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AGGIORNAMENTO AL 30.09.2024 (ore 23,59) |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L’edificio
abusivo va distrutto. La sua demolizione è un atto di ripristino. Non è una
pena. Una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo chiude
definitivamente la querelle.
L’ordine di demolizione di una costruzione illegale, previsto dalla legge
italiana, ha natura di ripristino e non punitiva. In sostanza, non è una
pena, ma il restauro della situazione ambientale precedente l’abuso.
Lo ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. I, con la
decisione
12.09.2024 n.
35780/18, pubblicata il 16.09.2024.
La vicenda.
Si tratta di un caso di un magazzino costruito senza permesso, come
confermato dai tribunali italiani. Per questo, il proprietario era stato
condannato e non poteva ragionevolmente fare affidamento sulla legalità
della costruzione.
La Corte, esaminando il quadro normativo nazionale sui permessi di
costruzione, la regolarizzazione e i condoni, e valutando il rapporto tra
regolamenti edilizi e procedimenti penali, osserva che l'ordine di
demolizione era stato emesso ai sensi dell'art. 7, comma 9, della legge n. 47
del 1985 (incorporato nell'art. 31, comma 9, del Testo Unico dell'Edilizia).
La sentenza
Testualmente, si legge: «(…) La Corte rileva che, secondo la pertinente
giurisprudenza interna (…), nell'ambito della risposta complessiva del
sistema interno alle violazioni edilizie, l'ordine di demolizione emesso con
una condanna è identico nell'oggetto e nella natura all'ordine di
demolizione emesso dall'autorità amministrativa, che ha il diritto di
ordinare la demolizione di costruzioni non autorizzate, indipendentemente
dal fatto che sia stato avviato o concluso un procedimento penale».
Infatti, lo scopo di un ordine di demolizione è proprio quello di
ripristinare il sito al suo stato precedente, e tali ordini, secondo la
Corte, non possono essere soggetti a prescrizione. Ciò é necessario per
garantire l'efficacia delle norme edilizie e dissuadere altri potenziali
trasgressori. E il tempo trascorso non può modificare questa conclusione.
La forza della pronuncia
La Corte sottolinea, inoltre, che un ordine di demolizione é mantenuto anche
se l'edificio non appartiene più all'autore del reato (ad esempio a enti
giuridici, successori o terzi). Evidenzia, ancora la Corte, che l'ordine di
demolizione viene mantenuto in caso di morte dell'autore del reato o di
estinzione del reato dopo la condanna, per ragioni diverse dalla concessione
di un permesso retroattivo o dall'amnistia.
Più precisamente: «A parere della Corte tali circostanze sono
sintomatiche della natura riparativa degli ordini di demolizione, che
sembrano volti a rimuovere le costruzioni abusive indipendentemente dalla
punizione dell'autore del reato, al fine di garantire il rispetto
dell'interesse pubblico all'ordinato utilizzo di terreno violato da
costruzioni abusive o illegali allo scopo di riportare il terreno alla sua
condizione originaria».
Nessuna scappatoia
E non rileva quanto il ricorrente lamenta e cioè che la demolizione del
magazzino costituirebbe un’ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di
proprietà ai sensi dell’articolo 1 del protocollo n. 1 alla Convenzione sui
Diritti dell’Uomo, che recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha
diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno potrà essere privato dei suoi
beni se non nell'interesse pubblico e alle condizioni previste dalla legge e
dai principi generali del diritto internazionale».
Infatti tali disposizioni: «(…) Non pregiudicano tuttavia in alcun modo
il diritto di uno Stato di applicare le leggi che ritiene necessarie per
controllare l'uso dei beni in conformità con l'interesse generale o per
garantire il pagamento di tasse o altri contributi o sanzioni»
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2024).
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DECISIONE
I
FATTI
1. Il
ricorrente, il signor Ce.Lo., è un cittadino italiano nato nel 1946 e
residente a Balestrate, Palermo. È stato rappresentato dinanzi alla Corte
dalla signora S. Sp., avvocato esercente a Palermo.
2. I
fatti del caso, come esposti dal ricorrente, possono essere riassunti come
segue.
-
La condanna del ricorrente per il reato di abuso edilizio e l'amnistia
edilizia concessa dal comune
3. Nel marzo 1995 gli ufficiali della polizia municipale di Partinico effettuarono un'ispezione
su un terreno di proprietà del ricorrente e constatarono che su di esso era
stato costruito un magazzino di 200 metri quadrati.
4. Successivamente
gli ufficiali hanno accertato che l'edificio era stato costruito senza
permesso di costruire.
