischio che non è meramente potenziale, ma concreto, in quanto il commissario Sa.Ma. ricopre la carica di Sindaco presso lo stesso Comune che ha indetto la procedura contestata.
In considerazione di tali elementi (il basso numero di abitanti del Comune procedente e la titolarità della massima funzione politica all’interno dello stesso ente) non è possibile escludere in astratto un’interferenza fra la carica politica del commissario e la procedura concorsuale.
Unica (e limitata) circostanza di inapplicabilità della causa di incompatibilità fissata all’art. 35, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001 è stata ammessa nel caso di conferimento delle funzioni di commissario ad un soggetto titolare di cariche politiche in Comuni “diversi” (cfr. TAR Piemonte, Sezione II, 25.10.2017, n. 1153; Cons. St. sez. V, n. 2104/2012; ma con articolazione di specifiche motivazioni di irrilevanza del ruolo -in quel caso consigliere comunale di altro Comune-).
Aderire ad una diversa soluzione interpretativa significherebbe, in sostanza, ammettere, specificamente per i concorsi, l’esistenza di due diversi regimi normativi in dipendenza del numero di abitanti dell’ente locale, introducendo una diversità di trattamento basata su un elemento privo di reale “efficacia differenziante” idonea a giustificarla.
Il “settore concorsuale” non può essere “attratto” alle <competenze operative del settore conferito>. Per le composizioni degli organi di concorso permane il divieto di commistione, applicabile in tutti i casi, a prescindere dal numero degli abitanti. Un settore delicato, con coinvolgimento di interessi e beni della vita per il quale l’ordinamento non può tollerare deroghe (diversamente dal conferimento di un settore “operativo-gestionale” all’interno del Comune).
In questo caso il Responsabile dell’Area finanziaria, autore del provvedimento, preso atto della <concentrazione>, in capo al sig. Sa.Ma., delle funzioni di “Responsabile dell'Area” cui era destinato il vincitore del concorso (“Servizio tecnico manutentivo”) e di “Sindaco” del Comune di Siligo, avrebbe dovuto astenersi dal nominarlo quale Presidente della Commissione, individuando per tale carica altra idonea figura (Segretario comunale o soggetto esterno all’ente) in applicazione dell’art. 55 del Regolamento comunale di Organizzazione degli Uffici e dei Servizi approvato con Deliberazione della Giunta comunale n. 34 del 17.06.2014 e successivamente modificato con Deliberazioni G.C. n. 42 del 25.07.2016 e 44 del 29.09.2017 (doc. 1 Comune).
In considerazione della decisione in accoglimento, l’impugnazione (in via prudenziale) dell’art. 13 del (precedente) “Regolamento dei concorsi del Comune di Siligo” (norma peraltro superata da nuovo regolamento comunale del 2014, art. 55, di contenuto affine) risulta non più rilevante.
La disposizione regolamentare va letta in coerenza con le disposizioni normative, e non rappresenta un elemento di contrasto.
Analogamente si può prescindere dall’esame del secondo, terzo e quarto motivo di ricorso (modalità di espletamento dell’attività della Commissione; ed efficacia del rinnovo-proroga dell’incarico di responsabile), in considerazione della fondatezza della prima censura e del suo valore assorbente.
In definitiva, il provvedimento di nomina della Commissione è illegittimo in quanto adottato in violazione dell’art. 35, comma 3, lett. e), d.lgs. n. 165/2001 (e dell’art. 9 D.P.R. n. 487/1994). Permanendo, anche nei Comuni inferiori ai 5.000 abitanti, l’operatività del principio che scolpisce l’incompatibilità di funzioni politico-amministrative di gestione (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 09.03.2020 n. 140 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIE' legittimo il regolamento comunale che prevede la facoltà di assegnare al sindaco e agli assessori la titolarità di uffici e servizi anche senza riferimento ai relativi risparmi di spesa.
Invero, l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 stabilisce che "Gli Enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti (…) possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'art. 107 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
La norma si rivolge ai piccoli Comuni, conferendo ai componenti dell'organo esecutivo compiti solitamente spettanti alla dirigenza, anche senza l'indicazione delle motivazioni di natura economica alla base di tale scelta, in quanto l'effettivo contenimento della spesa andrà poi confermato, in sede di approvazione del bilancio, con apposita deliberazione.
---------------

1. Occorre premettere che la ricorrente ha proposto due questioni attinenti alla legittimazione dell’organo che ha inibito l’esecuzione dei lavori oggetto della s.c.i.a., oltre ad aver contestato nel merito l’esercizio del potere.
Ha poi graduato le questioni affermando che riveste carattere preliminare l’esame della censura di incompetenza assoluta per mancanza della qualifica di Sindaco in capo al sottoscrittore dell’atto, non essendosi ancora completato il procedimento elettorale al momento di emanazione dell’atto impugnato.
In merito occorre precisare che, in assenza di elementi documentali che diano certezza circa il momento dell’acquisizione della carica da parte del Sindaco, al Collegio appare appropriato esaminare per prima la questione di incompetenza relativa, anche per ragioni di economia processuale e quindi per evitare approfondimenti istruttori che allungherebbero i tempi del giudizio.
Rispetto poi al rapporto tra la questione di competenza e gli altri vizi dell’azione amministrativa vale quanto stabilito dalla giurisprudenza (Cons. Stato, Ad. Plen. 27.04.2015, n. 5) secondo la quale nel disegno del codice la questione di competenza è talmente radicale e assorbente che non ammette di essere graduata dalla parte.
2. Venendo quindi all’esame della censura di incompetenza relativa, essa è fondata.
L’art. 53, c. 23, l. n. 388/2000 stabilisce che Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Come chiarito dalla giurisprudenza si tratta di una norma che conferma il carattere eccezionale delle deroghe al regime ordinario e l'esigenza della loro assunzione con specifico strumento legislativo, rivolgendosi solo ai piccoli Comuni affinché, «anche al fine di operare un contenimento della spesa», i componenti dell’organo esecutivo espletino compiti normalmente spettanti alla dirigenza (Cons. Stato, sez. V, 08.08.2003 n. 4596).
Nel caso di specie il regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, approvato dal Commissario prefettizio con deliberazione n. 2 del 19.01.2017, all’art. 18 prevede che il Comune si doti di responsabili di struttura apicale con atto di nomina del Sindaco tra i dipendenti dell’ente, o tra soggetti esterni; al comma 8, stabilisce inoltre che "ai sensi di quanto previsto dall'articolo 53, comma 23, della Legge n. 388/2000, è prevista la facoltà di conferire al Sindaco o agli Assessori la titolarità di uffici o servizi".
A differenza di quanto affermato dalla ricorrente la norma regolamentare non è illegittima per non avere indicato le motivazioni di natura economica per eliminare ruoli tecnico-amministrativi e ricondurli alle figure politico-istituzionali, in quanto la suddetta norma attribuisce solo la facoltà di mutare in questi termini l’organizzazione dell’ente, evidentemente con atto successivo motivato.
Ed è proprio l’atto di assegnazione della competenza ad adottare atti in materia edilizia, con il corredato supporto motivazionale di tipo organizzativo e/o economico che giustifichi la deroga alla distinzione tra organi politici ed organi burocratici, che manca nel caso di specie (per la necessità di quest’atto da ultimo TAR Lazio-Roma, sez. II-quater, 13/07/2018 n. 7856), mentre l’effettività del contenimento della spesa deve poi essere autonomamente confermata con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Né a tal fine può valere l’atto successivo del Sindaco n. 23 del 21.07.2017 con il quale egli ha avocato a sé la responsabilità di 6 aree e servizi comunali.
Infatti tale atto non può avere l’effetto di ratifica di atti precedentemente adottati, per almeno tre ragioni: in primo luogo non lo prevede espressamente e quindi non può produrre effetti retroattivi; in secondo luogo l’atto del 21.07.2017 è stato adottato dal Sindaco nell’esercizio di un potere organizzatorio, come si desume dal fatto che ha per oggetto aree e servizi comunali, mentre l’atto di sospensione dell’esecuzione della SCIA presentata dalla ricorrente è un atto di gestione; in terzo luogo perché non ha per oggetto l’atto da ratificare.
Né può essere invocato il diverso potere di avocazione per giustificare le determinazioni assunte. Quale che sia il fondamento normativo dell’atto del 21.07.2017 –indagine da cui il Collegio ritiene di poter prescindere–, lo stesso vale solo per il futuro, e non rileva ai nostri fini, risalendo l’atto inibitorio al 13.06.2017.
In definitiva quindi il ricorso contro l’atto che ha dichiarato inefficace la SCIA ed ha imposto il divieto di esecuzione dei lavori va accolto con conseguente assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso.
La domanda di annullamento del regolamento comunale va invece respinta, mentre il ricorso contro il diniego di accesso deve ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse in quanto proposto a corredo dell’azione di annullamento che è stata decisa senza la necessità di acquisizione di altri documenti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.05.2019 n. 1122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIE' illegittimo per incompetenza il provvedimento sindacale col quale è stata disposta, nei confronti della ricorrente, "la decadenza dall'assegnazione dell'alloggio di E.R.P.”.
Invero, ai sensi dell'art. 107, comma 1, del T.U. di cui al d.lgs. n. 267/2000, spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
In base al comma 2, spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli artt. 97 e 108.
Il comma 3 esemplifica, poi, una serie di compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo, in cui rientrano, tra gli altri (lett. f) i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie.
Il comma 4 prevede, quindi, che le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative.
In base al combinato disposto di cui alle norme ora dette è da escludere, quindi, che il Sindaco, quale organo di governo al quale spettano, perciò, poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, possa porre in essere atti, quale quello di revoca di un alloggio popolare, del quale qui si discute, che rientrano nell'ambito della gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
In particolare, il provvedimento di cui si tratta appare riconducibile alla lata formulazione di cui all'art. 107, comma 3, lett. f), sopra riportato, rientrando l'assegnazione di alloggi e, logicamente, i correlati atti di revoca, tra i provvedimenti di concessione o analoghi il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge.
...
Né le modeste dimensioni del territorio comunale e il ridotto numero di abitanti possono condurre a derogare ai principi ora detti, dal momento che, in base al citato art. 107, c. 4, del T.U. n. 267/2000, solo in base alla legge può derogarsi, e in forma espressa, ad essi.
È pur vero che, a norma dell'art. 53, comma 23, della legge finanziaria 23.12.2000, n. 388, gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs n. 267/2000, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Sennonché, tale espressa deroga legislativa subordina l'attribuzione di poteri anzidetta all'adozione preventiva di apposite disposizioni regolamentari organizzative, con successiva documentazione annuale del reale contenimento di spesa.
Nella specie, non risulta che il competente organo consiliare abbia adottato le prescritte modifiche regolamentari (né, logicamente, in assenza di determinazioni siffatte, può essere stato valutato l'eventuale contenimento di spesa).
...
Una recente conferma dei principi di cui sopra si rinviene nel parere reso su ricorso straordinario al Presidente Repubblica dal Consiglio di Stato in cui si afferma: "Con specifico riferimento alla materia della decadenza e dello sgombero di alloggi di edilizia l'adozione dei relativi provvedimenti rientra nella competenza del dirigente".
Il Collegio, in definitiva, concorda con la conclusione giurisprudenziale secondo cui, dopo l'entrata in vigore dell'art. 107 d.lgs. n. 267/2000, rientra nella competenza del dirigente comunale e non del sindaco l'adozione d'un provvedimento di decadenza dall'assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica.
Infatti la sopravvenuta legge statale generale, contenente principi fondamentali e prevalente come tale sulla preesistente legge regionale, ha previsto che tutte le disposizioni che conferiscono agli organi politici l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi devono intendersi nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti con l'espressa eccezione che le sole funzioni di rappresentanza statale rimangono attribuite al sindaco.
Tale disposizione di legge opera direttamente e non risulta necessaria alcuna delega espressa da parte del sindaco ai singoli dirigenti.

---------------

1. Con il presente ricorso, Fa.Te. ha impugnato il provvedimento in epigrafe indicato con cui il Sindaco di Colliano ha disposto nei suoi confronti "la decadenza dall'assegnazione dell'alloggio di E.R.P.”, con la conseguente risoluzione del contratto di locazione ed ordine di riconsegna delle chiavi dell'alloggio. Tale provvedimento è stato adottato dalla predetta Amministrazione comunale "visto l'art. 20, lett. A, della L.R. 02.07.1997 n. 18", essendo stato accertato l'abbandono dell'alloggio assegnato alla Fasano, tenuto conto della relazione istruttoria redatta dalla IACP di Salerno.
...
2.- Il ricorso è fondato e merita accoglimento assumendo portata assorbente il primo motivo di ricorso, con cui la ricorrente ha dedotto l'incompetenza del Sindaco ad adottare il provvedimento in questione, in relazione a quanto disposto dall'art. 107 del TUEL in ordine alle competenze dei dirigenti degli enti locali.
Invero, ai sensi dell'art. 107, comma 1, del T.U. di cui al d.lgs. n. 267 dell'08.08.2000, spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
In base al comma 2, spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108.
Il comma 3 esemplifica, poi, una serie di compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo, in cui rientrano, tra gli altri (lett. f) i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie.
Il comma 4 prevede, quindi, che le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative.
In base al combinato disposto di cui alle norme ora dette è da escludere, quindi, che il Sindaco, quale organo di governo al quale spettano, perciò, poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, possa porre in essere atti, quale quello di revoca di un alloggio popolare, del quale qui si discute, che rientrano nell'ambito della gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
In particolare, il provvedimento di cui si tratta appare riconducibile alla lata formulazione di cui all'art. 107, comma 3, lett. f), sopra riportato, rientrando l'assegnazione di alloggi e, logicamente, i correlati atti di revoca, tra i provvedimenti di concessione o analoghi il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge.
Né le modeste dimensioni del territorio comunale e il ridotto numero di abitanti possono condurre a derogare ai principi ora detti, dal momento che, in base al citato art. 107, c. 4, del T.U. n. 267/2000, solo in base alla legge può derogarsi, e in forma espressa, ad essi.
È pur vero che, a norma dell'art. 53, comma 23, della legge finanziaria 23.12.2000, n. 388, gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio (comma così modificato dal comma 4 dell'art. 29 della legge 28.12.2001, n. 448).
Sennonché, tale espressa deroga legislativa subordina l'attribuzione di poteri anzidetta all'adozione preventiva di apposite disposizioni regolamentari organizzative, con successiva documentazione annuale del reale contenimento di spesa. Nella specie, non risulta che il competente organo consiliare abbia adottato le prescritte modifiche regolamentari (né, logicamente, in assenza di determinazioni siffatte, può essere stato valutato l'eventuale contenimento di spesa).
Sulla questione nessun contributo o osservazione è stato offerto dal resistente Comune.
Una recente conferma dei principi di cui sopra si rinviene nel parere reso su ricorso straordinario al Presidente Repubblica dal Consiglio di Stato, sez. I, n. 2535/2017 in data 05/12/2017, in cui si afferma: "Con specifico riferimento alla materia della decadenza e dello sgombero di alloggi di edilizia l'adozione dei relativi provvedimenti rientra nella competenza del dirigente".
Il Collegio, in definitiva, concorda con la conclusione giurisprudenziale secondo cui, dopo l'entrata in vigore dell'art. 107 d.lgs. n. 267/2000, rientra nella competenza del dirigente comunale e non del sindaco l'adozione d'un provvedimento di decadenza dall'assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica (Cons. Stato, Sez. VI, 15.06.2006, n. 3529; TAR Milano Lombardia sez. I, 02.12.2011 n. 3058; TAR Basilicata, 03.03.2007, n. 138; TAR Campania, Napoli, Sez. V, 03.04.2006, n. 3319; TAR Veneto, Sez. II, 07.07.2003, n. 3596).
Infatti la sopravvenuta legge statale generale, contenente principi fondamentali e prevalente come tale sulla preesistente legge regionale, ha previsto che tutte le disposizioni che conferiscono agli organi politici l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi devono intendersi nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti con l'espressa eccezione che le sole funzioni di rappresentanza statale rimangono attribuite al sindaco. Tale disposizione di legge opera direttamente e non risulta necessaria alcuna delega espressa da parte del sindaco ai singoli dirigenti.
Si deve dunque concludere che il provvedimento di decadenza impugnato, in quanto adottato da un organo incompetente, è illegittimo e va annullato, fatti salvi i nuovi provvedimenti che l'Amministrazione riterrà eventualmente di adottare.
Il ricorso va accolto e, conseguentemente, il provvedimento di decadenza impugnato deve essere annullato (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 01.03.2019 n. 349 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Osservatorio viminale.
Quesito
Un ente locale con popolazione inferiore ai 5mila abitanti può derogare al principio della separazione dei poteri affidando al sindaco la presidenza della commissione edilizia comunale e nominando il responsabile dell'ufficio tecnico quale componente della stessa?
Risposta
La costituzione della commissione edilizia costituiva parte del contenuto obbligatorio del regolamento edilizio comunale ai sensi dell'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, poi abrogato dall'art. 136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni; l'art. 4, comma 2, del citato dpr che ha, peraltro, dettato una nuova disciplina dei regolamenti, ha reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449 che, imponendo all'organo di direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/1999 in data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha precisato che «la presenza di organi politici nella commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli Enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla previsione del comma 4, dell'art. 4, del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga, in materia, un principio generale, va parimenti evidenziato che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del principio di separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, richiamato dal Consiglio di stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto dall'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e dall'art. 107 del citato testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare anche atti di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio».
In tal senso, il richiamato art. 107 prevede, al comma 4, che «le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative
».
Il Consiglio di stato in sede giurisdizionale, con
sentenza 26.06.2013 n. 3490, ha ritenuto che «il sindaco potesse legittimamente presiedere la commissione edilizia integrata, in virtù della specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel citato articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, concernente proprio i comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie».
Lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza, richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009 che si è pronunciata su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia, a consentire a quei Comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs n. 267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione inferiore a 5mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano espressamente a un componente della giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico preposto alla gestione del settore edilizio (articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).

COMPETENZE GESTIONALIE' illegittimo il provvedimento sindacale che ha disposto la decadenza del ricorrente dall'assegnazione dell'alloggio di E.R.P.
È pur vero che, a norma dell’art. 53, comma 23, della legge finanziaria 23.12.2000 n. 388, gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti (fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del dlgs 267/2000, anche al fine di operare un contenimento della spesa) possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29 e all'art. 107 del predetto TUOEL, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Sennonché, tale espressa deroga legislativa subordina l’attribuzione di poteri anzidetta all’adozione preventiva di apposite disposizioni regolamentari organizzative, con successiva documentazione annuale del reale contenimento di spesa; ma, nella specie, non risulta che il competente organo consiliare abbia adottato le prescritte modifiche regolamentari (né, logicamente, in assenza di determinazioni siffatte, può essere stato valutato l’eventuale contenimento di spesa).
---------------

5) Il ricorso è invece fondato e merita accoglimento per quanto riguarda l’impugnazione del provvedimento n. 1101/18 del 06/03/2018 con cui il Sindaco di San Germano Vercellese ha disposto la decadenza del ricorrente dall'assegnazione dell'alloggio di E.R.P.
È fondato, in particolare, il primo e assorbente motivo di ricorso, con cui il ricorrente ha dedotto l’incompetenza del Sindaco ad adottare il provvedimento in questione, in relazione a quanto disposto dall’art. 107 del TUEL in ordine alle competenze dei dirigenti degli enti locali.
Anche a questo riguardo è pertinente il richiamo ad un precedente specifico di questo Tribunale costituito dalla sentenza della sez. II n. 202 del 25.02.2011, che così si è espressa: “ …ai sensi dell’art. 107, comma 1, del T.U. di cui al d.lgs. n. 267 dell’08.08.2000, spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
In base al comma 2, spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108.
Il comma 3 esemplifica, poi, una serie di compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo, in cui rientrano, tra gli altri (lett. f) i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie.
Il comma 4 prevede, quindi, che le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative.
In base al combinato disposto di cui alle norme ora dette è da escludere, quindi, che il Sindaco, quale organo di governo al quale spettano, perciò, poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, possa porre in essere atti, quale quello di revoca di un alloggio popolare, del quale qui si discute, che rientrano nell’ambito della gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
In particolare, il provvedimento di cui si tratta appare riconducibile alla lata formulazione di cui all’art. 107, comma 3, lett. f), sopra riportato, rientrando l’assegnazione di alloggi e, logicamente, i correlati atti di revoca, tra i provvedimenti di concessione o analoghi il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge.
Né le modeste dimensioni del territorio comunale e il ridotto numero di abitanti possono condurre a derogare ai principi ora detti, dal momento che, in base al citato art. 107, c. 4, del T.U. n. 267/2000, solo in base alla legge può derogarsi, e in forma espressa, ad essi.
È pur vero che, a norma dell’art. 53, comma 23, della legge finanziaria 23.12.2000, n. 388, gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio (comma così modificato dal comma 4 dell'art. 29 della legge 28.12.2001, n. 448).
Sennonché, tale espressa deroga legislativa subordina l’attribuzione di poteri anzidetta all’adozione preventiva di apposite disposizioni regolamentari organizzative, con successiva documentazione annuale del reale contenimento di spesa; ma, nella specie, non risulta che il competente organo consiliare abbia adottato le prescritte modifiche regolamentari (né, logicamente, in assenza di determinazioni siffatte, può essere stato valutato l’eventuale contenimento di spesa)
”.
Sulla questione nessun contributo o osservazione è contenuto nella relazione inviata dal Comune di San Germano Vercellese a riscontro dell’ordinanza istruttoria n. 748/2018. E, d’altra parte, una recente conferma dei principi di cui sopra si rinviene nel parere reso su ricorso straordinario al Presidente Repubblica dal Consiglio di Stato, sez. I, n. 2535/2017 in data 05/12/2017, in cui si afferma: “Con specifico riferimento alla materia della decadenza e dello sgombero di alloggi di edilizia l’adozione dei relativi provvedimenti rientra nella competenza del dirigente”.
Si deve dunque concludere che il provvedimento di decadenza impugnato, in quanto adottato da un organo incompetente, è illegittimo e va annullato, fatti salvi i nuovi provvedimenti che l’Amministrazione riterrà eventualmente di adottare (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 12.07.2018 n. 854 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIRilascio della regolarità tecnica, contabile e dell'attestazione della copertura finanziaria sulle determinazioni.
Quesiti
Questo Comune, ai sensi dell'art. 53, comma 23, della legge 23/12/2000 n. 388 come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha attribuito le competenze gestionali ai componenti dell'Organo Esecutivo (Sindaco, Vice Sindaco e Assessore) in assenza dei responsabili dei servizi .
Si chiede di sapere se la regolarità tecnica, contabile e l'attestazione della copertura finanziaria sulle determinazioni da loro adottati, viene rilasciata dagli stessi componenti dell'esecutivo o dal Segretario Comunale in relazione alle sue competenze, onde non ricondurre nella stessa persona funzioni diverse.
Risposta
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come l'art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della sua concreta applicazione, richieda che l'attribuzione di responsabilità degli uffici e dei servizi comunali ai componenti degli organi esecutivi, ed il conseguente potere degli stessi di adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano essere previsti da specifiche norme regolamentari organizzative.
L'adozione della richiesta norma organizzativa si pone, pertanto, quale condizione necessaria per l'applicazione dell'articolo in esame, con la conseguenza che, in mancanza di detto preliminare adempimento, si renderebbe, di fatto, inapplicabile la norma stessa (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, sentenza 29.07.2008 n. 9545).
Ad es., il sindaco può legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, ove ricorra specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel nominato articolo 53, comma 23, della legge n. 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie. L’esercizio di tale facoltà è stata riconosciuta legittima anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, e in tal senso si richiama la sentenza della IV sezione n. 1070/2009 (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 26.06.2013 n. 3490).
Anche il Min. Interno ritiene che l’art. 53, comma 23, legge 388/2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge 488/2001, consente agli enti locali in presenza di determinati presupposti, la possibilità di adottare disposizioni regolamentari organizzative, attribuendo ai titolari dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Appare evidente che negli enti privi di qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa (rif. Min. Interno 29.03.2012).
Pertanto, seguendo detti indirizzi, agli amministratori che svolgono compiti gestionali competono tutte le prerogative dei responsabili dei servizi ove ricorrano le condizioni anzidette.
Solo nel caso della responsabilità finanziaria, si deve rammentare che con la deliberazione n. 219/2015 della Corte dei Conti, sezione Lombardia, risulterebbe in contrasto con l’ordinamento vigente, anche per i Comuni con meno di 5.000 abitanti, la prassi di attribuire al Sindaco anche la responsabilità del Servizio finanziario dell’Ente, stante la natura specialistica del profilo (23.05.2018 - tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it).

COMPETENZE GESTIONALINon sussiste l'incompetenza del sindaco a rilasciare la concessione edilizia (qui impugnata) laddove:
  
ai sensi dell’art. 53, co. 23, l. 388/2000, "gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con d.lgs. 267/2000, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, co. 2, 3 e 4, d.lgs. 29/1993, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio";
  
nel caso di specie, in attuazione di tale facoltà, l'art. 25 dello statuto comunale, dedicato alle competenze amministrative del Sindaco, individua in tale organo la competenza ad emanare le concessioni edilizie; in particolare, laddove, al comma 1, lett. o), prevede che il Sindaco “rilascia autorizzazioni commerciali, di polizia amministrativa, nonché le autorizzazioni e le concessioni edilizie”;
  
del resto, tale facoltà ha trovato riconoscimento anche nella recente giurisprudenza amministrativa che afferma che è “proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici, a consentire a quei Comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione tra politica e amministrazione, di cui al T.U.E.L. (D.Lgs. n. 267/2000)”.
---------------
9. Con il primo motivo, i ricorrenti contestano l'incompetenza del Sindaco di La Thuile ad emettere la concessione edilizia impugnata, in violazione dell’art. 107 d.lgs. n. 267/2000, dell’art. 13 d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 25 dello statuto comunale di La Thuile, che attribuiscono al dirigente responsabile la competenza ad emanare i provvedimenti amministrativi.
9.1. Il Collegio rileva al riguardo che, ai sensi dell’art. 53, co. 23, l. 388/2000, "gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con d.lgs. 267/2000, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, co. 2, 3 e 4, d.lgs. 29/1993, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio".
Con riferimento al Comune di La Thuile, come correttamente rilevato dal primo giudice, in attuazione di tale facoltà, l'art. 25 dello statuto comunale, dedicato alle competenze amministrative del Sindaco, individua in tale organo la competenza ad emanare le concessioni edilizie; in particolare, laddove, al comma 1, lett. o), prevede che il Sindaco “rilascia autorizzazioni commerciali, di polizia amministrativa, nonché le autorizzazioni e le concessioni edilizie”.
Del resto, tale facoltà ha trovato riconoscimento anche nella recente giurisprudenza amministrativa, dalla quale questa Sezione non intende discostarsi, che afferma che è “proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici, a consentire a quei Comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione tra politica e amministrazione, di cui al T.U.E.L. (D.Lgs. n. 267/2000)” (Cons. Stato, sez. III, sentenza 26.06.2013 n. 3490).
9.2. Deve pertanto essere respinto il motivo di appello, avendo il Sindaco legittimamente adottato la concessione edilizia impugnata in quanto rientrante tra le sue competenze (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.04.2018 n. 2397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIOSSERVATORIO VIMINALE / Sindaci negli uffici tecnici. Possono presiedere la commissione edilizia. Nei piccoli comuni è ammessa la deroga alla separazione dei poteri.
Quesito
Un ente locale con popolazione inferiore ai 5mila abitanti può affidare al sindaco la presidenza della commissione edilizia comunale, e nominare il responsabile dell'ufficio tecnico quale componente della stessa, avvalendosi della facoltà di derogare al principio della separazione di poteri e previa modifica del regolamento edilizio?
Risposta
L'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, secondo cui la costituzione della Commissione edilizia costituiva parte del contenuto obbligatorio del regolamento edilizio comunale, è stato abrogato dall'art. 136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, che ha, peraltro, dettato una nuova disciplina dei regolamenti; l'art. 4, comma 2, del citato dpr ha, inoltre, reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449 che, imponendo all'organo di direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/1999 in data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha precisato che «la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla previsione del comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga un principio generale applicabile in materia, va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di Stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del citato testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio».
In tal senso, il richiamato art. 107 prevede, al comma 4, che «le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative» ed è indubbio che la citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il Consiglio di stato in sede giurisdizionale (sezione Terza) con
sentenza 26.06.2013 n. 3490 ha ritenuto che «il sindaco potesse legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della specifica previsione in tal senso posta nel regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel citato articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie».
Del resto, lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza, richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009, che si è pronunciata su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici, a consentire a quei comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs n. 267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione inferiore a 5mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico preposto alla gestione del settore edilizio
 (articolo ItaliaOggi del 02.03.2018).

COMPETENZE GESTIONALIAttribuzione al Commissario straordinario della responsabilità degli Uffici e servizi.
Sintesi/Massima
L’affidamento dei poteri gestionali ai componenti dell'organo esecutivo trova fondamento nel comma 23 dell'art. 53 della legge 23.12.2000, n. 388 poi modificato dall’ art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001, n. 448 (legge finanziaria 2002) che introduce una deroga al principio generale della separazione dei poteri (in particolare, rispetto alle competenze dirigenziali di cui all’art. 107 del T.U.O.E.L. e all’art. 4 del decreto legislativo n. 165/2001) nell'ambito delle amministrazioni pubbliche, rimanendo esclusi i compiti meramente esecutivi o operativi.
Le disposizioni legislative predette non necessariamente indicano l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV,
23.02.2009 n. 1070; V, 06.03.2007 n. 1052; TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2011 n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter, 22.03.2011 n. 2534).
Nella fattispecie di comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, fatte salve eventuali espresse limitazioni scaturenti dallo Statuto comunale, il Commissario straordinario può legittimamente attribuire a sé, con i poteri della Giunta comunale, la facoltà di gestione di un settore dell’Amministrazione.

Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine alla possibilità dell’assunzione diretta della responsabilità degli uffici e dei servizi, con il potere di adottare atti anche di natura tecnico- gestionale, in sostituzione di un responsabile di servizio, che ha chiesto un lungo periodo di aspettativa. Ciò alla luce dell’articolo 53, comma 23, della legge n. 388/2000 come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge n. 448/2001.
Al riguardo, si osserva che il citato comma 23 dell'art. 53 della legge 23.12.2000, n. 388 (legge finanziaria 2001) consentiva agli “enti locali” con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti, in mancanza di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti, di adottare disposizioni regolamentari organizzative, anche in deroga all'art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000, mirate ad attribuire ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
Detta disposizione, com'è noto, è stata poi modificata sempre dal citato art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001, n. 448 (legge finanziaria 2002), che ha ribadito la predetta facoltà, estendendola agli enti fino a 5.000 abitanti, senza necessità di dimostrare la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee, con la conseguenza che risulta irrilevante anche la presenza all’interno dell’Amministrazione di tali figure professionali (conforme, TAR Lombardia n. 1644/2017 del 18/07/2017).
L'applicazione della norma deve essere finalizzata, tuttavia, al contenimento della spesa, la quale deve essere documentata ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione di bilancio (art. 53, comma 23, l. 388/2000).
Quindi l'affidamento dei poteri gestionali ai componenti dell'organo esecutivo trova fondamento nella succitata disposizione che introduce una deroga al principio generale della separazione dei poteri (in particolare, rispetto alle competenze dirigenziali di cui all’art. 107 del T.U.O.E.L. e all’art. 4 del decreto legislativo n. 165/2001) nell'ambito delle amministrazioni pubbliche, rimanendo esclusi i compiti meramente esecutivi o operativi.
Nella fattispecie, si segnala la decisione n. 4688 del 2.10.2006 con la quale il TAR Puglia–Lecce, ha precisato che tale facoltà può essere esercitata previe “disposizioni regolamentari organizzative”.
Tuttavia, più recentemente il TAR Lombardia con la già citata
sentenza 18.07.2017 n. 1644, ha stabilito, altresì, che alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale, la disposizione legislativa non necessariamente indica l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 23.02.2009 n. 1070; V, 06.03.2007 n. 1052; TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2011 n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter, 22.03.2011 n. 2534).
Trattandosi di comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e sembrando sussistere anche le altre condizioni per l’applicazione della norma (fatte salve eventuali espresse limitazioni scaturenti dallo Statuto comunale), si ritiene, pertanto, che il Commissario straordinario possa legittimamente attribuire a sé, con i poteri della Giunta comunale, la facoltà di gestione di un settore dell’Amministrazione (parere 10.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

COMPETENZE GESTIONALI: OSSERVATORIO VIMINALE / Sindaco in ufficio tecnico. Mini-enti, deroga alla separazione dei poteri. Il primo cittadino può presiedere la commissione edilizia comunale.
Quesito
Un ente locale con popolazione inferiore ai 5mila abitanti, avvalendosi della facoltà di derogare al principio della separazione di poteri e previa modifica del regolamento edilizio, può affidare al sindaco la presidenza della commissione edilizia comunale e nominare il responsabile dell'ufficio tecnico quale componente della stessa?
Risposta
L'art. 136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, ha abrogato l'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, secondo cui la costituzione della commissione edilizia costituiva parte del contenuto obbligatorio del regolamento edilizio comunale, fornendo una nuova disciplina dei regolamenti; all'art. 4, comma 2, ha, inoltre, reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449, il quale, imponendo all'organo di direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/1999 in data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha precisato che «la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla previsione del comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga un principio generale applicabile in materia, va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del predetto Testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio».
In tal senso, il citato art. 107 prevede, al comma 4, che «le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative» ed è indubbio che la citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il Consiglio di stato in sede giurisdizionale (sezione Terza) con sentenza 26.06.2013 n. 3490 ha ritenuto che «il sindaco potesse legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel citato articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie».
Del resto, lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza, richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009, che si è pronunciata su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici, a consentire a quei comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione inferiore a 5mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidino espressamente ad un componente della giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico preposto alla gestione del settore edilizio (articolo ItaliaOggi del 18.08.2017).

COMPETENZE GESTIONALIL’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 prevede innanzitutto che, al fine di attribuire la responsabilità di un Ufficio o un Servizio comunale ad un componente della Giunta, debba essere adottato un regolamento di organizzazione, quale presupposto indispensabile per derogare alla normativa primaria.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la suddetta disposizione legislativa non necessariamente indica l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.

---------------
Non può essere accolta la parte della doglianza che deduce l’illegittimità della nomina sindacale dell'Assessore, quale responsabile del Servizio Tecnico Comunale, per mancata successiva documentazione del contenimento della spesa, in sede di approvazione del bilancio.
Invero, un eventuale inadempimento di tale obbligo, avente natura prettamente contabile, potrà avere conseguenze su altri versanti dell’attività amministrativa (responsabilità amministrativo-contabile), ma certo non potrebbe ridondare sulla legittimità delle disposizioni già assunte.

---------------

... per l’annullamento
   - dell’ordinanza del Comune di San Siro, prot. n. 1191 del 03.04.2012, recante l’ordine di demolizione di un berceau in metallo (ossia un pergolato) realizzato in assenza di permesso di costruire da parte dei ricorrenti;
   - della deliberazione della Giunta comunale di San Siro n. 177/2010, con cui l’Assessore comunale Ma.Ni. è stato nominato Responsabile del Servizio Edilizia del Comune di San Siro;
   - del Regolamento comunale attraverso il quale è stata attribuita agli Assessori comunali, Responsabili dei Servizi, la potestà di adottare provvedimenti di gestione anche aventi efficacia esterna;
   - di tutti gli atti preordinati, conseguenziali e connessi.
...
1. Il ricorso non è fondato.
2. Con le prime due censure di ricorso si assume l’illegittimità dell’ordinanza impugnata giacché adottata da un soggetto, ovvero l’Assessore comunale, che non avrebbe potuto essere investito dell’incarico di Responsabile del Servizio Tecnico comunale, in quanto non sarebbe stato adottato il regolamento comunale previsto dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, oltre che in ragione dell’assenza in capo al nominato dei requisiti professionali necessari per accedere a quel posto.
2.1. Le doglianze sono infondate, secondo quanto di seguito specificato.
In via preliminare va segnalato che si può prescindere dall’esame dell’eccezione formulata dalla difesa comunale in ordine all’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 ai casi di incompetenza relativa, vista l’infondatezza nel merito delle censure.
2.2. L’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, lett. a) e b), della legge n. 448 del 2001, stabilisce che “gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
La citata disposizione prevede innanzitutto che, al fine di attribuire la responsabilità di un Ufficio o un Servizio comunale ad un componente della Giunta, debba essere adottato un regolamento di organizzazione, quale presupposto indispensabile per derogare alla normativa primaria.
Le parti ricorrenti eccepiscono, nel caso de quo, la mancanza di tale regolamento, che non potrebbe essere sostituito da una semplice deliberazione di Giunta attraverso la quale si conferisca direttamente l’incarico (deliberazione n. 177/2010 del 23.12.2010: all. 6 del Comune).
La tesi della ricorrente non appare condivisibile alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale, cui il Collegio intende aderire, secondo il quale la disposizione legislativa non necessariamente indica l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 23.02.2009, n. 1070; V, 06.03.2007, n. 1052; TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2011, n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter, 22.03.2011, n. 2534).
2.3. Non può essere accolta nemmeno la parte della doglianza che deduce l’illegittimità della nomina per mancata successiva documentazione del contenimento della spesa, in sede di approvazione del bilancio, considerato che un eventuale inadempimento di tale obbligo, avente natura prettamente contabile, potrà avere conseguenze su altri versanti dell’attività amministrativa (responsabilità amministrativo-contabile), ma certo non potrebbe ridondare sulla legittimità delle disposizioni già assunte (cfr. Consiglio di Stato, IV, 14.10.2011, n. 5536).
2.4. Infine non appaiono fondati nemmeno i rilievi attraverso i quali è stato eccepito che tra i dipendenti comunali vi sarebbe un soggetto idoneo ad assumere le funzioni di Responsabile del Servizio (arch. Pa.) e che l’Assessore Ma. non sarebbe in possesso del titolo di studio previsto dalla normativa regolante l’attribuzione di incarichi dirigenziali (artt. 109 del T.U.E.L. e 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001).
Quanto alla presenza di un dipendente idoneo a ricoprire la posizione va richiamato l’art. 29, comma 4, lett. b), della legge n. 448 del 2001 che ha soppresso l’inciso “che riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti” originariamente contenuto nell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, con la conseguenza che risulta irrilevante la presenza all’interno dell’Amministrazione di figure professionali idonee, non essendo più richiesta la sussistenza di tale presupposto.
Con riguardo al mancato possesso in capo all’Assessore comunale del titolo di studio, va infine evidenziato che la posizione di Responsabile del Servizio nel Comune di San Siro non è attribuita ad una figura avente qualifica dirigenziale, ma ad un dipendente con qualifica di istruttore direttivo (D2 nella declaratoria delle categorie dei dipendenti degli Enti locali), con conseguente inapplicabilità delle disposizioni riguardanti la qualifica dirigenziale.
Peraltro la natura derogatoria del citato art. 53, legata anche alla peculiare posizione degli Enti locali di piccole dimensioni, consente di attribuire gli incarichi anche a prescindere dal titolo di studio dei soggetti nominati, come dimostrato anche dalla irrilevanza dell’assenza di figure idonee all’interno dell’Amministrazione, prevista invece nella versione originaria della norma e poi soppressa dall’art. 29, comma 4, lett. b), della legge n. 448 del 2001.
2.5. Pertanto, alla stregua delle suesposte considerazioni, le prime due censure di ricorso devono essere respinte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.07.2017 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIL’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000 n. 388, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448 così dispone: “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale”.
Il Consiglio di Stato ha stabilito che la previsione normativa introdotta dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 ha “l’evidente scopo di assicurare la necessaria funzionalità ai Comuni “polvere”, i cui organici sono privi di posizioni dirigenziali, permettendo loro di coprire le posizioni apicali all’interno della propria “micro-struttura” mediante ricorso ai componenti dell’organo di direzione politica”. Ne consegue che il carattere derogatorio della norma in esame, rispetto al principio generale di separazione dei poteri, è previsto nei piccoli enti al fine di favorire il contenimento della spesa e consentire soluzioni di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà di modeste dimensioni demografiche.
La norma in esame, dunque, assume carattere di specialità e si pone quale limite all’applicazione del generale principio della successione delle leggi nel tempo.
Da ciò deriva che il principio contenuto nella norma speciale risulta insuscettibile di abrogazione tacita o implicita da parte di una norma generale sopravvenuta. Si deve dunque ritenere che l’art. 53, comma 23, della legge 388/2000, configurandosi quale norma speciale, prevalga sulla disciplina di portata generale in materia di inconferibilità e incompatibilità, introdotta successivamente ad opera del D.lgs. n. 39/2013 recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'art. 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”.
A tale conclusione perviene anche l’ANCI che rileva che la deroga introdotta dall’art. 53, comma 23, della legge 388/2000 è tanto più significativa a seguito dell’entrata in vigore del D.lgs. 39/2013, evidenziando che: “la portata disapplicativa della norma lascia presumere, in assenza di indicazioni contrarie, che in quanto lex specialis debba prevalere sulle disposizioni generali in tema di incompatibilità, escludendo quindi un’ipotesi di abrogazione tacita”.
Quanto alla giurisprudenza contabile, la Sezione di Controllo per la Lombardia della Corte dei Conti, in riferimento al principio della separazione tra politica e amministrazione, ha inoltre stabilito che “è indubitabile che la separazione tra gestione e indirizzo politico sia un principio fondamentale dell’organizzazione pubblica delineatosi nel corso degli anni ’90; tuttavia, come ricavabile dalla giurisprudenza della Consulta in materia di spoils system si tratta di un principio che -pur avendo un fondamento costituzionale– rimane di matrice legislativa ordinaria”.
Pertanto, il principio di separazione tra politica e amministrazione “esprime uno dei possibili moduli organizzativi attraverso cui realizzare i principi di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost. ed il Legislatore è libero di individuare modelli alternativi e diversi, che prevedono vari livelli di compenetrazione o separazione tra politica e gestione, salvo il limite costituzionale di ragionevolezza di tale scelte, imposto dal citato art. 97 Cost. Tale disposizione costituzionale, infatti, impone al Legislatore di bilanciare il buon andamento dell’azione amministrativa (principio che può giustificare -ad esempio, con riferimento ai ruoli di dirigenza apicali- l’assottigliamento dei diaframmi tra organi politici e amministrazione, in modo da consentire un’immediata traduzione in atti amministrativi delle direttive politiche) con il principio di imparzialità, che nella separazione e nel giusto procedimento vede dei precipitati certamente essenziali”.
In riferimento alla norma introdotta dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 la Sezione di controllo in parola stabilisce infine che “nei Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, le funzioni dirigenziali possono essere attribuite ai componenti della giunta, previa introduzione di apposite disposizioni regolamentari. Si tratta di un caso paradigmatico in cui il Legislatore, in presenza di un’esigenza ragionevole, costituzionalmente rilevante in quanto collegata al buon andamento (segnatamente l’esigenza di contenere i bilanci nei Comuni di più modeste dimensioni) ha optato per un parziale ritorno alla commistione fra politica e amministrazione, il cui superamento ha invece rappresentato un principio cardine delle riforme nell’ultimo decennio del secolo scorso”.
---------------

Il Sindaco del Comune di Acquaviva di Isernia (IS), con nota prot. n. 1898 del 21.10.2016, acquisita al protocollo di questa Sezione n. 2058 del 28.10.2016, ha formulato una richiesta di parere in ordine all’esatta “portata” e alla legittima “applicabilità/operatività” dell’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000 n. 388, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448.
In particolare, il Sindaco premette che due dei tre servizi previsti dall’assetto organizzativo del Comune (Finanziario ed Amministrativo) risultano scoperti dal 01.09.2016 e che è risultato impossibile sia nominare un segretario comunale che indire procedure concorsuali pubbliche, nonché si è rivelata infruttuosa la richiesta ai Comuni della provincia di Isernia della disponibilità di personale da utilizzare mediante convenzione dei servizi ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. 267/2000 ovvero mediante l’istituzione del comando per distacco part–time.
Tanto esposto il Sindaco ritiene che, per fronteggiare la grave e complessa situazione organizzativa, l’unica soluzione possibile sembra essere quella prevista dell’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000 n. 388, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448.
...
Concentrando pertanto l’approfondimento nel merito alla valutazione dell’esatta “portata” della norma, si ricorda che, come noto, l’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000 n. 388, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448 così dispone: “Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale”.
All’evidenza, la norma reca una battuta d’arresto nel processo di distinzione dei compiti tra gli organi di governo e l’apparato burocratico.
In particolare, nella sua formulazione originaria consentiva ai Comuni con meno di 3mila abitanti di attribuire ai componenti dell’organo esecutivo –assessori e sindaco– la responsabilità degli uffici e dei servizi, nonché il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale, in presenza dei seguenti requisiti:
   - popolazione inferiore a 3mila abitanti;
   - riscontro o dimostrazione della mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti;
   - emanazione di disposizioni regolamentari organizzative, se necessario, anche in deroga a quanto disposto dall’art. 3, commi 2, 3 e 4 del D.Lgs. n. 29/1993 e dell’art. 107 del TUEL.
La norma fa comunque salva la facoltà di affidare le competenze in esame ai segretari comunali.
Attraverso l’emanazione dell’art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448 (legge finanziaria per l’anno 2002) il legislatore ha modificato il citato art. 53, da una parte, ampliandone l’ambito di operatività tramite l’estensione dell’applicazione ai Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti e, dall’altra, eliminando il riferimento alla mancanza non rimediabile di figure professionali idonee.
Pertanto la scelta, da parte del Comune, di avvalersi della potestà derogatoria al principio di separazione dei poteri può avvenire attualmente anche in presenza di dipendenti appartenenti alla categoria D (TAR Emilia Romagna, sez. staccata di Parma, sentenza n. 160 del 2009).
È rimasto, invece, l’obiettivo del contenimento della spesa derivante dalla decisione, documentato annualmente con apposita delibera in sede di approvazione del bilancio.
In seguito a tali modifiche, quindi, si dilata il margine di iniziativa del sindaco, che nel superiore interesse dell’efficienza dell’ente e dell’attuazione del programma può anche pretermettere i dipendenti per affidare la responsabilità dei servizi agli assessori.
In sostanza, le esigenze di contenimento dei bilanci, almeno nei Comuni di più modeste dimensioni, possono nuovamente comportare quella commistione fra politica e amministrazione, il cui superamento, ha invece rappresentato un principio cardine delle riforme degli anni ’90 (TAR Campania–Napoli, Sez. V, sentenza 22.10.2003 n. 13054).
In particolare la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come l’art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000, ai fini della sua concreta applicazione, richieda che l’attribuzione di responsabilità degli uffici e dei servizi comunali ai componenti degli organi esecutivi ed il conseguente potere degli stessi di adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano essere previsti da specifiche norme regolamentari organizzative (TAR Campania, Napoli sez. VIII sentenza 29.07.2008 n. 9545).
D’altro canto, il Consiglio di Stato (sez. V, sentenza n. 5296 del 20.11.2015) qualifica la norma introdotta dalla legge finanziaria del 2001 quale norma speciale e derogatoria, rispetto sia al principio di separazione politica-amministrazione sancito dall’art. 107 del TUEL, che all’art. 84 del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 (ex codice dei contratti pubblici).
Trattasi di norma avente natura speciale che, dunque, integra una deroga sia al principio di separazione dei ruoli tra politica e amministrazione stabilito dall’art. 107 del TUEL, sia al divieto, contemplato nell’art. 84, comma 5, del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006, di nominare nelle commissioni di gara coloro che nel biennio precedente hanno rivestito cariche di pubblico amministratore relativamente a contratti affidati dalle amministrazioni presso le quali hanno prestato servizio. La deroga in parola implica che “il componente della giunta cui è attribuita la responsabilità dei servizi comunali è pienamente investito delle funzioni connesse a tale attribuzione, ivi compresa, nel caso contemplato dalla pronuncia in esame, quella di presidenza delle commissioni di gare per l’affidamento di contratti d’appalto da parte dell’ente”.
Nella medesima pronuncia il Consiglio di Stato ritiene inoltre che le ragioni di imparzialità amministrativa perseguite dall’art. 84, comma 5, del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere “sacrificate” e “giustificate” pienamente da ragioni di buon andamento dell’attività amministrativa e, dunque, da “esigenze aventi pari rango costituzionale”. Del resto, è proprio in ragione di tali considerazioni che la questione di legittimità costituzionale della norma di cui alla legge finanziaria 2001 è stata dichiarata manifestamente inammissibile.
Il Consiglio di Stato stabilisce, pertanto, che la previsione normativa introdotta dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 ha “l’evidente scopo di assicurare la necessaria funzionalità ai Comuni “polvere”, i cui organici sono privi di posizioni dirigenziali, permettendo loro di coprire le posizioni apicali all’interno della propria “micro-struttura” mediante ricorso ai componenti dell’organo di direzione politica”. Ne consegue che il carattere derogatorio della norma in esame, rispetto al principio generale di separazione dei poteri, è previsto nei piccoli enti al fine di favorire il contenimento della spesa e consentire soluzioni di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà di modeste dimensioni demografiche.
La norma in esame, dunque, assume carattere di specialità e si pone quale limite all’applicazione del generale principio della successione delle leggi nel tempo.
Da ciò deriva che il principio contenuto nella norma speciale risulta insuscettibile di abrogazione tacita o implicita da parte di una norma generale sopravvenuta. Si deve dunque ritenere che l’art. 53, comma 23, della legge 388/2000, configurandosi quale norma speciale, prevalga sulla disciplina di portata generale in materia di inconferibilità e incompatibilità, introdotta successivamente ad opera del D.lgs. n. 39/2013 recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”.
A tale conclusione perviene anche l’ANCI che, pronunciandosi sulla questione nel parere del 18.09.2014, rileva che la deroga introdotta dall’art. 53, comma 23, della legge 388/2000 è tanto più significativa a seguito dell’entrata in vigore del D.lgs. 39/2013, evidenziando che: “la portata disapplicativa della norma lascia presumere, in assenza di indicazioni contrarie, che in quanto lex specialis debba prevalere sulle disposizioni generali in tema di incompatibilità, escludendo quindi un’ipotesi di abrogazione tacita”.
Quanto alla giurisprudenza contabile, la Sezione di Controllo per la Lombardia della Corte dei Conti, con parere 08.03.2012 n. 59, in riferimento al principio della separazione tra politica e amministrazione, ha inoltre stabilito che “è indubitabile che la separazione tra gestione e indirizzo politico sia un principio fondamentale dell’organizzazione pubblica delineatosi nel corso degli anni ’90; tuttavia, come ricavabile dalla giurisprudenza della Consulta in materia di spoils system (sentenze nn. 233 del 2006; 103 e 104 del 2007; 161 del 2008; 81 del 2010; 124 del 2011) si tratta di un principio che  -pur avendo un fondamento costituzionale– rimane di matrice legislativa ordinaria”.
Pertanto, il principio di separazione tra politica e amministrazione “esprime uno dei possibili moduli organizzativi attraverso cui realizzare i principi di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost. ed il Legislatore è libero di individuare modelli alternativi e diversi, che prevedono vari livelli di compenetrazione o separazione tra politica e gestione, salvo il limite costituzionale di ragionevolezza di tale scelte, imposto dal citato art. 97 Cost. Tale disposizione costituzionale, infatti, impone al Legislatore di bilanciare il buon andamento dell’azione amministrativa (principio che può giustificare -ad esempio, con riferimento ai ruoli di dirigenza apicali- l’assottigliamento dei diaframmi tra organi politici e amministrazione, in modo da consentire un’immediata traduzione in atti amministrativi delle direttive politiche, cfr. sent. 233, punto 4.1. in diritto) con il principio di imparzialità, che nella separazione e nel giusto procedimento vede dei precipitati certamente essenziali (cfr. sent. 103/2007, punto 9.2. e sent. 104/2007, punto 2.8.-2.10 in diritto)”.
In riferimento alla norma introdotta dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 la Sezione di controllo in parola stabilisce infine che “nei Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, le funzioni dirigenziali possono essere attribuite ai componenti della giunta, previa introduzione di apposite disposizioni regolamentari. Si tratta di un caso paradigmatico in cui il Legislatore, in presenza di un’esigenza ragionevole, costituzionalmente rilevante in quanto collegata al buon andamento (segnatamente l’esigenza di contenere i bilanci nei Comuni di più modeste dimensioni) ha optato per un parziale ritorno alla commistione fra politica e amministrazione, il cui superamento ha invece rappresentato un principio cardine delle riforme nell’ultimo decennio del secolo scorso (cfr. in tal senso TAR Campania, Napoli, sez. V, sentenza 22.10.2003, n. 13054)”.
Conclusivamente, occorre ravvisare che le sopra esposte considerazioni possono fornire delle indicazioni al fine di delineare il tenore e la portata della norma in questione, fermo restando che spetta agli enti interessati disegnare, in concreto, la propria organizzazione delle funzioni avvalendosi dei vari strumenti normativi messi a disposizione dall’ordinamento giuridico (Corte dei Conti, Sez. controllo Molise, parere 01.12.2016 n. 167).

COMPETENZE GESTIONALIOSSERVATORIO VIMINALE / Mini-enti, sindaci super. Possono presiedere le commissioni edilizie. Il principio della separazione dei poteri è derogabile nei piccoli comuni.
Quesito
Un comune con popolazione inferiore ai 5mila abitanti, avvalendosi della facoltà di derogare al principio della separazione di poteri e previa modifica del regolamento edilizio, può affidare al sindaco la presidenza della commissione edilizia comunale e nominare il responsabile dell'ufficio tecnico quale componente?
Risposta
La costituzione della commissione edilizia faceva parte del contenuto obbligatorio del regolamento edilizio comunale come disciplinato dall'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150. Tale norma fu poi abrogata dall'art. 136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, il quale, inoltre, fornendo una nuova disciplina dei regolamenti, all'art. 4, comma 2, ha reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449, il quale, imponendo all'organo di direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione per quelli non identificati come indispensabili.
Ciò premesso, la commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/1999 in data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha precisato che «la presenza di organi politici nella commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla previsione del comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Tuttavia, se da un lato nel suddetto enunciato si espone un principio generale applicabile in materia, dall'altro va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del predetto testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi e il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio».
Giova ricordare che il citato art. 107 prevede, al comma 4, che «le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative» ed è indubbio che la citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il consiglio di stato in sede giurisdizionale (sezione terza) con sentenza 26.06.2013 n. 3490 ha ritenuto che «il sindaco potesse legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel citato articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, indirizzato proprio ai comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie».
Peraltro, lo stesso Cds con la medesima sentenza, richiamando la sentenza della IV sezione n. 1070/2009, che si è pronunciata su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici, a consentire a quei comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs n. 267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione inferiore a 5mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico preposto alla gestione del settore edilizio (articolo ItaliaOggi del 11.11.2016).

COMPETENZE GESTIONALI: Attribuzione al sindaco della presidenza della commissione edilizia comunale. Modifica al regolamento edilizio.
Sintesi/Massima
In materia di composizione della Commissione edilizia comunale, sulla base della giurisprudenza consolidata che trova il supporto normativo anche nell’art. 53, comma 23, della legge 388/2000 e nella legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione che attribuisce potestà regolamentare ai Comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie, ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti è applicabile la suddetta disciplina derogatoria qualora l'ente adotti preventivamente disposizioni regolamentari che affidino espressamente ad un componente della giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell’ufficio tecnico preposto alla gestione del settore edilizio.
Testo
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale è stato posto un quesito in ordine alla composizione della commissione edilizia comunale.
In particolare, avendo una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, il Comune di … si è avvalso della facoltà di derogare al principio della separazione di poteri affidando al sindaco la presidenza della predetta commissione e nominando il responsabile dell’ufficio tecnico quale componente.
Al riguardo, si osserva preliminarmente, che la costituzione della commissione edilizia faceva parte del contenuto obbligatorio del regolamento edilizio comunale come disciplinato dall’art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150. Tale norma fu poi abrogata dall’art. 136 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni, il quale, inoltre, fornendo una nuova disciplina dei regolamenti, all’art. 4, comma 2, ha reso facoltativa l’istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo di organo consultivo. La facoltatività dell’istituzione della commissione edilizia è coerente con l’art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449, il quale, imponendo all’organo di direzione politica di individuare ... ogni organo collegiale con funzioni amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione per quelli non identificati come indispensabili.
Ciò premesso, si richiama il
parere n. 492/1999 della Commissione Speciale del Consiglio di Stato, in data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, con il quale è stato precisato che “… la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall’assetto normativo attuale” e che “…qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli Enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche” (in conformità alla previsione del comma 4, dell’art. 4 del d.lgs. n. 165/2001).
Tuttavia, se da un lato nel suddetto enunciato si espone un principio generale applicabile in materia, dall’altro, va parimenti osservato che l’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all’applicazione del principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di Stato. Tale norma, infatti, dispone che “
… gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l’ipotesi di cui all’art. 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all’art. 107 del predetto testo unico, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
Giova ricordare che il citato art. 107 prevede, al comma 4, che “
le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all’articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative” ed è indubbio che la citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Nella specie, il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) con
sentenza 26.06.2013 n. 3490 ha ritenuto che “il sindaco potesse legittimamente presiedere la Commissione edilizia integrata, in virtù della specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel nominato articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, indirizzato proprio ai Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai Comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie”.
Peraltro, lo stesso C.d.S., con la medesima sentenza, richiamando la sentenza della IV sezio
ne
23.02.2009 n. 1070, che si è pronunciata su analoga questione, ha ritenuto che “è proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia nonché in quella di impianti radioelettrici, a consentire a quei Comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione di cui al T.U.E.L. (D.Lgs. n. 267/2000)”.
Sulla base della ricostruzione operata si ritiene che, trattandosi di un comune con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, sia applicabile la suddetta disciplina derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell’ufficio tecnico preposto alla gestione del settore edilizio (parere 27.07.2016 - link a http://dait.interno.gov.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Le esigenze di contenimento dei bilanci, almeno nei Comuni di più modeste dimensioni, possono oggi nuovamente comportare quella commistione fra politica e amministrazione.
Invero,
l’art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000 disponeva che
"Gli enti locali con popolazione inferiore a 3mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs 18.08.2000, n. 267, che riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.".
Nella versione più recente, risultante dalla modifica introdotta dal comma 4 dell'art. 29, L. 28.12. 2001, n. 448, è stato innalzato il limite dimensionale (si parla infatti di "enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti") ed è scomparso l'inciso "che riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti".
---------------

Il Comune di Conflenti ha pubblicato il Bando del 01.06.2015 per l'appalto di progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori di rifacimento di parte delle pavimentazioni stradali, manutenzione delle opere connesse e sistemazione generale delle strade comunali.
La procedura prescelta è stata quella di cui all'art. 55 D.Lgs. n. 163/2003 e s. m. e i. con criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa previa valutazione delle offerte tecniche sulla base dei criteri indicati al punto 17 del Bando (con attribuzione di punteggio previa valutazione —da parte della Commissione di gara— delle offerte sotto i profili quali-quantitativi).
Alla gara partecipavano tra le altre la ricorrente Fi. s.r.l. nonché la controinteressata Al.Co. s.r.l..
In data 03.09.2015 il responsabile dell'Ufficio Tecnico geom. Ni.St. ha comunicato che, nella seduta del 30.08.2015, l'odierna ricorrente si era classificata seconda con il punteggio finale pari a 64,62 mentre invece la gara era stata aggiudicata, provvisoriamente alla ditta Al.Co. s.r.l. con il punteggio pari a 72,50.
In data 11.12.2015 è stata, infine, pubblicata l'aggiudicazione definitiva all'odierna controinteressata Al.Co. S.r.l.
Avverso il provvedimento di aggiudicazione definitiva e gli atti in epigrafe insorgeva la Fi. s.r.l. società di ingegneria affidandosi ai seguenti motivi di diritto:
   1) VIOLAZIONE ART. 53, COMMA 23, L. 388/2000 poiché con il decreto n. 14 del 16.11.2015 il Sindaco, senza addurre motivazione alcuna, si è auto attribuito, ai sensi dell'art. 53, comma 23, L. 388/2000, la responsabilità del Servizio Tecnico con tutti i conseguenti poteri, tra cui quello di adottare ogni atto amministrativo anche in deroga al principio di separazione tra potere politico;
...
Il ricorso è infondato.
Con riferimento al primo motivo di ricorso il Tribunale osserva che l’art. 53, comma 23, della l. n. 388/2000 disponeva che "Gli enti locali con popolazione inferiore a 3mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, che riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.".
Nella versione più recente, risultante dalla modifica introdotta dal comma 4 dell'art. 29, L. 28.12. 2001, n. 448, è stato innalzato il limite dimensionale (si parla infatti di "enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti") ed è scomparso l'inciso "che riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti".
In sostanza, le esigenze di contenimento dei bilanci, almeno nei Comuni di più modeste dimensioni, possono oggi nuovamente comportare quella commistione fra politica e amministrazione.
Nel caso di specie la nomina del Sindaco è stata peraltro indotta dalle dimissioni presentate dal precedente responsabile geom. St. con decorrenza 01.11.2015 (v. decreto sindacale n. 13 del 16.11.2015) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 16.06.2016 n. 1249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALINei piccoli Comuni poteri gestionali a tutto campo per i politici.
L'art. 53, comma 23, della legge 388/2000 (Finanziaria 2001), che consente ai Comuni con meno di 5mila abitanti di attribuire compiti di gestione ai componenti dell'organo di vertice politico dell'ente, è una norma di carattere speciale che costituisce una deroga sia al principio di separazione dei ruoli tra politica e gestione amministrativa sancito dall'art. 107 del Tuel, sia al divieto di nominare nelle commissioni di gara «coloro che nel biennio precedente hanno rivestito cariche di pubblico amministratore (...) relativamente a contratti affidati dalle amministrazioni presso le quali hanno prestato servizio» (art. 84, comma 5, del codice dei contratti).

Questo il principio enunciato dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 20.11.2015 n. 5296, che assegna una valenza di grande rilievo alla norma al punto da ritenere che il disposto mosso peraltro dalle tipiche esigenze di contenimento della spesa pubblica, proprie di una legge finanziaria giustifichi una deroga sostanziale ai principi dell'ordinamento delle autonomie locali, in ragione della tutela del buon andamento dell'azione amministrativa.
I fatti
La vicenda addotta in giudizio prende avvio dal ricorso di un'impresa che impugna gli atti della procedura di gara per l'affidamento dei lavori di bonifica e messa in sicurezza dell'ex discarica dei rifiuti solidi urbani, ubicata nel territorio di un piccolo Comune.
L'impresa contesta, in particolare, che il vicesindaco, quale amministratore preposto al settore dei lavori pubblici, abbia svolto le funzioni di presidente della commissione di gara, con effetti invalidanti per l'aggiudicazione della procedura disposta a favore di un soggetto terzo.
La decisione
Il tema è estremamente delicato, in primo luogo, sotto il profilo del principio di separazione tra organi di governo e organi gestionali, secondo cui agli uni competono essenzialmente funzioni di indirizzo politico, di definizione degli obiettivi e di controllo sul complessivo svolgimento dell'attività dell'ente locale, mentre agli altri spettano invece, in via tendenzialmente esclusiva, compiti di gestione del patrimonio e degli interessi economici dell'ente medesimo, mediante l'esercizio di funzioni e responsabilità gestionali con rilevanza esterna.
Si noti, oltretutto, che l'articolo 107, comma 3, del testo unico prevede espressamente il conferimento ai dirigenti sia della presidenza delle commissioni di gara e di concorso, sia della responsabilità delle procedure di appalto e di concorso, ivi compresa la stessa nomina della commissione giudicatrice.
C'è da aggiungere che la nomina dell'amministratore nella commissione di gara sembra contraddire il principio in base al quale i membri delle commissioni delle gare pubbliche devono essere provvisti di una specifica e documentata esperienza di settore, in rapporto alla peculiarità della gara da svolgere.
Una volta accertato il vizio relativo alla mancanza della professionalità specifica occorrente, discende da ciò, in via generale, l'illegittimità della nomina della commissione e l'esigenza che l'ente adotti un provvedimento in sede di autotutela.
Si tratta di rilievi ben noti al giudice amministrativo e che tuttavia non lo distolgono dal confermare, nel caso di specie, la reiezione del ricorso avverso la composizione della commissione giudicatrice, che presiede allo svolgimento della gara indetta da un piccolo ente locale.
A suffragio di tale decisione il collegio ribadisce l'odierna vigenza dell'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, che nei Comuni di ridotta consistenza demografica prevede l'attribuzione della responsabilità degli uffici ai componenti dell'organo esecutivo, nonché il loro potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
Inutile dire che la decisione in commento trova una particolare eco specialmente in questo periodo, che registra una battuta d'arresto nell'attuazione degli obblighi di gestione associata per quasi 6mila piccoli enti, che rappresentano ben il 70% di tutti i Comuni italiani ((articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.11.2015).
---------------
SENTENZA
   - da respingere è anche l’eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione del regolamento degli uffici e servizi del Comune di Luogosano, nella parte in cui è stata recepita la facoltà prevista per i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti dall’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 (legge finanziaria per il 2001) di derogare al principio della separatezza tra funzioni di indirizzo politico e gestionali enunciato dall’art. 107 t.u.e.l., ivi attribuendosi ai componenti della giunta la responsabilità degli uffici e dei servizi (facoltà introdotta dall’amministrazione resistente con delibera giuntale n. 9 del 10.01.2007, di modificazione del citato regolamento);
   - come infatti pone in evidenza la società appellante, e contrariamente a quanto ritenuto dal TAR (che ciò nondimeno ha esaminato nel merito il ricorso), la contestazione da essa formulata nel presente giudizio è diretta non già alla preposizione del vicesindaco prof. An.An. di Gr. al settore lavori pubblici, ambiente ed ecologia del Comune di Luogosano (con decreto sindacale prot. n. 1453 del 10.06.2011), ma alla nomina dello stesso a presidente della commissione giudicatrice della procedura di affidamento qui in contestazione, unico atto lesivo degli interessi della Hg.Am., all’esito dell’aggiudicazione della gara a terzi (nei termini sopra esposti);
   - più precisamente, secondo la chiara prospettazione della società, la nomina in questione viene ritenuta in contrasto con i principi «in tema di separazione di attività di indirizzo e attività di gestione» (così l’intitolazione dell’unico motivo di ricorso e d’appello) e con l’art. 84, cod. contratti pubblici (anch’esso richiamato nelle intitolazioni), ed in particolare, come si evince dalla narrativa della censura formulata nel presente appello, in primo luogo (§ 2.1) con il divieto, contenuto nel comma 5 della citata disposizione, di nominare commissari delle procedure da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa «Coloro che nel biennio precedente hanno rivestito cariche di pubblico amministratore (…)relativamente a contratti affidati dalle amministrazioni presso le quali hanno prestato servizio»; ed in secondo luogo (§ 2.3) con la regola che impone che i commissari esterni diversi dal presidente della commissione siano in possesso di «adeguate professionalità», ai sensi del comma 8 del medesimo art. 84;
   - la censura così articolata è ulteriormente corroborata dalla Hg.Am. dalla circostanza che per tutte le 150 valutazioni da effettuare con riguardo ai profili tecnici delle offerte presentate in gara, in applicazione del metodo aggregativo-compensatore previsto nel bando, i commissari hanno espresso lo stesso coefficiente (§ 2.2).
2. Passando dunque ad esaminare il motivo nel merito, lo stesso deve essere respinto, per la decisiva considerazione che la citata norma di legge finanziaria del 2001 che consente ai comuni di più ridotta consistenza demografica di attribuire compiti di gestione amministrativa ai componenti dell’organo di vertice politico dell’ente è da considerarsi norma speciale e derogatoria, tanto rispetto al principio di separazione politica – amministrazione sancito dal parimenti citato art. 107 t.u.e.l., quanto all’art. 84 cod. contratti pubblici.
Si tratta infatti di una previsione che ha l’evidente scopo di assicurare la necessaria funzionalità ai comuni “
polvere”, i cui organici sono privi di posizioni dirigenziali, permettendo loro di coprire le posizioni apicali all’interno della propria “micro-struttura” mediante ricorso ai componenti dell’organo di direzione politica.
3. Le ragioni che giustificano questa deroga al principio di separazione poc’anzi enunciato comporta non può quindi che comportare, quale ulteriore e coerente conseguenza, che il componente della giunta cui è attribuita la responsabilità dei servizi comunali è pienamente investito delle funzioni connesse a tale attribuzione, ivi compresa quella di presidenza delle commissioni di gare per l’affidamento di contratti d’appalto da parte dell’ente, ai sensi del comma 3 del più volte citato art. 84, nonché del comma 1, lett. a) del medesimo art. 107 d.lgs. n. 267/2000 (secondo il quale ai dirigenti sono attribuiti «tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi», tra i quali «la presidenza delle commissioni di gara»).
In virtù della medesima deroga deve conseguentemente essere ritenuto inapplicabile il divieto enunciato dal successivo comma 5 del medesimo art. 84, sopra richiamato.
3. Il sacrificio così imposto alle ragioni di imparzialità amministrativa invece perseguite dalla disposizione del codice dei contratti pubblici richiamata dalla società appellante è dunque pienamente giustificato da ragioni di buon andamento dell’attività amministrativa, e dunque da esigenze aventi pari rango costituzionale. Alla luce di quest’ultima notazione la questione di legittimità costituzionale della norma di legge finanziaria 2001 sollevata dalla società appellante deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

COMPETENZE GESTIONALI: COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAmministratori degli enti locali. Sindaco. Incarico di P.O. e d.lgs. 39/2013.
Atteso che l'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 si configura quale norma speciale, sembra potersi ritenere prevalente sulla norma successiva introdotta dall'art. 12, comma 1, del d.lgs. 39/2013.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità che il Sindaco, cui è stata conferita la titolarità di una posizione organizzativa dell'area tecnica in applicazione dell'art. 53, comma 23, della l. 388/2000, possa mantenere detto incarico alla luce di quanto disposto dall'art. 12, comma 1, del d.lgs. 39/2013, che recita testualmente: 'Gli incarichi dirigenziali, interni ed esterni, nelle pubbliche amministrazioni (...) sono incompatibili con l'assunzione e il mantenimento, nel corso dell'incarico, della carica di componente dell'organo di indirizzo nella stessa amministrazione o nello stesso ente pubblico che ha conferito l'incarico (...)'.
Com'è noto, l'
art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, come novellato dall'art. 29, comma 4, della l. 448/2001, prevede che gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 [1], anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni [2], e all'articolo 107 [3] del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
La predetta norma, quindi, ha espressamente introdotto la possibilità di deroga al generale principio di separazione dei poteri, nei piccoli enti, al fine di favorire anche il contenimento della spesa e consentire comunque soluzioni di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà di modeste dimensioni demografiche.
Il richiamato d.lgs. 39/2013 stabilisce, tra l'altro, una serie articolata e minuziosa di cause di inconferibilità e incompatibilità, con riferimento a determinate tipologie di incarichi.
In particolare, l'art. 12, comma 1, definisce le cause di incompatibilità tra l'assunzione e il mantenimento di incarichi dirigenziali 
[4], interni ed esterni, e la carica di componente dell'organo di indirizzo nella stessa amministrazione che ha conferito l'incarico.
Come già da tempo rilevato, tale norma sembra porsi in netto contrasto con le previsioni di cui al comma 23 dell'art. 53 della l. 388/2000 
[5].
Premesso che le valutazioni in ordine all'effettiva sussistenza di detto apparente contrasto spettano esclusivamente alle competenti autorità statali (ANAC), in via collaborativa si esprimono le seguenti considerazioni.
In relazione al raccordo tra le fonti legislative di cui si discute, preme rilevare che l'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 si configura, dal punto di vista giuridico, quale norma speciale (applicabile esclusivamente nei comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, in deroga al consolidato principio di separazione dei poteri) e, come tale, prevalente sulla disciplina, di portata generale in materia di inconferibilità e incompatibilità, intervenuta successivamente ad opera del d.lgs. 39/2013.
E' da sottolineare, infatti, che il criterio della specialità viene a porsi quale limite all'applicazione del generale principio della successione delle leggi nel tempo, secondo il consolidato canone 'lex posterior generalis non derogat legi priori speciali'. Pertanto, il principio contenuto in una normativa speciale risulta insuscettibile di abrogazione tacita 
[6] o implicita da parte di una norma generale sopravvenuta.
Come rilevato dalla Suprema Corte, 'la regola dell'abrogazione non si applica quando la legge anteriore sia speciale od eccezionale e quella successiva, invece, generale (...), ritenendosi che la disciplina generale - salvo espressa volontà contraria del legislatore - non abbia ragione di mutare quella dettata, per singole o particolari fattispecie, dal legislatore precedente. Le norme speciali sono norme dettate per specifici settori o per specifiche materie, che derogano alla normativa generale per esigenze legate alla natura stessa dell'ambito disciplinato ed obbediscono all'esigenza legislativa di trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse (...) E' ovvio che (...) le norme speciali (...) si pongano in termini di deroga rispetto a regole generali, perché finalizzate o a 'calibrare certi istituti alle particolarità specifiche di un determinato settore o perché sono gli stessi presupposti di fatto che impongono un intervento legislativo derogatorio delle regole vigenti
[7].
Si segnala, infine, che l'ANCI aveva formulato una proposta di emendamento 
[8]
 al DDL recante 'Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato'- Legge di stabilità 2015, ritenendo necessario specificare la vigenza della disposizione di cui all'art. 53, comma 23, della l. 388/2000, 'attesa la finalità di contenimento della spesa cui è preposta ed il carattere di specialità della stessa, valevole solo per i piccoli Comuni'.
---------------
[1] In virtù di tale norma il segretario comunale esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco.
[2] Ora art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] La norma prevede l'attribuzione ai dirigenti di tutti i compiti non compresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo.
[4] A mente di quanto disposto dall'art. 2, comma 2, del medesimo d.lgs. 39/2013, al conferimento negli enti locali di incarichi dirigenziali è assimilato quello di funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale (incarico di posizione organizzativa).
[5] Cfr. Conferenza delle Regioni e delle province autonome, ANCI-UPI, Documento di sintesi sui possibili contenuti delle intese ex commi 60 e 61 dell'art. 1 della l. 190/2012, dell'11.07.2013, in cui si evidenziava l'opportunità che le intese precisassero il persistere della vigenza delle previsioni di cui al comma 23, dell'art. 53, della l. 388/2000.
[6] Cfr. parere ANCI del 18.09.2014, ove si rileva che la deroga introdotta dall'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 è tanto più significativa a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 39/2013, evidenziando che: 'La portata disapplicativa della norma lascia presumere, in assenza di indicazioni contrarie, che in quanto lex specialis debba prevalere sulle disposizioni generali in tema di incompatibilità, escludendosi quindi un'ipotesi di abrogazione tacita (per il principio lex posterior derogat priori).
[7] Cfr. Corte di Cass. civ., Sez. lavoro,
n. 4900/2012.
[8] 'All'articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 è aggiunto infine il seguente capoverso: Restano in ogni caso ferme le previsioni di cui al comma 23 dell'articolo 53 della legge 23.12.2000, n. 388'
(30.01.2015 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).).

COMPETENZE GESTIONALIUn Sindaco in via temporanea ha conferito, ai sensi dell’art. 53, c. 23, della legge 388/2000, ad un assessore municipale l’incarico di dirigenza dell’area amministrativa nonostante la presenza nell’area di dipendenti di cat. D e C, mentre per le ...
Sintesi/Massima

Il surrichiamato art. 15 del CCNL 22.01.2004 ha definitivamente chiarito che negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo l’ordinamento organizzativo dell’ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli artt. 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999.
Alla luce delle citate disposizioni, appare evidente che negli enti privi di qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa.
Pur dovendosi ritenere tuttora applicabile l’art. 53, comma 23, della legge 388/2000 il ricorso a tale disposizione resta, comunque, limitato e subordinato alla non concessione della posizione organizzativa al personale in possesso della qualifica apicale dell’ente, al fine del conseguimento di un effettivo risparmio di spesa.
Per quanto attiene all’ultimo quesito si fa presente che la materia attiene alla competenza dell’Albo nazionale dei segretari comunali e provinciali cui la presente è anche diretta.

Testo
Con una nota un segretario comunale di un ente, ha rappresentato che con un provvedimento il sindaco, in via temporanea, ha conferito, ai sensi dell'art. 53, comma 23, della legge 388/2000, ad un assessore Municipale l'incarico della dirigenza dell'area amministrativa nonostante la presenza nell'area di dipendenti di cat. D e C, mentre per le altre aree, contabile e tecnica, sono stati lasciati in vita gli incarichi di posizione organizzativa.
All'uopo è stato chiesto di conoscere se detta normativa: possa ritenersi ancora applicabile, anche alla luce della disciplina contrattuale di cui all'art. 15 del CCNL 21.01.2004; possa applicarsi anche in assenza della modifica del regolamento sull'ordinamento degli uffici ed dei servizi, che attualmente non disciplina la fattispecie; possa essere applicata per un solo settore di attività; possa essere giustificabile con la sola vacanza in organico di dipendenti preposti alla direzione di strutture. E' stato, inoltre, chiesto se il controllo di regolarità amministrativa nella fase successiva all'atto di cui all'art. 3 del DL 174/2012 consentito nella legge 213/2012 possa essere espletato dal medesimo segretario comunale nei confronti dell'assessore municipale incaricato della dirigenza.
In merito ai cennati quesiti si formulano nel complesso le seguenti osservazioni.
L'art. 53, comma 23, della legge 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 488/2001, com'è noto, consente agli enti locali, in presenza di determinati presupposti (avere una popolazione inferiore a 5.000 ab., non aver affidato le relative funzioni al segretario comunale in base all'art. 97, c. 4, lett. d), del D.Lgs. n. 267/2000, poter conseguire risparmi di spesa), la possibilità di adottare disposizioni regolamentari organizzative, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale, senza la necessità di dimostrare la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee.
Il carattere speciale della norma, che introduce una deroga al generale principio di separazione dei poteri, richiede necessariamente il rispetto delle condizioni poste dalla norma medesima per la sua legittima applicazione. A tal fine si ritiene necessaria la sussistenza di un apposito atto di giunta o regolamentare che disciplini la fattispecie. Inoltre, data la specialità della norma, giova evidenziare che il contenimento della spesa deve essere documentato annualmente in sede di approvazione del bilancio.
Si rammenta, inoltre, che il surrichiamato art. 15 del CCNL 22.01.2004 ha definitivamente chiarito che negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli artt. 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999. Alla luce delle citate disposizioni, appare evidente che negli enti privi di qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa. Conseguentemente, pur dovendosi ritenere tuttora applicabile l'art. 53, comma 23, della legge 388/2000 il ricorso a tale disposizione resta, comunque, limitato e subordinato alla non concessione della posizione organizzativa al personale in possesso della qualifica apicale dell'ente, al fine del conseguimento di un effettivo risparmio di spesa.
Peraltro, all'applicazione della disposizione in commento non osta il fatto che la stessa venga utilizzata per un solo settore di attività, tenuto conto che l'ente gode di ampia autonomia nelle proprie scelte organizzative.
Per quanto attiene all'ultimo quesito si fa presente che la materia attiene alla competenza dell'Albo nazionale dei segretari comunali e provinciali cui la presente è anche diretta (Ministero dell'Interno, parere 18.12.2014 - tratto da e link a https://dait.interno.gov.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Personale degli enti locali. Incarico di P.O. a organo politico.
L'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 consente, negli enti locali con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, previa adozione di disposizioni organizzative regolamentari, l'attribuzione della responsabilità degli uffici ai componenti dell'organo esecutivo, anche in presenza di dipendenti ascritti alla categoria D nell'organico dell'amministrazione.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità che un “consigliere/assessore (esterno)” svolga le funzioni di posizione organizzativa, in presenza di figure professionali, nell’organico dell’Ente, ascritte alla categoria D.
L’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, come novellato dall’art. 29, comma 4, della l. 448/2001, prevede che gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[1], anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni [2], e all’articolo 107 [3] del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Si sottolinea preliminarmente che la disposizione in esame si riferisce all’attribuzione di funzioni gestionali a componenti dell’organo esecutivo delle amministrazioni locali: ne consegue l’inapplicabilità della stessa nei confronti di soggetti che ricoprano esclusivamente la carica di consigliere comunale.
La predetta norma ha espressamente introdotto la possibilità di deroga al generale principio di separazione dei poteri, nei piccoli enti, al fine di favorire anche il contenimento della spesa e consentire comunque soluzioni di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà di modeste dimensioni demografiche.
Si ritiene utile precisare, a tal proposito, che la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della sua concreta applicazione, richieda che l’attribuzione di responsabilità degli uffici e dei servizi comunali ai componenti degli organi esecutivi, ed il conseguente potere degli stessi di adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano essere previsti da specifiche norme regolamentari organizzative
[4]. L’adozione della richiesta norma organizzativa si pone, pertanto, quale condizione necessaria per l’applicazione dell’articolo in esame, con la conseguenza che, in mancanza di detto preliminare adempimento, si renderebbe, di fatto, inapplicabile la norma stessa [5].
E’ da notare inoltre che la modifica apportata alla norma in esame dall’art. 29, comma 4, della l. 448/2001, non solo ha esteso tale facoltà anche ai comuni con popolazione fino a 5mila abitanti
[6] (comma 4, lett. a) ma ha anche abrogato la condizione precedentemente prevista, che imponeva la verifica preliminare dell’assenza non rimediabile, nella struttura comunale, di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti (comma 4, lett. b).
Pertanto la scelta, da parte del Comune, di avvalersi della potestà derogatoria al principio di separazione dei poteri può avvenire attualmente anche in presenza di dipendenti appartenenti alla categoria D
[7].
---------------
[1] In virtù di tale norma il segretario comunale esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco.
[2] Ora art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] La norma prevede l’attribuzione ai dirigenti di tutti i compiti non compresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo.
[4] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
sentenza 29.07.2008 n. 9545.
[5] Il giudice amministrativo ha individuato proprio nella determinazione di carattere organizzativo la fonte legittimante del potere esercitato (nella fattispecie esaminata) dal Sindaco cui erano state attribuite le funzioni di responsabile del Servizio tecnico (Cfr. TAR Emilia Romagna, sez. staccata di Parma
sentenza n. 160 del 2009).
[6] Nella precedente formulazione la norma era riferita esclusivamente ai Comuni con popolazione fino a 3mila abitanti.
[7] Cfr. parere
30.09.2003 del Ministero dell’Interno, consultabile in http://incomune.interno.it/pareri
(16.12.2014 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Il comma 23 dell'art. 53 della legge n. 388 del 2000, nel testo modificato dell'art. 29, comma 3, della legge 28.12.2001, n. 448 ha il carattere facoltativo, cioè di previsione di scelta affidata al singolo Comune e nello stesso tempo mantiene fermo il presupposto già previsto (per l'attribuzione di competenze all'organo esecutivo) di concorrente realizzo di contenimento di spesa, annualmente documentata in apposita deliberazione in sede di approvazione di bilancio (conf: Corte Cost. sentenza 16.01.2004 n. 17).
---------------

... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, dell'Ordinanza n. 16/2012 avente ad oggetto il provvedimento di sgombero della parte di strada di strada comunale inglobato nel perimetro della discarica.
...
   Visto l'art. 53, comma 29, della Legge n. 388 del 2000, nel testo modificato dalla dall'art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448 secondo cui: "Gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio";
   Ritenuto che il comma 23 dell'art. 53 della legge n. 388 del 2000, nel testo modificato dell'art. 29, comma 3, della legge 28.12.2001, n. 448 ha il carattere facoltativo, cioè di previsione di scelta affidata al singolo Comune e nello stesso tempo mantiene fermo il presupposto già previsto (per l'attribuzione di competenze all'organo esecutivo) di concorrente realizzo di contenimento di spesa, annualmente documentata in apposita deliberazione in sede di approvazione di bilancio (conf: Corte Cost. sentenza 16.01.2004 n. 17);
   Considerato che, nella specie, l’assessore risulta essere stato nominato responsabile dell’area funzionale tecnica con decreto sindacale n. 18/2011 e che il regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, approvato con Deliberazione di GC. n. 84 del 10.12.2001 e ss.mm.ii. (soggetto alle forme di pubblicità generale) contempla la possibilità di affidare la direzione delle aree anche ai componenti della giunta (art. 7, comma 1, regolamento);
   Considerato che non è in contestazione il fatto che, nel caso di specie, non sia intervenuta la previa deliberazione di contenimento della spesa, come dedotto dalla ricorrente società;
   Ritenuto, pertanto, all’esito di una sommaria delibazione, che risulta fondata la censura con cui si deduce difetto di competenza;
P.Q.M.
   il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima), accoglie e fissa la prima pubblica udienza utile del mese di febbraio dell’anno 2013 (TAR Calabria-Reggio Calabria, ordinanza 08.06.2012 n. 284 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Richieste di parere formulate da un segretario di un comune intese a conoscere se sia possibile attribuire ai componenti dell’organo politico competenze gestionali, nonostante l’esistenza in pianta organica di personale di categoria D e se sia possibile ...
Sintesi/Massima
Per il primo quesito l’art. 53, comma 23, legge 388/2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge 488/2001, consente agli enti locali in presenza di determinati presupposti, la possibilità di adottare disposizioni regolamentari organizzative, attribuendo ai titolari dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Appare evidente che negli enti privi di qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa.
Per il secondo quesito, trattasi di due posizioni giuridiche che non possono essere considerate equivalenti, pertanto non appare possibile, come sostenuto dall’Aran, coprire per mobilità un posto di categoria D1 con un dipendente in possesso di trattamento tabellare iniziale in D3.

Testo
Un prefettura con una nota ha trasmesso le richieste di parere formulate dal segretario di un comune indirizzate a codesto Dipartimento, intese a conoscere se sia possibile attribuire ai componenti dell'organo politico competenze gestionali, nonostante l'esistenza in pianta organica di personale di categoria D e se sia possibile coprire per mobilità un posto vacante di cat. D1 con un soggetto in possesso della cat. giuridica D3, avendo acquisito la preventiva dichiarazione da parte dell'interessato di rinuncia alla categoria di appartenenza.
Riguardo al primo quesito, l'art. 53, comma 23, della legge 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 488/2001, consente agli enti locali, in presenza di determinati presupposti (avere una popolazione inferiore a 5.000 ab., non aver affidato le relative funzioni al segretario comunale in base all'art. 97, c. 4, lett. d), del D.Lgs. n. 267/2000, poter conseguire risparmi di spesa), la possibilità di adottare disposizioni regolamentari organizzative, attribuendo ai titolari dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale, senza la necessità di dimostrare la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee.
Ciò posto, si rammenta che l'art. 15 del CCNL 22.01.2004 ha definitivamente chiarito che negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli artt. 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999.
Alla luce delle citate disposizioni, appare evidente che negli enti privi di qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa. Conseguentemente, il ricorso all'art. 53 sopracitato resta limitato e subordinato alla non concessione della posizione organizzativa al personale in possesso della qualifica apicale dell'ente, al fine del conseguimento di un effettivo risparmio di spesa.
Relativamente al secondo quesito, il sistema di classificazione del personale degli enti locali di cui al CCNL 31.03.1999 prevede, nell'ambito della categoria D, due diverse soglie di accesso relative alla posizione D1 (ex 7^ qualifica funzionale) e alla posizione D3 (ex 8^qualifica funzionale).
Trattasi di due posizioni giuridiche che non possono essere considerate equivalenti, tenuto conto del differente trattamento stipendiale iniziale. Pertanto, non appare, possibile, come in più occasioni sostenuto dall'Aran, coprire per mobilità un posto di categoria D1 con un dipendente in possesso di un profilo professionale avente il trattamento tabellare iniziale in D3, in quanto ciò si tradurrebbe in una dequalificazione professionale del dipendente, rispetto alle mansioni svolte, proprie di un profilo professionale corrispondente alla categoria D3.
A nulla rileva, peraltro, l'eventuale consenso del lavoratore alla modifica, con conservazione del trattamento economico in godimento, del proprio profilo professionale, (da D3 a D1), in quanto l'eventuale accordo potrebbe essere impugnato dal lavoratore entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro (Ministero dell'Interno, parere 29.03.2012 - tratto da e link a https://dait.interno.gov.it).