5. Il
30.03.1995 il ricorrente ha presentato istanza di condono
edilizio ai
sensi dell'articolo 39 della legge 23.12.1994, n. 724 (vedi paragrafo 33
infra), dichiarando, tra l'altro, che la costruzione abusiva era stata
ultimata dopo il 15.03.1985, vale a dire tra novembre e dicembre 1993. Ha
presentato la documentazione pertinente e ha pagato l'oblazione come richiesto
dalla normativa pertinente (vedi paragrafi 30 e seguenti infra).
6. Il
03.10.1997 il pretore di Palermo, sezione distaccata
di Partinico,
ha dichiarato il ricorrente colpevole, tra
l'altro,
del reato di abuso edilizio di cui all'articolo 20, lettera b), della legge
28.02.1985, n. 47 (vedi
paragrafo 21 infra). Il pretore ha accertato che egli aveva edificato
il magazzino senza permesso di costruire e che, contrariamente a quanto
dichiarato ai fini dell'ottenimento del condono edilizio, la costruzione era
stata effettivamente ultimata dopo il 1993. Per tale motivo, egli non poteva
beneficiare del condono edilizio poiché, ai sensi della normativa pertinente
(vedi paragrafo 33 infra), tale misura poteva essere concessa solo se
l'abuso edilizio era stato ultimato prima del 31.12.1993 (vedi paragrafo 31
infra).
7. Il
giudice ha condannato il ricorrente a una pena complessiva sospesa di due
mesi di detenzione (arresto)
e a una multa (ammenda) di
8.000.000 di lire italiane (circa 4.130 euro). Inoltre, il giudice ha
ordinato la demolizione della costruzione abusiva ai sensi dell'articolo
7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23 di seguito).
8. Il
19.10.1998 il Comune di Partinico accolse il condono edilizio richiesto
dal ricorrente. In data imprecisata la costruzione venne trascritta nel
catasto.
9. Il
ricorrente ha proposto ricorso contro la sentenza di condanna pronunciata
dal giudice di Palermo, chiedendo l'estinzione del reato di abuso edilizio,
in quanto era stata concessa una sanatoria edilizia (cfr. paragrafi 29-33
infra).
10. L'08.03.1999
la Corte d'appello di Palermo ridusse l'importo della multa, ma confermò la
condanna del ricorrente e l'ordine di demolizione. La corte ritenne "irrilevante"
l'amnistia concessa dal comune, in quanto non sussistevano le condizioni
rilevanti richieste dalla legge (vedi paragrafo 33 infra).
Di conseguenza, il magazzino non poteva essere regolarizzato. La corte
stabilì inoltre che, in caso di condanna per il reato di edilizia abusiva ai
sensi dell'articolo 20(b) della legge n. 47 del 1985, il giudice era tenuto
a ordinare la demolizione della costruzione ai sensi dell'articolo 7(9) di
tale legge.
11. Il
30.01.2001, su richiesta del ricorrente, il comune di Partinico ha
rilasciato un certificato di agibilità (cfr. paragrafo 34 infra)
per il magazzino. Il ricorrente utilizzava il magazzino nell'ambito di
attività agricole.
12. In
una data non specificata, la condanna del ricorrente divenne definitiva.
-
Esecuzione dell'ordine di demolizione e procedimento di revisione (incidente
di esecuzione )
13. Il
25.11.2015 il sostituto procuratore
generale presso
la Corte d'appello di Palermo ha notificato al ricorrente un'ingiunzione a demolire emessa
dalla Corte d'appello di Palermo l'08.03.1999. In particolare, gli è stato
intimato di demolire il magazzino abusivo entro novanta giorni. Il pubblico
ministero lo ha inoltre avvisato che, se non si fosse conformato
volontariamente, le autorità avrebbero eseguito l'ingiunzione a sue spese.
14. Il
24.02.2016 gli ufficiali della polizia municipale effettuarono
un'ulteriore ispezione del terreno del ricorrente e constatarono che la
costruzione non era stata demolita.
15. Il
22.06.2016 il ricorrente ha depositato presso la Corte d'appello di
Palermo una richiesta di
revisione dell'ordinanza esecutiva.
Basandosi su una sentenza del Tribunale
di Asti del 03.11.2014 che affermava la natura "penale" degli ordini di
demolizione (vedi paragrafo 53 infra), ha chiesto al tribunale di
sospendere l'esecuzione dell'ordinanza di demolizione. Ha sostenuto che
erano trascorsi più di dieci anni dalla sua condanna e che l'ordinanza di
demolizione, che poteva essere considerata una pena, era pertanto prescritta
ai sensi dell'articolo 173 del codice penale (vedi paragrafo 38 infra).