COMPETENZE GESTIONALIL’art. 53, comma 29, della Legge n. 388 del 2000 ha stabilito che, nei Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, le funzioni dirigenziali possono essere attribuite ai componenti della giunta, previa introduzione di apposite disposizioni regolamentari.
Si tratta di un caso paradigmatico in cui il Legislatore, in presenza di un’esigenza ragionevole, costituzionalmente rilevante in quanto collegata al buon andamento (segnatamente l’esigenza di contenere i bilanci nei Comuni di più modeste dimensioni) ha optato per un parziale ritorno alla commistione fra politica e amministrazione, il cui superamento ha invece rappresentato un principio cardine delle riforme nell’ultimo decennio del secolo scorso.
---------------

Il Sindaco del comune di Pellio Intelvi (CO) –comune con popolazione inferiore ai 5mila abitanti e quindi non soggetto al Patto di Stabilità (PSI)- ha chiesto un parere sostanzialmente articolabile in due quesiti:
   i) se il compenso previsto per il personale non dirigente che ricopra funzioni afferenti alla dirigenza ai sensi dell’art. 109, comma 2, T.U.E.L sia da considerarsi “trattamento accessorio” ai sensi dell’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122;
   ii) se in ogni caso –in base ad un’interpretazione che, secondo le prospettazioni dell’ente, sarebbe “costituzionalmente orientata” poiché rispettosa dell’autonomia comunale ai sensi dell’art. 114 Cost.- si debba ritenere sottratta agli effetti di tale norma finanziaria l’attribuzione di posizione organizzativa ai sensi dell’art. 109, comma 2, T.U.E.L., secondo cui, negli enti privi di dirigenza, è possibile affidare le funzioni dirigenziali a risorse prive di tale status. Ciò anche laddove tale scelta si traducesse in uno sforamento del tetto previsto per i trattamenti accessori del personale dal comma 2-bis dell’art. 9 del D.L. n. 78, pari all’ammontare complessivo delle risorse destinate per tale tipo di trattamento nell’anno 2010.
...
2. Quanto al quesito sub ii) sulla possibilità o meno dei comuni privi di dirigenza, di procedere comunque ed in ogni caso alla retribuzione del personale non dirigente incaricato ai sensi del comma 2 dell’art. 109 T.U.E.L., a prescindere dal superamento del tetto fissato dall’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78 del 2010, la Sezione ritiene che la questione rimanga assorbita da quanto sopra richiamato a proposito dell’identificazione della base di calcolo della norma (l’“ammontare complessivo”) con i fondi per la contrattazione decentrata.
Peraltro, in generale, le considerazioni effettuate dal comune meritano qualche riflessione, in quanto le argomentazioni spese potrebbero in linea di massima trasportarsi sul piano degli altri vincoli di finanza pubblica in materia di personale, pur non rilevando, nel caso di specie, l’applicazione del ridetto art. 9, comma 2-bis: l’ente richiedente, infatti, nella sua prospettazione ritiene possibile sottrarsi ad un vincolo di spesa per la necessità di assicurare la distinzione tra politica e amministrazione, anche nei comuni di piccoli dimensioni, separazione che avrebbe un fondamento costituzionale e che imporrebbe, perciò, una “interpretazione costituzionalmente orientata” della summenzionata disciplina vincolistica.
Si tratta perciò di capire se ed in che modo una simile argomentazione possa essere posta a fondamento di deroghe agli altri limiti posti in tema di spesa per il personale, in particolare l’art. 1, comma 562, della legge 296/2006.
In primo luogo, è indubitabile che la separazione tra gestione e indirizzo politico sia un principio fondamentale dell’organizzazione pubblica delineatosi nel corso degli anni ‘90; tuttavia, come ricavabile dalla giurisprudenza della Consulta in materia di spoils system (sentenze nn. 233 del 2006; 103 e 104 del 2007; 161 del 2008; 81 del 2010; 124 del 2011), si tratta di un principio che -pur avendo un fondamento costituzionale- rimane di matrice legislativa ordinaria.
Il principio, infatti, esprime uno dei possibili moduli organizzativi attraverso cui realizzare i principi di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost. ed il Legislatore è libero di individuare modelli alternativi e diversi, che prevedono vari livelli di compenetrazione o separazione tra politica e gestione, salvo il limite costituzionale di ragionevolezza di tale scelte, imposto dal citato art. 97 Cost. Tale disposizione costituzionale, infatti, impone al Legislatore di bilanciare il buon andamento dell’azione amministrativa (principio che può giustificare -ad esempio, con riferimento ai ruoli di dirigenza apicali- l’assottigliamento dei diaframmi tra organi politici e amministrazione, in modo da consentire un’immediata traduzione in atti amministrativi delle direttive politiche, cfr. sent. 233/2006, punto 4.1. in diritto) con il principio di imparzialità, che nella separazione e nel giusto procedimento vede dei precipitati certamente essenziali (cfr. sent. 103/2007, punto 9.2. e sent. 104/2007, punto 2.8.-2.10 in diritto).
Del resto, come ha ben ricordato il comune nella propria istanza di parere,
l’art. 53, comma 29, della Legge n. 388 del 2000 ha stabilito che, nei Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, le funzioni dirigenziali possono essere attribuite ai componenti della giunta, previa introduzione di apposite disposizioni regolamentari. Si tratta di un caso paradigmatico in cui il Legislatore, in presenza di un’esigenza ragionevole, costituzionalmente rilevante in quanto collegata al buon andamento (segnatamente l’esigenza di contenere i bilanci nei Comuni di più modeste dimensioni) ha optato per un parziale ritorno alla commistione fra politica e amministrazione, il cui superamento ha invece rappresentato un principio cardine delle riforme nell’ultimo decennio del secolo scorso (cfr. in tal senso TAR Campania, Napoli, sez. V, sentenza 22.10.2003, n. 13054).
In secondo luogo, la caratteristica fondamentale della disciplina finanziaria è quella di non interferire mai, direttamente (a meno di deroghe espresse), con la disciplina ordinamentale (cfr. deliberazioni di questa Sezione nn. 679 e 680/2011/PAR): in linea di massima, essa tiene fermi capacità, facoltà, obblighi, e divieti sostanziali imputabili all’amministrazione; piuttosto introduce indirette limitazioni alla discrezionalità operativa degli enti che, a causa dei predetti limiti, sotto la propria responsabilità, devono effettuare scelte gestionali che li mettano in condizione di esercitare facoltà e adempiere doveri compatibilmente con il rispetto di tali obbiettivi di spesa.
Questo vale anche per l’esercizio di legittime prerogative, come, nel caso di specie, l’affidamento di funzioni dirigenziali a soggetti privi della qualifica dirigenziale, laddove manchino dipendenti con lo status di dirigente, ai sensi dell’art. 109 T.U.E.L.. Tale scelta, infatti, non può prescindere dalla valutazione degli effetti economici sul bilancio dell’ente e dal rispetto del tetti massimi per la spesa per il personale.
In definitiva, è onere dell’amministrazione adottare moduli organizzativi che consentano di dotarsi di soggetti abilitati ad agire con i poteri dei dirigenti con i necessari risparmi di spesa, come, ad esempio, l’attribuzione di tali funzioni ai componenti dell’organo esecutivo (ai sensi dell’art. 53 della Legge n. 388 del 2000). In ogni caso, resta ferma la necessità per l’amministrazione medesima di verificare la compatibilità di qualsiasi scelta con la vigente disciplina finanziaria (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 08.03.2012 n. 59).

COMPETENZE GESTIONALI: Personale degli enti locali. Poteri di gestione all'organo esecutivo. Rilevazione popolazione del Comune.
La popolazione del comune da considerare, ai fini dell'applicazione del disposto dell'art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, è quella risultante dalla rilevazione del censimento generale della popolazione, ai sensi della normativa vigente.
Il Comune ha chiesto di conoscere con quale criterio si debba calcolare la popolazione dell’Ente, ai fini dell’applicazione di quanto disposto dall’art. 29 della L. n. 448/2001. In particolare, l’Amministrazione si è posta la questione se si debba far riferimento ai dati del censimento generale della popolazione o se, invece, si debba tener conto di quanto disposto dall’art. 12, comma 32, della L.R. n. 17/2008.
L’
art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, prevede che gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
La citata norma prevede, pertanto, per i comuni di minori dimensioni, la possibilità di affidare la responsabilità di determinati settori comunali anche ai componenti della giunta, introducendo una deroga espressa al principio di separazione dei poteri, per cui spetta agli organi di governo esercitare funzioni di indirizzo politico-amministrativo, mentre agli organi burocratici (dirigenti e posizioni organizzative) compete l’adozione degli atti e provvedimenti gestionali.
L’art. 12, comma 32, della L.R. n. 17/2008, prevede che, ai fini di quanto disposto dall’articolo medesimo della legge regionale, si deve considerare la popolazione dei comuni risultante, al 31 dicembre del penultimo anno precedente a quello di riferimento, dai dati delle anagrafi comunali, contenuti nella rilevazione statistica ufficiale della Regione, desunti dalla <<
Rilevazione sulla popolazione residente comunale per sesso, anno di nascita e stato civile (Istatt/Posas)>> individuata dal programma statistico nazionale, previsto dal decreto legislativo 06.09.1989, n. 322 (Norme sul Sistema statistico nazionale e sulla riorganizzazione dell’istituto nazionale di statistica, ai sensi dell’articolo 24 della legge 23.08.1988, n. 400).
Si ritiene, ad ogni buon conto, che le indicazioni fornite dalla citata norma si riferiscano alle disposizioni inerenti, nello specifico, al patto di stabilità interno e al contestuale contenimento della spesa di personale, con esclusiva applicabilità ai fini predetti.
Qualora non vi sia una norma specifica che disponga diversamente, si reputa che, per determinare la popolazione di un comune, si debba fare riferimento ai dati demografici risultanti dall’ultimo censimento, in applicazione della regola secondo cui la “
popolazione legale” è determinata dal censimento generale della popolazione, come da ultimo ribadito dall’art. 2, comma 1, lett. b), e dall’art. 3, comma 2, del D.P.R. 22.05.2001, n. 276
[1].
Anche la giurisprudenza amministrativa ha rilevato che la locuzione “
popolazione del comune” deve essere interpretata, alla stregua dei principi del nostro ordinamento giuridico
[2] intendendosi, pertanto, la popolazione legale, vale a dire, la “popolazione residente censita”, non potendo prendersi, ad esempio, in considerazione il concetto di popolazione anagrafica, specie allorché i dati ricavati dall’anagrafe si pongano in contrasto con gli atti ufficiali emanati a conclusione del censimento, attestando una popolazione del comune diversa da quella che per legge va, invece, mantenuta ferma da un censimento all’altro [3].
Pertanto, si è dell’avviso che, nell’ipotesi prospettata dall’Ente, si debba far, comunque, riferimento ai dati del censimento generale della popolazione.
---------------
[1] Recante regolamento di esecuzione del 14° censimento della popolazione, del censimento generale delle abitazioni e dell’8° censimento dell’industria e dei servizi, a norma dell’art. 37 della L. 17.05.1999, n. 144.
[2] Nella fattispecie esaminata si richiamava l’ art. 2, comma 2, del d.p.r. 23.07.1991 n. 254, contenente il regolamento di esecuzione del 13mo censimento generale della popolazione di cui alla legge 09.01.1991, n. 11.
[3] Cfr. TAR Lazio, Latina, sentenza n. 363 del 13.04.1994
(21.01.2010 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).).

COMPETENZE GESTIONALI: Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001 n. 448 che modifica il comma 29 dell'art. 53 della Legge n. 388/2000.
Invero, trattasi di intervento legislativo statale riguardante ”l'organo esecutivo” comunale e le funzioni essenziali attribuibili allo stesso organo, settore che -pur appartenente in linea di principio alla materia dell'organizzazione degli enti locali- resta enucleato dalla norma costituzionale ed attribuito alla competenza esclusiva dello Stato in forza dell'art. 117, comma secondo, lett. p) della Costituzione.
Del resto la innovazione apportata dalla disposizione denunciata conserva il carattere facoltativo, cioè di previsione di scelta affidata al singolo Comune e nello stesso tempo mantiene fermo il presupposto già previsto (per l'attribuzione di competenze all'organo esecutivo) di concorrente realizzo di contenimento di spesa, annualmente documentata in apposita deliberazione in sede di approvazione di bilancio.

---------------
1.- Con tre separati ricorsi la Regione Marche, la Regione Toscana e la Regione Basilicata hanno impugnato la legge 28.12.2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2002) censurando una serie di disposizioni, tra cui l'art. 29 della stessa legge.
Con ricorso n. 10 del 2002 la Regione Marche ha sollevato, in riferimento agli artt. 117, commi secondo, lettera e), quarto e sesto, e 119 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 29, commi 1, 2, 3, 4 e 5, della legge 28.12.2001, n. 448.
...
2.- Stante la sostanziale identità dell'oggetto e la evidente connessione delle questioni proposte, i tre giudizi possono essere riuniti e definiti con unica sentenza per quanto attiene al predetto art. 29 della legge n. 448 del 2001, mentre resta riservata a separate pronunce ogni decisione sulle ulteriori questioni di legittimità costituzionale della medesima legge.
3.- L'art. 29 della legge n. 448 del 2001 stabilisce una serie di misure tendenti a rafforzare l'efficienza e la economicità di gestione delle pubbliche amministrazioni.
...
6.- Il comma 4 dell'art. 29, modifica il comma 29 dell'art. 53 della Legge n. 388 del 2000. Tale ultima disposizione prevedeva che gli enti locali con popolazione inferiore a 3mila abitanti che dimostrassero la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti, anche al fine di operare un contenimento della spesa, potessero adottare disposizioni regolamentari organizzative, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo (Sindaco e assessori) la responsabilità degli uffici e dei servizi e il potere di porre in essere anche atti di natura tecnico gestionale.
La norma impugnata ha elevato a 5mila abitanti il limite dimensionale degli enti locali per l'applicabilità della suddetta disciplina e ha soppresso il presupposto della mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti.
6.1.- La Regione Marche (reg. ric. n. 10 del 2002) censura il predetto comma 4 dell'art. 29, in quanto violerebbe l'art. 117, comma quarto, della Costituzione, che riserva alla competenza legislativa regionale cd. residuale la materia dell'organizzazione degli enti locali.
Anche la Regione Basilicata (reg. ric. n. 20 del 2002) denuncia in via generale la lesione della competenza regionale in materia di organizzazione.
6.2.- La questione è infondata.
Infatti, trattasi di intervento legislativo statale riguardante ”l'organo esecutivo” comunale e le funzioni essenziali attribuibili allo stesso organo, settore che -pur appartenente in linea di principio alla materia dell'organizzazione degli enti locali- resta enucleato dalla norma costituzionale ed attribuito alla competenza esclusiva dello Stato in forza dell'art. 117, comma secondo, lettera p) della Costituzione.
Del resto la innovazione apportata dalla disposizione denunciata conserva il carattere facoltativo, cioè di previsione di scelta affidata al singolo Comune e nello stesso tempo mantiene fermo il presupposto già previsto (per l'attribuzione di competenze all'organo esecutivo) di concorrente realizzo di contenimento di spesa, annualmente documentata in apposita deliberazione in sede di approvazione di bilancio.
D'altro canto la norma lascia spazio alla prevista potestà regolamentare dei Comuni in materia di organizzazione e svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 117, secondo comma, della Costituzione).
...
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunzie ogni decisione sulle ulteriori questioni di legittimità costituzionale della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2002), sollevate dalle Regioni Marche, Toscana e Basilicata con i ricorsi indicati in epigrafe;
riuniti i giudizi relativamente all'art. 29 della predetta legge n. 448 del 2001;
   -
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 29, commi 1, 4, e 5 della predetta legge 28.12.2001, n. 448, sollevata, in riferimento all'art. 117, commi quarto e sesto, della Costituzione, dalla Regione Marche con il ricorso indicato in epigrafe;
   - ... (Corte Costituzionale, sentenza 16.01.2004 n. 17).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALISvolgimento funzioni responsabile settore (in ente popolazione inferiore 5.000 abitanti) da Segretario comunale - Applicabilità art. 97, D.Lgs. n. 267 del 18.08.2000.
Sintesi/Massima
Possibilità o meno, attribuzione responsabilità ufficio Tecnico comunale a suddetto segretario, stante presenza - in organico medesimo settore - due dipendenti cat. D - Applicazione normativa contrattuale su affidamento responsabilità e facoltà avvalersi (attese ridotte dimensioni) art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, come modificato da art. 29, comma 4, L. n. 488/2001.
Testo
Con una nota, un’Amministrazione, con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, ha chiesto di conoscere se sia possibile attribuire la responsabilità dell’Ufficio Tecnico comunale al segretario comunale ai sensi dell’art. 97 del D.Lgs. n. 267/2000.
Al riguardo, si rappresenta che, com’è noto, l’art. 97 del citato D.Lgs. n. 267/2000, nell’andare a definire, al comma 4, i compiti e le funzioni, ha previsto che il segretario comunale eserciti “ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della provincia…” (lett. d).
Certamente, nell’ambito di questa formula potrebbe rientrare il conferimento delle funzioni di responsabile di un settore dell’amministrazione. Ciò, peraltro, trova conferma nella previsione del contratto collettivo integrativo dei segretari comunali e provinciali sottoscritto il 22.12.2003 che prende in considerazione, autonomamente, l’ipotesi di “affidamento al segretario di attività gestionali”.
Tuttavia, occorre rilevare che l’art. 15 del CCNL del 22.01.2004, ha definitivamente chiarito che 
negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo l’ordinamento organizzativo dell’ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli artt. 8 e seguenti del CCNL del 31.03.1999.
Da quanto sopra emerge, quindi, chiaramente che 
negli enti privi di personale dirigenziale le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa.
Conseguentemente, poiché dalla documentazione allegata al quesito 
risulta che presso l’Ente sono presenti due dipendenti di cat. D, con profili di architetto e geometra, attinenti al servizio tecnico, si ritiene che la discrezionalità riconosciuta al sindaco di conferire al segretario la responsabilità dell’area di cui trattasi non possa essere esercitata in violazione del diritto dei predetti dipendenti.
Dalle considerazioni suesposte e tenuto conto del sistema di affidamento delle responsabilità, che ne incentiva la suddivisione tra il personale in servizio, emerge, quindi, chiaramente che 
l’ambito della discrezionalità riconosciuta al sindaco dal legislatore con la previsione ex art. 97, può essere legittimamente esercitata solo quale strumento residuale, ovvero utilizzabile esclusivamente da quelle amministrazioni che si trovassero nella difficoltà di reperire le necessarie professionalità all’interno della propria dotazione organica.
Per completezza di informazione, si soggiunge che essendo l’ente in questione di ridotte dimensioni può avvalersi del disposto di cui all’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge n. 488/2001 (Ministero dell'Interno, parere 17.12.2008 -
tratto da e link a https://dait.interno.gov.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Commissione edilizia comunale. Modalità di nomina dei componenti politici.
In ordine alla presenza di componenti politici in seno alla Commissione edilizia, il principio generale dell'ordinamento italiano della separazione di funzioni di indirizzo politico e di amministrazione, nonché la recente posizione espressa dal Consiglio di Stato nel senso di un'esclusione di una rappresentanza politica all'interno della Commissione, potrebbero indurre i Comuni a modificare i regolamenti edilizi in senso conforme alla giurisprudenza del Consiglio di stato, qualora contengano previsioni di segno opposto.
Pur tuttavia, la derogabilità del principio della separazione di funzioni, riconosciuta dal legislatore statale e regionale, l'autonomia statutaria propria dei Comuni in ordine alla disciplina dell'attività edilizia, possono anche far ritenere che i Comuni possano prevedere o conservare nell'ambito della propria autonomia normativa una componente politica in seno alla Commissione edilizia eventualmente costituita.

Il Comune pone un quesito relativo alle modalità di nomina dei componenti della Commissione edilizia comunale, in funzione consultiva, di cui all’art. 12, della L.R. 10.01.1983, n. 2, “
Interventi regionali per i centri storici”.
Dal testo della norma emerge come la commissione edilizia comunale risulti integrata, per la specifica funzione consultiva chiamata a svolgere, da una componente tecnica –due funzionari della Direzione regionale dei lavori pubblici, il soprintendente ai monumenti competente per territorio, o un suo delegato, il professionista che ha redatto il piano particolareggiato –e da una componente espressione di un organo politico– tre rappresentanti del Consiglio comunale, uno dei quali espresso dalla minoranza.
In ordine ai componenti tecnici, la norma contiene già le indicazioni per la nomina: il Comune potrà chiedere alla Direzione regionale per i lavori pubblici (ora Direzione centrale ambiente e lavori pubblici) di designare due funzionari; alla Soprintendenza ai monumenti competente per territorio di indicare la persona del Soprintendente, o un suo delegato, che per espressa previsione normativa è chiamato a integrare la Commissione edilizia comunale in funzione consultiva; chiamerà a farne parte il professionista che ha redatto il piano particolareggiato.
In ordine alle modalità di nomina dei rappresentanti del consiglio comunale, in linea generale, si osserva come il Consiglio di Stato con riferimento alla finalità di garantire la rappresentanza delle minoranze, abbia espresso due opposti orientamenti.
In passato il giudice amministrativo ha infatti ritenuto che l’elezione dei rappresentanti del consiglio comunale andasse effettuata secondo il sistema del voto separato, con l’elezione del rappresentante di minoranza da parte dei componenti della stessa minoranza (CDS, 16/10/1995, n. 796).
Di recente e con più pronunce conformi il Consiglio di Stato si è invece espresso nel senso del sistema del voto limitato, con collegio elettorale unico, sostenendo come tale modello di voto sia tradizionalmente preordinato alla realizzazione di una funzione di garanzia delle minoranze (CDS, sez. V, 19/04/2007, n. 1789; CDS, n. 494/2006; CDS, n. 1378/2002).
Pur tuttavia occorre fare alcune considerazioni sulla legittimità, allo stato normativo e giurisprudenziale attuale, della presenza di organi politici dell’ente locale nella commissione edilizia.

Infatti, sempre secondo quanto espresso dal Consiglio di Stato, con parere del 21.05.2003, n. 492/1999, a seguito dell’introduzione del fondamentale principio di separazione tra funzioni di indirizzo e controllo degli organi politici e funzioni di gestione degli organi burocratici, sancito in via generale dall’art. 3 del D.Lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nell’art. 4 del D.Lgs. n. 165/2001, e affermato espressamente per quanto riguarda gli Enti locali, dall’art. 51 della Legge n. 142/1990, anch’esso modificato e poi trasfuso nell’art. 107 del D.Lgs. n. 267/2000, che espressamente attribuisce ai dirigenti la competenza ad emanare le autorizzazioni e concessioni edilizie, “
la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni edilizie, non è più consentita dall’assetto normativo attuale”.
Prosegue il Consiglio di Stato, affermando come a seguito delle innovazioni derivanti dal Testo unico sull’edilizia di cui al D.P.R. n. 380/2001 la Commissione edilizia ha perso il suo carattere di organo necessario
ex lege e la sua istituzione è dunque attualmente facoltativa, e dunque “gli enti locali potranno scegliere se conservarla, adeguando la composizione, oppure sopprimerla”.

Va peraltro evidenziato come il principio di necessaria separazione fra indirizzo politico ed amministrazione non sia assoluto ma possa essere derogato dalla legge, come conferma la deroga di fatto operata dalla disposizione di cui all’art. 107, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, secondo cui “
spettano ai dirigenti tutti i compiti (…) non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo degli organi di governo (…)”, nonché dall’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388 (come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001, n. 448), che consente agli enti locali, con popolazione inferiore a 5mila abitanti, di regolamentare l’attribuzione di competenze di natura gestionale ai componenti degli organi esecutivi.
Nella Regione Friuli Venezia Giulia, il legislatore regionale, nell’esercizio della potestà esclusiva riconosciuta alla Regione dall’art. 4 dello Statuto, sia in materia di urbanistica che di ordinamento degli enti locali, con la legge 19.11.1991, n. 52, art. 82, comma 1, aveva stabilito che “
la concessione edilizia è rilasciata dal Sindaco, o dal diverso organo competente ai sensi dello statuto comunale”, derogando in tal modo al principio della necessaria separazione tra indirizzo politico e amministrazione.
Tale legge è stata abrogata dalla L.R. 5/2007, la quale rinvia ai principi generali della legislazione statale in materia edilizia (art. 37), prevede espressamente la facoltatività della commissione edilizia (art. 42), e conferma altresì, esclusivamente in merito al rilascio del permesso di costruire, la deroga al principio della separazione di funzioni prevedendo all’art. 43 che il permesso di costruire è rilasciato dal sindaco o da un suo delegato; diversamente, la riforma regionale nulla dispone in merito alla competenza degli eventuali provvedimenti di sospensione lavori o sanzionatori, i quali risultano disciplinati dal D.P.R. 380/2001 (in forza del richiamo effettuato dal comma 1, lett. g), dell'art. 37 l.r. 5/2007) che li attribuisce alla competenza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale.
Il rinvio ai principi generali della legislazione statale, e dunque al principio della separazione di funzioni, e l’espressa previsione della facoltatività dell’istituzione della Commissione sembrerebbero far ritenere che i principi giurisprudenziali del Consiglio di Stato possano trovare applicazione all’interno degli enti locali del FVG. I Comuni della Regione potrebbero dunque dar corso alla modifica dei regolamenti edilizi comunali, in senso conforme alle considerazioni espresse dal Consiglio di Stato, qualora contengano previsioni di segno opposto.
Pur tuttavia, il richiamo ai principi generali della legislazione statale, di cui all’art. 37, L.R. 5/2007, induce a prendere in considerazione anche l’art. 4, del D.P.R. 380/2001, il quale riconduce all’autonomia statutaria propria dei Comuni, la disciplina dell’attività edilizia. Tale dato, unitamente al fatto che la L.R. 2/1983, che prevede una componente politica nell’ambito della commissione, non è stata espressamente abrogata dalla L.R. 5/2007, e stante la non assolutezza, nel quadro normativo nazionale e regionale, del principio della separazione delle funzioni, può anche far ritenere che il Comune possa prevedere o conservare nel Regolamento edilizio, nell’ambito della propria autonomia normativa di cui all’art. 2, co. 4, D.P.R. 380/2001, una componente politica all’interno della Commissione.
Alla luce delle suesposte considerazioni, si suggerisce, dunque, al Comune di valutare l’opportunità della presenza di rappresentanti politici in seno alla commissione edilizia eventualmente istituita
(08.11.2007 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).).

COMPETENZE GESTIONALI: Divieto per gli organi politici comunali di partecipare alla composizione della Commissione edilizia nel caso in cui la stessa si esprima quale organo consultivo.
Sintesi/Massima
Divieto per gli organi politici comunali di partecipare alla composizione della Commissione edilizia nel caso in cui la stessa si esprima quale organo consultivo.
Testo
E' stato posto un quesito diretto a conoscere se il divieto per gli organi politici comunali di partecipare alla composizione della Commissione edilizia valga nel caso in cui la stessa si esprima quale organo consultivo.
Al riguardo, preliminarmente, si richiama la circolare n. 1/2005 con la quale questo ufficio ha diramato il parere n. 492/1999 della Commissione Speciale del Consiglio di Stato in data 21.05.2003, nel quale è stato precisato che '
la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall'assetto normativo attuale' e che 'qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli Enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche'.
Tuttavia, se da un lato nel suddetto enunciato si espone un principio generale applicabile in materia, dall'altro, va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di Stato.
Tale norma, infatti, dispone che '
gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera a), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio'.
È utile ricordare che l'art. 107 sopracitato prevede, al comma 4, che '
le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative' ed è indubbio che la citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Sulla base di tali considerazioni, nel caso in esame, trattandosi di un comune che ha una popolazione di 2.036 abitanti, si ritiene che sia applicabile la suddetta disciplina derogatoria qualora l'Ente abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della Giunta la responsabilità dell'ufficio tecnico, preposto alla gestione del settore edilizio (Ministero dell'Interno, parere 08.08.2006 -
tratto da e link a https://dait.interno.gov.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Composizione Commissione edilizia comunale.
Sintesi/Massima
Il parere n. 492/1999 della Commissione Speciale del Consiglio di Stato del 21.05.2003 precisa che la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall’assetto normativo attuale.
L’art. 53 comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, L. 448/2001, ha, però, previsto una deroga all’applicazione del principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, su cui si basa il richiamato indirizzo del Consiglio di Stato. Tale norma dispone che “gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti…possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’art. 3, commi 2, 3, 4, del D.Lgs. 29/1993 e successive modificazioni e all’art. 107 T.U.O.E.L., attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.”
E’, pertanto, consentito ai comuni, con popolazione inferiore ai 5mila abitanti, applicare la disciplina derogatoria nell’ipotesi in cui l’ente sulla base di preventive disposizioni regolamentari abbia affidato ad un componente della giunta la responsabilità dell’ufficio tecnico, preposto alla gestione del settore edilizio.

Testo
E' stato chiesto di conoscere se il divieto per gli organi politici comunali di partecipare alla composizione della Commissione edilizia, valga nel caso in cui la stessa si esprima quale organo consultivo.
Al riguardo, preliminarmente, si richiama la circolare n. 1/2005 con la quale questo Ufficio ha diramato il parere n. 492/1999 della Commissione Speciale del Consiglio di Stato in data 21.05.2003, nel quale è stato precisato che '
la presenza di organi politici nella Commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall'assetto normativo attuale' e che 'qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli Enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche'.
Tuttavia, se da un lato nel suddetto enunciato si espone un principio generale applicabile in materia, dall'altro, va parimenti osservato che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4, della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del principio di netta separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, sul quale è basato il richiamato orientamento del Consiglio di Stato.
Tale norma, infatti, dispone che '
gli enti locali con popolazione inferiore a 5mila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera a), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio'.
È utile ricordare che l'art. 107 sopra citato prevede, al comma 4, che '
le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative' ed è indubbio che la citata norma della legge finanziaria 2001 ha esplicitamente inteso introdurre una deroga alle attribuzioni degli organi burocratici.
Sulla base di tali considerazioni, nel caso in esame, trattandosi di un comune che ha una popolazione di 2.036 abitanti, si ritiene che sia applicabile la suddetta disciplina derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano espressamente ad un componente della giunta la responsabilità dell'ufficio tecnico, preposto alla gestione del settore edilizio (Ministero dell'Interno, parere 29.05.2006 -
tratto da e link a https://dait.interno.gov.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Attribuzione responsabilità degli uffici e servizi ai componenti della Giunta comunale.
Sintesi/Massima
Attribuzione responsabilità degli uffici e servizi ai componenti della Giunta comunale.
Testo
E' stato posto da un comune un quesito inerente la facoltà di attribuire la responsabilità degli uffici e dei servizi ai componenti della Giunta comunale, come previsto dall'art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388.
L'ente, nel rappresentare che tale facoltà è espressamente consentita dalla normativa richiamata e pertanto applicabile da parte del comune, rileva, tuttavia, delle perplessità in ordine alla compatibilità di tale norma con i principi posti alla base del nuovo ordinamento degli enti locali in materia di separazione tra attività politica e attività di gestione.
Al riguardo, si fa presente che il comma 23 dell'art. 53 della legge 23.12.2000, n. 388, legge finanziaria 2001, ha consentito agli enti locali con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti, in mancanza di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti, di adottare disposizioni regolamentari organizzative, anche in deroga all'art. 107 del d.lgs. 267/2000, mirate ad attribuire ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
Detta disposizione, com'è noto, è stata poi modificata dall'art. 24, comma 4, della legge 28.12.2001, n. 448, legge finanziaria 2002, che ha ribadito la predetta facoltà, estendendola peraltro agli enti fino a 5.000 abitanti, senza necessità di dimostrare la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee. L'applicazione della norma deve essere finalizzata, tuttavia, al contenimento della spesa, la quale deve essere documentata ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione di bilancio (art. 53, comma 23, l. 388/2000).
Quindi l'affidamento dei poteri gestionali ai componenti dell'organo esecutivo trova fondamento nella succitata disposizione che introduce una deroga al principio generale della separazione dei poteri nell'ambito delle amministrazioni pubbliche, principio affermato fin dal 1990, con la legge n. 142 e portato a compimento con il d.lgs. 18.08.2000, n. 267.
Pertanto, in riferimento ai diversi chiarimenti richiesti dall'Ente, si ritiene di specificare che l'eventuale attribuzione della responsabilità degli uffici e dei servizi -che, peraltro, non si ravvisa possibile alla Giunta nel suo insieme ma soltanto ai singoli componenti- comporta necessariamente il rispetto della specifica normativa di riferimento, così come avviene per il personale comunale. Sicché anche le relative competenze, riferite all'incarico di responsabile del servizio, debbono essere espletate mediante atti amministrativi e secondo le procedure stabilite per ogni singola competenza.
Per completezza, si rammenta che, in riferimento all'articolo 53, comma 3, del d.lgs. 165/2001, il Consiglio di Stato, con
parere 07.05.2003 n. 2807, ha ritenuto illegittima la norma regolamentare che assegna la presidenza delle commissioni di concorso agli organi di direzione politica nominati responsabili dei servizi ai sensi dell'art. 53, comma 23, della legge 388/2000 (Ministero dell'Interno, parere 30.09.2003 - tratto da e link a https://dait.interno.gov.it).

COMPETENZE GESTIONALI:
---------------
Oggetto: Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione pubblica – Ufficio personale delle pubbliche amministrazioni. Quesito in tema di commissioni di concorso per l’assunzione di personale presso enti locali.
...
Il Dipartimento della funzione pubblica riferisce che il Comune di Monterosi, avvalendosi della facoltà prevista dall’art. 53, comma 23, della legge 23.12.2000, n. 388 (poi modificato in senso ampliativo dall’art. 29, comma 4, della legge n. 448/2001), ha attribuito ai componenti della giunta la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare anche atti di natura tecnica gestionale (deliberazione consiliare 10.01.2001, n. 15).
Successivamente ha approvato un regolamento il cui art. 22 assegna le presidenze delle commissioni concorsuali “
al segretario comunale o al responsabile del servizio, escludendo la partecipazione degli organi di direzione politica dell’ente tranne nel caso di nomina come responsabile del servizio, ai sensi dell’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000”. In applicazione di tale norma, la giunta ha nominato l’assessore responsabile del servizio amministrativo presidente della commissione di concorso per la copertura di un posto di istruttore amministrativo (deliberazione di giunta 28.08.2001, n. 101).
La questione da esaminare è se la norma regolamentare sia compatibile con l’art. 35, comma 3, lett. e), del D.Lgs. n. 165/2001, secondo il quale devono far parte delle commissioni di concorso “esperti di provata competenza nelle materie di concorso scelti fra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche politiche…”.
Il dubbio nasce perché potrebbe ritenersi implicita nella affidabilità di un ufficio ad un assessore, prevista dal citato art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, la possibilità di assegnare allo stesso assessore la presidenza di una commissione di concorso, che, di norma, compete ad un dirigente dell’ente locale (art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267).
Questa tesi non può essere condivisa.
Il citato art. 23, comma 53, della legge n. 388/2000, che consente agli enti locali di attribuire, in presenza di determinate condizioni, “
ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale”, ha natura derogatoria rispetto al principio fondamentale che nelle amministrazioni pubbliche riserva l’attività di indirizzo agli organi di governo e l’attività di gestione ai dirigenti (art. 4 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 e art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267).
Vale, allora, il criterio ermeneutico secondo cui l’interpretazione deve essere strettamente aderente alla formulazione letterale della norma. Le commissioni di concorso non sono “
uffici” né “servizi”; inoltre, non adottano atti di “natura tecnica gestionale”, che sono espressione delle competenze proprie degli uffici e dei servizi, ma formulano giudizi di merito sulle attitudini e sulla preparazione dei candidati.
L’indirizzo seguito dal Comune condurrebbe, quindi, ad allargare l’applicazione della norma al di là dei limiti voluti dal legislatore. Senza considerare che l’interpretazione che estendesse la portata del predetto art. 23 nel senso prospettato dal Comune rivelerebbe, per le considerazioni esposte di seguito, la difformità della norma dai principi espressi dall’art. 97 della Costituzione.
La conclusione esposta trova conferma nella considerazione che il citato art. 35 del citato D.Lgs. n. 165/2001 regolamenta il reclutamento del personale da parte delle amministrazioni pubbliche mediante una serie di “
principi” (fra cui il principio relativo alla composizione delle commissioni di concorso) e si atteggia come fonte di una disciplina speciale della specifica materia. Per entrambe le ragioni la norma non può ritenersi cedevole rispetto al disposto del predetto art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, che concerne l’organizzazione degli enti locali. Tanto più, in presenza dell’ultimo comma dell’art. 35, secondo il quale i regolamenti degli enti locali disciplinano l’assunzione agli impieghi “nel rispetto dei principi fissati dai commi precedenti”.
Viene chiesto di esaminare se e quali riflessi produca sulla questione in esame la recente riforma operata dalla legge cost. 18.10.2001, n. 3, che ha sostituito il Titolo V della Costituzione.
L’art. 128, nel testo ora abrogato, riconosceva l’autonomia delle Province e dei Comuni “
nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica”. Secondo il vigente art. 114 “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Il nuovo art. 117 indica, fra le materie soggette alla legislazione esclusiva dello Stato, la “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane” (comma 2, lett. p); attribuisce alle Regioni “la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (comma 4); riconosce ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane la “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite” (comma 6).
Il disposto dell’art. 114 attribuisce, dunque, in via diretta ai Comuni l’autonomia statutaria, che ha per oggetto i principi e le norme fondamentali per l’organizzazione e il funzionamento dell’ente. Questo ambito risulta, pertanto, riservato, al di fuori dei profili di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), e fermo restando l’obbligo di rispettare i principi costituzionali in materia di organizzazione pubblica, alla potestà regolamentare dell’ente locale.
Potrebbe porsi l’ulteriore questione se la materia relativa al rapporto di lavoro del personale, che attiene alla organizzazione e al funzionamento degli uffici, ma non investe profili fondamentali dell’ordinamento dell’ente, debba intendersi inclusa nella sfera di previsione dell’art. 114. E, nel caso negativo, se rientri nel disposto del successivo art. 117, comma 4, che assoggetta alla potestà legislativa della Regione ogni materia non espressamente riservata alla legislazione statale. Ciò che implicherebbe, in base al principio di continuità, la sopravvivenza della legislazione statale nella fase transitoria.
Ma,
ai fini della risposta al quesito, è sufficiente osservare che la disciplina della materia deve, comunque, rispettare i principi posti dalla Costituzione in tema di organizzazione pubblica, fra i quali il principio che vuole assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione (art. 97, comma 1).
Sul tema si è espressa in più occasioni
la Corte Costituzionale, che ha ritenuto incompatibile con il principio stabilito dall’art. 97 della Costituzione la nomina a presidente della commissione di un’autorità politica (Corte Costituzionale, 23.07.1993, n. 333).
In concreto
l’incompatibilità è stata riferita ai “delicati problemi di direzione” che competono al presidente, la cui posizione esige cautele accentuate di neutralità, anche per la possibilità di condizionamenti nei confronti degli altri componenti della commissione.
Questa considerazione e questa conclusione, che poggiano sulla preminenza del ruolo del presidente nell’ambito della commissione, non sono scalfite dalla successiva pronunzia della Corte, resa in una fattispecie diversa, secondo cui “
la presenza di tecnici ed esperti estranei agli organi di governo” deve essere “se non esclusiva, quanto meno prevalente”.
Per le ragioni esposte,
si ritiene, in conclusione, che la norma regolamentare in esame, nella parte in cui assegna la presidenza delle commissioni di concorso agli organi di direzione politica nominati responsabili del servizio ai sensi dell’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, sia illegittima (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 07.05.2003 n. 2807).

... e sulla responsabilità contabile dell'Organo politico che firma "illegittimamente" atti gestionali di competenza dirigenziale:

COMPETENZE GESTIONALI: Sulla illegittimità
   - del provvedimento sindacale di annullamento, in autotutela, ai sensi dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990, della la concessione edilizia in sanatoria, rilasciata dall’ente locale, in persona del Responsabile dell’Ufficio Tecnico
   - della precedente e presupposta delibera con cui la Giunta Comunale ha autorizzato il Sindaco in questione, ai sensi dell’art. 53 L. n. 388/2000, ad assumere la responsabilità dell’Area Tecnica in luogo del predetto geom. -OMISSIS-, in esclusiva considerazione dell’assenza di quest’ultimo per malattia, dal -OMISSIS-.
Colgono nel segno le censure tese a contestare la violazione, tanto da parte del Sindaco quanto della Giunta Comunale dallo stesso guidata, degli artt. 107 D.lgs. n. 267/2000 e 53, comma 23, L. n. 388/2000.
L’apprezzamento della fondatezza di siffatte censure passa dalla preliminare ricognizione della regola generale, in tema di ordinamento degli enti locali, espressamente sancita dall’art. 107 T.U.E.L., secondo cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo (e, quindi, nel comune, al Sindaco, Consiglio comunale e Giunta ex art. 36 D.lgs. n. 267/2000, cd. T.U.E.L.) mentre i poteri di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica dell’ente, rientrano nella sfera di attribuzione della cd. Dirigenza.
Tenuto conto del summenzionato principio di separazione dell’azione amministrativa dalla gestione dell’indirizzo politico dell’ente locale, la coesistenza di tale duplice ruolo in capo alla medesima persona (il Sindaco, nel caso di specie) non è conforme all’ordinamento vigente in quanto il principio di organizzazione della pubblica amministrazione, introdotto dal d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nel d.lgs. n. 267/2000, individua quale responsabile dell’azione amministrativa l’organo al vertice della struttura burocratica.
Siffatta rigida separazione tra i poteri, sancita dall’art. 107 citato T.U.E.L. (secondo cui: «Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo») trova riscontro anche nell’art. 4 D.lgs. n. 165/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego), secondo cui:
   «1. Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo;
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale;
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi;
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni;
f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato;
g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
   2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati.
   3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative.
   4. Le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, adeguano i propri ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall'altro. A tali amministrazioni è fatto divieto di istituire uffici di diretta collaborazione, posti alle dirette dipendenze dell’organo di vertice dell’ente».
Una delle ipotesi “derogatorie” a cui si riferisce il comma 3 della disposizione sopra trascritta, come tale suscettibile di una interpretazione restrittiva e rigorosa, secondo quanto previsto dall’art. 14 disp. prel. cod. civ., che non ne ampli il cono d’ombra al di fuori delle ipotesi ivi espressamente previste, coincide con il disposto di cui all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, secondo cui: «Gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con dlgs 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del dlgs 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio».
In coerenza con il carattere derogatorio della disposizione in esame rispetto al sopra menzionato principio cardine della gestione dell’ente locale, la giurisprudenza amministrativa e contabile, condivisa dal Collegio, è unanime nel sostenere che la possibilità, per gli enti locali “minori”, di attribuire ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici è condizionata all’esistenza di obiettive carenze di organico e deve, comunque, consentire un risparmio di spesa, in favore dell’amministrazione.
Lo stesso Ministero dell’Interno, tenuto conto della portata derogatoria della disposizione in esame, con parere 18.12.2014, ne ha fornito una interpretazione rigorosa, precisando che la legittima applicazione della stessa è condizionata non soltanto dalla sussistenza di un apposito atto di giunta o regolamentare che disciplini la fattispecie, ma anche dalla documentazione annuale del risparmio di spesa che ne è conseguito.
---------------
E' illegittima la Delibera di Giunta Comunale -non recante alcuna legittima giustificazione- della disposta attribuzione in capo al Sindaco delle funzioni di Responsabile dell’Area Tecnica assegnate al geom. -OMISSIS-.
Nel caso di specie, non possono considerarsi sussistenti gli eccezionali presupposti di operatività del meccanismo sostitutivo di cui all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, il quale non si ritiene utilizzabile a fronte di mere assenze del dirigente dovute a malattia.
Tali “assenze”, rientrando invero nell’ordinaria e, per così dire, fisiologica dinamica del rapporto di lavoro del dipendente pubblico, devono semmai essere fronteggiate mediante la razionalizzazione e distribuzione delle risorse umane, quali la supplenza del Segretario Comunale, ex art. 97, comma 4, lettera d), T.U.E.L., richiamato dallo stesso art. 53 sopra citato, lo strumento del “comando” ovvero il “servizio/utilizzo in convenzione”.
---------------
E' stata ulteriormente dedotta la violazione dell’obbligo del Sindaco di astenersi, ai sensi degli artt. 54 D.lgs. n. 165/2001 e 7 D.P.R. n. 62/2013 (cd. codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni), dall’assumere iniziative avuto riguardo alla vicenda inerente l’immobile di proprietà delle sorelle -OMISSIS-.
Tali norme, laddove impongono ai pubblici dipendenti di astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni ovvero dal compiere attività che possano coinvolgere interessi di persone con le quali intercorra una “grave inimicizia”, sono immediatamente strumentali alla tutela dei principi, costituzionalmente rilevanti, di trasparenza ed imparzialità dell’agire della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), così da scongiurare anche solo il pericolo che l’attività compiuta difetti di obiettività.
Sul punto, la giurisprudenza è, infatti, granitica nell’affermare che il dovere di astensione dei pubblici dipendenti e degli amministratori vale a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia dell'Amministrazione e scatta a fronte di situazioni di “mero rischio”, in tutti i casi in cui sussistono condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche soltanto potenzialmente idonee a porre in pericolo l'assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell'ente stesso, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono implicare.
La prevenzione del conflitto di interessi è, ad oggi, volta non soltanto a garantire, in concreto ed “a valle”, l'imparzialità della singola decisione, ma, più in generale ed “a monte”, a tutelare il profilo dell'immagine di imparzialità dell'Amministrazione.
---------------

... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia:
   - della Determinazione n. -OMISSIS-, con cui il Sindaco di Bassano in Teverina –in qualità di Responsabile del Servizio D4 “Ragioneria – ha disposto l'annullamento in autotutela, ai sensi della L. 241/1990 art. 21-nonies, del provvedimento di SCIA in sanatoria relativa all'accertamento di conformità -OMISSIS- ad oggetto “realizzazione di modifiche ed ampliamento su edificio in Via -OMISSIS- autorizzato con Nulla Osta per Esecuzione lavori edili del -OMISSIS-, immobile distinto in catasto al -OMISSIS-. Conclusione del procedimento amministrativo”;
   - della Deliberazione di Giunta Comunale n. -OMISSIS-, recante all'oggetto “Autorizzazione al sindaco ad assumere la responsabilità dell'area tecnica”;
   - di ogni altro atto ad esse presupposto, connesso e/o conseguente, ancorché non cognito, se ed in quanto illegittimo e lesivo.

Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati in data -OMISSIS-:
   - dell'ordinanza n. -OMISSIS-, notificata a mezzo PEC in data 24.12.2021, con cui il Sindaco di Bassano in Teverina – in qualità di Responsabile dell'Ufficio Tecnico – ha ingiunto alle sig.re -OMISSIS- e -OMISSIS- -OMISSIS-, “a propria cura e spese, la demolizione e rimozione delle opere abusive (…) poste in questo comune in Via -OMISSIS-, distinte in catasto al foglio -OMISSIS- nonché il ripristino dello stato originale dei luoghi, entro il termine perentorio di giorni 90”; della Deliberazione di Giunta Comunale n. -OMISSIS-, avente ad oggetto “Organizzazione Area Tecnica - Determinazioni”;
   - di ogni altro atto ad esse presupposto, connesso e/o conseguente, ancorché non cognito, se ed in quanto illegittimo e lesivo.

Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati in data 28/06/2022:
   - della Determinazione n. -OMISSIS- –notificata a mezzo pec in pari data- con cui l'Ufficio Tecnico del Comune di Bassano in Teverina ha disposto il rigetto dell'istanza di accertamento di conformità prot. n. -OMISSIS-, avente ad oggetto l'“Ampliamento della Superficie Coperta (SC), della Superficie Lorda di Pavimento (SLP) e conseguentemente del Volume (V) del fabbricato precedentemente autorizzato” (posto in essere attraverso la “realizzazione di un piano aggiuntivo e di un volume aggiuntivo al piano autorizzato”), nonché la “realizzazione di un balcone di aggetto inferiore a 1,20 m”, la “modifica dei prospetti autorizzati e degli spazi interni” dell'unità immobiliare sita nel Comune di Bassano in Teverina, Via -OMISSIS-;
   - di ogni altro atto ad essa presupposto, connesso e/o conseguente, ancorché non cognito, se ed in quanto illegittimo e lesivo.
...
1. Con ricorso tempestivamente notificato e depositato, le ricorrenti, quali proprietarie di un fabbricato residenziale sito nel Comune di Bassano in Teverina, via -OMISSIS-, distinto in catasto al Foglio -OMISSIS-, hanno premesso di aver presentato, in data -OMISSIS-, una S.C.I.A. ai sensi dell’art. 37 D.P.R. n. 380/2001, al fine di sanare talune difformità riscontrate tra lo stato di progetto, assentito dall’amministrazione comunale in data -OMISSIS-, e lo stato di fatto per come pervenuto loro a seguito della successione legittima del rispettivo padre.
Con la nota prot. n. -OMISSIS-, il Sindaco di Bassano in Teverina, in pendenza della direzione dell’Ufficio Tecnico Comunale in capo al geom. -OMISSIS-, qualificandosi “Responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale F.F.”, richiedeva alle ricorrenti una integrazione documentale della suddetta S.C.I.A. in sanatoria, con espressa avvertenza che, in mancanza, la stessa sarebbe stata dichiarata improcedibile, con adozione dei conseguenti adempimenti da parte dell’amministrazione.
Con nota del -OMISSIS-, prot. n. -OMISSIS-, questa volta il Responsabile dell’Ufficio Tecnico, geom. -OMISSIS-, richiamata la precedente richiesta istruttoria del Sindaco (prot. n. -OMISSIS-) e valutata l’incompletezza della documentazione prodotta dalle ricorrenti in data -OMISSIS-, invitava queste ultime a depositare quanto ancora necessario per la definizione del procedimento di sanatoria.
Preso atto dell’integrazione effettuata in data 24.07.2019, il predetto Responsabile dell’Ufficio Tecnico, con nota n. -OMISSIS-, comunicava alle ricorrenti la positiva conclusione dell’istruttoria, invitandole a produrre la ricevuta attestante l’avvenuto pagamento dei diritti di segreteria e, successivamente, con il provvedimento di cui alla nota prot. n. -OMISSIS-, dava espressamente atto dell’accoglimento dell’istanza di sanatoria.
Con nota prot. n. -OMISSIS-, il Sindaco del Comune di Bassano in Teverina, nella dichiarata qualità di “Ufficiale di Polizia Giudiziaria”, chiedeva al Responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale di revocare in autotutela la S.C.I.A. in sanatoria rilasciata in favore delle ricorrenti nell’ottobre del 2019.
Facendo seguito a tale sollecitazione, il geom. -OMISSIS-, con nota prot. n. -OMISSIS-, comunicava alle ricorrenti l’avvio del procedimento di annullamento, in autotutela, della sanatoria assentita ai sensi dell’art. 37 D.P.R. n. 380/2001 e, a seguito del riscontro da queste ultime fornito, richiedeva ulteriore documentazione, giusta nota prot. n. -OMISSIS-.
A questo punto, il Sindaco, nella dichiarata qualità di Responsabile del Servizio Risorse Umane, con la determina n. -OMISSIS-, preso atto dell’esigenza di definire celermente il procedimento di annullamento in autotutela della S.C.I.A. in sanatoria e ritenuto che il Dirigente dell’Ufficio Tecnico, tenuto conto di tutte le istruttorie pendenti, non fosse in grado di garantire, da solo, lo svolgimento dell'iter istruttorio in tempi ragionevolmente brevi, riteneva opportuno “vista la complessità e delicatezza della pratica, dotarsi di un approfondito parere urbanistico-edilizio sull'intera vicenda”, all’uopo nominando, quale consulente esterno, l’arch. Mario -OMISSIS-.
In data -OMISSIS-, le ricorrenti presentavano una prima denuncia-querela nei confronti del Sindaco, successivamente integrata in data -OMISSIS- ed in data -OMISSIS-. Con la denuncia in questione si evidenziava l’animosità del rapporto intercorrente tra la ricorrente, consigliera di minoranza, -OMISSIS- -OMISSIS-, ed il Sindaco del Comune di Bassano Teverina il quale l’avrebbe più volte vessata ed aggredita verbalmente, nel corso delle sedute del Consiglio, fino ad ingerirsi indebitamente - circostanza mai verificatasi dall’inizio del relativo mandato - nell’unica pratica edilizia pendente presso l’amministrazione comunale, ovvero quella relativa alla sanatoria dell’immobile di proprietà delle istanti, promuovendone l’annullamento in autotutela.
Preso atto della relazione istruttoria elaborata dall’arch. -OMISSIS-, la Giunta Comunale, vista la complessità della questione, in data 31.03.2021 deliberava (n. 15) di demandare al competente servizio il conferimento di uno specifico incarico a legale ovvero esperto in materia.
Con successiva delibera n. -OMISSIS-, la medesima Giunta, preso atto dell’assenza per malattia, dal -OMISSIS-, del Responsabile dell’Area Tecnica, geom. -OMISSIS-, al fine di garantire la continuità dell’attività della struttura organizzativa, deliberava di autorizzare il Sindaco ad assumere la direzione dell’Area Tecnica e le correlate funzioni gestionali, ai sensi dell’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000.
Le ulteriori integrazioni istruttorie, effettuate ad iniziativa delle ricorrenti, venivano valutate negativamente dal consulente esterno il quale, con nota prot. n. -OMISSIS-, ribadiva le proprie considerazioni in ordine alla illegittimità della S.C.I.A. in sanatoria, così determinando il Sindaco, medio tempore designato Responsabile del Servizio, ad assegnare alle ricorrenti un ulteriore termine per presentare memorie e documenti.
A valle delle ulteriori integrazioni istruttorie fornite dalle interessate, non condivise dal tecnico esterno, arch. -OMISSIS- (nota prot. n. -OMISSIS-), il Sindaco del Comune di Bassano in Teverina, quale inedito Responsabile dell’Ufficio Ragioneria, annullava in autotutela la S.C.I.A. in sanatoria, giusta determina n. -OMISSIS-, assunta soltanto due giorni prima della scadenza del periodo di malattia del titolare dell’Ufficio.
Avverso la determina in parola e la presupposta delibera di Giunta n. -OMISSIS-, le ricorrenti sono, dunque, insorte, affidando il gravame principale ai motivi di diritto appresso sintetizzati.

   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 107, COMMI 1 E 2 DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60, COMMA 2, DELLO STATUTO COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N. 3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C. N. 25/2009) E DELL’ART. 53, COMMA 23, DELLA L. N. 388/2000. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, CARENZA DI MOTIVAZIONE E SVIAMENTO”;
Il Sindaco del Comune di Bassano in Teverina avrebbe adottato l’impugnato provvedimento di autotutela in violazione dell’art. 107 T.U.E.L. ovvero del principio di separazione tra il potere di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, attribuito agli organi di governo - tra cui, per l’appunto, il vertice dell’ente locale e la Giunta - ed il potere di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica dell’ente, attribuito alla Dirigenza.
Ciò nella misura in cui la Giunta comunale, con la delibera n. -OMISSIS-, avrebbe assegnato al Sindaco la Responsabilità dell’Ufficio Tecnico comunale in assenza dei presupposti all’uopo previsti dall’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, consistenti nell’esigenza di sopperire a carenze di personale dipendente a cui affidare le funzioni di responsabile del relativo Ufficio amministrativo, anche al fine di assicurare il contenimento della spesa pubblica.
Nella fattispecie in esame, l’amministrazione sarebbe, infatti, dotata di un funzionario responsabile dell’Ufficio tecnico, identificato nella persona del geom. -OMISSIS-, il quale si sarebbe semplicemente assentato per malattia, di talché la sostituzione dello stesso, con la persona del Sindaco, sarebbe priva dei presupposti legittimanti, per come delineati dall’art. 53 citata L. n. 388/2000. Tanto più in considerazione dell’esigenza di affiancare il vertice dell’amministrazione comunale, privo delle necessarie competenze tecniche, con la figura di un professionista esterno a cui corrispondere i relativi compensi, con conseguente frustrazione delle esigenze di risparmio sottese alla disposizione summenzionata.
Del resto, ancor prima di essere sostituito per effetto della delibera giuntale n. -OMISSIS-, il geom. -OMISSIS- sarebbe stato più volte esautorato dal Sindaco nell’esercizio del potere gestionale di sua esclusiva competenza.
Ciò nella misura in cui, violando il summenzionato principio della separazione dei poteri di cui all’art. 107 D.lgs. n. 267/2000 (cd. T.U.E.L.), il Sindaco avrebbe pesantemente interferito con le sorti della S.C.I.A. in sanatoria rilasciata in favore delle ricorrenti, dapprima sollecitando l’esercizio del potere di autotutela e, successivamente, giungendo a nominare professionisti esterni a cui affidare l’istruttoria del procedimento di secondo grado, in assenza di qualsivoglia richiesta, in questo senso, da parte del geom. -OMISSIS-, titolare dell’ufficio in carica, il quale, nel periodo antecedente all’assenza per malattia (dal -OMISSIS-), giammai avrebbe accusato di non essere nelle condizioni di occuparsene personalmente.
Ad avviso delle ricorrenti, quindi, la decisione dell’organo giuntale di trasferire in capo al Sindaco le funzioni di responsabile dell’Area Tecnica comunale non sarebbe stata determinata dall’esigenza –sottesa alla disposizione contenuta all’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000– di far fronte a carenze “strutturali” della pianta organica dell’Ente e per ragioni di contenimento della spesa pubblica, quanto, piuttosto, dalla (deliberata) volontà di estromettere il geom. -OMISSIS- (responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale) dal procedimento di verifica urbanistica avviato in relazione all’immobile di proprietà delle ricorrenti e di concluderlo nel senso dell’annullamento in autotutela della sanatoria.

   - “VIZIO DI INCOMPETENZA ed essendo stato adottato in VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 107 DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60, COMMA 2, DELLO STATUTO COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N. 3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C. N. 25/2009) E DELL’ART. 7 DEL D.P.R. N. 62/2013”;


   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 31 E 37 DEL D.P.R. N. 380/2001 E DEGLI ARTT. 15 E 22, COMMA 1, DELLA L.R. LAZIO N. 15/2008. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CARENZA DI MOTIVAZIONE E SVIAMENTO”;
Il Sindaco del Comune di Bassano in Teverina si sarebbe, comunque, dovuto astenere da qualsivoglia iniziativa procedimentale e provvedimentale, in relazione alla sanatoria in contestazione, trovandosi in una situazione di palese incompatibilità, a mente dell’art. 7 D.P.R. n. 62/2013. Ciò tenuto conto della “grave inimicizia” intercorrente con il consigliere di minoranza -OMISSIS- -OMISSIS-, odierna ricorrente, la quale aveva sporto, nei confronti del Sindaco, ripetute denunce ricognitive anche del pregresso rapporto conflittuale esistente tra i soggetti in questione.
Peraltro, la determina di ritiro oggetto di causa sarebbe stata adottata, in violazione del principio del contrarius actus, dal Sindaco nella dichiarata qualità di Responsabile del “Servizio Ragioneria” ovvero di un Settore che non avrebbe alcuna competenza in materia urbanistico-edilizia.

   - “VIOLAZIONE, PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 21-NONIES DELLA L. N. 241/1990, NONCHE’ DEGLI ARTT. 103, COMMA 1, DEL D.L. N. 18/2020 (CONV. IN L. N. 27/2020) E 37, COMMA 1, DEL D.L. N. 23/2020 (CONV. IN L. N. 40/2020)”;
La determina sindacale n. -OMISSIS- sarebbe stata, comunque, adottata in assenza dei presupposti legittimanti il potere di autotutela di cui all’art. 21-nonies l. n. 241/1990, in considerazione:
   - della legittimità della sanatoria assentita dal Responsabile dell’Ufficio Tecnico geom. -OMISSIS- e dell’impossibilità di motivare l’autotutela sulla scorta dell’accertamento di ulteriori pretesi abusi, diversi da quelli indicati nell’istanza ex art. 37 T.U.E., i quali, a ben vedere, sarebbero pure inesistenti, considerata la piena conformità tra quanto realizzato e quanto assentito negli anni 60;
   - dell’intervenuto superamento del termine massimo previsto per l’esercizio del potere in parola (18 mesi ridotto a 12, per effetto del D.L. 31.05.2021, n. 77).

Con ricorso per motivi aggiunti depositati in data 18.03.2022, le ricorrenti hanno impugnato:
   - la deliberazione di Giunta Comunale n. -OMISSIS- con cui l’Amministrazione resistente ha modificato l’organizzazione del proprio Ufficio Tecnico e –dando seguito alla richiesta formulata dal titolare dell’Ufficio (Geom. -OMISSIS- -OMISSIS-) di “temporanea riduzione delle responsabilità relative ai servizi e funzioni allo stesso affidate con decreto Sindacale n. -OMISSIS-” – ha ridotto drasticamente le funzioni a quest’ultimo assegnate, autorizzando –contestualmente– il Sindaco “ad assumere la responsabilità ed ogni atto a carattere gestionale inerenti le residue competenze e funzioni dell’Area Tecnica”;
   - l’ordinanza n. -OMISSIS-, con cui il Sindaco di Bassano in Teverina, in qualità di Responsabile dell’Ufficio Tecnico, preso atto dell’annullamento in autotutela della sanatoria ex art. 37 T.U.E. rilasciata dal geom. -OMISSIS-, ha ingiunto alle ricorrenti, ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, la demolizione delle opere abusive distinte in catasto al foglio -OMISSIS- nonché il ripristino dello stato originale dei luoghi.
Il ricorso risulta affidato ai motivi di diritto appresso sintetizzati.

   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 107, COMMI 1 E 2, DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60, COMMA 2, DELLO STATUTO COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N. 3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C. N. 25/2009) E DELL’ART. 53, COMMA 23, DELLA L. N. 388/2000. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, CARENZA DI MOTIVAZIONE E SVIAMENTO”;
L’affidamento, da parte della Giunta comunale, in favore del Sindaco del Comune di Bassano in Teverina –con sottrazione delle relative responsabilità in capo al geom. -OMISSIS-- di una parte degli affari rientranti nella competenza dell’Ufficio Tecnico violerebbe il principio della separazione dei poteri di cui all’art. 107 T.U.E.L., in assenza dei presupposti -carenza del personale e contenimento della spesa pubblica, a contrario aggravata dall’esigenza di reperire all’esterno le professionalità necessarie- di cui all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, a torto citato nella delibera n. -OMISSIS- a fondamento dell’esercizio del potere in contestazione.
La richiesta del geom. -OMISSIS- di essere “temporaneamente esonerato” dalle responsabilità relative ai servizi e funzioni allo stesso affidate con decreto Sindacale n. -OMISSIS- e l’assenso de plano formulato dalla Giunta risulterebbero, peraltro, privi di qualsivoglia giustificazione, tanto più in considerazione delle ridotte dimensioni dell’ente locale e dell’esiguo numero di pratiche edilizie in carico all’Ufficio tecnico.

   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 107 DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60, COMMA 2, DELLO STATUTO COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N. 3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C. N. 25/2009) E DELL’ART. 7 DEL D.P.R. N. 62/2013”;
L’impugnata ordinanza di demolizione sarebbe inficiata dalla situazione di grave incompatibilità in cui si sarebbe trovato il Sindaco, il quale si sarebbe dovuto astenere dall’esercizio del relativo potere sanzionatorio.
Ciò in considerazione del rapporto altamente conflittuale esistente con la ricorrente -OMISSIS- dallo stesso querelata, “in proprio”, oltre che nella qualità di vertice dell’ente locale, per il reato di diffamazione, fin dal -OMISSIS- (per come appreso dall’interessata soltanto in data -OMISSIS-, all’esito della notifica dell’avviso di conclusioni indagini) e, quindi, in epoca antecedente alle denunce dalla stessa successivamente sporte dal -OMISSIS- al -OMISSIS-.

   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 17 DELLA L. N. 765/1967 E DELL’ART. 31 DEL D.P.R. 380/2001, NONCHE’ IN ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CARENZA DEI PRESUPPOSTI E TRAVISAMENTO DEI FATTI”;

   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 DELLA L. N. 241/1990. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, CARENZA DI MOTIVAZIONE, VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’ DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA E SVIAMENTO”;

Nel merito, il potere sanzionatorio di cui alla contestata ordinanza di demolizione sarebbe privo dei relativi presupposti, considerata la legittimità delle opere edilizie ivi sanzionate, anche in quanto realizzate in epoca antecedente al 1967, in zona esterna al centro abitato, oltre che carente di qualsivoglia motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto al ripristino dello stato dei luoghi, di fatto modificato da oltre cinquanta anni.
Con atto depositato in data 27.05.2022, la sig.ra -OMISSIS- ha rinunciato al ricorso, al precipuo e dichiarato scopo di non incorrere all’ipotesi di incompatibilità con la sua carica di consigliere comunale di minoranza del Comune di Bassano in Teverina.
Con ulteriore ricorso per motivi aggiunti depositato in data 28.06.2022, la sig.ra -OMISSIS- -OMISSIS- ha impugnato il provvedimento prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS- con cui il Sindaco del predetto Comune, nell’esercizio dei poteri di Responsabile dell’Ufficio Tecnico, affidati giusta delibera di Giunta n. -OMISSIS-, preso atto della relazione istruttoria conclusiva redatta dal professionista dallo stesso incaricato, arch. -OMISSIS-, ha rigettato la richiesta di sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2021 presentata in data 18.02.2022.
Il gravame risulta affidato ai motivi di diritto appresso sintetizzati.

   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10-bis DELLA L. N. 241/1990”;
L’amministrazione comunale avrebbe concluso il procedimento senza consentire alla ricorrente di aver accesso ai relativi atti istruttori, avuto particolare riguardo alla relazione dell’arch. -OMISSIS- prot. n. -OMISSIS- dell’11.03.2022, con conseguente frustrazione delle garanzie partecipative di cui all’art. 10-bis l. n. 241/1990.

   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 107, COMMI 1 E 2, DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60, COMMA 2, DELLO STATUTO COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N. 3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C. N. 25/2009), DELL’ART. 53, COMMA 23, DELLA L. N. 388/2000 E DELL’ART. 97 DELLA COSTITUZIONE – ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, CARENZA DI MOTIVAZIONE E SVIAMENTO”;
Anche in questo caso l’esercizio, da parte del Sindaco, del potere amministrativo in contestazione, per come affidato con le delibere di Giunta n. -OMISSIS- e -OMISSIS-, gravate con i precedenti gravami, violerebbe il principio della separazione dei poteri di cui all’art. 107 T.U.E.L., in assenza dei presupposti -carenza del personale e contenimento della spesa pubblica, a contrario aggravata dall’esigenza di reperire all’esterno le professionalità necessarie- di cui all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000.

   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 107 DEL D.LGS. N. 267/2000, DELL’ART. 60, COMMA 2, DELLO STATUTO COMUNALE (APPROVATO CON D.C.C. N. 3/2009 E SUCCESSIVA D.C.C. N. 25/2009) E DELL’ART. 7 DEL D.P.R. N. 62/2013, NONCHE’ IN ECCESSO DI POTERE PER SVIAMENTO DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA”;
Il contestato diniego di sanatoria ex art. 36 T.U.E. sarebbe parimenti inficiato dalla situazione di grave incompatibilità in cui si sarebbe trovato il Sindaco, il quale, per le ragioni sopra già sintetizzate, si sarebbe dovuto astenere dall’esercizio del relativo potere, a fronte del quale il consigliere di minoranza, -OMISSIS- -OMISSIS-, è rimasta inerme, in considerazione del suo munus di consigliere comunale.

   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3, COMMA 1, LETT. E.1), E DELL’ART. 36 DEL D.P.R. N. 380/2001 NONCHE’ IN ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CARENZA DEI PRESUPPOSTI E TRAVISAMENTO DEI FATTI”;

   - “VIOLAZIONE PER FALSA OD OMESSA APPLICAZIONE DELL’ART. 36 DEL D.P.R. N. 380/2001 E DELL’ART. 22 DELLA L.R. LAZIO N. 15/2008, NONCHE’ IN ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CARENZA DEI PRESUPPOSTI E TRAVISAMENTO DEI FATTI”;