Sottolineando che l'ordinanza di demolizione era stata eseguita sedici anni
dopo la sua emissione e che nel frattempo il comune aveva concesso un
condono edilizio, il ricorrente ha sostenuto che non vi era più un interesse
pubblico nella demolizione e che le azioni del comune erano state incoerenti
con la sentenza (in particolare il rilascio di un certificato di agibilità,
vedi paragrafo 11 sopra).
16. Il
30.08.2016 la Corte d'appello di Palermo, in qualità di
giudice dell'esecuzione, ha rigettato la domanda del ricorrente.
La Corte ha
innanzitutto ribadito che il condono edilizio non avrebbe potuto essere
concesso in assenza dei presupposti richiesti dalla legge. In secondo luogo,
richiamando una sentenza della Corte di cassazione (n. 49331 del 2015, v. infra,
paragrafi 44 e ss.), ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione, più che una
sanzione, costituisse una misura riparatoria volta a riportare il sito o la
costruzione alle condizioni precedenti. In quanto tale, essa usciva
dall'ambito di applicazione dell'articolo 7 della Convenzione e, di
conseguenza, dal termine di prescrizione di cui all'articolo 173 del codice
penale.
Infine, la Corte d'appello ha osservato che il certificato di
agibilità, in considerazione della sua diversa funzione (v. infra,
paragrafo 34), era irrilevante rispetto alla normativa edilizia o
urbanistica.
17. Il
ricorrente ha proposto ricorso per cassazione, ribadendo le sue
argomentazioni e aggiungendo che la Corte d'appello non aveva ritenuto che
il lungo lasso di tempo trascorso dalla sua condanna, unitamente alla
condotta del comune, avesse fatto sorgere un legittimo affidamento sulla
legittimità del magazzino, che doveva essere soppesato con l'assenza di un
attuale interesse pubblico alla sua demolizione.
18. Con
ordinanza n. 2781 del 20.01.2017, depositata in cancelleria il 23.01.2018,
la Corte di cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso del ricorrente,
accogliendo la motivazione del giudice di merito e affermando che la
sentenza di abuso edilizio era divenuta definitiva, nonostante l'amnistia
concessa dal Comune.
19. Al
momento in cui il ricorso è stato depositato presso la Corte, il magazzino
non era ancora stato demolito. Il ricorrente sembra aver continuato a utilizzarlo
in relazione ad attività agricole. Ad oggi, non ha informato la Corte di
eventuali cambiamenti nella situazione.
QUADRO GIURIDICO E PRASSI RILEVANTI
-
Quadro giuridico rilevante
-
Considerazioni preliminari
20. All'epoca
dei fatti, il quadro legislativo italiano rilevante era costituito
principalmente dalle disposizioni della legge n. 47 del 28.02.1985 (Norme
in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni,
recupero e sanatoria delle opere edilizie ).
Il decreto presidenziale n. 380 del 06.06.2001 (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia –
“Testo unico delle leggi edilizie”) ha codificato le disposizioni
esistenti in materia di urbanistica e regolamentazione edilizia, tra cui la
maggior parte delle disposizioni della legge n.
47 del 1985 (vedi GIEMSrl
e altri contro Italia (merito)
[GC], nn. 1828/06 e
altri 2, § 105, 28.06.2018).
Per la maggior parte, le
disposizioni rilevanti della legge n. 47 del 1985 sono state incorporate nel
Testo unico delle leggi edilizie senza modifiche; qualora siano state
apportate modifiche, queste sono indicate nelle note a piè di pagina dei
relativi articoli.
-
Legge 28.02.1985, n. 47 e Testo Unico delle Leggi sull'Edilizia (D.P.R.
06.06.2001, n. 380)
21. L'articolo
4 della legge n. 47 del 1985, nelle parti pertinenti recepito con lieve
modifica nell'articolo 27
del Testo Unico delle Costruzioni [1],
ha designato il sindaco quale autorità incaricata di vigilare sulle attività
urbanistiche ed edilizie nel territorio comunale per garantirne la
conformità alle leggi e ai regolamenti, alle disposizioni degli strumenti
urbanistici e alle modalità di costruzione stabilite nei permessi di
costruire.
22. Le
parti rilevanti dell'articolo 7 della legge n. 47 del 1985, recepite senza
modifiche nell'articolo 31 del Testo Unico delle Costruzioni [2],
disponendo quanto segue:
“1. Sono
considerati interventi edilizi eseguiti in violazione del permesso di
costruire quelli che comportano la realizzazione di un fabbricato totalmente
diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di destinazione
d'uso da quello oggetto del permesso stesso, ovvero la realizzazione di
volumi edificabili eccedenti i limiti indicati nel progetto e che
costituiscano un fabbricato o parte di esso separatamente individuabile ed
utilizzabile.