Il diniego di sanatoria opposto dal Comune risulterebbe condizionato da un’erronea qualificazione delle opere edilizie in contestazione in termini di “nuova costruzione” anziché di mero “ampliamento”, oltre a difettare dell’esatta ricostruzione, nel tempo, dei diversi interventi che hanno determinato la progressiva trasformazione dell’immobile oggetto di sanatoria.
Il Comune di Bassano Teverina ha resistito al gravame mediante articolate e documentate deduzioni difensive, chiedendone il rigetto.
Con ordinanza n. -OMISSIS-, confermata in appello, il Collegio ha accolto la richiesta cautelare, previa delibazione del cd. fumus boni iuris.
In occasione della pubblica udienza del 19.12.2022, in vista della quale ciascuna delle parti ha ribadito le proprie ragioni, mediante il deposito di memorie conclusive e di replica, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. In via pregiudiziale, si deve dare atto della ritualità della rinuncia al ricorso, ai sensi dell’art. 84, comma 1, c.p.a., depositato e notificato alle controparti in data 27.05.2022 dalla sola ricorrente -OMISSIS- e recante sottoscrizione della parte e del difensore.
1.1 Tanto precisato in rito, il ricorso, per come integrato dai successivi motivi aggiunti, è fondato in accoglimento delle preliminari ed assorbenti censure appresso scrutinate.
2. Con il gravame principale, le odierne ricorrenti hanno censurato la legittimità:
   - del provvedimento n. -OMISSIS- con cui il Sindaco del Comune di Bassano in Teverina, dott. -OMISSIS-, ha annullato, in autotutela, ai sensi dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990, la concessione edilizia in sanatoria, rilasciata dall’ente locale, in persona del Responsabile dell’Ufficio Tecnico, geom. -OMISSIS-, giusto provvedimento di cui alla nota prot. n. -OMISSIS- in favore delle sorelle -OMISSIS- ed -OMISSIS- -OMISSIS-, la prima delle quali riveste il munus di consigliere comunale di minoranza;
   - della precedente e presupposta delibera n. -OMISSIS- con cui la Giunta Comunale ha autorizzato il Sindaco in questione, ai sensi dell’art. 53 L. n. 388/2000, ad assumere la responsabilità dell’Area Tecnica in luogo del predetto geom. -OMISSIS-, in esclusiva considerazione dell’assenza di quest’ultimo per malattia, dal -OMISSIS-.
3. In proposito, colgono nel segno le censure tese a contestare la violazione, tanto da parte del Sindaco del Comune di Bassano in Teverina quanto della Giunta Comunale dallo stesso guidata, degli artt. 107 D.lgs. n. 267/2000 e 53, comma 23, L. n. 388/2000.
4. L’apprezzamento della fondatezza di siffatte censure passa dalla preliminare ricognizione della regola generale, in tema di ordinamento degli enti locali, espressamente sancita dall’art. 107 T.U.E.L., secondo cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo (e, quindi, nel comune, al Sindaco, Consiglio comunale e Giunta ex art. 36 D.lgs. n. 267/2000, cd. T.U.E.L.) mentre i poteri di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica dell’ente, rientrano nella sfera di attribuzione della cd. Dirigenza.
Tenuto conto del summenzionato principio di separazione dell’azione amministrativa dalla gestione dell’indirizzo politico dell’ente locale, la coesistenza di tale duplice ruolo in capo alla medesima persona (il Sindaco, nel caso di specie) non è conforme all’ordinamento vigente in quanto il principio di organizzazione della pubblica amministrazione, introdotto dal d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nel d.lgs. n. 267/2000, individua quale responsabile dell’azione amministrativa l’organo al vertice della struttura burocratica.
Siffatta rigida separazione tra i poteri, sancita dall’art. 107 citato T.U.E.L. (secondo cui: «Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo») trova riscontro anche nell’art. 4 D.lgs. n. 165/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego), secondo cui:
   «1. Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo;
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale;
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi;
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni;
f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato;
g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
   2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati.
   3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative.
   4. Le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, adeguano i propri ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall'altro. A tali amministrazioni è fatto divieto di istituire uffici di diretta collaborazione, posti alle dirette dipendenze dell’organo di vertice dell’ente
».
5. Una delle ipotesi “derogatorie” a cui si riferisce il comma 3 della disposizione sopra trascritta, come tale suscettibile di una interpretazione restrittiva e rigorosa, secondo quanto previsto dall’art. 14 disp. prel. cod. civ., che non ne ampli il cono d’ombra al di fuori delle ipotesi ivi espressamente previste, coincide con il disposto di cui all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, secondo cui: «Gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo, 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio».
In coerenza con il carattere derogatorio della disposizione in esame rispetto al sopra menzionato principio cardine della gestione dell’ente locale, la giurisprudenza amministrativa e contabile, condivisa dal Collegio, è unanime nel sostenere che la possibilità, per gli enti locali “minori”, di attribuire ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici è condizionata all’esistenza di obiettive carenze di organico e deve, comunque, consentire un risparmio di spesa, in favore dell’amministrazione (cfr. TAR Liguria sez. I, sentenza 31.03.2021 n. 284).
Lo stesso Ministero dell’Interno, tenuto conto della portata derogatoria della disposizione in esame, con
parere 18.12.2014, ne ha fornito una interpretazione rigorosa, precisando che la legittima applicazione della stessa è condizionata non soltanto dalla sussistenza di un apposito atto di giunta o regolamentare che disciplini la fattispecie, ma anche dalla documentazione annuale del risparmio di spesa che ne è conseguito (cfr. TAR Sardegna, Cagliari, sentenza 24.06.2022 n. 435; TAR Liguria, Sez. II, sentenza 03.02.2022 n. 83).
6. Tanto premesso in linea di principio, venendo alla fattispecie in esame, osserva, in primo luogo, il Collegio come la Delibera di Giunta Comunale n. -OMISSIS- non rechi alcuna legittima giustificazione della disposta attribuzione in capo al Sindaco, dott. -OMISSIS-, delle funzioni di Responsabile dell’Area Tecnica assegnate al geom. -OMISSIS-.
Ciò se solo si considera che quest’ultimo non è affatto venuto meno al suo incarico, essendosi piuttosto assentato, per malattia, per un intervallo temporale, indicato nella stessa delibera, che va dal -OMISSIS-.
Sicché alla data di adozione della delibera in parola -12.05.2021- non sussisteva quella strutturale carenza di organico che, secondo il pertinente disposto normativo, per come interpretato anche dalla giurisprudenza, legittima, in via derogatoria, l’ingerenza del Sindaco nella gestione amministrativa dell’ente.
Tanto più in considerazione, per un verso, della mancata allegazione, da parte della Giunta, di circostanze di fatto idonee a far prevedere che siffatto periodo di “malattia” si sarebbe protratto nel tempo, oltre la data ivi indicata (“sino al 6 giugno compreso”), e, per altro verso, della genericità del riferimento all’esigenza di garantire “anche nel periodo di assenza” del geom. -OMISSIS- il corretto funzionamento dei servizi, senza tuttavia dare conto del numero complessivo nonché della rilevanza e complessità dei procedimenti pendenti presso l’Area Tecnica, in relazione ai quali non sarebbe stato possibile attendere il rientro del Responsabile del Servizio.
A quanto sopra si aggiunga, per come parimenti obiettato da parte ricorrente, che la predetta delibera di nomina del Sindaco, quale Responsabile dell’Area Tecnica, non ha determinato alcun risparmio di spesa ma anzi ha aggravato le uscite dell’ente, in considerazione dell’esigenza, da quest’ultimo avvertita, di esternalizzare l’istruttoria del procedimento di autotutela della S.C.I.A. in sanatoria, rilasciata in favore delle sorelle -OMISSIS-, all’uopo affidando l’incarico all’arch. -OMISSIS-, professionista esterno, all’uopo remunerato.
Peraltro, all’“esigenza” in questione -rientrante nelle ordinarie competenze dell’Area Tecnica di un ente locale– il Sindaco ha ritenuto di poter ovviare con la determina n. -OMISSIS-. Quest’ultima, tuttavia, essendo stata adottata dal predetto Sindaco -al pari della richiesta di integrazione documentale prot. n. -OMISSIS- nonché del sollecito all’esercizio dell’autotutela di cui alla nota prot. n. -OMISSIS-- ancor prima della sua formale investitura, da parte della Giunta, quale Responsabile dell’Area Tecnica (delibera G.C. n. -OMISSIS-), viola ulteriormente il summenzionato principio di separazione dei poteri di cui all’art. 107 T.U.E.L., con ciò inficiando il provvedimento finale di annullamento in autotutela, dallo stesso adottato a valle di una istruttoria così condotta.
7. In tale peculiare contesto, non possono, dunque, considerarsi sussistenti gli eccezionali presupposti di operatività del meccanismo sostitutivo di cui all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000, il quale non si ritiene utilizzabile a fronte di mere assenze del dirigente dovute a malattia. Tali “assenze”, rientrando invero nell’ordinaria e, per così dire, fisiologica dinamica del rapporto di lavoro del dipendente pubblico, devono semmai essere fronteggiate mediante la razionalizzazione e distribuzione delle risorse umane, quali la supplenza del Segretario Comunale, ex art. 97, comma 4, lettera d), T.U.E.L., richiamato dallo stesso art. 53 sopra citato, lo strumento del “comando” ovvero il “servizio/utilizzo in convenzione” (cfr. Corte Conti, Sez. Contr. Emilia Romagna, deliberazione 24.12.2021 n. 272 e giurisprudenza contabile ivi citata).
Pertanto, in accoglimento della prime due censure aventi carattere assorbente (come meglio si dirà appresso) sono illegittimi il provvedimento del Sindaco n. -OMISSIS- e la delibera di Giunta Comunale n. -OMISSIS-, gravati con il ricorso introduttivo.
8. Tuttavia, le medesime considerazioni consentono di apprezzare la fondatezza delle analoghe censure svolte con il primo ricorso per motivi aggiunti, avente ad oggetto la delibera n. -OMISSIS-, con cui la Giunta Comunale, nell’assentire le richieste formulate dal geom. -OMISSIS-, tese ad ottenere, per ragioni di salute, una “temporanea riduzione delle responsabilità relative ai servizi e funzioni allo stesso affidate con decreto Sindacale n. -OMISSIS-”, ha autorizzato il Sindaco, al di fuori dell’ambito di operatività della disposizione derogatoria di cui all’art. 53, comma 23, L. n. 388/2000 –a torto citata quale norma attributiva del poter- ad assumere la responsabilità delle residue competenze e funzioni dell’Area Tecnica, diverse da quelle mantenute dal titolare dell’Ufficio, ivi incluso lo Sportello Unico dell’Edilizia.
Anche in tale fattispecie difettano, quindi, i presupposti per l’applicazione del derogatorio meccanismo di sostituzione di cui all’art. 53 citata L. n. 388/2000 giacché, per come sopra evidenziato, alle esigenze legate allo stato di salute del geom. -OMISSIS- si sarebbe dovuto far fronte con gli strumenti “ordinari” sopra indicati.
Tanto più che la nomina del Sindaco, ad opera della Giunta, quale con-titolare dell’Area Tecnica non ha assicurato alcun un risparmio di spesa, determinando piuttosto un ulteriore aggravamento della stessa.
In proposito, basti considerare gli ulteriori affidamenti da parte dello stesso Sindaco, sempre in favore dell’arch. -OMISSIS-, di pareri tecnici avuto riguardo alla fattispecie edilizia in contestazione, ovvero il parere tecnico in affidato con determina n. -OMISSIS- e l’ulteriore parere assegnato con successiva determina n. -OMISSIS-, con conseguente indebito utilizzo dell’istituto del conferimento di incarichi all’esterno in una sorta di stabile affiancamento dell’organo di governo, nell'esercizio di ordinarie attività rientranti nell’esclusiva sfera di attribuzione della dirigenza, quale strumento per supplire a singole carenze all'interno degli uffici dell'amministrazione (cfr. Corte Conti sez. III giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 15.01.2020 n. 8).
8.1 L’illegittimità della delibera di Giunta n. -OMISSIS- vizia, in via derivata, per come dedotto da parte ricorrente, la conseguente ordinanza sindacale di demolizione n. -OMISSIS-, impugnata con il primo ricorso per motivi aggiunti nonché la determina n. -OMISSIS- del 15.04.2022, adottata sempre dal Sindaco, quale co-titolare dell’Area Tecnica, impugnata con il secondo ed ultimo ricorso per motivi aggiunti.
9. Nonostante, come sopra già accennato, l’accoglimento delle superiori censure consenta di definire, con efficacia assorbente, l’intera materia del contendere, per come complessivamente devoluta al Collegio, trattandosi di vizi che afferiscono al difetto di “competenza” dell’organo che li ha adottati, si ritiene in ogni caso opportuno scrutinare anche quegli ulteriori motivi di gravame con i quali, sempre sotto il profilo della competenza, è stata ulteriormente dedotta la violazione dell’obbligo del Sindaco di astenersi, ai sensi degli artt. 54 D.lgs. n. 165/2001 e 7 D.P.R. n. 62/2013 (cd. codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni), dall’assumere iniziative avuto riguardo alla vicenda inerente l’immobile di proprietà delle sorelle -OMISSIS-.
Tali norme, laddove impongono ai pubblici dipendenti di astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni ovvero dal compiere attività che possano coinvolgere interessi di persone con le quali intercorra una “grave inimicizia”, sono immediatamente strumentali alla tutela dei principi, costituzionalmente rilevanti, di trasparenza ed imparzialità dell’agire della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), così da scongiurare anche solo il pericolo che l’attività compiuta difetti di obiettività.
9.1 Sul punto, la giurisprudenza, condivisa dal Collegio, è, infatti, granitica nell’affermare che il dovere di astensione dei pubblici dipendenti e degli amministratori vale a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia dell'Amministrazione e scatta a fronte di situazioni di “mero rischio”, in tutti i casi in cui sussistono condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche soltanto potenzialmente idonee a porre in pericolo l'assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell'ente stesso, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono implicare. La prevenzione del conflitto di interessi è, ad oggi, volta non soltanto a garantire, in concreto ed “a valle”, l'imparzialità della singola decisione, ma, più in generale ed “a monte”, a tutelare il profilo dell'immagine di imparzialità dell'Amministrazione (cfr. TAR Veneto, Venezia, sez. II, 09.07.2021 n. 908; Consiglio di Stato sez. III, 20.08.2020 n. 5151).
10. Ciò posto, il rapporto di “grave inimicizia” intercorrente tra il Sindaco del Comune di Bassano in Teverina, dott. -OMISSIS- e la sig.ra -OMISSIS- -OMISSIS-, consigliere di minoranza, è disvelato non tanto dalle denunce da quest’ultima presentate, unitamente alla sorella -OMISSIS-, a decorrere dal -OMISSIS- -ovvero allorquando il procedimento di autotutela della sanatoria era già stato avviato sì dal geom. -OMISSIS- ma su sollecitazione dello stesso Sindaco (cfr. comunicazione di avvio prot. n. -OMISSIS- che richiama la nota sindacale n. -OMISSIS-)- quanto piuttosto dalla querela in precedenza da quest’ultimo sporta proprio nei confronti del summenzionato consigliere di minoranza.
Ed invero, già in data -OMISSIS-, il predetto Sindaco, “in proprio”, oltre che quale vertice dell’amministrazione comunale (cfr. testo della querela in atti, laddove si legge: “personalmente ed in qualità di sindaco prot-tempore del Comune di Bassano Teverina, espone quanto segue”), aveva deferito alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Viterbo la sig.ra -OMISSIS- -OMISSIS-, unitamente ad altri consiglieri di minoranza, per il reato di diffamazione di cui all'articolo 595, comma 3, c.p. -reato contro l’onore, procedibile a querela della persona offesa- asseritamente perpetrato con la pubblicazione, sul quotidiano on-lineTusciaweb”, di un articolo risalente al -OMISSIS-, con il quale erano state riportate informazioni in merito a irregolarità nell’approvazione dell’assestamento degli equilibri economico finanziari di bilancio.
10.1 Orbene, nella peculiare fattispecie posta all’attenzione del Collegio, la proposizione di siffatta querela, da parte del dott. -OMISSIS-, per fatti, si badi bene, risalenti al -OMISSIS- e, quindi, ad un periodo di certo antecedente sia all’avvio del procedimento di cui alla nota prot. n. -OMISSIS-, sollecitato dallo stesso Sindaco, giusta nota prot. n. -OMISSIS-, che alle denunce successivamente presentate dalle sorelle -OMISSIS- innanzi all’Autorità Giudiziaria penale, denota certamente una situazione di grave inimicizia tra le parti che, come tale, avrebbe dovuto indurre il primo ad astenersi dal formulare richieste di annullamento in autotutela della S.C.I.A. indirizzate al Responsabile dell’Ufficio Tecnico (nota prot. n. -OMISSIS-), adottare atti istruttori (nomina professionista esterno incaricato dell’istruttoria in luogo del predetto Responsabile; determina n. -OMISSIS-) e, dunque, a fortiori, annullare, in autotutela, la S.C.I.A. in sanatoria prot. n. -OMISSIS-, rilasciata dal geom. -OMISSIS-, in favore delle ricorrenti, e quindi, adottare tutti gli atti e provvedimenti che ne sono conseguiti.
11. Il suddetto dovere di astensione, nella specie violato, appare ancor più cogente in considerazione della natura tipicamente “discrezionale” e non certo “dovuta e vincolata” –per come erroneamente asserito dalla difesa dell’ente– del potere di annullamento in autotutela ex art. 21-nonies l. n. 241/1990, contestato con il gravame principale, avente ad oggetto la S.C.I.A. in sanatoria prot. n. -OMISSIS-, il cui ritiro ha poi determinato, quale atto meramente conseguenziale, l’esercizio del potere ripristinatorio di cui all’ordinanza di demolizione gravata con i motivi aggiunti e, quindi, a catena tutti i successivi provvedimenti, parimenti oggetto di gravame.
Siffatta discrezionalità si riferisce sia all’an dell’attivazione del potere in parola –che, infatti, non può essere coartata (tranne che in ipotesi del tutto peculiari, non ricorrenti nel caso in esame) mediante l’utilizzo del rimedio processuale di cui agli artt. 31-117 c.p.a.- che ai presupposti normativi condizionanti, nel merito, l’esercizio dello stesso.
Tali presupposti, per come evincibile dal tenore letterale dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990, lungi dall’essere rigidamente predeterminati ex ante dal Legislatore, così che la p.a. si possa limitare ad un mero controllo circa l’esistenza degli stessi (atto dovuto e vincolato), si identificano nell’esecuzione, entro un determinato arco temporale, di un ponderato e motivato giudizio di valore –di natura evidentemente discrezionale- circa l’eventuale preminenza, rispetto agli interessi consolidatisi in capo al privato, dell’interesse pubblico, attuale, concreto e non coincidente con il mero ripristino della legalità, al ritiro dell’atto illegittimo.
Siffatta natura “discrezionale” del potere amministrativo in discussione è stata recentemente ribadita dalla giurisprudenza amministrativa anche nelle ipotesi, sancite dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies, in cui l’amministrazione è, comunque, facultata –e non anche obbligata- ad agire in autotutela anche oltre il limite temporale di 12 mesi fissato nel primo comma della disposizione in esame.
Sul punto, lo stesso Consiglio di Stato ha chiarito che “le rappresentazioni non veritiere non determinano l'insorgenza di un interesse in re ipsa dell'Amministrazione al ripristino della legalità violata. L'asserito “mendacio” (o dichiarazioni non veritiere) non obbliga infatti l'Amministrazione all'esercizio dei poteri inibitori e repressivi invocati, che, presupponendo la non conformità dell'atto alle vigenti norme edilizie e urbanistiche, richiede anche la ricorrenza dell'ulteriore presupposto dell'interesse pubblico al ritiro dell'atto, valutato tenendo anche conto degli interessi privati in gioco” (così Consiglio di Stato sez. VI, 21/12/2021, n. 8495).
11.1 In altri termini, anche nelle ipotesi di cui al comma 2-bis dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990, l’accertamento circa l’esistenza di false, ovvero anche soltanto erronee, rappresentazioni della realtà da parte di chi ha ottenuto un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica nonché la valutazione dell’incidenza di siffatte circostanze sulla legittimità del provvedimento medesimo, da apprezzare in rapporto a tutti gli interessi in gioco, pubblici e privati, identificano i presupposti normativi di un potere amministrativo di secondo grado, la cui ontologica natura “discrezionale” rende ancor più cogente il dovere di astensione in capo a quel pubblico dipendente/amministratore che versi, come nel caso in esame, in una situazione di “grave inimicizia” rispetto al destinatario dello ius poenitendi.
12. In conclusione, in parte si deve dare atto della rinuncia agli atti depositata da una delle ricorrenti (-OMISSIS- -OMISSIS-) in data 27.05.2022, con conseguente declaratoria di estinzione del giudizio nei confronti della medesima e compensazione delle spese nei confronti della medesima, sussistendo evidenti e gravi ragioni.
Per il resto, il ricorso, per come integrato dai motivi aggiunti, è fondato in accoglimento delle preliminari ed assorbenti censure sopra scrutinate, con conseguente necessario assorbimento degli altri motivi dedotti.
Ciò in adesione all’orientamento della pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 27.04.2015, n. 5, secondo cui “in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus” (conformi, ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 12.02.2020, n. 1104; TAR Sardegna, Sez. II, 23.03.2004, n. 393).
Ne consegue, fatti salvi i successivi provvedimenti dell’amministrazione, l’annullamento:
   - della Determinazione n. -OMISSIS-, con cui il Sindaco di Bassano in Teverina –in qualità di Responsabile del Servizio D4 “Ragioneria”– ha disposto l'annullamento in autotutela, ai sensi della L. 241/1990 art. 21-nonies, del provvedimento di SCIA in sanatoria relativa all'accertamento di conformità -OMISSIS- ad oggetto “realizzazione di modifiche ed ampliamento su edificio in Via -OMISSIS- autorizzato con Nulla Osta per Esecuzione lavori edili del -OMISSIS-, immobile distinto in catasto al -OMISSIS-. Conclusione del procedimento amministrativo”;
   - della Deliberazione di Giunta Comunale n. -OMISSIS-, recante “Autorizzazione al sindaco ad assumere la responsabilità dell'area tecnica”;
   - dell'ordinanza n. -OMISSIS-, adottata dal Sindaco di Bassano in Teverina, in qualità di Responsabile dell'Ufficio Tecnica;
   - della Deliberazione di Giunta Comunale n. -OMISSIS-;
   - della Determinazione n. -OMISSIS- con cui il Sindaco di Bassano in Teverina, in qualità di Responsabile dell'Ufficio Tecnico, ha disposto il rigetto dell'istanza di accertamento di conformità prot. n. -OMISSIS-.
13.
Sussistono i presupposti affinché copia degli atti del presente procedimento vengano inviati alla Procura Regionale presso la Corte dei Conti di Roma affinché valuti l’esistenza di possibile danno erariale (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 26.01.2023 n. 1360 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALINiente esimente politica agli organi di governo che hanno assunto compiti di gestione.
L'esimente politica stabilita dall'art. 1, comma 1-ter, della legge 14.01.1994 n. 20 non si applica agli organi di governo che si siano assunti compiti di gestione, alterando il fisiologico riparto di competenze e funzioni individuati dal Tuel, divenendo, quindi, soggetti all'ordinario regime di responsabilità che a tali compiti consegue, come ad esempio, l'affidamento di un incarico di ordinarie funzioni istituzionali a soggetto esterno, il quale non costituisce un compito tipico della giunta, ma un provvedimento (non generale) di gestione in materia di personale.
Questo è il principio della sentenza 09.08.2021 n. 374 della Corte dei conti, III Sez. giurisdizionale centrale d'appello.
Tale "esimente", prevede che «nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione».
La norma, si legge nella sentenza, è stata introdotta nell'ordinamento con la finalità, di tutelare gli organi locali di governo nell'esercizio delle funzioni deliberative loro proprie laddove la decisione di loro competenza necessiti di una istruttoria tecnico-amministrativa complessa, che coinvolga accertamenti affidati a organi tecnico amministrativi interni.
Questa regola costituisce infatti la naturale conseguenza, sul piano delle responsabilità, del principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico (spettanti agli organi di governo) e attività di gestione (spettanti agli organi amministrativi di vertice), introdotto dal Dlgs 03.02.1993 n. 29 e, poi, dall'articolo 4 del Dlgs 30.03.2001 n. 165, ed è volta a garantire che l'organo politico-amministrativo rimanga esente da responsabilità connesse all'esercizio di proprie funzioni che risultino, in concreto, viziate da un errore imputabile agli accertamenti istruttori di specifica competenza dei dirigenti.
Da tale ratio consegue che, dove sia alterato il fisiologico riparto di competenze e funzioni individuati dal Tuel (è il corollario del divieto di interferenza reciproca tra i due comparti di funzioni, di governo e amministrative, nello specifico settore del governo degli enti locali), detta regola non si applica e gli organi di governo che si siano assunti compiti di gestione sono soggetti all'ordinario regime di responsabilità che a tali compiti consegue.
Il principio generalissimo che trova applicazione al fine di individuare i centri di responsabilità per il danno conseguente a deliberato di organi collegiali è che del danno possono rispondere i soggetti che hanno proposto la delibera, quelli che avevano compiti consultivi o di controllo sul rispetto delle condizioni di legge e quelli che, in seno all'organo collegiale, hanno espresso voto favorevole laddove fossero nelle condizioni di conoscere le violazioni che con il deliberato sono state perpetrate, o avrebbero dovuto esserlo in ragione del fatto che il deliberato esprime competenze proprie dell'organo collegiale o comunque da quello assunte.
E in questo senso occorre verificare la colpa grave dei convenuti rispetto alla conoscenza o conoscibilità da parte loro delle circostanze che determinano l'illegittimità degli atti deliberati, con l'avvertenza che la sentenza richiama il principio secondo il quale «la colpa grave non può ritenersi esclusa dalla mera prospettazione di un fideistico affidamento sulla legittimità della condotta altrui, giacché la diligenza richiesta al pubblico amministratore indubbiamente impone a colui che subentra nella gestione di un affare in corso di assumere un atteggiamento comunque finalizzato a ponderarne la legittimità» (Sezione II centrale d'appello sentenza 27.11.2020 n. 278) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.09.2021).
---------------
SENTENZA
5. Nel merito, gli appellanti non hanno contestato il quadro normativo applicabile ai due incarichi de quibus e i principi di diritto che il giudice ne ha  ricavato.
Ritiene il Collegio, tuttavia, opportuno esprimere la piena condivisione del principio, ampiamente esposto dal giudice di prime cure, che l’affidamento all’esterno delle ordinarie mansioni che costituiscono normale e quotidiano espletamento dei compiti rientranti nelle funzioni del personale, nei vari livelli e mansioni alle quali esso è assegnato, costituisce una deviazione dalla regola generale dell’autosufficienza dell’amministrazione e dell’efficiente impiego delle risorse destinate a remunerare il personale.
Per questo motivo la presenza dei presupposti ai quali la legge consente tale deviazione, e di procedere all’affidamento all’esterno di incarichi –in termini generalissimi: l’effettiva sussistenza delle condizioni di necessità sottese all’incarico e l’inesistenza di personale interno al quale poterle affidare- sono circostanze che l’amministrazione deve valutare con particolare ponderazione, non trattandosi di affidare speciali compiti o progetti o di risolvere questioni di carattere straordinario o contingente, ma di far fronte ai propri compiti istituzionali in modo conforme all’ordinamento ed efficiente.
6. Nella fattispecie emerge agli atti il carattere del tutto ordinario delle mansioni oggetto dei due incarichi, accertato dal giudice di prime cure.
Dalla mera lettura delle due delibere in questione si ricava che i due incarichi hanno ad oggetto compiti consistenti nell’espletamento di mansioni rientranti in quelle di un funzionario/dirigente del settore ragioneria.
Il primo incarico -allo studio associato De Le. (conferito con delibera di Giunta n. 157/2010)- ha avuto ad oggetto la “predisposizione  degli atti economici finanziari dell’ente di cui in premessa”, e cioè “la predisposizione di atti contabili complessi come elaborazione del bilancio
e la gestione dello stesso; predisposizione del rendiconto, osservanza del patto di stabilità, ecc. ecc.
”.
La stessa modalità esemplificativa degli atti oggetto di incarico ne rende palese l’individuazione in funzione del generale ambito di attività contabile nel quale essi si inquadrano (e non in relazione a specifici obiettivi, progetti o questioni), ambito che sostanzialmente coincide con quello della predisposizione del bilancio preventivo e consuntivo e degli atti connessi.
Si tratta con tutta evidenza del principale compito del settore ragioneria di un ente.
Il secondo incarico è stato conferito ex art. 110 TUEL al Dr. GU. (su parere positivo espresso con delibera di Giunta n. 32 dell’11.03.2011, applicando la normativa interna sugli incarichi ex art. 110 TUEL, che ne riservava il conferimento al Sindaco su parere della Giunta)
e ha avuto ad oggetto, oltre alle funzioni di Vice-Segretario generale e a quelle di dirigente part-time del Settore III socio-assistenziale, anche quelle di Dirigente del Settore II ragioneria e finanze, ad interim e sino a conclusione del concorso citato.
Per quanto riguarda tali ultime funzioni (le uniche oggetto di causa), è evidente che si tratta di funzioni di dirigenza di settore interno all’ente, quindi ordinarie funzioni dirigenziali espletate in seno al Comune.
7. In relazione all’evidenza della natura del tutto ordinaria dei compiti affidati, la Sezione regionale ha correttamente concluso nell’accertare che non risulta alcun elemento (né dalla motivazione dei due incarichi, né agli atti del giudizio) che possa giustificare la scelta di
conferire gli incarichi all’esterno senza previamente accertare le disponibilità interne. E difatti, rileva il Collegio:
   - la motivazione del conferimento dell’incarico allo studio associato De Le. (delibera di Giunta n. 157/2010) richiama le “non poche problematiche” afferenti al settore ragioneria “a causa dell’assenza di un referente strutturale di supporto per la preparazione degli atti fondamentali” e “così come organizzato [cioè affidato temporaneamente ad interim al Segretario generale-Direttore generale] nelle more dell’esaurimento della procedura concorsuale indetta nel 2006, coadiuvato da consulenze temporanee affidate a soggetti esterni tra cui il Rag. Te., che però, si riferisce nelle premesse, “dal mese di giugno u.s. non espleta più l’incarico de quo”); tale motivazione non rende esaustiva ragione della necessità di conferire l’incarico all’esterno.
Indubbiamente, la stessa pendenza di un concorso per la copertura del posto in questione dimostra l’assenza di un “referente strutturale” del servizio; tuttavia, dalla riscontrata inefficienza dell’organizzazione sino ad allora predisposta non derivava necessariamente l’opzione di ricorrere ad affidamento all’esterno delle attività di predisposizione degli atti contabili generali, ma il dovere di riorganizzare il servizio, seguendo la regola del previo utilizzo delle competenze interne all’ente.
Non giustifica il diretto ricorso all’esterno nemmeno il richiamo, pur contenuto nelle premesse della delibera citata, all’art. 46 del d.lgs. n. 112/2008, norma che anzi, nell’ottica di una riduzione della spesa per incarichi esterni, ribadisce la necessità (quale condizione generale per l’affidamento all’esterno) del previo accertamento dell’inesistenza di personale interno adeguato a svolgere le mansioni oggetto dell’incarico (“6. Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria”).
Infine, l’affermazione contenuta in motivazione della delibera che “Per lo svolgimento del servizio medesimo è richiesta elevata competenza e professionalità”, è senz’altro condivisibile e difatti tali compiti sono ordinariamente svolti dai funzionari aventi competenza specifica, addetti al servizio ragioneria di un ente -dal funzionario istruttore a quello di livello dirigenziale-, ai quali spetta ordinariamente di redigere sia i prospetti di bilancio che le proposte di variazione (in tal senso unicamente può essere inteso il compito di “gestione del bilancio”); tuttavia, tali competenze devono reperirsi all’interno dell’ente e, ove disponibili, precludono il ricorso a competenze esterne;
   - la motivazione della delibera di Giunta n. 32/2011, nell’esprimere parere positivo all’incarico delle funzioni di dirigente ex art. 110 TUEL al Dr. GU., rileva che il Segretario generale (che “assicura[va] la reggenza del settore socio assistenziale e del settore ragioneria”) è “fortemente impegnato nell’esercizio delle proprie funzioni di direttore generale ed è in prossimità del collocamento a riposo, previsto per il 01.08.2011”; tali circostanze non costituiscono una legittima ragione per la quale l’amministrazione non abbia riorganizzato un servizio, ritenuto non più espletabile dal Segretario generale, ricorrendo a personale disponibile all’interno, senza ulteriori oneri per l’amministrazione e nelle more della copertura del posto in organico;
   - non può accedersi alla tesi, prospettata da alcuni degli appellanti, per la quale gli incarichi sarebbero stati “conseguenziali all’annullamento delle prove scritte” (appello ME.) e dal prevedibile rallentamento dei tempi del concorso, elementi scusanti in quanto dovuti a cause loro non addebitabili.
Sia il primo incarico (del. Giunta n. 157 del 22.10.2010) che il secondo delibera di Giunta n. 32 dell’11.03.2011), sono antecedenti all’annullamento delle prove scritte, disposto dalla Commissione con verbale del 24.03.2011.
In ogni caso, logica di efficienza avrebbe voluto il ragionamento esattamente inverso: poiché i tempi per la copertura del posto di dirigente del Settore ragioneria prevedibilmente si allungano, occorre ricorrere in primis alle risorse disponibili all’interno dell’amministrazione, per evitare di “stabilizzare” un ricorso a soggetto esterno per lo svolgimento di mansioni che l’ordinamento prevede siano svolte da personale interno.
8. È fatto pacifico (emergente dallo stesso tenore delle motivazioni delle due delibere di incarico e non contestato dagli appellanti) il mancato previo espletamento di una indagine concreta (cioè realmente avvenuta) ed effettiva (cioè, condotta con riferimento al personale direttivo in organico e con riferimento alle competenze maturate da ciascuno) circa la carenza di adeguate professionalità nell’ambito dei dipendenti in servizio.
Gli appellanti insistono, invero, sulla diversa questione dell’assenza di figure interne adeguate a svolgere le mansioni affidate all’esterno. Sul punto il giudice di prime cure ha ritenuto “processualmente indimostrata o confutata l’asserzione dei convenuti circa l’assenza, nei ruoli interni dell’Amministrazione locale, di dirigenti o di funzionari direttivi di ctg. D in possesso di particolari e comprovate qualificazioni professionali necessarie per lo svolgimento di detti incarichi”.
8.1 L’inesistenza di personale adeguato in servizio è condizione per il conferimento di incarichi a soggetti esterni posta dall’ordinamento in termini del tutto generali (applicabile anche al caso di incarichi conferiti ex art. 110 TUEL, 46 d.l. 112/2008, e di incarichi di alta specializzazione o comunque denominati previsti da normativa interna delle pubbliche amministrazioni). Fermo rimanendo che, come correttamente accertato in prime cure, vi è stata carenza istruttoria al momento dell’adozione dei due atti di conferimento (in quanto non è stato svolto alcun interpello per il personale, né stilato un elenco di personale astrattamente adeguato, né indicato chi, tra il personale direttivo con esperienza in materia, si fosse dichiarato o dovesse ritenersi non disponibile a svolgerlo nelle more della conclusione del concorso), il punto da decidere relativamente alla censura in esame è accertare se, concretamente, al momento del conferimento degli incarichi tali disponibilità interne vi fossero o meno.
8.2 Sulla prova di tale circostanza vi è ampia casistica giurisprudenziale quanto all’estensione dell’onere a carico della Procura attrice e al riparto della prova del fatto contrario a carico di parte convenuta; in particolare, il Collegio condivide il principio che la mera produzione di tabelle di organico o elencazione di dipendenti in servizio non costituisce di per sé prova adeguata a dimostrare che vi fosse, o non vi fosse in organico, disponibilità di personale interno, dovendo invece essere in atti la prova che vi fosse (o non vi fosse) personale interno adeguato (quanto a professionalità) e disponibile (a svolgere l’incarico esternalizzato).
Ritiene il Collegio che tali circostanze debbano essere accertate caso per caso in base al quadro probatorio in atti, con riferimento:
   a) al contenuto dell’incarico, dal quale si evidenzia una minore o maggiore specializzazione e complessità delle competenze professionali necessarie a svolgerlo;
   b) alla specificità delle indicazioni sul personale interno prodotte agli atti dalla Procura attrice e dai convenuti (alla quale si correla, in maniera direttamente proporzionale, un aggravamento dell’onere di controprova a carico della parte avversa);
   c) alla peculiare situazione della disponibilità del personale e dell’organizzazione dell’ente, anche sotto il profilo meramente quantitativo del personale avente determinata qualifica o preparazione professionale,   
   d) ad altri elementi che possono ricavarsi con ogni mezzo di prova, nei limiti del principio del libero convincimento del giudice.
8.3. Il giudice di prime cure ha dedotto la prova dell’esistenza di personale interno adeguato da “dichiarazioni in atti secondo cui le risorse umane presenti al 31.12.2011 consistevano in n. 32 funzionari di qualifica D, di cui n. 5 erano Responsabili dei Servizi e Uffici nei quali era articolato il Settore II Ragioneria e Finanze”, dunque dotati di idonee competenza ed esperienza in materia.
8.3.1 Tra questi dipendenti, rileva il giudice di prime cure, era anche il Dr.In., lo stesso che aveva ricoperto proprio il posto di dirigente del settore II Ragioneria per incarico conferitogli dl Sindaco ME. dal 2004 al 2008.
Con particolare riguardo alla posizione del Dr. In., la tabella richiamata dagli appellanti (e la nota n. 2445 del 17.01.2018 del Servizio risorse umane, a cui è allegata) indica il suo inserimento nell’elenco dei dipendenti con qualifica D per il 2010 e 2011 già trasmesso con
nota in stessa data n. 2416, nel quale l’In. era stato erroneamente non inserito.
Dunque, alla qualificata pregressa esperienza come capo Servizio Ragioneria ad interim per quattro anni, indizio della sua idoneità alle funzioni in assenza di alcuna prova del contrario (il Collegio osserva che la circostanza che egli sarebbe stato revocato da tali funzioni per inidoneità, affermata nell’appello capofila ME., contrasta con l’affermazione dell’appello GI., che egli sarebbe stato revocato per l’opportunità di non consentire ad un vincitore delle prove scritte di svolgere le funzioni messe a concorso, e che su entrambe le circostanze, in ogni caso, non sono versate agli atti adeguate prove documentali), si aggiungeva l’alta qualifica posseduta (D3 al tempo) e la circostanza che il Dr. In. risultava il primo nella graduatoria provvisoria tra i tre vincitori delle prove scritte del concorso per la copertura del posto di dirigente dello stesso Settore Ragioneria (prove superate nel 2009, dunque prima del conferimento degli incarichi).
L’argomentazione degli appellanti, che sarebbe risultato inopportuno incaricare lo stesso In. proprio perché vincitore delle prove scritte non ha alcun supporto logico né giuridico; l’argomentazione che la stessa indizione del concorso per la copertura del posto dimostrerebbe l’assenza di personale interno adeguato risulta inconferente, atteso che il posto messo a concorso era di qualifica dirigenziale, non direttiva (per cui nella specie si tratta di accertare solo se sussistesse temporaneamente, per il tempo necessario a espletare la procedura, personale interno direttivo che fosse adeguato e disponibile a svolgere le relative mansioni).
8.3.2. Quanto al restante personale in servizio, i dati affermati dal giudice di prime cure non sono stati confutati, ma anzi confermati dagli appellanti in quanto emergenti dalla citata tabella richiamata da entrambi gli appelli; questa non fornisce alcun elemento a favore della tesi sull’inesistenza di personale qualificato e disponibile, in quanto costituisce un elenco dei “dipendenti categoria D anni 2010-2011” che (oltre a comprendere lo stesso In.) non prova alcuna condizione di inadeguatezza o indisponibilità del personale, e anzi dimostra la presenza in servizio, presso il Settore ragioneria nel 2010 e 2011, di 4 funzionari direttivi di cui tre D2 e uno di livello D4; in altri termini, la citata tabella dimostra quindi la presenza in servizio di un rilevante numero di dipendenti, oggettivamente presenti e astrattamente qualificati all’incarico.
Rispetto alla documentata quantità e qualità dei funzionari in organico, alla specifica circostanza che uno di questi aveva già ricoperto quelle medesime funzioni e alla mancanza di qualsiasi elemento per dedurre (la sua o di altri) inidoneità o l’indisponibilità a svolgere le funzioni in questione, deve confermarsi quanto statuito dal giudice di prime cure in punto di prova, e cioè che manca la prova del presupposto primo per il legittimo affidamento a terzi delle funzioni di dirigente del Settore ragioneria (delibera n. 32/2011), o di funzioni comunque espletate dal Servizio ragioneria (delibera di Giunta n. 157/2010).
9. La condanna risulta emessa ultra petita quanto ad alcune posizioni (VO. e IO., citati per euro 1.248,00 ciascuno e condannati per rispettivamente euro 1.687,00 e 1.600,009) e quelle di errore di calcolo del giudice (SC. e TE., per i quali, seguendo i calcoli del giudice con decurtazione del 40% e di ulteriore 10%, essi devono rispondere di euro 1.668,86).
Tuttavia, la rilevanza di tale circostanza sarà eventualmente esaminata ad esito delle conclusioni che questo giudice trarrà in merito alla fondatezza delle censure rivolte dagli stessi appellanti avverso la statuizione di colpa grave loro ascritta, e che sono di seguito esaminate.
10. Alcune precisazioni preliminari si impongono riguardo all’esame dell’elemento soggettivo degli Assessori e dei componenti la Giunta.
Nella fattispecie va escluso che, diversamente da quanto censurato dagli appellanti, trovi applicazione l’art. 1, comma 1-ter legge 14.01.1994 n. 20 (“Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione”).
Tale “esimente” è stata introdotta nell’ordinamento con la finalità (perseguita dal legislatore nel riformare l’organizzazione degli enti locali in coerenza con la riforma della dirigenza nel settore pubblico), di tutelare gli organi locali di governo nell’esercizio delle funzioni deliberative loro proprie laddove la decisione di loro competenza necessiti di una istruttoria tecnico-amministrativa complessa, che coinvolga accertamenti affidati ad organi tecnico-amministrativi interni.
Tale regola costituisce infatti la naturale conseguenza, sul piano delle responsabilità, del principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico (spettanti agli organi di governo) e attività di gestione (spettanti agli organi amministrativi di vertice), introdotto dal d.lgs. 03.02.1993, n. 29 e, poi, dall’art. 4, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, ed è volta a garantire che l’organo politico-amministrativo rimanga esente da responsabilità connesse all’esercizio di proprie funzioni che risultino, in concreto, viziate da un errore imputabile agli accertamenti istruttori di specifica competenza dei dirigenti.
Da tale ratio consegue che, ove sia alterato il fisiologico riparto di competenze e funzioni individuati dal TUEL (e il corollario del divieto di interferenza reciproca tra i due comparti di funzioni, di governo e amministrative, nello specifico settore del governo degli enti locali), detta regola non si applica e gli organi di governo che si siano assunti compiti di gestione sono soggetti all’ordinario regime di responsabilità che a tali compiti consegue.
Venendo al caso di specie, che non è disciplinato da normativa derogatoria quanto al riparto di competenze all’interno dell’ente, nel quadro delle funzioni regolamentate dal TUEL l’affidamento di un incarico di ordinarie funzioni istituzionali a soggetto esterno non costituisce un compito tipico della Giunta, ma un provvedimento (non generale) di gestione in materia di personale; come tale, esso non rientra nella ratio e nella disciplina dell’invocata ”esimente”, ed è in grado di generare (se ne sussistano i presupposti) una responsabilità della Giunta quale riflesso dell’assunzione di tali compiti gestori (cd. “responsabilità per assunzione”: cfr. Sez. II App., sentenza n. 171/2017), la quale deve essere valutata secondo gli ordinari parametri utilizzabili nell’accertamento della responsabilità dei dirigenti, che ordinariamente tali compiti espletano.
11. Il principio generalissimo che trova applicazione al fine di individuare i centri di responsabilità per il danno conseguente a deliberato di organi collegiali è che del danno possono rispondere i soggetti che hanno proposto la delibera, quelli che avevano compiti consultivi o di controllo sul rispetto delle condizioni di legge e quelli che, in seno all’organo collegiale, hanno espresso voto favorevole laddove fossero nelle condizioni di conoscere le violazioni che con il deliberato sono state perpetrate, o avrebbero dovuto esserlo in ragione del fatto che il deliberato esprime competenze proprie dell’organo collegiale o comunque da quello assunte.
Nella specie, esclusa l’applicazione dell’esimente e accertato che si verte in fattispecie di assunzione di funzioni non tipiche della Giunta, occorre verificare la colpa grave dei convenuti rispetto alla conoscenza o conoscibilità da parte loro delle circostanze che determinano l’illegittimità dei due incarichi, le quali si riducono a due: il carattere del tutto ordinario e istituzionale dei compiti che ne sono oggetto e la mancata verifica di personale interno a fronte della presenza di più funzionari in servizio, qualificati per livello e mansioni al tempo svolte.
11.1 Quanto alla specifica posizione dell’assessore alle Finanze SA., la circostanza che le due proposte di deliberato interessassero il settore di propria competenza –addirittura proponente di una delle due (delibera n. 157/2010)- lo individua quale referente in seno alla Giunta per la compiutezza ed affidabilità dell’istruttoria concernente la situazione amministrativa e giuridica da valutare per l’individuazione di un soggetto a cui affidare i compiti oggetto dei due incarichi.
Nella sua posizione non risulta di alcuna giustificazione l’argomentazione difensiva che egli avrebbe fatto affidamento sull’istruttoria del proprio dirigente di settore; tale difesa risulterebbe eventualmente efficace entro i limiti, qui travalicati, di operatività dell’esimente invocata, ma che non ha alcun rilievo nella fattispecie, sia per l’inoperatività dell’esimente, sia per l’esistenza di quello che costituiva a suo carico un onere specifico di verifica istruttoria (che la consolidata giurisprudenza non ritiene assolto dalla presenza di parere favorevole del Segretario generale o di un organo tecnico: ex plurimis, Sez. II App. n. 89 del 13.02.2017, e n. 508 del 24.12.2019).
Per le stesse ragioni non lo giustifica l’argomentazione che la sua proposta si sarebbe limitata a recepire “quanto rappresentato dal Segretario generale” riguardo alla questione della carenza di personale, poiché un suo personale approfondimento sull’esistenza di un documentato riscontro delle disponibilità in organico era doveroso in applicazione del principio per cui “la colpa grave non [può] ritenersi esclusa dalla mera prospettazione di un fideistico affidamento sulla legittimità della condotta altrui, giacché la diligenza richiesta al pubblico amministratore indubbiamente impone a colui che subentra nella gestione di un affare in corso di assumere un atteggiamento comunque finalizzato a ponderarne la legittimità” (Sez. II App. n. 278/2020).
In più brevi termini, assumendo la Giunta compiti di gestione e risultando questi inerenti al settore del SA. -e nella delibera n. 157/2010 assunti dalla Giunta su sua proposta- l’assessore avrebbe dovuto informarsi sui fatti rilevanti nonché sulla completezza e correttezza dell’istruttoria a base delle proposte.
Nella specie, trattandosi di incarichi, in entrambe le occasioni egli avrebbe dovuto almeno accertare (con onere non esaurito dalla proposta del Dirigente del suo settore) se vi fosse stata una istruttoria adeguata a dimostrare la sussistenza dei presupposti generalissimi di legge sopra detti.
La distanza tra lo schema procedurale previsto dalla disciplina in materia e il percorso decisionale concretamente seguito –in assenza di alcuna documentazione sul previo riscontro sulla adeguatezza e disponibilità del personale interno- è tale da evidenziare il nucleo tipico della colpa grave, sotto il profilo della grave e inescusabile violazione di legge, perpetrata omettendo l’esercizio di competenze proprie riflesso dell’assunzione di compiti di gestione e pretermettendo i compiti di verifica e garanzia ad essi associati.
Per il SA. deve quindi confermarsi l’accertamento del giudice di prime cure di una “incuria incompatibile con quel minimo di diligenza e di avvedutezza che l’assolvimento degli obblighi di servizio pubblico invece esigeva dai convenuti”.
Le censure di lesione del diritto di difesa, che l’appellante muove sotto il profilo di nullità della citazione e conseguente nullità della sentenza di prime cure (che non avrebbe rilevato la mancata contestazione di tale differente posizione del SA. rispetto a quella degli altri assessori) sono infondate.
La contestazione che costituisce il nucleo indefettibile della domanda (la cui assenza è causa di nullità dell’atto di citazione) è individuata dai fatti addebitati (titolo della domanda, o causa petendi), che nella fattispecie sono esenti dalla rilevata genericità, come concluso anche dal giudice di prime cure, perché descrivono sufficientemente la sua posizione (assessore al settore finanze, proponente l’incarico di cui alla delibera di Giunta n. 157/2010 e partecipante che ha espresso voto positivo ad entrambe le delibere).
L’individuazione delle norme di legge alla luce delle quali tale addebito deve essere vagliato è materia spettante alla cognizione del giudice, che sussume autonomamente i fatti in una fattispecie di diritto e ne trae le conseguenze in punto di responsabilità; l’ampiezza delle argomentazioni difensive, poi, è lasciata alla scelta discrezionale della difesa, che non incontra preclusioni nell’individuare e interpretare le norme di diritto applicabili alla fattispecie addebitata al convenuto e formulare le proprie conclusioni.
Pertanto, addebitando al SA. una percentuale maggiore del danno in ragione della sua specifica posizione (differenziata sia in citazione che in sentenza rispetto a quella degli altri componenti la Giunta), il giudice di primo grado non ha leso in alcun modo il suo diritto difesa.
In conclusione, nei confronti del SA. deve essere confermata la condanna di euro 4.319,00.
11.2. L’appellata sentenza va invece riformata quanto alla posizione degli appellanti Assessori che hanno espresso voto positivo nelle due occasioni, IO., VI., TE. e SC..
Seppure l’inapplicabilità della citata “esimente” comporti l’assunzione in capo alla Giunta della responsabilità per l’atto di gestione, all’interno dell’organo collegiale possono assumere rilevanza particolari circostanze in virtù delle quali l’elemento soggettivo può risultare non connotato dal medesimo grado di colpa con riferimento a ciascuno dei votanti.
La casistica giurisprudenziale presenta fattispecie nelle quali la colpa grave è stata riconosciuta in capo a tutti i partecipanti che hanno espresso voto positivo, e altre nelle quali la colpa grave è stata esclusa nei confronti di tutti o alcuni per la presenza di particolari condizioni inerenti elementi diversi che, in concreto, sono stati ritenuti rilevanti per attenuare il principio di imputabilità ai componenti dell’organo collegiale degli atti di gestione assunti (tra i quali le dimensioni dell’ente, il recente insediamento in Giunta, la complessità degli accertamenti istruttori a base della proposta e altri).
Nel caso di specie, il deliberato era accompagnato dall’istruttoria compiuta dal funzionario proponente (GI., quale Responsabile ad interim del Settore Ragioneria e Finanze, nella delib. 157/2010; CA., nella delib. 32/2011) la cui verifica spettava (per quanto detto) all’assessore competente del servizio finanze (SA.); l’organo collegiale era assistito dal Segretario generale di ruolo (GI.). Questi soggetti costituivano ed esaurivano i tre diversi centri di controllo sui quali, nel caso di deliberazioni collegiali, si incentra il vaglio delle condizioni di legittimità dell’azione amministrativa.
Su tali soggetti (e concentrandosi la funzione di referente in seno al collegio nel SA.) può ritenersi plausibile che gli assessori votanti abbiano fatto affidamento, e ciò determina una minore rimproverabilità dell’illecito nei loro confronti.
Difatti, nella fattispecie le motivazioni di cui alle due proposte e i prescritti pareri non sono assenti, ma sono viziati da una erronea rappresentazione della realtà dei fatti: essi danno una contezza, seppur formale, del riscontro da parte del proponente di ragioni di necessità organizzativa attinenti il settore personale (per ciò che riguarda l’asserita carenza di adeguato personale interno) ed il settore ragioneria (per l’indisponibilità del Segretario generale a continuare l’incarico ad interim) - motivazioni la cui inconsistenza (sia con riferimento alle prime che alle seconde) appariva con tutta evidenza a chi appartenesse ai due settori (CA., SA.) o avesse istituzionalmente compiti di verifica delle condizioni organizzative del personale (GI.), ma non necessariamente agli altri assessori.
Né è dimostrata una loro conoscenza personale dei fatti, loro derivante da ragioni di ufficio o aliunde, o sono agli atti altre circostanze rilevanti per trarne una gravissima deviazione dalle regole di azione e giudizio da parte loro nell’assumere la decisione del conferimento dei due incarichi.
11.3 Rileva il Collegio che tali circostanze risultano invece evidenti agli atti per il Sindaco ME..
Il mancato approfondimento da parte sua, in sede di Giunta, della questione sulla presenza in servizio di personale adeguato non appare minimamente giustificabile, considerato che egli risulta aver personalmente firmato l’incarico temporaneo di Dirigente del settore Ragioneria e finanze affidato al Dr. In. nel 2004 e 2005 e sino al 2008 (con la motivazione che quegli “possiede i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire”).
Tale omissione assume, da parte sua, il connotato di una grave e inescusabile mancanza di diligenza nell’accertare e approfondire i fatti essenziali dell’istruttoria a base delle due proposte di deliberato, tanto più laddove l’assenza di alcuna documentazione su un previo interpello, o anche solo un previo esame d’ufficio dei profili di qualificazione del personale (ivi compreso l’In.), deponeva per la sua incompletezza e inadeguatezza.
La conoscenza personale di questioni che, con tutta evidenza, rientravano doverosamente nell’ambito dei fatti da considerare ponderatamente nell’istruttoria dei due deliberati, rende la sua posizione analoga a quella del SA. non solo quanto all’onere di approfondimento istruttorio gravante a suo carico, ma anche al conseguente obbligo di corretta informazione ai presenti alla seduta (e lo rende responsabile, dunque, sia per l’incarico da lui personalmente conferito in attuazione della delibera di Giunta n. 32/2011, sia per l’incarico di cui alla delibera Giunta n. 157/2010).
Il giudice di prime cure ha ritenuto di addebitare al ME. una diversa quota di danno in relazione ai due incarichi (il 25% diviso pro quota con gli altri convenuti, per la delibera n. 157/2010, e l’intero 25% per il danno conseguente alla delibera 32/2011 e al decreto di incarico a sua firma, n. 4 del 21.03.2011); pertanto, la sentenza nei suoi confronti deve essere confermata entro la somma in condanna, di complessivi euro 9.307,00.
12. L’appellata sentenza deve essere confermata anche per la posizione del GI..
In qualità di Responsabile ad interim del Settore Ragioneria e Finanze è di palmare evidenza che egli conoscesse per ragioni di servizio la dotazione organica e, in particolare, i funzionari in servizio presso il suo settore; più in generale, la situazione del personale tutto dell’ente doveva necessariamente essergli nota, rivestendo egli il ruolo di Segretario generale.
Ciononostante, quanto al primo incarico (al dr. De Le., conferito con la delibera di Giunta n. 157 del 22.10.2010), egli ha proposto la delibera di affidamento ed espresso i pareri positivi di regolarità tecnica e contabile, ex art. 49 TUEL.
Ciò basta a qualificare come grave la sua colpa, per palese e profonda deviazione dalla disciplina di settore sotto più profili dei quali il primo e più grave è proprio l’aver proposto un affidamento esterno che, di fatto, ha pretermesso il previo vaglio del personale interno o qualsiasi proposta di riorganizzazione del servizio con l’utilizzo del personale interno nel modo più razionale ed efficiente in relazione alle disponibilità, certe agli atti.
Quanto al secondo (conferito al GU. ex art. 110 TUEL previo parere positivo espresso con la delibera di Giunta n. 32/2011), dalla mera lettura della delibera egli era in grado di trarre la natura ordinaria dei compiti affidati e, dalla documentazione agli atti, l’assenza di alcuna indagine sulla situazione della disponibilità in organico; cionondimeno, nulla ha rilevato, omettendo il dovuto supporto alla Giunta in qualità di Segretario generale.
Alla luce di tali specifiche competenze, l’argomentazione difensiva relativa all’elemento soggettivo (per la quale il GI. non sarebbe stato in grado di percepire gli elementi ostativi all’adozione delle delibere proposte alla Giunta) risulta di evidente infondatezza: posto che altri non è che il Segretario generale l’organo che, in virtù dei compiti assegnategli dall’art. 97 TUEL, in sede collegiale avrebbe dovuto fornire l’”assistenza giuridico-amministrativa in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo Statuto ed ai regolamenti” (e rilevare, nella fattispecie, le violazioni che, sotto entrambi i profili, il deliberato concretava), non risulta dimostrata alcuna circostanza giustificativa per la quale queste conoscenze (in fatto e in diritto) egli non ha potuto acquisire.
13. L’ulteriore questione dell’evidenza o meno, da parte del GI., del ME. e del SA., dell’illegittimità dell’annullamento delle prove scritte e dello stallo dei lavori della Commissione di concorso è, in concreto, irrilevante ai fini del decidere.
Le ragioni dell’addebito nei loro confronti non si radicano nell’illegittimità degli atti della Commissione, ma in quella delle due delibere (la 157/2010 di conferimento dell’incarico e la 32/2011 di resa del parere positivo al conferimento stesso da parte del Sindaco), con riguardo alla (diversa) disciplina sugli incarichi che è stata, peraltro, ampiamente e correttamente richiamata nell’appellata sentenza, la quale risulta pertanto scevra anche da questa censura.