2. Il
sindaco, accertato l'esecuzione di lavori edilizi senza permesso di
costruire, in violazione dell'autorizzazione o con variazioni
essenziali da quanto previsto
dal permesso, ne ordina la demolizione.
3. Se
il responsabile della costruzione abusiva non procede alla demolizione o al
ripristino del sito entro novanta giorni dal provvedimento di demolizione,
la costruzione e l'area di
sedime ...
sono acquisite senza indennizzo dal comune ...
4. La
mancata ottemperanza all'ordine di demolizione entro il termine stabilito
nel comma precedente costituisce motivo di presa di possesso [dell'immobile]
e di trascrizione nel registro
immobiliare, che deve essere effettuata gratuitamente.
5. Il
sindaco ordina la demolizione dell'opera edilizia incorporata a spese del
responsabile, a meno che una deliberazione del consiglio comunale non
dichiari l'esistenza di un prevalente interesse pubblico e sempre che
l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali.
...
8. Se
[il sindaco] non provvede ... il capo della Giunta
regionale ...
adotta i provvedimenti richiesti, dandone contestuale comunicazione
all'autorità giudiziaria competente per l'esercizio dell'azione penale.
...”
23. La
parte rilevante dell'articolo
7(9) della legge n. 47 del 1985, che è stata incorporata senza modifiche
nell'articolo 31 § 9 del Testo Unico sull'edilizia, prevedeva quanto segue:
“In
caso di condanna per il reato di cui all'articolo 20 della presente legge
relativamente all'opera abusiva di cui al presente articolo, il giudice
ordina la demolizione dell'opera se non è stata ancora eseguita
diversamente.”
24. L'articolo
17 della legge n. 47 del 1985, convertito senza modifiche nell'articolo 46
del Testo Unico dell'edilizia, nelle parti rilevanti prevedeva che i
contratti di compravendita aventi ad oggetto edifici o parti di edifici
realizzati dopo il 17.03.1985
erano nulli se non menzionavano gli estremi del relativo permesso di
costruire o del condono.
25. L'articolo
20, lettera b), della legge n. 47 del 1985, convertito senza modifiche
nell'articolo 44, lettera b), del Testo unico dell'edilizia, prevedeva la
punizione per chi eseguiva lavori edilizi senza o in violazione del permesso
di costruire con l'arresto fino a due mesi e con
la multa da lire 10.000.000 (5.164 euro) a lire 100.000.000 (51.645 euro).
-
Regolarizzazione abusivismo edilizio
26. In
base al diritto interno, l'abusivismo edilizio può essere regolarizzato
mediante il rilascio di un permesso /concessione
in sanatoria o
di un condono edilizio .
27. Il
rilascio dell'autorizzazione retroattiva è disciplinato dall'articolo 36 del
Testo Unico delle Costruzioni, che recepisce, con modificazioni [3],
articolo 13 della legge n. 47 del 1985, vigente all'epoca dei fatti.
28. L'autorizzazione
retroattiva è concessa per sanare le violazioni “formali”, vale a
dire i lavori edili che, pur essendo realizzati in assenza o in violazione
del permesso di costruire, sono conformi alle norme edilizie vigenti al
momento della costruzione e al momento della presentazione della domanda di doppia
conformità.
29. Ai
sensi dell'articolo 22(1) della legge n. 47 del 1985, recepito con
modificazioni nell'articolo 45 del Testo Unico sull'edilizia, la
prosecuzione dei reati edilizi è sospesa fino al completamento delle
procedure di regolarizzazione. Ai sensi dell'articolo 22(3) della legge n.
47 del 1985, il rilascio dell'autorizzazione retroattiva estingue le contravvenzioni previste
dalle norme urbanistiche applicabili.
30. I
condoni edilizi sono
misure di natura eccezionale introdotte da specifiche leggi nazionali. A
differenza dell'autorizzazione retroattiva, la concessione del condono non è
subordinata alla conformità dell'opera edilizia alle norme in materia e può
pertanto essere concessa per regolarizzare violazioni "sostanziali",
purché siano rispettate le condizioni stabilite dalla legge di condono
pertinente e venga versata una tassa di condono (oblazione ).
Inoltre, i condoni edilizi sono misure temporanee in quanto si applicano
solo alle opere edili completate prima di una certa data.
31. La
prima sanatoria edilizia fu introdotta dall'articolo 31 della legge n. 47
del 1985, che prevedeva che i proprietari di opere edilizie realizzate senza
o in violazione di un permesso di costruire potessero presentare domanda di
sanatoria a condizione, tra l'altro, che i lavori fossero stati ultimati
prima di una certa data (01.10.1983).
32. L'articolo
38(2) della legge n. 47 del 1985 prevedeva che il reato di costruzione abusiva
punibile ai sensi dell'articolo 20 della legge e qualsiasi altro reato
connesso fosse estinto (vedere paragrafo 21 sopra) a condizione che la
richiesta di amnistia ai sensi dell'articolo 31 della legge fosse
presentata entro il termine perentorio e che fosse pagata la relativa tassa.
33. La
seconda amnistia edilizia [4] è
stato introdotto dall'art. 39 della legge 23.12.1994,
n. 724, che ha stabilito le condizioni alle quali le costruzioni abusive
completate prima del 31.12.1993 potevano beneficiare di una sanatoria. Se
tali condizioni fossero state soddisfatte, si sarebbero potute applicare le
disposizioni degli artt. 31 e seguenti della legge n. 47 del 1985, e la
sanatoria avrebbe avuto i medesimi effetti (tra cui l'estinzione dei reati
edilizi).
-
Certificate of fitness for use (certificato
di agibilità)
34. Ai
sensi dell'articolo 220 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265 [5] e
l'articolo 107 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Testo unico degli
enti locali), i governatori dei comuni possono rilasciare certificati di
agibilità per gli edifici ad uso non residenziale, a condizione che siano
rispettate le relative condizioni di sicurezza degli edifici.
-
Revisione di un ordine di esecuzione
35. L'articolo
665 del codice di procedura penale contiene disposizioni relative alle
funzioni del giudice
dell'esecuzione .
36 . Ai
sensi dell'articolo 666 § 1 del codice di procedura penale, che disciplina
il procedimento in questione (incidente
di esecuzione ),
il giudice dell'esecuzione agisce su richiesta del pubblico ministero,
dell'interessato o del suo rappresentante.
37. La
validità o l'esecutività di una condanna possono essere contestate mediante
opposizione all'esecuzione ai sensi dell'articolo 670 § 1 del codice di
procedura penale (“Questioni sul
titolo esecutivo” ).
Se l'opposizione è accolta, il giudice dell'esecuzione sospende l'esecuzione
della sentenza e ordina i successivi provvedimenti necessari.
-
Altre disposizioni nazionali rilevanti
38 . Le
parti rilevanti dell'articolo 173 del codice penale (“Estinzione delle
pene dell'arresto e dell'ammenda per decorso del tempo”) recitano
come segue:
“1. Le
pene dell’arresto e dell’ammenda si estinguono
dopo un periodo di cinque anni .
2. Se
alla sanzione pecuniaria si aggiunge la detenzione, ai fini dell'estinzione
di entrambe le pene si terrà conto solo della scadenza del termine stabilito
per la detenzione.
3. Il
punto di partenza è determinato ai sensi dell'[articolo 172 § 3].”
39. Ai
sensi dell'articolo 172 § 3 del codice penale, il termine di prescrizione
inizia a decorrere dalla data in cui la condanna è divenuta definitiva o
dalla data in cui il condannato è evaso dalla pena dopo la sua esecuzione.
-
Pratica nazionale rilevante
-
Giurisprudenza della Corte Costituzionale
40. Con
ordinanza n. 33 del 18.01.1990, la Corte costituzionale si è pronunciata
sulla legittimità costituzionale dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del
1985 nella parte in cui richiedeva l'emissione di un ordine
di demolizione nell'ambito di un procedimento penale quando l'ordine di
demolizione non era ancora stato eseguito con ordine del comune (vedi
paragrafo 23 sopra). Sebbene la Corte abbia ritenuto la questione
manifestamente infondata, ha ritenuto che l'ordine di demolizione fosse un
provvedimento amministrativo emesso dal giudice in sostituzione
dell'amministrazione locale quando quest'ultima non vi aveva provveduto.
41. Con
ordinanza n. 56 del 09.03.1998, la Corte costituzionale ha ribadito che
l'ordinanza di demolizione emessa dal giudice penale con condanna per il
reato di
abusivismo edilizio ha una «funzione integrativa» nell'assicurare
l'efficacia delle sanzioni amministrative non ancora eseguite dall'autorità
amministrativa, e che si tratta di una sanzione amministrativa e non di una
pena accessoria o di una sanzione penale atipica, secondo la consolidata
giurisprudenza delle sezioni penali della Corte di cassazione.
A tale
riguardo, la Corte costituzionale ha inoltre ritenuto che l'ordinanza di
demolizione dovesse essere revocata qualora risultasse incompatibile con una
diversa decisione adottata dall'amministrazione; a tal fine, essa poteva
essere riesaminata in sede esecutiva (cfr. infra, paragrafo 48).