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: 1. Nelle ipotesi di danno indiretto, il termine iniziale di prescrizione va fissato alla data in cui il debito della P.A. nei confronti del terzo danneggiato è diventato “certo, liquido ed esigibile”: pertanto, nel caso di danno conseguente all’assunzione di debito fuori bilancio, il termine di prescrizione decorre da tale momento, a nulla rilevando che i fatti storici, in relazione ai quali è ipotizzabile la responsabilità amministrativa, siano stati oggetto di atti deliberativi anteriori.
   2. L’esimente c.d. politica della responsabilità amministrativo-contabile, di cui al comma 1-ter dell’art. 1 della legge n. 20 del 1994, opera soltanto quando la decisione che si assume fonte di danno ingiusto sia stata assunta in materie di particolare difficoltà tecnica o giuridica, dovendosi altrimenti ritenere che l’evidenza dell’erroneità dell’atto sia tale da escludere la stessa buona fede dei titolari dell’organo politico.
   3. Gli obblighi di correttezza e buona fede devono caratterizzare sia la stipulazione dei contratti pubblici sia la fase precontrattuale. In quest’ultimo ambito, entra l’ipotesi dell’aggiudicazione di un contratto nella consapevolezza della mancanza di copertura finanziaria ai sensi degli artt. 151 e ss. del TUEL, foriera di responsabilità ex art. 1337 c.c.
---------------

Ciò posto, dal succedersi cronologico degli avvenimenti si ravvisa in modo palese la responsabilità dei convenuti, riconducibile alle due cause ben evidenziate sia dal giudice amministrativo che dal procuratore regionale:
   - la mancata acquisizione della provvista finanziaria prima della indizione e della aggiudicazione della gara e
   - l’inerzia gravemente colposa inspiegabilmente protratta fino alla scadenza del termine utile –prorogato– per concludere i lavori.
Rileva in primo luogo, ad avviso del Collegio, l’avere aggiudicato un contratto nella consapevolezza della mancanza di copertura finanziaria ai sensi degli artt. 151 e ss. del TUEL.
Dagli atti si evince che la convenzione con la Calabria, che affidava al Comune di Scalea la realizzazione degli interventi beneficiati relativi al Progetto Integrato Territoriale n. 1 “Alto Tirreno cosentino”, era stata stipulata in data 17.01.2008. Già da quella data, dunque, ai sensi dell’articolo 10 della medesima Convenzione, il Comune si sarebbe potuto attivare per richiedere al Dipartimento regionale competente l’anticipazione del 30% sulla somma dell’intero appalto. Ma nulla risulta agli atti che dimostri una iniziativa in tal senso, né da parte del Sindaco Ru., né da parte del responsabile del Servizio Lavori Pubblici e RUP, Arch. Ba..
Tale omissione si è protratta per circa dieci mesi, nonostante che in tale lungo arco temporale il Comune avesse indetto una prima gara secondo procedura negoziata, che poi in autotutela annullava nell’ottobre 2008.
E’ solo in data 20.11.2008, contestualmente alla aggiudicazione della seconda procedura di gara indetta dopo l’annullamento della prima, che il Sindaco di Scalea, con nota prot. 8097 del 20.11.2008, richiedeva alla regione l’anticipazione del 30% dell’importo dell’appalto.
I convenuti imputano alla Regione il ritardo nella concessione di detta anticipazione, ma è evidente, per contro, la condotta del tutto ingiustificabile assunta dai convenuti, sia per non avere tenuto in debita considerazione la provvista finanziaria già prima di aggiudicare l’appalto, sia –ancor più– per avere tenuto un comportamento del tutto contraddittorio, in quanto alla richiesta –tardiva- di concessione della proroga del 20.11.2008 faceva seguito, dopo sole due settimane, in data 04.12.2008, una richiesta del Sindaco dal tenore del tutto opposto, e cioè di “sospensione della erogazione della rata di anticipazione già richiesta”, e addirittura, di “slittamento dell’intero progetto nell’annualità 2009”, senza alcuna considerazione delle responsabilità e dei doveri connessi all’aggiudicazione già conclusa, alla comunicazione formale data alla ditta dal Ba. e all’affidamento, del tutto legittimo indotto nel contraente, in ordine alla favorevole conclusione della procedura ed alla stipulazione del contratto.
Appare dunque palese come la documentazione in atti attesti che, a distanza di soli due giorni dal visto che aveva reso esecutivo il provvedimento di aggiudicazione, il Comune chiedeva alla Regione di sospendere l’erogazione dell’acconto del 30% con la conseguenza di avere, già a quella data, leso l’affidamento al corretto svolgimento delle trattative contrattuali, ingenerato nella N. by Te.No. S.r.l. con la comunicazione del 21 novembre precedente.
Le considerazioni che precedono inducono pertanto il Collegio a ritenere che la responsabilità precontrattuale accertata dal TAR con la sentenza n. 502/2012 fosse maturata in capo ai convenuti già con la nota del 04.12.2008 e che, da quella data in poi, essa si sia ulteriormente aggravata.
Né rileva, ad attenuare la responsabilità gravemente colposa dei convenuti, la circostanza che con successiva nota del 11.12.2008 il dott. Ru., “preso atto di quanto riportato dalla stampa in ordine alla concessione di proroghe dei progetti POR”, abbia richiesto nuovamente alla Regione lo slittamento del termine di scadenza al 30.06.2009, atteso che, contestualmente, siffatta richiesta non era accompagnata da alcuna concreta iniziativa dei convenuti che denotasse l’effettiva intenzione di realizzare l’intervento destinatario dei finanziamenti.
Se, dunque, era già noto dagli organi di stampa che il progetto sarebbe stato prorogato, sia il Responsabile del Procedimento che il Sindaco avrebbero dovuto concretamente attivarsi per sollecitare la provvista finanziaria. Ed invece, nulla di tutto ciò avveniva e il termine del 31.12.2008 spirava inutilmente senza che il contratto fosse stipulato.
Successivamente, entrambi i convenuti hanno ritenuto inopinatamente di non dover dare credito alla comunicazione del 25.02.2009, con cui il Responsabile dell’Ufficio Coordinamento e Gestione “Alto Tirreno cosentino”, dott. Ma., informava, sia il Comune sia l’aggiudicatario, della proroga del termine finale al 30.06.2009 per atto espresso della Commissione europea.
La tesi difensiva, in particolare, non riconosce alcuna giuridica efficacia alla comunicazione del 25.02.2009 del dott. Ma., poiché “Nello schema di convenzione, infatti, non è prevista nessuna figura di coordinamento e non si comprende quale sia stata l’autorità che ha nominato il dott. Ma. allo svolgimento di tali funzioni di coordinamento di un PIT che nella sostanza è un progetto e non un organo".
L’assunto è totalmente destituito di fondamento.
Basta infatti leggere il testo della Convenzione per verificare che già all’articolo 3 è previsto che il beneficiario finale dei finanziamenti dovrà fornire tempestivamente e secondo le scadenze stabilite dalla Regione ogni informazione relativa alla propria attività, utile al monitoraggio e alla verifica sull’attuazione dell’intervento, e che tali comunicazioni e le attestazioni di spesa dovranno pervenire, pena il blocco delle procedure, tramite l’Ufficio di Coordinamento e Gestione del PIT.
Sempre l’articolo 3 prevede poi che “al fine di garantire l’aggiornamento e l’approfondimento delle attività in corso e di fornire eventuali dati aggiuntivi, sarà cura del Responsabile del procedimento degli interventi finanziati incontrarsi con il Responsabile dell’Ufficio di Coordinamento e Gestione del PIT e/o con il Responsabile della misura, ogni volta che gli stessi lo valuteranno opportuno”.
E ancora, viene stabilito nel medesimo articolo, tra gli obblighi cui è tenuto il beneficiario del finanziamento, quello di comunicare tempestivamente al Dipartimento e al responsabile della misura ogni circostanza che abbia influenza sull’esecuzione e sull’andamento dell’intervento e a trasmettere loro, entro venti giorni dalla relativa emissione e tramite il Responsabile dell’Ufficio di Coordinamento e Gestone del PIT, copia conforme degli atti amministrativi rilevanti ai fini della realizzazione dell’intervento.
Quindi, contrariamente a quanto sostenuto dei convenuti, la figura del Responsabile dell’Ufficio di Coordinamento e Gestione del PIT era espressamente prevista nella Convenzione stipulata con il Comune dalla Regione Calabria, quale organismo con specifiche competenze appositamente istituito quale tramite fra il Dipartimento regionale ed il beneficiario dei finanziamenti, nei cui confronti quest’ultimo –e in particolare sia l’ente locale, sia il Responsabile del procedimento- avevano precisi obblighi di comunicazione e di trasmissione di atti rilevanti per la realizzazione dell’intervento.
Dunque, stante il particolare ruolo ricoperto dal Responsabile del Coordinamento nella suddetta procedura, l’informazione sulla concessa proroga della rendicontazione del progetto al 30.06.2009, disposta dalla Commissione europea, non poteva essere considerata “priva di valenza giuridica”, ma avrebbe invece richiesto l’attivazione dei convenuti, sia in qualità di rappresentante dell’ente che di responsabile del procedimento e del Settore Lavori pubblici, per stipulare il contratto e terminare in tempo utile i lavori.
In presenza di tale comunicazione, promanante comunque da un organo qualificato all’interno della procedura, appare priva di pregio anche l’affermazione che occorreva aspettare il formale assenso della Regione.
Di conseguenza, la scelta del Comune di non dare seguito alla stipula a cagione della mancanza di un atto di conferma da parte della Regione Calabria, si appalesa arbitraria e irragionevole.
E comunque, nessuna attività risulta essere stata posta in essere dagli interessati, i quali avrebbero potuto, intanto, consultare la Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea per verificare la fondatezza della notizia (la Decisione della Commissione europea, in realtà, risultava allegata alla nota del Ma. del 25.02.2009, ma i convenuti hanno negato che tale atto fosse presente). In secondo luogo, avrebbero potuto interessare direttamente il Dipartimento regionale competente piuttosto che rimanere ad attendere un riscontro formale della regione.
Nulla di tutto questo si è verificato. Infine, con nota del 24.03.2009, in replica alla diffida della società aggiudicataria, entrambi i convenuti sottoscrivevano la nota del 24.03.2009 con cui giustificavano la mancata stipula del contratto con la necessità di “dover attendere tanto la concessione ufficiale della proroga quanto l’esito del ricorso amministrativo”.
Al riguardo occorre precisare che anche la tesi difensiva secondo cui per l’ente era opportuno attendere la determinazione del giudice amministrativo sul merito del ricorso introdotto da altro concorrente, non è condivisibile.
In disparte la considerazione, svolta anche dal giudice amministrativo, che in quel procedimento il previo ricorso cautelare della ditta esclusa era stato respinto con ordinanza del gennaio 2009, nulla è stato fatto dai convenuti anche dopo il deposito della sentenza definitiva, sempre favorevole al Comune, avvenuto il 22.04.2009.
Le suesposte considerazioni comprovano la responsabilità gravemente colposa dei due convenuti nella gestione dell’appalto, che appare del tutto avulsa dal rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede che devono caratterizzare la stipulazione dei contratti pubblici e la fase precontrattuale, né alcuna attività riconducibile ai medesimi convenuti è stata realizzata al fine di porre l’aggiudicatario nella condizione di essere salvaguardato nel suo interesse al corretto svolgimento delle trattative precontrattuali, ponendo dunque a carico del Comune le conseguenze economiche di tale responsabilità.
Il comportamento tenuto dai convenuti contrasta con il neminen laedere quale principio generale dell’ordinamento giuridico, implicante quel
dovere reciproco di solidarietà contrattuale sovente richiamato dalla giurisprudenza di legittimità come canone di comportamento secondo buona fede cui le parti sono tenute, non solo nella fase esecutiva del contratto stipulato, ma anche in quella delle trattative prodromica al contratto stipulando (ex pluribus, Cass. Sez. I, n. 19024/2005; Cass. Sez. Un. nn. 26724 e 26725 del 2007). La lesione della buona fede nell’ambito delle trattative precontrattuali implica per le parti una precisa regola di comportamento secondo correttezza, foriera di responsabilità ex art. 1337 c.c.
Ritiene il Collegio che la dedotta violazione dell’obbligo di buona fede in danno dell’aggiudicatario da parte dei convenuti sia riavvisabile nella condotta gravemente colposa ed ingiustificatamente inerte dagli stessi tenuta in tutto il corso dell’appalto.
Anzitutto, per aver indetto una gara senza avere garantito la necessaria copertura finanziaria, nonostante l’art. 10 della Convenzione di finanziamento firmata con la Regione prevedesse l’anticipazione di una prima rata del 30% già alla data della stipula, ossia il 17.01.2008, mentre è documentato che la prima richiesta per l’erogazione della rata di anticipazione è datata 20.11.2008 e che a distanza di quindici giorni, il 04.12.2008, sempre il Comune, a firma del Sindaco, ne ha richiesto la sospensione.
Comportamento gravemente colposo se posto in relazione con quanto documentato in atti.
E’ palese poi che alla data del 21.11.2008, quando il dott. Ba. -(fascicolo Ru., Allegato 15)– comunica alla N. by Te.No. S.r.l. di essere risultata aggiudicataria della gara è consapevole di non avere alcuna copertura finanziaria, dal momento che la Determinazione assunta non ha ancora ricevuto il visto di regolarità contabile. Ma, una volta apposto il visto, addirittura il Comune –a firma del Sindaco– chiede alla Regione la sospensione dell’erogazione del finanziamento di cui alla nota del 20.11.2008.
È dunque smentita la tesi difensiva volta a riversare eventuali responsabilità sulla Regione Calabria.
Secondariamente, la grave negligenza nell’operato dei convenuti Comune si evince anche dalla condotta da entrambi tenuta dopo la scadenza del termine del 31.12.2008 per la realizzazione dell’intervento previsto dal POR.
Infatti, nonostante la nota del 25.02.2009 (fascicolo Ru., Allegato 20) con cui il Responsabile del Coordinamento del PIT1 comunicava a entrambe le parti la proroga del termine finale di ammissibilità delle spese finanziabili in base al POR 2000/2006 al 30.06.2009, i convenuti sono rimasti inerti e, alla diffida dell’aggiudicatario, hanno replicato entrambi con la nota del 24.03.2009 (fascicolo Ru., Allegato 21) con cui hanno affermato di non poter procedere alla stipulazione dovendo attendere la comunicazione formale della proroga dei termini di realizzazione del progetto da parte della Regione, disconoscendo qualsiasi efficacia giuridica alla comunicazione del 25.02.2009.
E dunque i convenuti, anziché adoperarsi per accertare la veridicità della comunicata proroga dei termini, hanno preferito persistere nella propria condotta omissiva, di fatto lasciando spirare il termine del 30.06.2009 e così ponendosi nella condizione di dover rifiutare la stipula del contratto, costringendo l’altra parte contrattuale a rivolgersi all’autorità giudiziaria che ha poi accertato la responsabilità dell’ente e quantificato il relativo danno.
Trattandosi di responsabilità per violazione di regole di comportamento, deve essere respinta anche l’eccezione della esimente politica da parte del dott. Ru..
L’art. 1, co. 1-ter, l. 14.01.1994, n. 20 recita testualmente: “Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”.
Ebbene, la giurisprudenza ha dato una lettura assai restrittiva della portata della norma, statuendo che
l’esimente c.d. politica della responsabilità amministrativo-contabile opera soltanto quando la decisione che si assume fonte di danno ingiusto sia stata assunta in materie di particolare difficoltà tecnica o giuridica, dovendosi altrimenti ritenere che l’evidenza dell’erroneità dell’atto sia tale da escludere la stessa buona fede dei titolari dell’organo politico (ex pluribus, Corte dei Conti, Sezione I, n. 282/2002).
Nulla di tutto ciò si ravvisa nell’odierna fattispecie, in quanto tutti gli atti a firma del Sindaco Ru. non si sono espressi su materie di particolare complessità tecnica, ma afferiscono tutti alle menzionate richieste di proroga del termine di realizzazione dei lavori, alla richiesta dell’erogazione dell’anticipazione del finanziamento, al riscontro alla diffida del 24.03.2009, a firma congiunta col dott. Ba.: si tratta cioè di comunicazioni che, proprio perché espressione di principi di carattere generale afferenti alle varie fasi del procedimento amministrativo, non rientrano nella competenza propria di un ufficio tecnico, di cui non costituiscono né approvazione né autorizzazione. L’eccezione sollevata deve pertanto essere rigettata perché infondata.
Alla luce delle segnalate gravi omissioni e violazioni di regole di comportamento, la domanda attorea risulta meritevole di accoglimento; i convenuti Ru.Ma. e Ba.Pi., quindi, devono essere condannati al pagamento della somma di euro 29.936,57, da ripartire in quote eguali di euro 14.968,28 ciascuno a favore del Comune di Scalea, pari essendo l’apporto causale alla produzione del danno, oltre alla rivalutazione monetaria, su base annua e secondo indici ISTAT, a decorrere dalla data dell’evento lesivo. Sulla somma così determinata decorrono gli interessi dal deposito della presente sentenza sino all’integrale soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria, sentenza 24.07.2020 n. 256).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Disposizioni in materia di riduzione dei tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni – Attuazione dell’articolo 4-bis del decreto-legge 24.02.2023, n. 13, convertito, con modificazioni, dalla legge 21.04.2023, n. 41. Prime indicazioni operative (Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato e Dipartimento della Funzione Pubblica, circolare 03.01.2024 n. 1).
---------------
La circolare fornisce prime indicazioni operative in materia di riduzione dei tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni, in attuazione di quanto previsto dall'articolo 4-bis del decreto-legge 24.02.2023, n. 13, convertito, con modificazioni, dalla legge 21.04.2023, n. 41.
E' strutturata in tre parti:
   - la prima, relativa alla riforma PNRR 1.11, “Riduzione dei tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni e delle autorità sanitarie”, Missione 1, componente 1, riconducibile al primo comma del menzionato articolo;
   - la seconda concernente la valutazione della performance mediante assegnazione, da parte delle Amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, di obiettivi annuali funzionali al rispetto dei tempi di pagamento ai dirigenti responsabili dei pagamenti delle fatture commerciali, nonché a quelli apicali delle relative strutture, di cui al comma 2 dell'articolo in esame;
   - la terza parte afferente il sistema di monitoraggio e rendicontazione degli obiettivi della riforma PNRR 1.11 sopra richiamata e relativa al comma 3 del menzionato articolo 4-bis.

GIURISPRUDENZA

VARI: Social, diffamazione e non ingiuria aggravata se il post è condiviso quando la vittima non è on-line.
Se la persona colpita da frasi offensive all’interno di una chat condivisa con altri non era on line al momento della loro pubblicazione il reato commesso dall’autore dell’espressioni ingiuriose è quello della diffamazione e non dell’ingiuria aggravata.
Il punto di discrimine sta nella conoscenza delle frasi incriminate “in tempo reale” tra persona offesa dal reato e le altre che le hanno percepite. Infatti, ciò che distingue i due reati è la percezione delle offese da parte di due o più persone alla presenza o meno della vittima del reato. E mentre la diffamazione non si fonda sul tempo reale l’ingiuria aggravata dall’essere consumata alla presenza di altri e oggi depenalizzata presuppone che contemporaneamente sia presente anche l’offeso.
Nel caso di una chat aperta su Facebook e di libero accesso, anche se finalizzata al dibattito di un gruppo politico locale, la circostanza che la persona offesa non fosse collegata al momento della pubblicazione del post offensivo fa scattare la fattispecie della diffamazione proprio perché manca la circostanza che la comunicazione relativa a una persona e diffusa ad altri si sia svolta in tempo reale rispetto a tutti isoggetti coinvolti. Ciò che esclude l’ipotesi dell’ingiuria aggravata.

Con tali argomentazioni la Corte di Cassazione, Sez. I penale, ha rigettato il ricorso del condannato per diffamazione che chiedeva la riqualificazione del reato contestatogli da diffamazione a ingiuria aggravata.
La sentenza 05.01.2024 n. 409 ha rigettato la domanda contro la declaratoria di prescrizione pronunciata dai giudici di merito di secondo grado, in sede di rinvio, per il reato di diffamazione.
Il ricorso insisteva nel dire che la persona offesa fosse da considerarsi presente allo scambio di post compreso quello incriminato, perché tale compresenza con gli altri utenti in quel momento on-line non poteva essere messa in discussione dal fatto che l’intervento sulla chat fosse differito di qualche secondo o minuto.
Ciò che va detto appare normale nell’ambito di un social. Ma, come fa rilevare la Cassazione penale, in un tale contesto rileva l’accertamento della mancanza di collegamento alla chat della persona offesa al momento di pubblicazione del post offensivo.
In effetti, nel caso concreto, era stato accertato tecnicamente che la persona diffamata era scollegata al momento della diffusione ad altri delle espressioni illegittime e che ad esse aveva risposto “solo” dopo venti minuti (articolo NT+Diritto del 05.01.2024).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il dipendente di un ente locale appartenente in origine all’ex 8^ qualifica funzionale, il quale sia stato inquadrato, ai sensi del CCNL revisione sistema classificazione professionale, Comparto Regioni ed autonomie locali, del 31.03.1999, nella categoria D, posizione D3, non può essere sottoposto, in occasione dell’assegnazione delle mansioni, ad altri funzionari, neppure della medesima categoria, ma solo a dei dirigenti.
---------------

Con il quarto motivo del ricorso principale la ricorrente censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 3 del CCNL Comparto Regioni ed Autonomie locali del 31.03.1999 e delle declaratorie C e D e relativi profili di cui al suo allegato A, nonché degli artt. da 1362 a 1366 c.c.
Essa sostiene, fra le altre cose e per quanto qui rileva, che la sentenza gravata non avrebbe tenuto conto che la categoria D non sarebbe stata un tutto indistinto, ma al suo interno vi sarebbero state due macrocategorie, ossia la D1 e la D3. In particolare, un funzionario D3, come era la ricorrente, sarebbe potuto dipendere solo da un Dirigente, ma non da un altro funzionario, neppure se D3.
Le considerazioni della ricorrente meritano di essere condivise nei termini che seguono.
Occorre premettere che essa è stata assunta dal Comune di San Benedetto del Tronto con decorrenza 01.01.1999 in quanto vincitrice di concorso per il ruolo di Direttore di Servizi del Settore Cultura e Sport.
La ricorrente rientrava in origine nell’8^ qualifica funzionale ed è stata poi inquadrata, in seguito alla stipula del CCNL revisione sistema classificazione professionale del 31.03.1999, nella categoria D, con posizione economica D3.
Come noto, il sistema delle qualifiche funzionali è stato ormai da tempo superato.
In particolare, il CCNL revisione sistema classificazione professionale del 31.03.1999 si è occupato, all’art. 1, comma 1, del sistema di classificazione professionale del personale con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e determinato, escluso quello con qualifica dirigenziale, dipendente dalle amministrazioni del Comparto Regioni e Autonomie locali di cui all’accordo del 02.06.1998.
Il successivo art. 3, comma 1, ha ripartito il personale in quattro categorie, A, B, C e D. In queste più ampie categorie sono confluite le precedenti qualifiche funzionali, di cui alla legge n. 312 del 1980 e successive modifiche.
L’art. 7, comma 1, del CCNL del 31.03.1999 ha previsto, quindi, che “Il personale in servizio alla data di stipulazione del presente CCNL è inserito, con effetto dalla medesima data, nel nuovo sistema di classificazione con l’attribuzione della categoria e della posizione economica corrispondenti alla qualifica funzionale e al trattamento economico fondamentale in godimento (tabellare più eventuale livello economico differenziato), secondo le prescrizioni della allegata tabella C”.
La menzionata tabella C ha poi prescritto, con riferimento agli impiegati all’epoca in servizio e appartenenti all’8^ qualifica funzionale, il loro inserimento nella categoria D, con posizione economica di primo inquadramento D3.
Invece, i dipendenti della 7^ qualifica funzionale sono stati fatti rientrare sempre nella categoria D, ma con posizione economica di primo inquadramento D1.
Il quesito giuridico posto dalla ricorrente attiene all’ammissibilità della condotta del Comune di San Benedetto del Tronto che, dopo averla trasferita ad altro incarico, la aveva posta in posizione di subordinazione rispetto ad un altro funzionario rientrante nella categoria D.
Essa sostiene che, essendo una ex 8^ qualifica funzionale, non avrebbe potuto che ricoprire incarichi apicali, potendo essere subordinata esclusivamente a dirigenti.
Quanto alla differenziazione fra personale D1 e personale D3 all’interno della più ampia categoria D, in effetti il sistema di classificazione delineato dal CCNL 31.03.1999 comparto Regioni-Enti locali (anche alla luce del d.lgs. n. 165 del 2001) configura, nell’ambito della categoria D, posizioni differenziate non solo sotto il profilo economico, ma anche professionale in relazione alla diversa professionalità di provenienza (ex 7^ e 8^ qualifica funzionale), atteso che l’art. 4 di detto contratto -come ribadito dall’art. 9 del CCNL del 05.10.2001- prevede, per il passaggio all’interno della stessa categoria D ad uno dei profili professionali superiori -rectius alla posizione economica superiore- la stessa procedura selettiva per il passaggio da una categoria all’altra.
La distinzione della qualifica di provenienza è, quindi, rilevante ai fini del successivo inquadramento nell’invocata categoria D (Cass., Sez. L, n. 20070 del 07.10.2015; Cass., Sez. L, n. 6295 del 18.03.2011).
Per l’esattezza, l’art. 4 del CCNL del 31.03.1999, stabilisce che “Gli enti disciplinano, con gli atti previsti dai rispettivi, ordinamenti, nel rispetto dei principi di cui al d.lgs. 03.02.1993, n. 29, art. 36, come modificato dal d.lgs. 31.03.1998, n. 80, artt. 22 e 23, e tenendo conto dei requisiti professionali indicati nelle declaratorie delle categorie di cui all’allegato A, le procedure selettive per la progressione verticale finalizzate al passaggio dei dipendenti alla categoria immediatamente superiore del nuovo sistema di classificazione, nel limite dei posti vacanti della dotazione organica di tale categoria che non siano stati destinati all’accesso dall’esterno. Analoga procedura può essere attivata dagli enti per la copertura dei posti vacanti dei profili delle categorie B e D di cui all’art. 3, comma 7, riservando la partecipazione alle relative selezioni al personale degli altri profili professionali delle medesime categorie”.
Ciò comporta che, se per il passaggio all’interno della stessa categoria D ad uno dei profili professionali superiori -rectius alla posizione economica superiore- è prevista la stessa procedura selettiva per il passaggio da una categoria all’altra, evidentemente si tratta di posizioni economiche distinte cui corrisponde anche un differente contenuto professionale e tanto in ragione della diversa professionalità di provenienza (ex 7^ e 8^ qualifica funzionale).
La citata previsione non è stata modificata dalla successiva contrattazione collettiva la quale è stata esplicitamente confermata dall’art. 9 del CCNL del 05.10.2001, il quale espressamente dispone che “in materia di progressione verticale del personale nel sistema di classificazione, è integralmente ed esclusivamente confermata la disciplina dell’art. 4 del CCNL del 31.03.1999, relativo alla revisione del sistema di classificazione del personale del comparto Regioni - Autonomie Locali, anche nella vigenza del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 91, comma 3”.
Ne deriva, come corollario, che un funzionario D3 come la ricorrente non potrebbe essere subordinato ad un funzionario D1.
Il problema posto dalla ricorrente, però, attiene anche alla possibilità di una subordinazione di un funzionario ex 8^ qualifica funzionale, quale essa era, poi inquadrato come categoria D, posizione economica D.3, ad altro funzionario della medesima categoria e posizione economica.
Per risolvere tale questione occorre fare riferimento al collegamento che la giurisprudenza sopra evidenziata ha indicato fra, rispettivamente, le precedenti qualifiche funzionali 7^ e 8^ e le categorie D1 e D3.
In pratica, i funzionari D3 sarebbero gli eredi dei funzionari di 8^ qualifica, i vecchi funzionari direttivi, i D1 dei funzionari di 7^ qualifica.
Per meglio distinguere i D1 dai D3 è allora opportuno fare riferimento al testo della legge n. 312 del 1980, che individua il “Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato” e lo fonda proprio sulla sua ripartizione in 8 qualifiche funzionali (chiaramente, non si ignora che questo articolo è oggi disapplicato, ai sensi dell’art. 86 del nuovo Contratto Collettivo di cui all’Accordo 24.05.2000, con riferimento agli articoli da 24 a 30 dello stesso Contratto).
Prendendo in considerazione solo le due qualifiche più elevate, la disposizione stabilisce quanto segue:
   - “7^ qualifica: attività con preparazione professionale o con eventuale responsabilità di unità organiche. Attività professionali comportanti o preposizione a uffici, servizi o altre unità organiche non aventi rilevanza esterna, con margini valutativi per il perseguimento dei risultati, e facoltà di decisione e proposta nell’ambito di direttive generali; ovvero attività di collaborazione istruttoria o di studio, nel campo amministrativo e tecnico, richiedente specializzazione e preparazione professionale di settore a livello universitario. La preposizione a unità organiche comporta piena responsabilità per le direttive o istruzioni impartite nell’attività di indirizzo e coordinamento e per i risultati conseguiti”.
   - “8^ qualifica: attività con specializzazione professionale o con eventuale responsabilità esterna. Attività professionali comportanti preposizione a uffici o servizi con rilevanza esterna, a stabilimenti od opifici; ovvero attività di coordinamento e di promozione, nonché di verifica dei risultati conseguiti, relativamente a più unità organiche non aventi rilevanza esterna operanti nello stesso settore; oppure attività di studio e di elaborazione di piani e di programmi richiedenti preparazione professionale di livello universitario, con autonoma determinazione dei processi formativi e attuativi, in ordine agli obiettivi e agli indirizzi impartiti. Vi è connessa responsabilità organizzativa nonché responsabilità esterna per i risultati conseguiti”.
Il successivo art. 3 prescrive che “Ogni qualifica funzionale comprende più profili professionali: questi si fondano sulla tipologia della prestazione lavorativa, considerata per il suo contenuto, in relazione ai requisiti culturali, al grado di responsabilità, alla sfera di autonomia che comporta, al grado di mobilità ed ai requisiti di accesso alla qualifica”.
Questa disposizione chiarisce come ad ogni qualifica funzionale corrisponda, in astratto, uno specifico e, quindi, più elevato -di qualifica in qualifica- livello di competenza al quale sono associati gradi di autonomia e responsabilità sempre più alti che, nell’ambito della carriera non dirigenziale, non possono che essere massimi quando vengono in rilievo i funzionari dell’ultimo grado, ossia quelli di 8^ qualifica.
L’art. 4 della legge da ultimo citata, che stabilisce il “Primo inquadramento nelle qualifiche funzionali del personale in servizio al 01.01.1978”, precisa, poi, che rientra: “nella 7^ qualifica funzionale il personale della carriera di concetto con la qualifica di segretario capo o qualifica equiparata, delle carriere di concetto strutturate su un'unica qualifica, limitatamente al personale con parametro di stipendio 370, e della carriera direttiva con le qualifiche di consigliere e di direttore di sezione o qualifiche equiparate; nell’8^ qualifica funzionale il personale della carriera direttiva con la qualifica di direttore aggiunto di divisione o qualifica equiparata e personale delle carriere direttive strutturate su una unica qualifica, limitatamente al personale con parametro di stipendio 387 e superiore”.
I principi della legge n. 312 del 1980 sono stati in seguito trasfusi nel d.P.R. n. 347 del 1983, recante l’accordo nazionale per il personale dipendente degli Enti Locali, il cui art. 2 individua la massima qualifica funzionale applicabile in relazione alla dimensione dell’ente, facendo ricorso alla classificazione per l’assegnazione del Segretario, collocando l’8^ qualifica come “apicale” negli enti di tipo 3.
Successivamente, nell’ambito della ristrutturazione delle figure del pubblico impiego, inaugurata per detti enti con il CCNL 31.03.1999, l’8^ qualifica funzionale è confluita nella categoria giuridica D, alla posizione D3.
Dalle disposizioni appena citate emerge che i funzionari di categoria D3, proprio perché idealmente riconducibili alla precedente 8^ qualifica funzionale, sono, fra il personale non dirigente, gli impiegati che godono del maggiore livello di autonomia e, di conseguenza, di responsabilità.
Ciò conduce ad affermare che essi non possono essere gerarchicamente subordinati ad altri funzionari, neppure del loro livello, perché, di fondo, essi sono destinati alla carriera direttiva. Pertanto, deve essere affermato, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., il seguente principio di diritto: “Il dipendente di un ente locale appartenente in origine all’ex 8^ qualifica funzionale, il quale sia stato inquadrato, ai sensi del CCNL revisione sistema classificazione professionale, Comparto Regioni ed autonomie locali, del 31.03.1999, nella categoria D, posizione D3, non può essere sottoposto, in occasione dell’assegnazione delle mansioni, ad altri funzionari, neppure della medesima categoria, ma solo a dei dirigenti” (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 28.12.2023 n. 36214).

ATTI AMMINISTRATIVI: Beni culturali privati, la richiesta di accesso civico non può essere “soggettiva”
Il Tar per il Lazio ha annullato la nota con cui il Ministero della Cultura aveva accordato alla trasmissione ’Report’ l’“accesso” per conoscere l’elenco delle opere d’arte appartenute a Gianni Agnelli

Il TAR Lazio-Roma (Sez. II-quater), con la sentenza 28.12.2023 n. 19889, ha annullato la nota con cui il Ministero della Cultura - Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio aveva accordato ad un giornalista della trasmissione Rai ’Report’ il via libera all’“accesso civico generalizzato” per conoscere l’elenco delle opere d’arte appartenute a Gianni Agnelli e poi pervenute per successione ai suoi eredi.
I giudici amministrativi hanno così accolto il ricorso presentato da John, Lapo e Ginevra Elkann, nipoti dell’Avvocato affermando che il Ministero non può accogliere l’istanza (formulata ai sensi del Dlgs n. 33 del 2013) poiché prevalgono le esigenze della riservatezza e della sicurezza dei proprietari.
I legali degli Elkann, fra l’altro, avevano sollevato il problema della tutela della sfera di riservatezza, oltre al fatto che la richiesta fosse “non proporzionata rispetto allo scopo tipico dell’istituto della richiesta di accesso civico generalizzato”, essendo “strumentale alla ricerca di informazioni ’soggettive’ anziché ’oggettive’”.
Una doglianza accolta dal Tar che ha stigmatizzato proprio l’impronta “soggettivistica” della richiesta.
L’accesso civico generalizzato –si legge nella decisione- è uno strumento che può astrattamente essere azionato per accertare se e come il Ministero della cultura abbia valutato il pregio artistico di un determinato bene, ad esempio nel momento in cui tale bene sia stato eventualmente fatto oggetto di una richiesta di rilascio di un attestato di libera esportazione…”.
In quest’ottica, dunque, “rappresenta lo strumento accordato al quisque de populo per verificare il perseguimento delle funzioni di salvaguardia del patrimonio culturale della nazione”. Tale istituto, prosegue il Collegio, però non può tradursi in uno strumento atto ad “aggirare” le condizioni del Codice dei beni culturali sulla conoscibilità e segnatamente dei limiti frapposti alla consultazione di talune informazioni.
Ed è il Legislatore ad avere stabilito, in via generale e astratta, una limitazione alla libera consultazione del patrimonio informativo esistente presso il Ministero, e dunque alla accessibilità alle informazioni concernenti i beni culturali, considerando preminenti gli interessi alla sicurezza del bene e riservatezza del soggetto che ne è titolare. Nello stesso senso dispone anche il quadro normativo sovranazionale in materia di protezione dei dati personali.
Tornando al caso specifico, l’istanza -osserva il Tar- era stata impostata “su base esclusivamente soggettiva”, in quanto diretta ad appurare quali erano i beni originariamente di proprietà di un determinato soggetto privato e, ora, nella titolarità dei suoi eredi, da ciò si desume che “non traspare un interesse alla conoscenza (“right to know”) di documentazione e/o informazioni concernenti le funzioni istituzionali di tutela del patrimonio culturale italiano demandate al Ministero della cultura (meritevole di soddisfazione ai sensi dell’art. 5 d.lgs. n. 33/2013)”.
Infatti, un accesso civico generalizzato avrebbe potuto favorevolmente apprezzarsi, in astratto, unicamente laddove l’istanza fosse stata formulata con riferimento ad opere d’arte specificamente indicate, e dunque in chiave “oggettiva”, al fine di valutare se il Ministero ne abbia o meno correttamente apprezzato le qualità intrinseche.
Quindi sebbene non possa dirsi che l’istanza sia stata presentata al fine di soddisfare un’esigenza strettamente “personale” o “egoistica” del giornalista, neppure può sostenersi che la richiesta “è finalizzata ad accertare la sussistenza di un interesse artistico pubblico di rilievo costituzionale”.
In altri termini, “l’accesso deve avere comunque ad oggetto dati, elementi informativi o documenti che consentano di valutare, in un’ottica di trasparenza e democraticità, la correttezza dell’esercizio dei pubblici poteri e il perseguimento delle funzioni istituzionali devolute all’amministrazione, in ciò risiedendo l’interesse pubblico sotteso all’ostensione”. “Viceversa, non sarebbe ammissibile una richiesta ostensiva volta ad appurare (in una prospettiva per così dire “rovesciata” e con intento esplorativo) se, con riferimento ad un ben individuato soggetto, quelle funzioni siano state o meno esercitate, non rispondendo una siffatta istanza alle finalità per le quali l’accesso è accordato”.
Anche dunque se si riconosce come “fatto notorio” la circostanza che il defunto Avvocato fosse stato in possesso di “diverse opere d’arte, anche di Artisti di primissimo rilievo ciò non rileva minimamente ai fini dell’accesso ai sensi del d.lgs. n. 33/2013, non potendo tale elemento dare la stura ad istanze precipuamente volte ad una ricostruzione del patrimonio culturale meramente “personalizzata”, ossia “tagliata” unicamente sul soggetto privato titolare dell’opera e non improntata, come invece dovrebbe essere, allo specifico “oggetto” della tutela (e dunque al bene culturale in sé), quale elemento che legittima una conoscenza da parte del pubblico”.
Inoltre, il provvedimento è illegittimo anche perché “si pone in frontale contrasto con il disposto di cui all’art. 17, comma 6, d.lgs. n. 42/2004, accordando un accesso a dati da mantenersi riservati”. Proprio l’impronta esclusivamente soggettiva della richiesta, conclude il Collegio, “avrebbe dovuto indurre il Ministero a negare l’accesso in base alla citata norma, che per l’appunto esclude dalla consultazione le informazioni concernenti la titolarità del bene culturale, avendo precipuo riguardo ai beni vincolati di proprietà privata. Infine, la circostanza che l’avvocato sia defunto, e pertanto i beni di cui trattasi siano caduti in successione ereditaria, non elide l’impostazione prettamente “soggettivistica” della richiesta” (articolo NT+Diritto del 03.01.2024).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Legittimo il licenziamento del sindacalista che lede la reputazione della sua azienda su Fb.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione affermando che i limiti al diritto di critica si applicano anche al lavoratore rappresentante sindacale.
La qualifica di sindacalista non salva il dipendente dal licenziamento per le espressioni lesive della reputazione dell’azienda pubblicate sul suo profilo Facebook aperto.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 22.12.2023 n. 35922.
Nella contestazione disciplinare venivano appunto contestati i commenti presenti sul social media “gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio dell’azienda nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili”. Come per esempio: “Si informano tutti i gentili colleghi … che, qualora si voglia aderire e iscriversi alla Filt Cgil perché trattati come stracci…”; oppure: “Il vecchio oggi di prima mattina va a caccia dei suoi autisti che si sono iscritti al sindacato per fargli le solite minacce o false promesse”; e ancora: “Come mai questi hanno tutta questa fottuta paura che la gente si iscrive? Io personalmente l’unica risposta che mi riesco a dare è che hanno qualcosa da nascondere e non sono puliti”; “Sto vecchio di merda sempre a rompere i coglioni alla gente il sabato mattina, ma andasse a fare un giro in montagna…”, e così via.
Da qui l’intimazione del licenziamento da parte dell’azienda “sul rilievo che i fatti contestati e ritenuti addebitabili al dipendente, a titolo di dolo o di negligenza grave e ingiustificabile, travalicassero ogni limite di critica e di satira e impedissero la prosecuzione del rapporto di lavoro”, poi confermato nelle sedi di merito.
Proposto ricorso, l’ex dipendente ha sostenuto di essere stato oggetto di “licenziamento discriminatorio per ragioni di appartenenza sindacale” e “per aver escluso la scriminante del diritto di critica”.
Con riguardo a quest’ultimo punto la Corte afferma che al lavoratore è “garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro […] ma ciò non consente di ledere sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati, poiché il principio della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. incontra i limiti posti dell’ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale”.
Con riguardo invece al primo punto la Cassazione ricorda che i limiti al diritto di critica si applicano anche al lavoratore che sia rappresentante sindacale rilevando come il predetto agisca sotto una duplice veste, in quanto “quale lavoratore, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, (mentre) in relazione all’attività di sindacalista si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi”.
La Corte di merito, conclude la decisione, si è attenuta ai principi di diritto appena richiamati e, con accertamento in fatto ha escluso che ricorressero i presupposti di un legittimo esercizio del diritto di critica per essere le espressioni usate dal lavoratore sindacalista, e pubblicate sul profilo Facebook accessibile a tutti gli utenti, “intrise di assai sgradevole volgarità”, prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e del suo fondatore.
Tale accertamento “esclude ogni profilo di discriminatorietà della decisione di recesso” (articolo NT+Diritto del 22.12.2023).