-
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
(a) Giurisprudenza
delle sezioni penali della Corte di Cassazione
42. La
Corte plenaria di Cassazione, nella sentenza n. 15 del 24.07.1996,
ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione emessa dal giudice ai sensi
dell'art. 7, comma 9, della legge n. 47 del 1985 (cfr . supra,
paragrafo 23) avesse una finalità risarcitoria direttamente collegata
all'esigenza di estirpare le conseguenze del reato di abuso edilizio. Ha poi
precisato che l'ordinanza di demolizione, pur essendo un provvedimento
amministrativo, faceva anche parte della pena. Pertanto, quando faceva parte
di una pena penale, l'esecuzione era affidata al pubblico ministero, che
poteva presentare richiesta al giudice dell'esecuzione.
43 . In
proposito, la Corte di Cassazione (anche nelle sentenze n. 8409 del
28.02.2007; n. 37836 del 28.07.2017 e
10.10.2022 n. 38104) ha ritenuto
che l'ordinanza di demolizione può essere pronunciata dal giudice solo in
caso di condanna, mentre
non può essere emessa in caso di archiviazione del procedimento per
prescrizione del reato. In ogni caso, l'amministrazione comunale resta
libera di adottare i provvedimenti opportuni nell'ambito del suo compito di
garantire la conformità degli interventi edilizi alle norme edilizie (ai
sensi degli articoli 4 e 7 della legge n. 47 del 1985, recepiti negli
articoli 27 e 31 del Testo Unico delle Costruzioni, v. paragrafi 21 e 22
sopra).
44. Con
sentenza n. 49332 del 15.12.2015, nota come sentenza Delorier,
la Corte di cassazione ha annullato la sentenza del
tribunale di Asti del 03.11.2014 (cfr. paragrafi 15 supra e 53
infra), con cui tale tribunale aveva ritenuto che gli ordini di
demolizione costituivano una sanzione penale ai sensi dell'articolo 6 § 1 e
dell'articolo 7 della Convenzione e, in quanto tali, rientravano nell'ambito
di applicazione dell'articolo 173 del codice penale, che prevedeva la
prescrizione delle pene qualificate come penali nel diritto interno (cfr.
paragrafo 38 supra).
45. La
Corte di cassazione ha esaminato in dettaglio le disposizioni di legge che
disciplinano gli ordini
di demolizione, anche alla luce della giurisprudenza pertinente della
Corte (in particolare Engel
e altri c. Paesi Bassi,
08.06.1976, serie A n. 22, e Öztürk
c. Germania,
21.02.1984, serie A n. 73).
Ha osservato che la demolizione era una risposta obbligatoria alle
violazioni più gravi delle norme edilizie; una volta accertato che era stata
realizzata una costruzione abusiva, la demolizione doveva essere eseguita
nei confronti di qualsiasi soggetto connesso alla costruzione (in
rem),
indipendentemente dalla responsabilità personale del suo proprietario e
dall'avvio di un procedimento penale nei suoi confronti; di conseguenza,
poteva essere eseguita anche nei confronti di persone giuridiche e aventi
causa del responsabile della costruzione.
Inoltre, un ordine di demolizione aveva la stessa natura, indipendentemente
dall'autorità che lo emetteva, il comune o il giudice a seguito di una
condanna; entrambi potevano emettere tali ordini in modo indipendente,
poiché il coordinamento era garantito nella fase di esecuzione (vedere
paragrafi 22-23 sopra).
46. Per
tali motivi, la Corte di cassazione ha concluso che i provvedimenti di
demolizione costituiscono una misura di natura reale e
di carattere ripristinatorio,
volta a riportare un sito alle sue condizioni originarie; essi non
costituiscono pertanto una sanzione e non sono soggetti a prescrizione.
47. Nella
sentenza n. 41475 del 04.10.2016, la Corte di cassazione ha ribadito le
proprie conclusioni sulla qualificazione degli ordini di demolizione come
misura riparatoria, sottolineando che la normativa rilevante (vale a dire
l'art. 7(9) della legge n. 47 del 1985, recepito nell'art. 31 § 9 del Testo
unico sull'edilizia, vedi paragrafo 23 che precede) imponeva al giudice di
emettere un ordine di demolizione se non era già stato eseguito altrimenti,
vale a dire dal comune.
A parere della Corte di cassazione, ciò ha confermato l'identità di tali
ordini, che conservavano la loro natura riparatoria anche quando erano
disposti a seguito di una condanna per il reato di abuso edilizio (vedi
paragrafo 21 che precede).
48 . La
Corte di Cassazione ha costantemente osservato che, mentre il giudice ha il
diritto di accertare autonomamente gli elementi costitutivi del reato di
abusivismo edilizio (che può comportare una valutazione di legittimità del
permesso di costruire, del nulla osta retroattivo o dell'amnistia concessi
dall'amministrazione), la demolizione non può essere ordinata o mantenuta
quando è incompatibile con i provvedimenti adottati dall'amministrazione.
In tal caso, anche dopo che la condanna sia passata in giudicato,
l'ordinanza può essere revocata mediante richiesta di revisione del
provvedimento esecutivo (cfr., tra
le altre,
le sentenze della Corte di Cassazione n. 47402 del 18.11.2014; n. 42699 del
07.07.2015; e
10.12.2018 n. 55028, v. paragrafo 36 sopra).
Inoltre, l'esecuzione di un ordine di demolizione può essere sospesa, a
determinate condizioni, se è stata presentata all'amministrazione una
richiesta di autorizzazione retroattiva o di amnistia dopo la condanna
(vedere, tra le altre, le sentenze della Corte di Cassazione n. 16686 del
20.04.2009 e n. 35201 del 22.08.2016).
Pertanto, il coordinamento tra giurisdizione penale e autorità
amministrativa è sempre assicurato nella fase esecutiva e il giudice
dell'esecuzione è chiamato a valutare la compatibilità dell'ordine di
demolizione con le decisioni dell'amministrazione, al fine di stabilire se e
con quali mezzi l'ordine possa essere eseguito (vedere, tra
le altre,
la sentenza della Corte di Cassazione n. 702 del 14.02.2000).
49 . Inoltre,
la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che l'ordinanza di
demolizione prevista dall'art. 7(9) della legge n. 47 del 1985 (cfr.
paragrafo 23 che precede), essendo misura riparativa reale identica
per oggetto e natura ad un ordine di demolizione emesso da un'autorità
amministrativa, sopravvive all'estinzione del reato (per cause diverse dal
rilascio del nulla osta retroattivo o dall'amnistia, cfr. paragrafi 29 e 32
che precede) di abusivismo edilizio, nonché alla morte del condannato,
poiché riguarda esclusivamente l'esistenza di abusivismo edilizio ed è
diretta contro il bene e non contro la persona (in
rem )
(cfr., tra
le altre,
sentenze della Corte di Cassazione n. 2674 del 18.09.2000; n. 7228 del
25.02.2011; n. 18533 dell'11.05.2011; e n. 41475 del 04.10.2016).
50. In
altri termini, secondo la Corte di Cassazione, l'ordinanza di demolizione,
sia essa emanata
dai giudici di giurisdizione penale o dall'autorità amministrativa, ha come
finalità la rimozione di edifici abusivi e abusivi (vale a dire, di edifici
realizzati senza autorizzazione o avvalendosi di un'autorizzazione
che gli stessi giudici di giurisdizione penale, nella loro autonoma
valutazione, ritengono invalida; v. par. 48 che precede), autonoma rispetto
alla punizione dell'autore del reato, in quanto risponde all'interesse
pubblico all'uso ordinato del suolo (v. sentenza della Corte di Cassazione
n. 51044 del 03.10.2019).
51. A
seguito della citata sentenza Delorier,
la giurisprudenza della Corte di cassazione è stata costante e ormai
consolidata nel respingere l'applicazione della prescrizione delle pene
all'ordinanza di demolizione, data la sua natura riparatoria (cfr., tra
le altre,
sentenze della Corte di cassazione n. 9949 del 20.01.2016; n. 35052 del
10.03.2016; n. 51044 del 09.11.2018; n. 11916 del 21.11.2018; n. 3979 del
28.01.2019; e n. 21198 del 18.05.2023).
(b) Giurisprudenza
delle Sezioni civili della Corte di Cassazione
52. Con
sentenza
22.03.2019 n. 8230, la Corte plenaria di Cassazione è
intervenuta sulla questione, ampiamente dibattuta nella giurisprudenza
interna, della validità dei contratti di compravendita relativi a
costruzioni abusive.
La Corte ha affermato che, ai sensi della normativa interna in materia (v.
supra, paragrafo 24), tale validità non è subordinata alla conformità
della costruzione al permesso di costruire, ma solo all’esplicita menzione
del permesso di costruire o della sanatoria nell’atto notarile di
trasferimento inter vivos del titolo.
Secondo la
Corte di Cassazione, tale requisito costituisce solo uno degli strumenti
scelti dal legislatore per contrastare la proliferazione di costruzioni
abusive, atteso che l’interesse pubblico all’uso ordinato e sicuro del suolo
nel rispetto delle norme edilizie è soddisfatto dalle altre misure previste
in ambito amministrativo e penale e, nei casi più gravi, dalla misura
riparatoria della demolizione.
-
Altre pratiche nazionali rilevanti
53. Con
sentenza del 03.11.2014, il Tribunale di Asti, in qualità di giudice
dell'esecuzione, ha accolto un'opposizione avverso l'esecuzione di un ordine
di demolizione emesso a seguito di una condanna per il reato di edilizia
abusiva.