APPALTI: Gare, il Tar Campania smentisce la circolare Mit: solo negoziate e affidamenti diretti sotto al milione.
Prima sentenza sulla discussa questione delle procedure semplificate del nuovo codice appalti. Indicazioni anche sull’obbligo di esclusione delle offerte anomale.
Una sentenza molto recente del TAR Campania-Napoli, Sez. VII - 19.12.2023 n. 7037, affronta il tema degli affidamenti dei contratti sottosoglia con alcune affermazioni di grande interesse sotto diversi profili.
Il primo profilo riguarda la questione centrale della controversia, e cioè la delimitazione dell’obbligo per le stazioni appaltanti di procedere all’esclusione automatica delle offerte anomale, secondo la specifica previsione contenuta nel Decreto legge 76/2020 (Decreto semplificazioni emanato in relazione... (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.12.2023).
---------------
SENTENZA
1 - La s.r.l. Am.It. ha partecipato alla procedura aperta per l’affidamento del servizio (che attualmente gestisce) di smaltimento della frazione organica dei rifiuti solidi urbani derivanti dalla raccolta differenziata per la durata di n. 1 anno da aggiudicarsi col criterio del minor prezzo ex art. 95, co. 4, del D.Lgs. n. 50/2016.
La ricorrente lamenta che la S.A., dopo aver individuato la soglia di anomalia dell’offerta nel 33,200%, ha omesso di provvedere all’esclusione automatica della So. s.p.a. (poi divenuta aggiudicataria) e della En. s.r.l., secondo quanto disposto dall’art. 1, co. 3, ult. periodo, del d.l. n. 76/2020.
1.1 - Avverso la determina di aggiudicazione ed i presupposti atti di gara, la ricorrente ha, quindi, articolato le seguenti censure:
   I) violazione dell’art. 1, co. 3, D.L. 76/2020: la So. s.p.a. e la En. s.r.l. hanno presentato un’offerta il cui ribasso è pari o superiore alla soglia consentita, cosicché avrebbero dovuto essere escluse in base alla normativa ratione temporis applicabile, ricorrendone tutti i presupposti;
   II) violazione art. 1, co. 3, d.l. 76/2020: è illegittimo l’art. 17 del bando/disciplinare che nega l’applicazione dell’art. 1, co. 3, l. n. d.l. 76/2020 in ragione del ricorso, nel caso di specie, alla procedura aperta.
...
5 - Può prescindersi dalla delibazione delle eccezioni preliminari formulate dal Comune resistente, essendo il ricorso nel merito infondato.
6 - Ai sensi dell’art. 1 Legge 11.09.2020, n. 120 di conversione del d.l. n. 76/2020 (rubricato “Procedure per l’incentivazione degli investimenti pubblici durante il periodo emergenziale in relazione all’aggiudicazione dei contratti pubblici sotto soglia”):
   “1. Al fine di incentivare gli investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e dei servizi pubblici, nonché al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell’emergenza sanitaria globale del COVID-19, in deroga agli articoli 36, comma 2, e 157, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante Codice dei contratti pubblici, si applicano le procedure di affidamento di cui ai commi 2, 3 e 4, qualora la determina a contrarre o altro atto di avvio del procedimento equivalente sia adottato entro il 30.06.2023.
   2. Fermo quanto previsto dagli articoli 37 e 38 del decreto legislativo n. 50 del 2016, le stazioni appaltanti procedono all’affidamento delle attività di esecuzione di lavori, servizi e forniture, nonché dei servizi di ingegneria e architettura, inclusa l’attività di progettazione, di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 del decreto legislativo n. 50 del 2016 secondo le seguenti modalità:
         a) affidamento diretto per lavori di importo inferiore a 150.000 euro e per servizi e forniture, ivi compresi i servizi di ingegneria e architettura e l'attività di progettazione, di importo inferiore a 139.000 euro. In tali casi la stazione appaltante procede all’affidamento diretto, anche senza consultazione di più operatori economici, fermo restando il rispetto dei principi di cui all’articolo 30 del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, e l’esigenza che siano scelti soggetti in possesso di pregresse e documentate esperienze analoghe a quelle oggetto di affidamento, anche individuati tra coloro che risultano iscritti in elenchi o albi istituiti dalla stazione appaltante, comunque nel rispetto del principio di rotazione. (lettera così sostituita dall'art. 51, comma 1, lettera a), sub. 2.1), legge n. 108 del 2021)
         b) procedura negoziata, senza bando, di cui all’articolo 63 del decreto legislativo n. 50 del 2016, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, ove esistenti, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, che tenga conto anche di una diversa dislocazione territoriale delle imprese invitate, individuati in base ad indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, per l’affidamento di servizi e forniture, ivi compresi i servizi di ingegneria e architettura e l’attività di progettazione, di importo pari o superiore a 139.000 euro e fino alle soglie di cui all'articolo 35 del decreto legislativo n. 50 del 2016 e di lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a un milione di euro, ovvero di almeno dieci operatori per lavori di importo pari o superiore a un milione di euro e fino alle soglie di cui all'articolo 35 del decreto legislativo n. 50 del 2016. Le stazioni appaltanti danno evidenza dell’avvio delle procedure negoziate di cui alla presente lettera tramite pubblicazione di un avviso nei rispettivi siti internet istituzionali. L’avviso sui risultati della procedura di affidamento, la cui pubblicazione nel caso di cui alla lettera a) non è obbligatoria per affidamenti inferiori ad euro 40.000, contiene anche l’indicazione dei soggetti invitati. (lettera così modificata dall'art. 51, comma 1, lettera a), sub. 2.2), legge n. 108 del 2021)
   3. Gli affidamenti diretti possono essere realizzati tramite determina a contrarre, o atto equivalente, che contenga gli elementi descritti nell’articolo 32, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016. Per gli affidamenti di cui al comma 2, lettera b), rispetto dei princìpi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento, procedono, a loro scelta, all’aggiudicazione dei relativi appalti, sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa ovvero del prezzo più basso. Nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso, le stazioni appaltanti procedono all’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi dell’articolo 97, commi 2, 2-bis e 2-ter, del decreto legislativo n. 50 del 2016, anche qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque
”.
6.1 - “La disciplina speciale dettata dal decreto legge n. 76 del 2020 prevale sulla disciplina dei contratti sottosoglia prevista dall'art. 36 del D.lgs. n. 50/2016, integrando e sostituendo le previsioni della lex specialis con essa incompatibili, anche con riguardo a quelle in tema di verifica dell'anomalia. Con le disposizioni in parola, in altri termini, sono state introdotte previsioni derogatorie con finalità acceleratorie, funzionali al rapido affidamento degli appalti interessati, riscrivendo, con efficacia limitata nel tempo, la regolamentazione dell'affidamento diretto e della procedura negoziata prevista dal D.lgs. n. 50/2016.
Come rilevato dalla giurisprudenza amministrativa la norma di cui all'art. 1 del decreto legge n. 76 del 2020, convertito in legge n. 120 del 2020, costituisce la consapevole scelta del legislatore di privilegiare la finalità di maggiore celerità nella definizione delle procedure ad evidenza pubblica in favore della rapidità dell'erogazione delle risorse pubbliche per sostenere l'economia in un periodo emergenziale (Cfr. TAR Lazio, Sez. I, 19.02.2021, n. 2104; TAR Venezia, Sez. I, 21.07.2021 n. 960)
" - così, Tar Sicilia, Palermo, sez. II, sent. n. 2327/2023.
Ed ancora, con specifico riferimento al previsto automatismo escludente: “non può negarsi l’effetto acceleratorio della procedura conseguibile per via del meccanismo automatico in parola: questo, come visto, è stato anche riconosciuto dalla Sezione, che lo ha correlato alla necessità di implementare, nella crisi economica determinata dall’evento pandemico in atto alla data della decretazione d’urgenza, la speditezza e quindi l’efficacia della spesa pubblica, non altro del resto potendosi desumere dal comma 1 dell’art. 1 del d.l. 76/2020, che richiama espressamente la finalità di “incentivare gli investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e dei servizi pubblici, nonché al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell'emergenza sanitaria globale del COVID-19”, e non potendosi poi negare, sotto il profilo oggettivo, che la soppressione di una fase sub-procedimentale (la verifica discrezionale di congruità delle offerte) abbia l’effetto di condurre alla più rapida aggiudicazione della procedura, con la conseguente incentivazione della spesa pubblica ai fini voluti dal legislatore, a nulla rilevando la questione di se il singolo affidamento rientrante sotto l’egida della previsione acceleratoria presenti o meno connotati di urgenza, aspetto che è stato regolato in via generale e astratta con riferimento non all’oggetto dei singoli affidamenti bensì alle loro conseguenze positive sul piano economico generale” - Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 3139/2023.
6.2 - Pur consapevole dell’esistenza di opposto orientamento, il Tribunale condivide la tesi che preclude l’applicazione della norma in parola alle gare sotto soglia indette entro il 30/06/2023, espletate con procedura aperta.
Ed invero, “5.5. Rileva invece che per l’art. 97, comma 8, del d.lgs. 50/2016 l’esclusione automatica dell’offerta anormalmente basse è una modalità che la stazione appaltante imprime alla procedura competitiva nella ricorrenza delle condizioni di legge che ne regolano la possibilità di utilizzo: trattandosi di una misura che intacca il contraddittorio ordinariamente previsto dallo stesso art. 97 per tale tipologia di offerte, è connaturale alla dinamica della previsione normativa che detto automatismo vada previsto nella lex specialis affinché la stazione appaltante possa farvi in concreto ricorso.
Rispetto a tale norma, il comma 3 dell’art. 1 del d.l. 76/2020, pur conformando diversamente i presupposti dell’esclusione automatica, non si muove nella logica derogatoria che costituisce la base della censura in esame.
Una deroga, peraltro espressa, al Codice dei contratti pubblici si rinviene infatti nel comma 1 esclusivamente in riferimento agli art. 36, comma 2, e 157, comma 2, del d.lgs. 50/2016, e non nella norma dello stesso comma immediatamente seguente, che introduce le “procedure di cui ai commi 2, 3 e 4”.
E allora deve concludersi che il comma 3 dell’art. 1 del d.l. 76/2020 altro non è che una autonoma ed esaustiva regolazione delle modalità con cui provvedere alle procedure negoziate senza bando di cui trattasi, avente carattere eccezionale, temporaneo e cogente –e nel cui ambito il meccanismo dell’espulsione automatica delle offerte anormalmente basse si inserisce a pieno titolo, considerata la sua evidente strumentalità agli effetti voluti dalla previsione– che, in quanto tale e laddove applicabile, è destinata a sostituire interamente quella prevista dall’art. 97, comma 8, d.lgs. 50/2016.
Bene si spiega così il tenore letterale del comma 3 in parola, secondo cui “nel caso di aggiudicazione al prezzo più basso, le stazioni appaltanti procedono all’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia”: esso, come correttamente rilevato dal Tar, non lascia alcun margine di scelta alle amministrazioni appaltanti, che, avverandosi la suddetta condizione nelle procedure soggette alla sua applicazione, non possono che procedere all’esclusione automatica
” - Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 3139/2023.
In fattispecie analoga (procedura aperta) ha escluso l’applicazione della deroga invocata dalla ricorrente anche il Consiglio della G.A. della Regione Sicilia, con sent. n. 508/2023.
6.2.1 - Né, d’altro canto, potrebbe diversamente opinarsi muovendo dall’assunto che la procedura aperta costituisca un’opzione non più praticabile quando ricorrano i presupposti di cui al citato art. 1, cosicché –in siffatta evenienza– troverebbe comunque applicazione il meccanismo derogatorio del d.l. cit.
In argomento, giova richiamare quanto efficacemente sostenuto da Tar Piemonte, sez. II, sent. 405/2023:
   “8.2. L’art. 1, comma 2, D.L. n. 76/2020, infatti, ha introdotto previsioni derogatorie con finalità acceleratorie, funzionale al rapido affidamento degli appalti di valore inferiore alla soglia comunitaria, riscrivendo, con efficacia limitata nel tempo, la regolamentazione dell’affidamento diretto e della procedura negoziata di cui all’art. 36, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016. Non revocando o sospendendo la disciplina ordinaria, la norma in rilievo non ha sottratto alla discrezionalità della stazione appaltante la scelta della procedura di aggiudicazione, né ha escluso la possibilità che la stessa decida di adottare, anche per gli affidamenti di valore inferiore alla soglia comunitaria, il modello della procedura aperta (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 14.05.2021, n. 1536).
   8.3. L’obbligatorietà della disciplina di cui al D.L. n. 76/2020 deve quindi essere intesa nel senso che essa si impone solo sulle modalità di affidamento ordinarie di cui al citato art. 36, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016, poiché il perimetro della deroga non può estendersi, con effetto sostitutivo, oltre la disciplina che ne è oggetto. In sostanza, quando la stazione appaltante stabilisce di procedere tramite affidamento diretto o procedura negoziata di valore inferiore alla soglia comunitaria, deve necessariamente seguire le modalità semplificate recate dal D.L. n. 76/2020.
Ciò non comporta, tuttavia, che questi siano i soli moduli procedimentali per gli affidamenti alla cui adozione le stazioni appaltanti debbano sempre imperativamente fare ricorso, potendo esse, al contrario, applicare le modalità della procedura aperta laddove lo richiedano la natura dell’affidamento o altre esigenze dell’amministrazione (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 14.05.2021, n. 1536).
   8.4. In tal senso depone il contenuto letterale dell’art. 1, comma 1, del D.L. n. 76/2020, in base al quale “in deroga agli articoli 36, comma 2, e 157, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante Codice dei contratti pubblici” –cioè la disciplina degli affidamenti sottosoglia e degli incarichi di progettazione di non particolare rilevanza– “si applicano le procedure di affidamento di cui ai commi 2, 3 e 4, qualora la determina a contrarre o altro atto di avvio del procedimento equivalente sia adottato entro il 30.06.2023”. La prevista deroga assume carattere “puntiforme”, andando a sostituire le sole modalità procedurali per l’affidamento diretto e lo svolgimento della procedura negoziata. L’art. 1 del D.L. n. 76/2020, quindi, opera con effetto derogatorio ed efficacia temporalmente limitata, costituendo una norma di carattere eccezionale che deve essere applicata in conformità al canone interpretativo dell’art. 14 delle preleggi, in base al quale essa non si applica “oltre i casi e i tempi in esse considerati
”.
In altri termini, nel dettare “le procedure di affidamento di cui ai commi 2, 3 e 4” dell’art. 1 cit, il legislatore ha inteso derogare all’art. 36, co. 2, del d.lgs. n. 50/2016 unicamente nel senso di ridefinire i presupposti e le modalità delle stesse rispetto a quanto ivi previsto, ma senza eliminare “la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie” che lo stesso art. 36, co. 2, cit. fa salva.
In questi termini si è da ultimo espressa l’Anac con la delibera n. 443/2023.
6.2.2 - Per completezza, osserva il Tribunale che nessun supporto alla tesi di parte ricorrente offre l’art. 50 del nuovo codice appalti ex d.lgs. n. 36/2023 (a mente del quale: “Salvo quanto previsto dagli articoli 62 e 63, le stazioni appaltanti procedono all'affidamento dei contratti di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 14 con le seguenti modalità:
   a) affidamento diretto per lavori di importo inferiore a 150.000 euro, anche senza consultazione di più operatori economici, assicurando che siano scelti soggetti in possesso di documentate esperienze pregresse idonee all’esecuzione delle prestazioni contrattuali anche individuati tra gli iscritti in elenchi o albi istituiti dalla stazione appaltante;
   b) affidamento diretto dei servizi e forniture, ivi compresi i servizi di ingegneria e architettura e l'attività di progettazione, di importo inferiore a 140.000 euro, anche senza consultazione di più operatori economici, assicurando che siano scelti soggetti in possesso di documentate esperienze pregresse idonee all’esecuzione delle prestazioni contrattuali, anche individuati tra gli iscritti in elenchi o albi istituiti dalla stazione appaltante;
   c) procedura negoziata senza bando, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, ove esistenti, individuati in base a indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, per i lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 1 milione di euro;
   d) procedura negoziata senza bando, previa consultazione di almeno dieci operatori economici, ove esistenti, individuati in base a indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, per lavori di importo pari o superiore a 1 milione di euro e fino alle soglie di cui all’articolo 14, salva la possibilità di ricorrere alle procedure di scelta del contraente di cui alla Parte IV del presente Libro
”) che ha reso, in sostanza, ordinaria la regolamentazione delle procedure di affidamento dei contratti cc.dd. sotto soglia stabilita dalla l. n. 120/20 solo in via provvisoria e che soltanto in relazione alla procedura ex lett. d) fa espressamente salva la facoltà di optare per le procedure di scelta del contraente di cui alla successiva Parte IV del codice, compresa quella aperta.
Non persuade, infatti, la tesi della ricorrente secondo cui la nuova normativa (che, in sostanza, per i contratti sotto soglia impone in ogni caso il ricorso ad affidamenti diretti o procedure negoziate, con la sola eccezione rappresentata dall’opzione per la procedura aperta per contratti per lavori di importo pari o superiore a 1 milione di euro e fino alle soglie di cui all’articolo 14) consentirebbe, in chiave interpretativa, di ravvisare già nella normativa emergenziale ex l. n. 120/2020, in via generale, il divieto di optare per la procedura aperta.
Una sì rilevate deroga a principi generali quali la non discriminazione e la libera concorrenza (più adeguatamente tutelati a mezzo di procedure aperte) avrebbe richiesto, a parere del Tribunale, una inequivoca previsione che nella normativa emergenziale, invece, difetta.
----------------
In merito si legga anche:
  
● L. Oliveri, Appalti sotto soglia: il Tar Campania sconfessa la circolare 298/2023 del Mit? Ovviamente no (20.12.2023 - link a https://leautonomie.it).
...
Secondo alcuni interpreti, la sentenza del Tar Campania, Napoli, Sezione VII, 19.12.2023, n. 7037 “sconfesserebbe” la circolare 298/2023 del Mit, in merito alla possibilità di applicare nel sotto soglia le procedure ordinarie.
Basta, tuttavia, leggere con attenzione la sentenza, per prendere atto che essa non sconfessa nulla: nemmeno ne parla della circolare. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Niente sanatoria per il seminterrato che diventa cantina. Lo ricorda il Tar Lazio bocciando il ricorso di un proprietario che aveva realizzato spazi per 58 metri quadrati.
La trasformazione a cantina di spazi del seminterrato in area vincolata comporta nuova volumetria e non può essere sanata.

È quanto emerge dalla sentenza 18.12.2023 n. 19114 del TAR Lazio-Roma, Sez. IV-ter, che ha respinto il ricorso di una persona che aveva realizzato nel seminterrato della sua abitazione situata in area protetta spazi per 58 metri quadrati.
Tutto nasce quando viene presentata al Comune istanza di condono per opere che riguardano la “trasformazione a cantine di intercapedine posta tra il terreno... (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 20.12.2023).
----------------
SENTENZA
1. La ricorrente domanda l’annullamento del diniego opposto dal Comune di Roma alla propria istanza di condono, presentata ai sensi dell’art. 32, l. 326/2003 e della l.reg. 12/2004 e relativa ad opere consistenti nella "trasformazione a cantine di intercapedine posta tra il terreno e l'intradosso del solaio di calpestio del II° piano seminterrato, realizzando ambienti che sviluppano una superficie di mq. 58,18".
1.1. Nella motivazione del provvedimento, il Comune rileva che gli interventi sono stati eseguiti "su immobile ricadente all'interno della Riserva Naturale Regionale dell’Insugherata” (area naturale protetta) e non rientrano tra quelli per cui può essere concessa la sanatoria nelle aree vincolate.
2. Avverso il provvedimento sono proposti i seguenti motivi: ...
...
5. È utile premettere un breve inquadramento del contesto normativo rilevante nella vicenda.
5.1. L’istanza della ricorrente ricade nell’ambito del c.d. “Terzo condono”, introdotto dal d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito in l. 24.11.2003, n. 326.
Secondo l’art. 32, comma 26, del citato decreto, in particolare, all’interno delle aree sottoposte a vincolo, sono sanabili solo gli abusi di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1 (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria).
Ne deriva l’assoluta impossibilità di condonare le opere che abbiano sviluppato nuove superfici e nuovi volumi in area vincolata (ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 15.11.2022, n. 9986; id., 04.10.2022, n. 8781).
5.2. Nella Regione Lazio la disciplina è stata attuata, in senso ancor più restrittivo, dalla l.reg. 12 del 2004, che, ferme le generali disposizioni dettate dalla legge nazionale, ha introdotto una condizione ostativa ulteriore, prevedendo che anche il vincolo sopravvenuto determini la non condonabilità delle opere abusive (cfr. art. 3, comma 1, lett. b).
Le previsioni di fonte regionale sono state ritenute conformi a Costituzione dalla recente Corte cost., 30.07.2021, n. 181, in quanto rispettose dell’affidamento, non irragionevoli e poste a “tutela di valori che presentano precipuo rilievo costituzionale, quali quelli paesaggistici, ambientali, idrogeologici e archeologici”.
5.3. Alla luce delle illustrate disposizioni, possono essere oggetto di condono nelle aree vincolate solo gli interventi di restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria.
Per le altre tipologie di abusi, invece, la sanabilità risulta sempre preclusa ex lege –anche qualora le opere siano state eseguite prima dell’apposizione del vincolo– senza che occorra interrogarsi sulla compatibilità degli interventi con la disciplina urbanistica o con il regime del vincolo (vedi ex plurimis, Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 17.02.2015, n. 2705; 04.04.2017 n. 4225; 13.10.2017, n. 10336; 11.07.2018, n. 7752; 24.01.2019, n. 931; 09.07.2019, n. 9131; 13.03.2019, n. 4572; 02.12.2019 n. 13758; 07.01.2020, n. 90; 02.03.2020, n. 2743; 26.03.2020 ,n. 2660; 07.05.2020,n. 7487; 18.08.2020, n. 9252; sez. Stralcio, 07.06.2022 n. 7384; 15.07.2022, n. 10072; Cons. St., sez. VI, 17.01.2020 n. 425).
6. Ciò premesso, può passarsi alla disamina dei motivi di ricorso.
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la mancata valutazione delle osservazioni presentate in risposta al preavviso di diniego, con le quali rappresentava l’estraneità dell’area alla Riserva naturale dell’Insugherata.
6.1. Il motivo è infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza, non sussiste in capo all’amministrazione un onere di analitica confutazione delle osservazioni presentate dalla parte privata a seguito della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, ma è sufficiente che il provvedimento conclusivo sia logicamente e congruamente motivato, alla luce delle risultanze acquisite e degli apporti procedimentali del privato (Cons. St., sez. V, 20.10.2021, n. 7054).
A tale proposito, il provvedimento menziona le deduzioni presentate dalla parte privata, ma le ritiene inidonee al superamento dei motivi ostativi, stante l'insistenza dell'abuso “in zona protetta di cui alla L.R. 29/1997”.
6.2. Nel merito, in ogni caso, le osservazioni presentate dalla ricorrente non colgono nel segno. Dagli atti dell’istruttoria risulta, infatti, che l’immobile oggetto degli interventi, pur non direttamente ricompreso all’interno della Riserva Naturale dell’Insugherata, ricade nell’area ad essa contigua, istituita a protezione della Riserva (cfr. art. 10 della l.reg. 29 del 07.10.1997) e sottoposta ad analogo vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 9 della l.reg. n. 24 del 06.07.1998.
6.3. Non è condivisibile, a tale proposito, l’affermazione –formulata dalla ricorrente nella memoria di replica– secondo cui il vincolo di cui trattasi sarebbe estraneo alle “peculiari e tassative fattispecie indicate dall’art. 3, comma 1, lett. b), della l.r. n. 12/2004”.
La disposizione regionale sul condono, invero, fa riferimento ai vincoli posti “a tutela dei parchi e delle aree naturali protette nazionali, regionali e provinciali”, cui appartiene anche il vincolo sull’area contigua, che l’art. 9 della l.reg. 24/1998 assimila in toto al vincolo proprio della riserva naturale cui pertiene.
Secondo l’art. 9, comma 2, infatti, sia la riserva che la relativa area contigua sono ricomprese nella categoria delle “aree naturali protette”, soggette a tutela ai sensi dell’art. 82, quinto comma, lett. f), del d.P.R. 616/1977 (oggi art. 142, comma 1, lett. f), del d.lgs. 42/2004).
7. Attraverso il secondo motivo, la ricorrente deduce l’inapplicabilità dell’art. 3, comma 1, lett. b) della l.reg. 12/2004, poiché difetterebbero nella fattispecie sia la riconducibilità delle opere a quelle “di cui all’art. 2, comma 1” della medesima legge, sia la loro non conformità “alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
Sostiene, in particolare, la ricorrente che l’intervento di cui trattasi non avrebbe sviluppato nuova volumetria, consistendo nella realizzazione di un locale posto al di sotto del livello del terreno e non deputato ad ospitare stabilmente persone (inidoneo, quindi, a sviluppare un autonomo carico urbanistico).
7.1. Il motivo è infondato.
Ai fini della classificazione dell’intervento non risulta decisiva la natura interrata dei locali, pur sempre ricavati attraverso il recupero di uno spazio tombato, in precedenza inaccessibile, con conseguente incremento della volumetria complessiva dell’immobile.
È pacifico, del resto, che “l'esecuzione di volumi, anche se completamente interrati è qualificabile come "nuova costruzione", così come espressamente stabilito dall'art. 3, lettera e.1), d.p.r. n. 380/2001, e, pertanto, ai sensi dell'art. 10 del medesimo testo normativo, deve essere assentita necessariamente con permesso di costruire” (Tar Lazio, Roma, sez. I, 30.08.2012, n. 7396; nello stesso senso, Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, 07.10.2019, n. 235).
Anche ai sensi della normativa paesaggistica, il divieto di incremento dei volumi esistenti viene riferito indistintamente a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volumetria, senza potersi distinguere tra volume interrato e volume fuori terra (ex multis, Cons. St., sez. IV, 31.08.2023, n. 8097; sez. II, 25.04.2023, n. 4123).
7.2. Appurato, dunque, che trattasi di un intervento realizzato in area vincolata e non riconducibile agli “abusi minori” (di cui di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1 alla l. 326 del 2003) in quanto di nuova costruzione, il diniego di condono costituiva esito ex lege obbligato del procedimento (cfr. supra par. 5), senza che l’amministrazione fosse tenuta a svolgere ulteriori valutazioni.
8. Ininfluente, appare, dunque, anche l’asserita conformità dell’intervento con le prescrizioni urbanistiche di zona, valorizzata nel terzo motivo di ricorso.
Infatti, a ritenere sussistente detta conformità, l’intervento potrebbe al più essere classificato nella di tipologia 2 dell’allegato 1 alla legge 326 del 2003 (“Opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio, ma conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici alla data di entrata in vigore del presente decreto”) e sarebbe ugualmente non condonabile in area vincolata, stante la preclusione posta dall’art. 32, commi 26 e 27, della medesima legge e dall’art. 3, comma 2, lett. b), della l.reg. 12/2004.
9. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere respinto.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Legittima l’imputazione a ferie del festivo infrasettimanale non lavorato. Per la Cassazione la disciplina contrattuale di riferimento è quella della turnazione (art. 30, comma 5, del contratto del 16.11.2022)
In presenza di una organizzazione del lavoro per turni articolato su tutti i giorni della settimana, anche quelli ricadenti in un giorno festivo devono essere considerati come rientranti nel normale orario di lavoro e ciò sia per quanto riguarda la disciplina delle assenze, che devono essere sempre giustificate mediante gli ordinari istituti contrattuali (ferie, malattia o altre forme di congedo) sia per il regime retributivo.
Pertanto è legittima la compensazione della mancata prestazione nell'ordinario turno di servizio, per quanto ricadente in una giornata di festività infrasettimanale, con l'imputazione a ferie della giornata non lavorata.

È quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 11.12.2023 n. 34580.
Alcuni dipendenti appartenente al corpo di polizia locale di un ente locale, con prestazione lavorativa in turni articolati su tutti i giorni della settimana, si sono visti imputare a ferie delle giornate coincidenti con le festività infrasettimanali ricadenti nel turno di servizio ma non lavorate.
Gli interessati hanno ritenuto il comportamento del proprio datore illegittimo poiché in materia occorre far riferimento alla disciplina dell'articolo 24, comma 2, del contratto del 14.09.2000 laddove stabilisce che «l'attività prestata in giorno festivo infrasettimanale dà titolo, a richiesta del dipendente, a equivalente riposo compensativo o alla corresponsione del compenso per lavoro straordinario con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario festivo».
Di diverso avviso si è espresso il datore di lavoro. Per l'ente, i diritti dei lavoratori turnisti sono regolati dall'articolo 22 del contratto del 14.09.2000. Cosicché, di fronte a prese di posizioni contrapposte, i lavoratori ha portato la questione sui tavoli giudiziari.
La Corte di appello, contrariamente al giudice di primo grado, ha ritenuto di accogliere la posizione dell'ente così i ricorrenti hanno proposto ricorso in Cassazione.
In primo luogo, la cassazione evidenzia come per i turnisti tutti i giorni della settimana, anche quelli ricadenti in un giorno festivo, devono essere considerati come non festivi e ciò sia per quanto riguarda la disciplina delle assenze, che devono sempre essere giustificate mediante gli ordinari istituti contrattuali (ferie, malattia o altre forme di congedo), sia per il regime retributivo onnicomprensivo.
La disciplina contrattuale di riferimento è, pertanto, quella della turnazione (oggi il riferimento è l'articolo 30, comma 5, del contratto del 16.11.2022) e non quella dell'attività prestata in giorno festivo infrasettimanale (articolo 24 del contratto del 14.09.2000).
Ne consegue che, se il turnista nel giorno festivo infrasettimanale non presta attività, dovrà essere considerato in ferie (salvo altre forme di congedo) e ciò sia se la mancata presenza sia dipesa dalla sua volontà di assentarsi sia che sia dipesa da una decisione unilaterale del datore di lavoro adottata in funzione di ragioni organizzative.
Pertanto è legittima la compensazione della mancata prestazione nell'ordinario turno di servizio, per quanto cadente in una giornata di festività infrasettimanale, con l'imputazione a ferie della giornata non lavorata (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.12.2023).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Dalla diffamazione al procedimento disciplinare, le conseguenze dell’uso inappropriato dei social sul lavoro.
Breve rassegna di giurisprudenza.

A seguito dell’incremento nella diffusione dei Social Network si registra un dato: la crescita esponenziale del contenzioso nell’ambito del rapporto avente ad oggetto l’utilizzo, distorto, di tali strumenti.
Diventano infatti tutt’altro che infrequenti i casi in cui l’utilizzo inappropriato dei Social Network finisce per essere il mezzo con cui si consumano delle vere e proprie diffamazioni all’interno del contesto lavorativo che vengono puntualmente sanzionate disciplinarmente.
Del pari, non mancano i casi in cui l’Azienda scopre, per il tramite degli stessi Social, condotte illegittime, come, ad esempio, assenze ingiustificate dal lavoro o utilizzo compulsivo dei Social durante l’orario di lavoro, e anche in questo caso si aprono le porte del procedimento disciplinare, le cui conseguenze possono essere anche quelle della perdita del posto di lavoro.
Le decisioni dei Giudici vanno alla ricerca dell’equilibrio, non sempre raggiunto, tra interessi contrapposti, ossia: da un lato, il diritto alla libera espressione del pensiero –che i Social network si prefigurano idealmente- la tutela della privacy, della riservatezza dei lavoratori anche nella propria vita extra-lavorativa e dall’altro, la tutela dell’immagine e del patrimonio aziendale.
È utile esaminare alcuni di questi precedenti per comprendere la portata e le caratteristiche del fenomeno e anche e soprattutto per sviluppare un uso maggiormente consapevole degli strumenti ed evitare ricadute sul rapporto di lavoro.
Un caso eclatante di utilizzo inappropriato dei social è quello giudicato dal Tribunale di Ivrea, con ordinanza 28.01.2015, che ha esaminato l’impugnazione di un licenziamento di un dipendente il quale, all’indomani della pubblicazione di un provvedimento giudiziale che disponeva la di lui reintegra in servizio, era stato licenziato (per la seconda volta) in quanto, nel commentare il provvedimento giudiziale, aveva pubblicamente postato su Facebook frasi gratuitamente diffamatorie contro l’azienda ed offensive contro le colleghe.
È facile intuire come il giudizio sia andato a finire: il Tribunale ha confermato la legittimità del licenziamento stigmatizzando la gravità delle offese.
La Cassazione Sezione Lavoro, con la recente sentenza 06.12.2023 n. 34107, si è pronunciata su un licenziamento di un dipendente di un Ente Pubblico che, durante l’orario di lavoro, aveva malamente parcheggiato l’auto aziendale per effettuare degli acquisti presso un mercato all’aperto, sennonché l’auto veniva fotografata e l’immagine pubblicata su Facebook con un commento sarcastico circa l’uso personale dell’auto aziendale da parte del personale dell’Ente.
Tale post veniva aspramente commentato da molti cittadini con conseguente detrimento dell’Immagine dell’Ente. La Corte, pur ritenendo disciplinarmente rilevante il fatto, ha però giudicato illegittimo il licenziamento in quanto la fattispecie (abbandono del posto di lavoro per i minuti necessari ad effettuare la spesa) rientrerebbe nell’ambito di una fattispecie punita dal Contratto Collettivo con una sanzione conservativa.
Altro caso, è quello del Tribunale di Taranto che, con ordinanza 26.07.2021, ha giudicato il licenziamento di un dipendente di una nota acciaieria Tarantina che aveva pubblicato un post nel quale, facendo riferimento all’attività imprenditoriale, dichiarava: “… in nome del profitto la vita dei Bambini tarantini non conta …. Assassini“.
Anche in tale occasione, trattandosi di post pubblico, il Giudice ha risolto la problematica della riservatezza del dipendente a suo sfavore, ma ha ritenuto comunque illegittimo il provvedimento disciplinare in quanto, alla luce del contesto in cui il post era scritto, si poteva comprendere che la frase offensiva riguardava un periodo storico in cui l’acciaieria era di proprietà di soggetti giuridici diversi da quelli che avevano comunicato il licenziamento.
Il Tribunale di Cosenza, con sentenza 13.07.2022 n. 1240, ha giudicato legittimo il licenziamento di un’autista di Bus di linea che, mentre era alla guida dell’automezzo di servizio, postava commenti su Facebook e si relazionava con altri utenti esprimendo giudizi in merito ad articoli pubblicati su diversi quotidiani.
Ha destato poi un certo scalpore la sentenza 27.05.2015 n. 10955 di Cassazione sez. lav.  che concerne il caso di un datore di lavoro il quale, avendo il sospetto che un proprio dipendente mentre era in servizio si distraeva lasciando anche incustodita la postazione di lavoro per intrattenere relazioni su Facebook, decideva di creare un profilo «civetta» e, spacciandosi per un’avvenente ragazza, chiedeva l’amicizia al dipendente che cascava nella trappola avviando una fitta chat con la sedicente ragazza.
Venivano, per questa via, confermati i sospetti del datore di lavoro e confermata la legittimità del licenziamento. La sentenza in questione è stata criticata da più fronti in quanto, creare un profilo fake costituisce una indebita intrusione nella sfera giuridica di riservatezza e privacy del lavoratore che avrebbe potuto spingere verso una conclusione diversa, ossia la illegittimità delle prove acquisite con conseguente illegittimità del licenziamento che, su siffatte prove, si basava.
Non a caso, sulla questione della legittima acquisizione della prova si è aperto un dibattito giurisprudenziale non ancora chiuso, avente proprio ad oggetto le chat riservate a una cerchia ristretta di persone. Ci si è chiesto se tali chat possano essere utilizzate quale mezzo per provare in giudizio condotte illegittime, come ad esempio, dichiarazioni diffamatorie.
Una parte della giurisprudenza ha sostenuto che le chat sono coperte dal segreto sulla corrispondenza e dunque inutilizzabili da chi non è destinatario del messaggio, si veda, in tal senso, l'ordinanza 10.09.2018 n. 21965 della Corte di Cassazione,  Sez. lavoro, che riguardava il licenziamento comunicato a un dipendente che aveva apostrofato, in una chat privata all’interno di un Gruppo Facebook, l’Amministratore Delegato con epiteti senz’altro diffamatori e insultanti.
Ebbene, pur a fronte di tali gravi affermazioni la Corte di Cassazione ha ritenuto che debba prevalere l’esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni laddove i messaggi siano scambiati all’interno di chat private e dunque anche in un gruppo Facebook specie se i contenuti sono protetti da password. Per questa via la Corte è giunta alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento. Precisa poi la Cassazione che, essendo i messaggi rivolti a un gruppo determinato di persone e non diffusi a una “moltitudine indistinta” di soggetti non vi sarebbero i requisiti della diffamazione.
Di senso contrario invece la più recente ordinanza 31.05.2021 n. 15161, di Cass. sez. I civile, secondo cui è legittimo il licenziamento del dipendente che aveva rivolto frasi offensive nei confronti dei vertici aziendali nel contesto di una “mailing list” sindacale.
Secondo la Corte era dirimente per stabilire la legittima acquisizione il rilievo che l’Azienda non si era in alcun modo attivata per raccogliere i dati dal momento che uno dei destinatari aveva inoltrato i messaggi direttamente all’Azienda, il che rende, ad avviso della citata sentenza, legittima l’acquisizione dell’informazione.
Sfumatura diversa del medesimo problema (valore probatorio delle chat) concerne il caso in cui la chat del social costituisce strumento di lavoro aziendale, e ciò si verifica, ad esempio, allorquando l’organizzazione del lavoro prevede la possibilità di utilizzare le chat dei social per comunicazioni di lavoro all’interno dell’azienda.
In questo caso, la Cassazione, Sez. lavoro con sentenza 22.09.2021 n. 25731, ha da ultimo, affermato il lineare principio secondo cui a tale fattispecie di controllo si applica l’art. 4 della L. 300 del 1970 e quindi le prove possono essere legittimamente raccolte e utilizzate solo a condizione che i dipendenti siano stati resi preventivamente edotti, anche nel rispetto della normativa in materia di privacy, delle modalità d’uso degli strumenti, della potenziale effettuazione dei controlli e delle modalità con cui i controlli vengono effettuati.
L’esame dei precedenti giurisprudenziali sopra descritti è utile occasione per trarre alcune considerazioni su un utilizzo adeguato e professionale dei social che possono essere così sintetizzate:
   1. evitare fenomeni di confusione tra ruolo aziendale e dichiarazioni personali, con ciò avendo cura di specificare se si parla a nome personale o nello svolgimento di funzioni aziendali;
   2. quando il Social è utilizzato per ragioni di servizio, adottare un linguaggio neutro e professionale in quanto ciò che si scrive viene attribuito in via diretta anche all’azienda;
   3. quando il Social è utilizzato per ragioni di servizio, avere cura che vi sia distinzione tra il profilo personale e quello professionale
   4. evitare di trattare pubblicamente tematiche che potrebbero impattare, anche indirettamente sull’immagine dell’Azienda (ad. es. se sono dipendente di un Istituto di Credito evito di commentare notizie che riguardano il mio datore di lavoro, a meno che ciò non mi sia espressamente richiesto);
   5. evitare la divulgazione di informazioni anche solo potenzialmente riservate e/o confidenziali;
   6. rappresentare sempre i fatti in modo continente e veritiero;
   7. utilizzare strumenti che limitano l’accesso al post a una cerchia definita di persone con ciò preservandone la riservatezza
(articolo NT+Diritto del 04.01.2024).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso civico generalizzato e cause ostative legalmente contemplate.
---------------
Atto amministrativo – Accesso civico – Elementi distintivi rispetto all’accesso documentale – Cause ostative legalmente contemplate.
L’accesso civico generalizzato si traduce nel diritto della persona a ricercare informazioni nonché a conoscere i dati e le decisioni delle amministrazioni, al fine di rendere possibile quel controllo democratico che l’istituto intendere perseguire.
Non occorre verificare la legittimazione dell’accedente né è necessario che la richiesta di accesso sia supportata da idonea motivazione, dal momento che chiunque può visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria.
L’interesse conoscitivo del richiedente è elevato al rango di un diritto fondamentale, non altrimenti limitabile se non in ragione di contrastanti esigenze di riservatezza espressamente individuate dalla legge.
L’amministrazione può negare la divulgazione dei documenti richiesti ove tale misura limitativa risulti necessaria per evitare un pregiudizio concreto alla tutela degli interessi pubblici e privati legalmente contemplati.
L’amministrazione vieta, invece, l’accesso civico generalizzato, nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
L’accesso civico generalizzato, pur consentendo l’ostensione dei documenti richiesti a prescindere dalla dimostrazione di un interesse diretto, concreto e attuale, incontra un limite non superabile nelle cause ostative enucleate dall’articolo 5-bis, d.lgs. 14.03.2013, n. 33.
Viceversa, le norme sull’accesso esoprocedimentale esigono la titolarità di una situazione giuridica legittimante, ma sanciscono la prevalenza dell’interesse conoscitivo difensivo nel conflitto con le contrastanti esigenze di riservatezza. (1)

---------------
   (1) Non sono indicati precedenti
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.11.2023 n. 9849 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
Ciò premesso, il Collegio ritiene necessario ricostruire brevemente il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
L’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013 stabilisce “2. Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis.”.
….. “1. L'accesso civico di cui all'articolo 5, comma 2, è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti a:
   a) la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico;
   b) la sicurezza nazionale;
   c) la difesa e le questioni militari;
   d) le relazioni internazionali;
   e) la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato;
   f) la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento;
   g) il regolare svolgimento di attività ispettive.
2. L'accesso di cui all'articolo 5, comma 2, è altresì rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti interessi privati:
   a) la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia;
   b) la libertà e la segretezza della corrispondenza;
   c) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali.
2-bis. … omissis…..
3. Il diritto di cui all'articolo 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
4. Restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente. Se i limiti di cui ai commi 1 e 2 riguardano soltanto alcuni dati o alcune parti del documento richiesto, deve essere consentito l'accesso agli altri dati o alle altre parti
.”.
L’art. 24, comma 1, lettera a), l. 241 del 1990, prevede, per quanto di rilievo nel presente giudizio, che “1. Il diritto di accesso è escluso: a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo”.
Il citato comma 3, d.lgs. n. 33/2013, contrariamente ai commi precedenti, nell’estendere all’accesso civico generalizzato i limiti relativi all’accesso (documentale) di cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990, non esige alcuna motivazione in relazione all’accertamento della mancanza di un pregiudizio concreto alla tutela dell’interesse protetto dalla norma che vieta l’accesso.
Trattasi, pertanto, di un rinvio, incondizionato, a fonti di regolazione che fanno riferimento ad atti che restano in ogni caso esclusi dal diritto di accesso. Tra le predette fonti di regolazione figurano, ai sensi del citato art. 24, comma, 1, gli atti delle pubbliche amministrazioni, adottati, ai sensi del successivo comma 2, in riferimento agli interessi elencati nel comma 1.
Nella fattispecie di che trattasi, la fonte di un divieto assoluto all’accesso civico generalizzato è costituita dal Decreto del Ministero dell’Interno 16.03.2022, che, in attuazione dell’art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990, nell’elencare le categorie di documenti sottratti all’accesso per motivi di sicurezza, difesa e relazioni internazionali, annovera, all’art. 2 comma 1 lett. d): “i documenti relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione e le intese tecniche stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, di approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese tecnico-operative per la cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle frontiere e dell’immigrazione”.
Alla luce delle predette coordinate normative, ai fini dell’attivazione dei limiti di cui 24, comma 1, (tra i quali compare la previsione di ulteriori limiti all’accesso mediante atto della pubblica amministrazione), non occorre, contrariamente a quanto opina l’appellante, una motivazione dell’amministrazione che bilanci in concreto le ragioni sottese alla richiesta di accesso civico generalizzato con quelle cui è informato il contro-interesse tutelato dalla legge o in base alla legge.
Neppure può essere condiviso il motivo, non esaminato dal giudice di prime cure, che fa leva sulla illegittimità del regolamento 16.03.2022, che ha sostituito il precedente n. 415/1994, perché, a dire dell’appellante, introdurrebbe limiti incompatibili con il carattere di diritto fondamentale dell’accesso civico generalizzato.
L’argomento sviluppato dalla parte appellante è concettualmente errato per le ragioni che seguono.
Non vi è alcun dubbio in ordine al fatto che l’accesso civico generalizzato costituisca un diritto fondamentale che contribuisce al miglior soddisfacimento degli altri diritti fondamentali che l’ordinamento giuridico riconosce alla persona.
La natura fondamentale del diritto di accesso generalizzato rinviene, infatti, fondamento, oltre che nella Carta costituzionale (artt. 1, 2, 97 e 117) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 42) anche nell’art. 10 della CEDU, in quanto la libertà di espressione include la libertà di ricevere informazioni e le eventuali limitazioni, per tutelare altri interessi pubblici e privati in conflitto, sono solo quelle previste dal legislatore, risultando la disciplina delle eccezioni coperta da riserva di legge.
Il Collegio parimenti non dubita del fatto che l’accesso civico generalizzato si traduce nel diritto della persona a ricercare informazioni, quale diritto che consente la partecipazione al dibattito pubblico e di conoscere i dati e le decisioni delle amministrazioni al fine di rendere possibile quel controllo “democratico” che l’istituto intendere perseguire.
La conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, infatti, la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione (accountability) della classe politica e dirigente del Paese.
Ai fini dell’accesso civico generalizzato, inoltre, non occorre verificare, così come per l’accesso documentale, la legittimazione dell’accedente, né è necessario che la richiesta di accesso sia supportata da idonea motivazione.
L’accesso civico “generalizzato”, infatti, consente a “chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria (articolo 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
Per effetto dell’adesione dell’ordinamento al modello di conoscibilità generalizzata delle informazioni amministrative proprio dei cosiddetti sistemi FOIA (Freedom of information act), l’interesse conoscitivo del richiedente è elevato al rango di un diritto fondamentale (cosiddetto “right to know”), non altrimenti limitabile se non in ragione di contrastanti esigenze di riservatezza espressamente individuate dalla legge.
Ciò premesso, la disciplina delle preclusioni all’esercizio del diritto di accesso civico “generalizzato” si ricava dall’articolo 5-bis, d.lgs. 14.03.2013, n. 33, le cui disposizioni contemplano un duplice ordine di cause ostative all’accoglimento dell’istanza di ostensione.
Alla stregua di tale disposizione, l’amministrazione può negare la divulgazione dei documenti richiesti ove tale misura limitativa risulti necessaria per evitare un pregiudizio concreto alla tutela degli interessi pubblici e privati rispettivamente enumerati dai commi 1 e 2 del citato articolo 5-bis.
L’accesso civico “generalizzato” è, invece, escluso in termini assoluti “nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990” (comma 3).
A tal riguardo, occorre evidenziare che la disciplina delle nuove forme di trasparenza amministrativa differisce significativamente rispetto all’ordinario regime di ostensione documentale previsto dalla legge 07.08.1990, n. 241. Ed invero, l’accesso civico “semplice” e “generalizzato”, pur consentendo l’ostensione dei documenti richiesti a prescindere dalla dimostrazione di un interesse diretto, concreto e attuale, incontra un limite non superabile nelle cause ostative enucleate dall’articolo 5-bis, d.lgs. 14.03.2013, n. 33.
Viceversa, le norme sull’accesso esoprocedimentale esigono la titolarità di una situazione giuridica legittimante, ma sanciscono la prevalenza dell’interesse conoscitivo “difensivo” nel conflitto con le contrastanti esigenze di riservatezza.
Ne deriva che, contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante, all’ampliamento (rispetto all’accesso documentale) della platea dei soggetti che possono avvalersi dell’accesso civico generalizzato corrisponde un maggior rigore normativo nella previsione delle eccezioni poste a tutela dei contro-interessi pubblici e privati (rispetto a quanto si prevede con riferimento all’accesso documentale).
Sulla base delle considerazioni che precedono va respinto anche il motivo di appello finalizzato a censurare, sotto il profilo del difetto di proporzione, la mancata concessione dell’accesso parziale.
La lettera della disposizione di cui al comma 3 del citato d.lgs. 14.03.2013, n. 33, e l’evidenziata ratio sottesa all’istituto dell’accesso civico generalizzato non attribuiscono all’amministrazione, in sede di esame della richiesta di accesso, alcun potere valutativo suscettibile di estrinsecarsi nella fissazione di un limite modale. Né, contrariamente a quanto opinato dalla parte appellante, tale regola, nel richiamare i limiti di cui all’art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990, viola il principio di legalità.
In senso contrario va evidenziato che, ai sensi dell’art. 24 comma 2, l. n. 241 del 1990, le pubbliche amministrazioni sono tenute a individuare le categorie di atti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso ai sensi del comma I.
Ne discende che alle pubbliche amministrazioni è demandato non un potere discrezionale illimitato nella individuazione delle categorie di documenti inaccessibili, ma un potere che può essere esercitato in relazione ai “soli” casi di esclusione previsti dal precedente comma 1. Trattasi, pertanto, di una discrezionalità limitata, e quindi coerente con il principio di legalità (nella sua duplice dimensione. legalità-indirizzo e legalità –garanzia)
Ferma restando la sufficienza delle argomentazioni sopra svolte ai fini del rigetto dell’appello, il Collegio rileva altresì che appaiono destituite di fondamento anche le censure articolate dalla parte appellante in relazione alla assenza di motivazione del diniego sul piano della chiara esplicazione del pregiudizio concreto all’interesse pubblico che deriverebbe dalla esibizione dell’Accordo di collaborazione in oggetto.
Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, le stesse linee guida dell’ANAC, invocate dal ricorrente, evidenziano la natura di eccezioni assolute da riferire alle situazioni di cui al citato co. 3 dell’art. 5-bis, le quali non richiedono l’esplicitazione di ulteriori motivazioni nel caso di negato accesso, atteso che “possono verificarsi circostanze in cui potrebbe essere pregiudizievole dell’interesse coinvolto imporre all’amministrazione anche solo di confermare o negare di essere in possesso di alcuni dati o informazioni (si consideri ad esempio il caso di informazioni su indagini in corso). In tali ipotesi, di stretta interpretazione, se si dovesse pretendere una puntale specificazione delle ragioni del diniego, l’amministrazione potrebbe disvelare, in tutto o in parte, proprio informazioni e dati che la normativa ha escluso o limitato dall’accesso, per tutelarne la riservatezza (pubblica o privata).” (Linee Guida ANAC).
Ciò, oltre a confermare la fondatezza della motivazione del diniego -laddove esclude l’accesso in quanto afferente a documenti categoricamente sottratti all’esibizione, in base a disposizioni normative specifiche ex art. 24, comma 1, lett. a), legge n. 241/1990- rende adeguata, nel suo complesso, la motivazione addotta in quanto da essa è agevolmente ricavabile il pregiudizio concreto che potrebbe derivare all’interesse pubblico alla riservatezza del documento, laddove alle Amministrazioni coinvolte fosse imposto, soltanto per motivare il diniego, di rendere espliciti i contenuti di un documento riservato.
Conclusivamente, per le ragioni esposte, l’appello va respinto in quanto infondato, sia pure all’esito di una motivazione parzialmente diversa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.11.2023 n. 9849 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla natura giuridica delle convenzioni tra enti locali e sulla necessità della sottoscrizione digitale.
---------------
Enti pubblici in genere – Convenzioni tra enti locali – Natura giuridica - Accordi tra amministrazioni.
Le convenzioni tra enti locali ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 rappresentano con ogni evidenza una species dell’ampio genus degli accordi fra pubbliche amministrazioni di cui all’art. 15 l. n. 241 del 1990 (1).
---------------
Enti pubblici in genere – Convenzioni tra enti locali – Natura giuridica - Accordi tra amministrazioni – Sottoscrizione digitale – Necessità.
Il comma 2-bis dell’art. 15 l. n. 241 del 1990 indica con chiarezza, quale unica forma di validità di siffatti accordi, la stipulazione mediante una specifica tipologia di sottoscrizione, quella digitale: in caso contrario, gli accordi sono radicalmente “nulli”, ossia inidonei a produrre un qualunque effetto giuridico.
Siffatta previsione di nullità in caso di mancanza della sottoscrizione digitale ha portata generale e riguarda, dunque, ogni forma di accordo fra pubbliche amministrazioni: esso, quindi, concerne anche le convenzioni ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 (2).
---------------

   (1) Precedenti conformi: Tar per la Campania, Salerno, sez. I, 01.12.2005, n. 2496; Tar per la Lombardia, sez. I, 08.11.2004, n. 5620. Sulla natura dell’accordo di programma quale species del più ampio genus degli accordi fra amministrazioni di cui all’art. 15 della l. n. 241 del 1990, di recente, Tar Veneto, sez. II, 08.08.2023, n. 1169.
        Precedenti difformi: non risultano precedenti difformi.
   (2) Precedenti conformi: non risultano precedenti negli specifici termini.
        Precedenti difformi: non risultano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.11.2023 n. 9842 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
6. Il III ed il IV motivo di prime cure, che possono scrutinarsi contestualmente, sono viceversa fondati.
6.1. L’avviso pubblico del 30.06.2022 stabiliva (art. 4) che “le candidature per il finanziamento dei Progetti per la realizzazione di piani di sviluppo di Green Communities possono essere presentate, a pena di esclusione, da Comuni confinanti della medesima Regione o Provincia Autonoma solo in forma aggregata come:
   a. Unioni di Comuni ex art. 32 d.lgs. 267/2000;
   b. Comunità Montane ex art. 27 d.lgs. 267/2000;
   c. Consorzi ex art. 31 d.lgs. 267/2000;
   d. Convenzioni ex art. 30 d.lgs. 267/2000
”.
6.2. Le domande dovevano essere presentate, “complete della proposta, dei documenti e delle dichiarazioni di cui al precedente art. 4”, entro le 23.59 del 16.08.2022, termine espressamente stabilito “a pena di esclusione” (art. 11).
6.3. Dal combinato disposto delle due citate disposizioni si ha che, al momento della presentazione della domanda (e comunque non oltre le 23.59 del 16.08.2022), doveva essere stata già costituita, evidentemente nelle forme di legge, una delle quattro forme di “aggregazione” tassativamente indicate dall’Avviso (Unione di Comuni, Comunità Montana, Consorzio, Convenzione).
6.4. La relativa documentazione di comprova, inoltre, doveva essere allegata alla domanda, quale elemento imprescindibile della stessa, trattandosi di un profilo formale condizionante l’ammissione al prosieguo della procedura.
6.5. Nella specie, risulta che la convenzione ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 sia stata sottoscritta manualmente dai (Sindaci dei) Comuni resistenti in data 22.03.2017.
6.6. Non constano successive sottoscrizioni digitali della convenzione.
6.7. I Comuni hanno poi presentato alla Presidenza un apposito “atto di aggregazione” datato 27.07.2022, la cui firma digitale è stata, però, apposta soltanto nel successivo mese di dicembre.
6.8. In definitiva, non è stata dimostrata, dal Comune di Stigliano, la presentazione agli atti della procedura (e, prima ancora, la stessa esistenza fisica) di una convenzione ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 già firmata digitalmente alla data del 16.08.2022.
6.9. Il richiamo da parte dell’Avviso alle “Convenzioni ex art. 30 d.lgs. 267/2000” implica la necessità che tali convenzioni fossero state concluse nelle forme di legge, evidentemente anche in punto di forma.
6.10. L’art. 15, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990 stabilisce, per quanto qui di interesse, che “A fare data dal 30.06.2014 gli accordi di cui al comma 1 sono sottoscritti con firma digitale, ai sensi dell'articolo 24 del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, con firma elettronica avanzata, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera q-bis) del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, o con altra firma elettronica qualificata pena la nullità degli stessi”.
6.11. Il comma 1 citato, a sua volta, dispone che “… le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”.
6.12. L’art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 disciplina le “convenzioni”, stabilendo che “Al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati, gli enti locali possono stipulare tra loro apposite convenzioni”.
6.13. Le convenzioni ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 rappresentano con ogni evidenza una species dell’ampio genus degli accordi fra Pubbliche Amministrazioni, di cui all’art. 15 l. n. 241 del 1990.
6.14. La l. n. 241 del 1990, recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”, è, infatti, corpus legislativo generale e di sistema, che disciplina l’intera attività amministrativa in quanto tale; il d.lgs. n. 267 del 2000, recante il “Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali”, è di contro dedicato ad una specifica, per quanto rilevante, partizione della Pubblica Amministrazione, ossia gli “Enti locali”, identificati nei “comuni, province, città metropolitane, comunità montane, comunità isolane e unioni di comuni”.
6.15. Mentre, dunque, la l. n. 241 ha un’ampia prospettiva di carattere oggettivo (concerne la funzione amministrativa in quanto tale), il d.lgs. n. 267 enuclea una, più circoscritta, visione soggettiva (regolamenta gli Enti locali).
6.16. A sua volta, l’art. 15 l. n. 241 del 1990 delinea la fattispecie degli accordi fra Amministrazioni con normazione all’evidenza ed intenzionalmente generale, non limitata né a precise tipologie di Amministrazioni, né a specifiche attività.
6.17. Di contro, l’art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 si riferisce solo agli “enti locali” e concerne lo svolgimento “in modo coordinato di funzioni e servizi determinati”, evidentemente nell’ambito delle competenze di tali Enti.
6.18. Il rapporto di species a genus che lega l’art. 30 d.lgs. n. 267 all’art. 15 l. n. 241 del 1990 emerge, dunque, con nitore tanto dal confronto testuale delle due disposizioni, quanto, più in generale, dal rapporto fra le coordinate logico-sistematiche, contenutistiche e teleologiche dei due testi legislativi che, rispettivamente, le contengono.
6.19. Il comma 2-bis dell’art. 15 l. n. 241, introdotto per la prima volta dal d.l. n. 179 del 2012 convertito con l. n. 221 del 2012 (e poi modificato in seguito solo quanto alla decorrenza del vincolo di forma ivi delineato), prescrive che gli accordi fra Pubbliche Amministrazioni debbano essere sottoscritti con firma digitale, “pena la nullità degli stessi”.
6.20. La disposizione indica con chiarezza, quale unica forma di validità di siffatti accordi, la stipulazione mediante una specifica tipologia di sottoscrizione, quella digitale: in caso contrario, gli accordi sono radicalmente “nulli”, ossia inidonei a produrre un qualunque effetto giuridico.
6.21. Giacché il comma 2 dell’art. 15 stabilisce che “per detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste dall'articolo 11, commi 2 e 3”, che a loro volta rimandano, “ove non diversamente previsto, ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili”, il richiamo in parola non può che essere riferito all’istituto civilistico della nullità, che, come noto, si connota, inter alia, per l’assoluta inidoneità dell’atto a produrre effetti giuridici: altrimenti detto, dal punto di vista degli effetti (ossia in un’ottica pragmatica attenta al dato funzionale della capacità concreta dell’atto di modificare la realtà giuridica), l’atto essenzialmente non esiste.
6.22. Siffatta previsione di nullità in caso di mancanza della sottoscrizione digitale ha portata generale e riguarda, dunque, ogni forma di accordo fra Pubbliche Amministrazioni: esso, quindi, concerne anche le convenzioni ex art. 30 d.lgs. n. 267.
6.23. Non convince, sul punto, la ricostruzione del Tar, secondo cui “l’invocata previsione di cui all'art. 15, co. 2-bis, della l. n. 241/1990, stante la gravità della sanzione in essa contemplata (che potrebbe essere sospettata di profili di irragionevolezza), va intesa come di stretta applicazione e, dunque, non è riferibile –in sede interpretativa- anche alla fattispecie (qui rilevante) della convenzione tra enti locali (species del più ampio genus degli accordi tra pubbliche amministrazioni), la quale rinviene una disciplina speciale ed esaustiva nell’art. 30 del D.lgs. n. 267/2000 (disposizione che non prevede particolari formalità di sottoscrizione)”.
6.24. Nessun profilo testuale, infatti, lascia ritenere che la disciplina dettata dall’art. 30 sia “esaustiva”, ossia non ammetta alcuna integrazione ab externo.
6.25. Al contrario, in assenza di un’espressa disposizione che ciò sancisca, risponde agli ordinari criteri ermeneutici ritenere che le previsioni dettate dalla legge con riferimento all’istituto generale degli “accordi fra Amministrazioni” si applichino anche alle specifiche, speciali e settoriali epifanie normative dello stesso, quali sono (secondo lo stesso Tar), le convenzioni ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000.
6.26. Altrimenti detto, in termini di teoria generale quanto stabilito per il genus vale, di regola, anche per le singole species, a meno che non sia espressamente disposto in senso contrario ovvero la concreta fisionomia della species osti oggettivamente all’applicazione della normativa dettata per il genus.
6.27. Quest’ultima circostanza non sussiste, perché il vincolo di forma in esame (ossia la necessità della sola firma digitale) ben si può applicare alle convenzioni ex art. 30, posto che da un lato non ricorrono ragioni strutturali di carattere ostativo, dall’altro la ratio legis sottesa alla previsione (incentivare la digitalizzazione dell’Amministrazione) si riferisce pienamente pure all’azione degli Enti locali.
6.28. Nella specie, pertanto, la proposta del Comune appellato non poteva essere presa in considerazione dalla Presidenza del Consiglio, perché fondata su una convenzione nulla: l’atto impugnato va, conseguentemente, annullato.
6.29. Non vengono in considerazione:
   - né l’istituto del soccorso istruttorio, posto che la convenzione doveva esistere giuridicamente (ossia essere sottoscritta digitalmente) prima del 16.08.2022, concretando ciò un elemento necessario per la possibilità stessa di partecipare alla procedura che, come tale, non può sopravvenire al termine ultimo per la presentazione della proposta;
   - né l’istituto dell’errore scusabile, poiché, in disparte il fatto che tale istituto ha genesi ed applicazione processuale e non procedimentale, la nullità prescinde dall’atteggiamento soggettivo della parte interessata, essendo stabilita direttamente dalla legge in presenza di determinate circostanze oggettive (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.11.2023 n. 9842 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Se i fumi della panetteria molestano solo due appartamenti in condominio il Sindaco non è autorizzato ad intervenire.
L’intervento del Sindaco a difesa dei condomìni che denunciano l’emissione di fumi molesti da una panetteria si giustifica solo qualora il danno prodotto riguardi più immobili, non solo i due appartamenti dei due stabili attigui sovrastanti l’esercizio commerciale.

La sentenza 10.11.2023 n. 16788 del TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, ribalta il frequente favore verso il danneggiato dalle emissioni in condominio e precisa quando in sostanza si debbano riconoscere le ragioni... (articolo NT+Condominio del 05.01.2024).
---------------
SENTENZA
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 15 del 28/04/2023, notificata in data 21/06/2023, con cui il Sindaco del Comune di Viterbo, ai sensi degli artt. 30 d.lgs. n. 285/1992 e 50, comma 5, d.lgs. n. 267/2000, ha ordinato al ricorrente di “effettuare nell’immediatezza… tutte le attività e/o accorgimenti tecnici necessari per risolvere le situazioni di disagio che i fumi di cottura provocano ai condomini, dando corso a tutto quanto necessario al fine di tutelare l’incolumità, l’igienicità e la salubrità delle persone e cose”.
...
Considerato, in fatto, che parte ricorrente impugna l’ordinanza n. 15 del 28/04/2023, notificata in data 21/06/2023, con cui il Sindaco del Comune di Viterbo, ai sensi degli artt. 30 d.lgs. n. 285/1992 e 50, comma 5, d.lgs. n. 267/2000, ha ordinato al Bu. di “effettuare nell’immediatezza… tutte le attività e/o accorgimenti tecnici necessari per risolvere le situazioni di disagio che i fumi di cottura provocano ai condomini, dando corso a tutto quanto necessario al fine di tutelare l’incolumità, l’igienicità e la salubrità delle persone e cose”;
Considerato, in diritto, che il ricorso è fondato e merita accoglimento;
Considerato, in particolare, che:
   - con una serie di censure, tra loro connesse, il ricorrente deduce:
         a) i vizi di violazione della l. n. 241/1990 e l’illegittimità del provvedimento impugnato il quale conterrebbe un ordine generico ed incomprensibile, sarebbe fondato su un atto estrapolato da un accertamento condotto da altra autorità e sfociato in tutt’altro provvedimento e sarebbe volto a conseguire un risultato che non sarebbe di competenza pubblica (prima doglianza);
         b) il difetto d’istruttoria, di motivazione, la contraddittorietà tra atti ed il vizio d’incompetenza perché la gravata ordinanza sindacale sarebbe stata emanata senza tenere conto degli atti del procedimento e delle circostanze di fatto (il forno in dotazione alla panetteria sarebbe elettrico e non potrebbe produrre fuliggine e, comunque, sarebbe collegato alla canna fumaria del palazzo) ed, inoltre, nella fattispecie verrebbe in rilievo la facciata di un palazzo privato che non potrebbe giustificare l’esercizio del potere comunale (seconda doglianza),
   - i motivi in esame sono fondati nella parte in cui prospettano l’incompetenza del Sindaco ad emanare l’atto impugnato per l’assenza di una situazione, a tal fine, legittimante;
   - infatti, l’atto impugnato richiama:
         a) l’art. 30 d.lgs. n. 285/1992, il cui comma 2 prevede che, “salvi i provvedimenti che nei casi contingibili ed urgenti possono essere adottati dal sindaco a tutela della pubblica incolumità, il prefetto, sentito l'ente proprietario o concessionario, può ordinare la demolizione o il consolidamento a spese dello stesso proprietario dei fabbricati e dei muri che minacciano rovina se il proprietario, nonostante la diffida, non abbia provveduto a compiere le opere necessarie”;
         b) l’art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267/2000 il quale stabilisce che “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Le medesime ordinanze sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in relazione all'urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche”;
   - il riferimento dell’atto impugnato al “pericolo per la pubblica e privata incolumità” induce il Collegio a ritenere che l’ordinanza sia stata emanata in attuazione dell’art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267/2000 e che il richiamo all’art. 30 d.lgs. n. 285/1992 sia non pertinente (per altro, la disposizione, nel richiamare i provvedimenti contingibili ed urgenti del Sindaco, si limita a rinviare al disposto dell’art. 50 d.lgs. n. 267/2000 e non costituisce certo fonte di un autonomo potere sindacale di emanare atti extra ordinem);
   - la situazione di fatto posta a fondamento del provvedimento impugnato è dallo stesso individuata nell’emissione di fumi e fuliggine, contestata da parte ricorrente, che interesserebbe i due appartamenti situati al primo piano;
   - tale situazione non concretizza quel pericolo per la pubblica incolumità o le ipotesi di “emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”, “urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana” alla cui sussistenza l’art. 50, comma 5, d.lgs. condiziona l’esercizio del potere sindacale di adottare ordinanze extra ordinem di necessità ed urgenza;
   - infatti, i presupposti richiesti dall’art. 50 d.lgs. n. 267/2000 postulano la necessaria presenza di una diffusività della situazione di pericolo (Cons. Stato n. 2895/2023 e Cons. Stato n. 1942/2023) che nella fattispecie, in cui vengono in rilievo le sole esigenze dei due appartamenti situati al primo piano, non possono essere ritenute sussistenti;
   - in proposito, va ricordato che, secondo la giurisprudenza, il potere sindacale di adottare ordinanze di necessità ed urgenza richiede la presenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per l’incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria. In altri termini, presupposto per l’adozione dell’ordinanza "extra ordinem" è il pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato e tale pericolo non può essere riconducibile alla segnalazione pervenuta nella fattispecie al Comune (in termini Cons. Stato n. 868/2010; nello stesso senso Cons. Stato n. 5150/2019 e n. 6168/2003) la quale potrà, se del caso, giustificare la tutela degli interessati davanti al giudice ordinario;
   - la fondatezza della censura in esame comporta l’accoglimento del ricorso (previa declaratoria di assorbimento delle ulteriori doglianze) e l’annullamento dell’atto impugnato;

CONDOMINIO: Barriere architettoniche discriminatorie, condannati Comune e amministratore. Gli interventi agevolabili con il 75% sono scale, rampe, ascensori, servoscala e piattaforme elevatrici.
Discriminazioni in condominio per chi ha problemi motori.

Il tema è di strettissima attualità alla luce degli incentivi per l’abbattimento delle barriere architettoniche a cui si può far ricorso, rimodellati dal decreto legge 212/23 con la riduzione dello spettro degli interventi agevolabili con il 75%: ora sono incentivabili le opere per eliminare le barriere architettoniche «aventi ad oggetto esclusivamente scale, rampe, ascensori, servoscala e piattaforme elevatrici».
L’ordinanza 17138/2023
Sul tema l’ordinanza 15.06.2023 n. 17138 della Corte di Cassazione, Sez. I civile,  ha statuito che «in materia di tutela antidiscriminatoria delle persone con disabilità vittime di disparità di trattamento nell’ambito di un contesto condominiale, costituisce discriminazione, ai sensi dell’articolo 2 della legge 67/2006, la situazione di inaccessibilità all’edificio determinata dall’esistenza di barriere architettoniche». 
Non poteva recarsi dalla sorella
All’origine della pronuncia il caso di un disabile impossibilitato ad andare a trovare la sorella, residente in un condominio a lui inaccessibile.
L’uomo aveva citato Comune e amministratore dello stabile, chiedendo la condanna in solido per condotta discriminatoria, oltre al risarcimento del danno, e i supremi giudici hanno accolto la richiesta.
Le motivazioni del provvedimento
La legge 67/2006 dispone per le persone con disabilità, di cui all’articolo 3 della legge 104/1992, una particolare tutela giurisdizionale per tutte quelle situazioni in cui il disabile risulti destinatario di trattamenti discriminatori al di fuori di un rapporto di lavoro.
La Suprema corte nel richiamare i principi espressi dalla legge 67/2006 (articolo 2) ha ribadito che «l’esistenza di un’ampia definizione legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di accessibilità rende la normativa sull’obbligo dell’eliminazione delle prime, e sul diritto alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente precettiva e idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare i disabili, consentendo loro il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l’accessibilità sia impedita o limitata, a prescindere dall’esistenza di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi» (Cassazione 18762/2016 e Cassazione 3691/2020).
Il concetto di disabilità
Da ultimo il concetto stesso di disabilità va interpretato in senso ampio, sì da doversi ritenere che la normativa concernente il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche di cui alla legge 13 del 1989, articolo 2, sia applicabile anche alle persone che, in conseguenza dell’età avanzata, pur non essendo portatori di handicap, abbiano comunque disagi fisici e difficoltà motorie.
La giurisprudenza della Suprema corte ha d’altro canto sottolineato come l’impossibilità di osservare tutte le prescrizioni della legge 13/1989 per particolari caratteristiche dell’edificio non comporti la totale inapplicabilità delle disposizioni di favore finalizzate anche solo ad agevolare l’accesso agli immobili dei soggetti versanti in condizioni di minorazione fisica.
Ciò che risulta determinante al riguardo è che l’intervento produca comunque un risultato «conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione».
La conclusione
Si può concludere quindi che, laddove il condominio abbia omesso qualsiasi intervento volto all’abbattimento delle barriere architettoniche, il soggetto portatore di disabilità anche non condomino potrà agire contro il condominio/amministratore avvalendosi della tutela antidiscriminatoria della legge 67/2006 con lo scopo di ripristinare la parità di trattamento, così da consentirgli di partecipare pienamente a tutti gli ambiti della vita di relazioni sociali (Cassazione 4734/2015 e Cassazione 21568/2012) (articolo Il Sole 24 Ore del 03.01.2024).
---------------
ORDINANZA
3.2.- I primi due motivi, da trattare congiuntamente per connessione, sono fondati e vanno accolti.
4.1. - La L. n. 67 del 2006, sulla cui applicazione si controverte, è inserita nell'ambito della normativa nazionale (a partire dalla Costituzione, art. 3) e internazionale (fra queste, va ricordato l'art. 14 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo), volta ad assicurare e promuovere la piena realizzazione, senza discriminazioni di alcun tipo, dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone, e specificamente anche per quelle con disabilità, allo scopo di colmare gli svantaggi propri di questi soggetti e di assicurare il rispetto del principio di parità di trattamento.
Questi obiettivi, sul piano convenzionale, sono imposti anche dalla Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 13.12.2006, ratificata ai sensi della legge 03.03.2009, n. 18, che «al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli ambiti della vita» obbliga gli Stati Parti ad adottare «misure appropriate per assicurare alle persone con disabilità, su base di eguaglianza con gli altri, l'accesso all'ambiente fisico, ai trasporti, all'informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o offerti al pubblico, sia nelle aree urbane che nelle aree rurali».
In particolare, la legge n. 67/2006 intende disporre per le persone con disabilità, di cui all'art. 3 della legge n. 104/1992, una particolare tutela giurisdizionale (in parte analoga a quella già accordata ai disabili vittime di discriminazioni nel contesto lavorativo dal d.lgs. n. 216/2003, che ha recepito la direttiva 2000/78/CE) per tutte quelle situazioni in cui il disabile risulti destinatario di trattamenti discriminatori al di fuori di un rapporto di lavoro.
La legge sancisce, con norme dalla portata immediatamente precettiva, divieti di discriminazione delle persone disabili sia nei rapporti pubblici, che nei rapporti tra privati, senza alcuna limitazione soggettiva dei destinatari dell'obbligo di non discriminazione (sul tema, cfr. Cass. n. 18762/2016; Cass. n. 3691/2020; Cass. n. 3842/2021; Cass. n. 9384/2023).
4.2.- L'impianto normativo (art. 2) parte da una definizione di discriminazione (diretta, indiretta e discriminazione sotto forma di molestie, intimidazioni e umiliazioni), per poi predisporre lo schema di tutela giurisdizionale (art. 3).
4.3.1.- Secondo la nozione di discriminazione di cui all'art. 2 della legge n. 67/2006 ricorre la "discriminazione diretta" quando una persona disabile viene trattata in modo diverso, in diritto o in fatto, rispetto ad un soggetto abile; ricorre la "discriminazione indiretta" quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, apparentemente neutri, mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ai soggetti abili (Cass. Sez. U. n. 25101/2019; Cass. n. 9384/2023; Cass. n. 9095/2023; Cass. n. 9870/2022); infine, sono "discriminazioni" le molestie, ovvero comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che creino un clima di intimidazione, umiliazione, offesa o ostilità nei confronti della persona disabile.
4.3.2.- Con particolare riferimento alla fattispecie della "discriminazione indiretta", invocata nel caso in esame, va osservato che l'elencazione delle modalità con cui essa può esplicarsi, contenuta nell'art. 2, non può ritenersi né esaustiva, né tassativa e ciò trova conferma nello stesso testo dell'art. 3, ove le diverse forme di discriminazione sono sinteticamente (omissis) nella definizione omnicomprensiva di "atti e comportamenti".
L'elemento qualificante che connota la fattispecie è, invero, l'effetto che in concreto produce, e cioè lo "svantaggio" del soggetto disabile rispetto al soggetto abile, di guisa che l'accertamento deve necessariamente riguardare in stretta connessione la condotta denunciata e lo svantaggio susseguente.
Va considerato, infatti, che spesso non sono il comportamento o la prassi a creare lo svantaggio, ma il fatto che non sia stata prevista una diversità di trattamento a favore dei disabili atta e necessaria per ristabilire l'uguaglianza ed evitare la discriminazione.
4.3.3.- Per restare sul tema del presente giudizio, va affermato che possono certamente rientrare nell'ambito della "discriminazione indiretta" ai sensi della L. n. 67 del 2006, art. 2, le barriere architettoniche ostacolanti l'accesso, sulla cui presenza presso l'immobile di proprietà della germana, è stata focalizzata la originaria azione del disabile nel caso in esame, qualora abbiano determinato -come accertato nel caso di specie  una condizione di svantaggio per quest'ultimo- costituita dalla lesione del diritto a poter accedere ed a potersi spostarsi dall'abitazione, ove era domiciliato, in maniera dignitosa - rispetto all'omologa situazione in cui si trovi la persona priva di disabilità.
In proposito, questa Corte ha anche affermato che l'esistenza di «ampia definizione legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di accessibilità rende la normativa sull'obbligo dell'eliminazione delle prime, e sul diritto alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime», consentendo loro «il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l'accessibilità sia impedita o limitata» ciò, a prescindere, «dall'esistenza di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi» (così, in motivazione, Cass. n. 18762/2016, tema affrontato anche in Cass. n. 3691/2020), ed ha così messo in luce che ciò che rileva, ai fini dell'accertamento ex art. 28 del d.lgs. n. 150/2011, è la situazione di fatto concretamente verificata e non la qualificazione giuridica dei luoghi.
Una conclusione, questa, che appare del tutto in linea con la necessità di assicurare alla normativa suddetta un'interpretazione conforme a Costituzione, se è vero che -come sottolinea la stessa giurisprudenza costituzionale- l'accessibilità "è divenuta una qualitas essenziale" perfino "degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza dell'affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici" (così, Corte Cost., sent. n. 167/1999; nello stesso senso, Corte Cost., sent. n.
251/2008).
Del pari, viene sottolineato come "il superamento delle barriere architettoniche -tra le quali rientrano, ai sensi del D.P.R. n. 503 del 1996, art. 1, comma 2, lett. b), gli "ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti"- è stato previsto (L. n. 118 del 1971, art. 27, comma 1) "per facilitare la vita di relazione" delle persone disabili", evidenziandosi che tali principi "rispondono all'esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest'ultima nel significato, proprio della Cost., art. 32, comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica" (così, ancora, Corte Cost., sent. n. 251 del 2008).
4.4.1.- La tutela giurisdizionale in sede civile avverso gli atti e i comportamenti discriminatori è attualmente regolata -per rinvio- dall'articolo 28 del d.lgs. n. 150/2011 (oggetto di recenti modifiche, apportate dal d.lgs. n. 149/2022, non applicabili al caso di specie e che non hanno mutato l'impianto del procedimento, per quanto di interesse).
La competenza è radicata presso il tribunale del luogo ove ha domicilio il ricorrente, che costituisce un foro funzionale ed esclusivo, che deve essere preferito agli altri fori, anche inderogabili, compreso quello erariale (Cass. n. 296/2021; anche, Cass. n. 3936/2017) e le parti in primo grado possono stare in giudizio personalmente.
Il soggetto discriminato che si ritenga danneggiato può chiedere al giudice il risarcimento del danno anche non patrimoniale e può chiedere che il giudice adotti ogni provvedimento idoneo secondo le circostanze a rimuovere gli effetti della discriminazione, compreso un piano di rimozione delle discriminazioni entro un termine.
L'esigenza di assicurare ai diritti lesi concreta tutela giurisdizionale impone al giudice di assumere tutti quei provvedimenti anche atipici e innominati idonei a neutralizzare incidenze irreversibili nella posizione sostanziale del richiedente. 
 Quanto alla ripartizione dell'onere probatorio, questa Corte ha già avuto modo di sottolineare la peculiarità del sistema connotato da una parziale inversione dell'onere della prova, atteso che «In tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità ai sensi della legge n. 67 del 2006, l'art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150 del 2011 (disposizione speciale rispetto all'art. 2729 c.c.) realizza un'agevolazione probatoria mediante lo strumento di una parziale inversione dell'onere della prova: l'attore deve fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, devono rendere plausibile l'esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria; il rischio della permanenza dell'incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l'insussistenza della discriminazione una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere.» (Cass. n. 9870/2022).
4.4.2.- Quanto alla tutela risarcitoria, invocata in via esclusiva nel presente procedimento, va osservato che essa è costantemente ricondotta all'ambito applicativo dell'art. 2043 cod. civ., a fronte a condotte attive o omissive discriminatorie che assurgono a fatti illeciti.
La persona lesa può agire, secondo le regole generali, per il risarcimento del danno e, ai fini dell'accoglimento della azione risarcitoria, è tenuta a dimostrare i requisiti oggettivi e soggettivi dell'illecito aquiliano e, quindi, sia l'esistenza di un pregiudizio effettivo qualificabile come ingiusto, sia la riconducibilità del danno, sotto il profilo eziologico, a una condotta intenzionale o quanto meno colposa dell'agente, in quest'ultimo caso nelle diverse declinazioni della colpa, anche soltanto lieve, generica e specifica.
La natura della situazione soggettiva azionata, in quanto afferente ai diritti inviolabili della persona, costituzionalmente garantiti, per affermazione ormai consolidata, implica che in caso di lesione sorga in capo al soggetto offeso anche il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., secondo costante giurisprudenza di questa Corte (tra molte, Cass. Sez. U. n. 4063/2010; Cass. n. 24585/2019; Cass. n. 29206/2019; Cass. n. 4723/2023), a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato.
5.1.- Tanto premesso, quanto al quadro normativo di riferimento, va esclusa in diritto la correttezza del ragionamento giuridico sviluppato dalla Corte di appello, nella statuizione pronunciata nei confronti del Comune di (omissis) per quanto attiene alla condotta accertata ed alla condanna risarcitoria accolta nei suoi confronti a far data dall'inizio dell'anno 2001, perché la decisione impugnata non risulta avere fatto applicazione
dei principi enunciati e non risulta avere rettamente individuato gli elementi costitutivi della fattispecie discriminatoria ascritta all'ente pubblico a titolo colposo e gli elementi sulla scorta dei quali ha accolto la domanda risarcitoria, con violazione di legge.
5.2.- Va rammentato, in proposito -come risultata incontestato in atti ed accertato dalla Corte di appello- che: l'acquisto dell'immobile da parte di P.M.L. avvenne il (omissis) , con atto nel quale era indicato che il fabbricato non prevedeva strutture per il superamento delle barriere architettoniche e che vi era un impegno ad eliminarle, oltre che era in corso la pratica per la sanatoria; in epoca successiva all'acquisto vennero rilasciati dal Comune la concessione edilizia in sanatoria n. (omissis) ed il permesso di agibilità il (omissis) e solo quest'ultimo venne annullato dal TAR Lecce nel 2019.
A fronte di queste circostanze, la Corte di appello ha ravvisato la responsabilità solidale del Comune per avere rilasciato la concessione edilizia in sanatoria, prima, ed il permesso di agibilità, poi, malgrado l'edificio realizzato dalla (omissis) SRL non fosse conforme alle prescrizioni di cui alla legge numero 13 del 1989, applicabile alla fattispecie, così conferendo "una veste di apparente legittimità alla condotta omissiva illecita posta in essere dalla suddetta società, favorendone la mancata cessazione e consentendo la protrazione dei suoi effetti lesivi", e non provata dal Comune l'assenza di colpa e lo ha condannato al risarcimento in misura percentuale assommante al 50%, e ciò, nonostante la Corte di appello abbia implicitamente convenuto sul fatto che -come sostenuto dal Comune in propria difesa- questi non era tenuto a nessun intervento volto all'abbattimento delle barriere architettoniche.
5.3.- Orbene, come si evince dalla motivazione, la Corte di appello ha effettuato una falsa applicazione della L. n. 67 del 2006, art. 2, consistente nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice (Cass. n. 640/2019; Cass. n. 23851/2019), perché non ha riscontrato la presenza degli elementi normativi integranti la fattispecie della "discriminazione indiretta" a carico del Comune.
Invero, il comportamento pregiudizievole -la realizzazione e la mancata eliminazione delle barriere architettoniche- non è stato posto in essere dall'ente pubblico mediante l'adozione degli atti amministrativi in questione, intervenuti solo in epoca successiva alla costruzione e solo in parte annullati, e non risulta evidenziato lo svantaggio che sarebbe conseguito per il disabile a seguito dello specifico comportamento dell'ente, svantaggio che costituisce elemento costitutivo caratterizzante la fattispecie di cui alla L. n. 67 del 2006, art. 2: la disposizione in esame non risulta essere stata rettamente applicata con conseguente fondatezza del primo motivo.
5.4.- Piuttosto, la Corte di appello sembra avere ravvisato un concorso colposo del Comune nella condotta discriminatoria attuata, ben prima, da altri soggetti proprio mediante la realizzazione e la mancata eliminazione di barriere architettoniche, sul quale ha fondato la pronuncia per responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. per avere conferito "una veste di apparente legittimità alla condotta omissiva illecita posta in essere dalla suddetta società, favorendone la mancata cessazione e consentendo la protrazione dei suoi effetti lesivi".
Anche sotto questo profilo, la decisione è viziata.
Innanzi tutto, va osservato che non può condividersi il rilievo dato all'"apparente" legittimità di un comportamento o di una situazione perché la stessa legittimità di un comportamento o di una situazione non costituisce in sé ostacolo all'attuazione delle disposizioni immediatamente precettive della L. n. 67 del 2006 (cfr. Cass. n. 18762/2016; Cass. n. 3842/2021), come già ricordate prima.
Quindi, va ribadito che il riconoscimento del carattere discriminatorio di "una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri" in ogni caso "presuppone la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi e oggettivi dell'illecito aquiliano ai sensi dell'art. 2043 c.c., al quale va ricondotta la fattispecie prevista dalla L. n. 67 del 2006, art. 3, comma 3" (cfr. Cass. n. 18762/2016; Cass. n. 3691/2020).
Inoltre va considerato che, qualora, l'evento dannoso possa essere ipoteticamente ricondotto ad una pluralità di cause, vanno applicati i principi che regolano l'accertamento del nesso causale a fronte di domanda risarcitoria in tema di responsabilità civile aquiliana, secondo i quali il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano -ad una valutazione ex ante- del tutto inverosimili, con la precisazione che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (Cass. Sez. U. n. 576 del 11/01/2008), ciò perché "In tema di illecito aquiliano perché rilevi il nesso di causalità tra una condotta e l'evento lesivo deve ricorrere, secondo la combinazione dei principi della "condicio sine qua non" e della causalità efficiente, la duplice condizione che si tratti di una condotta antecedente necessaria dell'evento e che la stessa non sia poi neutralizzata dalla
sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento stesso
." (Cass. n. 23915 del 22/10/2013; cfr. Cass. n. 23197 del 27/09/2018), tenendo conto che "lo standard di cd. certezza probabilistica in materia civile non può essere ancorata esclusivamente alla cd. probabilità quantitativa della frequenza di un evento, che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato, secondo la cd. probabilità logica, nell'ambito degli elementi di conferma, e, nel contempo, nell'esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto." (Cass. n. 47 del 03/01/2017); pertanto, "il giudice di merito è tenuto, dapprima, a eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l'impredicabilità di un'aritmetica dei valori probatori), poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili e, infine, a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente" (cfr. Cass. n. 18584/2021; Cass. n. 19033/2021; Cass. n. 25884/2022).
Ne consegue che la seconda censura, assorbite le ulteriori questioni proposte nel motivo in merito alla quantificazione del danno, deve essere accolta perché la Corte di appello non ha fatto applicazione dei plurimi principi ricordati ed ha violato le disposizioni in tema di responsabilità aquiliana.

ATTI AMMINISTRATIVI: Come affermato in giurisprudenza, “i provvedimenti limitativi della circolazione stradale sono espressione di scelte ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede giurisdizionale se non per manifesta illogicità o irragionevolezza. La regolamentazione del traffico è una disciplina funzionale alla pluralità degli interessi pubblici meritevoli di tutela ed alle diverse esigenze, e sempre che queste rispondano a criteri di ragionevolezza il cui sindacato va compiuto dal giudice amministrativo, in ossequio al principio di separazione dei poteri ed alla tassatività dei casi di giurisdizione di merito, ab externo nei limiti della abnormità”.
---------------
I commi 2 e 5, art. 381, del regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada, adottato con d.P.R. n. 495/1992, disciplinano
   sia il rilascio dell’apposita autorizzazione in deroga per la circolazione e la sosta dei veicoli a servizio delle persone invalide con capacità di deambulazione sensibilmente ridotta, previo specifico accertamento sanitario (comma 2)
   - sia l’adeguamento della segnaletica stradale in maniera “personalizzata” consentendo «nei casi in cui ricorrono particolari condizioni di invalidità della persona interessata» di assegnargli con apposita ordinanza e a titolo gratuito «un adeguato spazio di sosta individuato da apposita segnaletica indicante gli estremi del “contrassegno invalidi” del soggetto autorizzato ad usufruirne» (comma 5).
Quanto allo spazio di sosta “personalizzato”, è stato affermato che “Presupposto di applicabilità della norma, infatti, è esclusivamente la mancanza di disponibilità di uno spazio di sosta privato accessibile, nonché utilizzabile, ovvero il fatto che l’istanza si riferisca ad una zona «ad alta densità di traffico», con riferimento alla quale è di agevole comprensione la compromissione della qualità della vita che rischia di rivenirne al soggetto affetto da difficoltà deambulatorie cui non si consenta un accesso agevolato ad esempio, al luogo di abitazione, dimora, ovvero di lavoro”.
---------------

5 - Va, poi, riscontrata l’infondatezza del gravame (rectius: del ricorso introduttivo) anche con riferimento alle censure incentrate sulla carenza istruttoria e sullo sviamento di potere da cui sarebbe affetta l’ordinanza n. -OMISSIS-.
5.1 - Come affermato in giurisprudenza, “i provvedimenti limitativi della circolazione stradale sono espressione di scelte ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede giurisdizionale se non per manifesta illogicità o irragionevolezza. La regolamentazione del traffico è una disciplina funzionale alla pluralità degli interessi pubblici meritevoli di tutela ed alle diverse esigenze, e sempre che queste rispondano a criteri di ragionevolezza il cui sindacato va compiuto dal giudice amministrativo, in ossequio al principio di separazione dei poteri ed alla tassatività dei casi di giurisdizione di merito, ab externo nei limiti della abnormità (Cons. Stato, sez. VI, 08.04.2022, n. 2599; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, n. 2031/2017; id., n. 2255/2015)” - Consiglio di Stato, sez. V, sent. 07/03/2023 n. 2366.
Nel caso in esame, si osserva che parte ricorrente non contesta che la misura adottata sia abnorme o irragionevole rispetto alla finalità di assicurare un più agevole accesso alle proprietà private pregiudicate da “soste non autorizzate” (secondo quanto emerso anche all’atto del sopralluogo del 19/11/2020 - all. 003: 04 prod. Comune del 18/05/2021).
Inoltre, la documentazione fotografica versata in atti rivela che –effettivamente– il divieto di sosta è funzionale ad un agevole accesso a (nonché ad un’agevole uscita da) la stradina adiacente la proprietà dei ricorrenti, cui sarebbe di oggettivo ostacolo la presenza di auto, anche tenuto conto della ridotta larghezza della sede stradale.
5.2 - Con riferimento, poi, all’avvenuta presentazione da parte della -OMISSIS- della richiesta di uno stallo di sosta “personalizzato”, si osserva quanto segue.
Ai sensi del comma 2 dell’art. 381 del regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada, adottato con d.P.R. n. 495/1992, come modificato dal d.P.R. 151/2012, “Per la circolazione e la sosta dei veicoli a servizio delle persone invalide con capacità di deambulazione impedita, o sensibilmente ridotta, il comune rilascia apposita autorizzazione in deroga, previo specifico accertamento sanitario. L'autorizzazione è resa nota mediante l'apposito contrassegno invalidi denominato: "contrassegno di parcheggio per disabili" conforme al modello previsto dalla raccomandazione n. 98/376/CE del Consiglio dell'Unione europea del 04.06.1998 di cui alla figura V.4.”.
Il successivo comma 5 dispone: “Nei casi in cui ricorrono particolari condizioni di invalidità della persona interessata, il comune può, con propria ordinanza, assegnare a titolo gratuito un adeguato spazio di sosta individuato da apposita segnaletica indicante gli estremi del "contrassegno di parcheggio per disabili" del soggetto autorizzato ad usufruirne (fig. II 79/a). Tale agevolazione, se l'interessato non ha disponibilità di uno spazio di sosta privato accessibile, nonché fruibile, può essere concessa nelle zone ad alta densità di traffico, dietro specifica richiesta da parte del detentore del "contrassegno di parcheggio per disabili”.
Orbene, “Tali disposizioni disciplinano, quindi, sia il rilascio dell’apposita autorizzazione in deroga per la circolazione e la sosta dei veicoli a servizio delle persone invalide con capacità di deambulazione sensibilmente ridotta, previo specifico accertamento sanitario (comma 2); sia l’adeguamento della segnaletica stradale in maniera “personalizzata” consentendo «nei casi in cui ricorrono particolari condizioni di invalidità della persona interessata» di assegnargli con apposita ordinanza e a titolo gratuito «un adeguato spazio di sosta individuato da apposita segnaletica indicante gli estremi del “contrassegno invalidi” del soggetto autorizzato ad usufruirne» (comma 5)” - Consiglio di Stato, sez. II, sent. 29/10/2020 n. 6630.
Quanto allo spazio di sosta “personalizzato”, è stato affermato che “Presupposto di applicabilità della norma, infatti, è esclusivamente la mancanza di disponibilità di uno spazio di sosta privato accessibile, nonché utilizzabile, ovvero il fatto che l’istanza si riferisca ad una zona «ad alta densità di traffico», con riferimento alla quale è di agevole comprensione la compromissione della qualità della vita che rischia di rivenirne al soggetto affetto da difficoltà deambulatorie cui non si consenta un accesso agevolato ad esempio, al luogo di abitazione, dimora, ovvero di lavoro” - Consiglio di Stato cit.
Tanto evidenziato, si osserva che parte ricorrente si è limitata a produrre in giudizio un modulo di richiesta di stallo di sosta personalizzato privo di sottoscrizione e neppure compilato, non corredato da documentazione atta a comprovare l’esistenza di tutte le condizioni cui la normativa subordina il riconoscimento della tutela aggiuntiva rappresentata dallo stallo “ad personam”; tale carenza non consente al Tribunale di apprezzare l’esistenza di quelle condizioni che (sole) avrebbero potuto indurre il Comune a contemperare in modo differente gli interessi coinvolti nella decisione amministrava per la quale è causa (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 05.06.2023 n. 3439 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La sostituzione dei componenti della commissione esaminatrice, in un pubblico concorso, è facoltativa nei confronti di chi ha perso lo "status" di dipendente, in base al quale era stato chiamato a far parte della stessa commissione, se ciò avviene quando la procedura concorsuale è ancora in atto […].
---------------

9. - L’accertata fondatezza dell’appello impone di esaminare i motivi del ricorso non esaminati dal primo giudice e qui riproposti ai sensi dell’art. 101, comma 2, del Codice del processo amministrativo.
9.1. - Con il primo, gli originari ricorrenti in primo grado deducono la violazione dell’art. 97 della Costituzione e del principio di tipicità e legalità degli atti amministrativi in quanto, nel corso della procedura, è venuto a cessare l'incarico di responsabile dell'area tecnica, attribuito al Sindaco del Comune di Siligo solo fino al 30.04.2019 (mentre la commissione esaminatrice risulta aver concluso i lavori in data 28.08.2019).
Per effetto della decadenza dall'incarico di un membro della commissione, gli atti di concorso adottati successivamente alla decadenza dovrebbero ritenersi viziati. Per analoghe ragioni, è impugnato anche l’art. 13 del regolamento sui concorsi del Comune di Siligo, nella parte in cui stabilisce che i commissari rimangono in carica anche nel caso in cui cessano dalla qualifica in base alla quale furono nominati.
9.1.2. Il motivo è infondato, dovendosi, nel caso di specie, fare applicazione della consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo la quale «la sostituzione dei componenti della commissione esaminatrice, in un pubblico concorso, è facoltativa nei confronti di chi ha perso lo "status" di dipendente, in base al quale era stato chiamato a far parte della stessa commissione, se ciò avviene quando la procedura concorsuale è ancora in atto […]» (cfr. V, 25.02.2004, n. 764; VI, 03.05.2011, n. 2601).
...
10. - L’appello, in conclusione, va accolto e, previa riforma della sentenza impugnata, ricorso in primo grado deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.04.2021 n. 3436 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

inizio home-page