Il tribunale ha confermato che gli ordini di demolizione, nonostante la loro
qualificazione nel diritto interno come misura riparatoria sulla base dei
criteri stabiliti nella sentenza Engel e
altri (citata
sopra), costituivano una pena ai sensi della Convenzione a causa del loro
scopo repressivo, della loro severità e della loro connessione con un reato
penale.
Pertanto, secondo il tribunale, gli ordini di demolizione
rientravano nell'ambito di applicazione della normativa sull'estinzione
delle pene, incluso l'articolo 173 del codice penale sulla prescrizione
(vedere paragrafo 38 sopra).
54. Tale
decisione è stata poi annullata dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 49332
del 15.12.2015, nota come sentenza Delorier,
v. paragrafi 44 e ss. sopra).
RECLAMI
55. Invocando
l'articolo 7 della Convenzione, il ricorrente lamentava la violazione del
principio di legalità, poiché l'ordine di demolizione del suo magazzino, che
a suo avviso equivaleva a una sanzione, non poteva essere eseguito dopo la
scadenza del termine di prescrizione rilevante.
56. Ai
sensi dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, egli si è lamentato del fatto
che il tribunale interno abbia qualificato l'ordinanza di demolizione come
misura riparatrice anziché come sanzione.
57. Infine,
ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, egli ha
sostenuto che l'esecuzione dell'ordine di demolizione avrebbe costituito
un'ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di proprietà.
LA
LEGGE
-
Presunta violazione dell'articolo 7 della Convenzione
58. Il
ricorrente ha sostenuto che,
alla luce dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, i giudici
nazionali avrebbero dovuto concludere che l'ordine di demolizione previsto
dall'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23 sopra)
equivaleva a una sanzione. A suo avviso, la loro omissione aveva comportato
una violazione del principio di legalità –in quanto impediva l'applicazione
dell'articolo 173 del Codice penale relativo all'estinzione delle pene per
decorso del tempo (vedere paragrafo 38 sopra)– e del principio di
proporzionalità delle pene. Egli si è basato sull'articolo 7 della
Convenzione, che recita come segue:
“1.
Nessuno può essere ritenuto colpevole di alcun reato penale per un atto o
un’omissione che non costituisse reato ai sensi del diritto nazionale o
internazionale al momento in cui è stato commesso. Né può essere imposta una
pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato
commesso.”
59. Il
ricorrente ha sottolineato che l'ordinanza di demolizione in questione è
stata emessa a seguito di
una condanna per il reato penale di costruzione abusiva, che non poteva
essere mantenuta se tale reato fosse stato dichiarato prescritto (vedere
paragrafo 43 sopra) e, per quanto riguarda la sua gravità, che comportava
una radicale privazione di proprietà. Egli si è basato, in particolare,
sulle conclusioni della Corte nella causa Hamer
c. Belgio,
n. 21861/03,
§ 60, CEDU 2007 ‑ V (estratti).
60. La
Corte ribadisce che il concetto di “punizione” o “pena” come
stabilito dall’articolo 7 § 1 della Convenzione ha una portata autonoma.
Per rendere effettiva la protezione offerta da questa disposizione, la Corte
deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare autonomamente
se una particolare misura costituisca in sostanza una “pena” ai sensi
di questa disposizione (vedi Welch
c. Regno Unito,
09.02.1995, § 27, serie A n. 307 ‑ A; Del
Río Prada c. Spagna [GC],
n. 42750/09,
§ 81, CEDU 2013; e GIEMSrl
e altri c. Italia (merito)
[GC], nn. 1828/06 e
altri 2, § 210, 28.06.2018).
La formulazione della seconda frase dell'articolo 7 § 1 indica che il punto
di partenza in qualsiasi valutazione dell'esistenza di una sanzione è se la
misura in questione sia imposta a seguito di una condanna per un "reato
penale". Altri fattori che possono essere presi in considerazione come
rilevanti a questo proposito sono la natura e lo scopo della misura in
questione; la sua caratterizzazione ai sensi del diritto nazionale; le
procedure coinvolte nell'elaborazione e nell'attuazione della misura; e la
sua severità (vedi Welch,
§ 28; Del
Río Prada,
§ 82; e GIEMSrl
e altri (meriti),
§ 211, tutti citati sopra).
Tuttavia, la severità della misura non è di per sé decisiva, poiché molte
misure non penali di natura preventiva possono avere un impatto sostanziale
sulla persona interessata (vedi Del
Río Prada,
cit., § 82, e i riferimenti ivi contenuti, e Rola
c. Slovenia, nn. 12096/14 e 39335/16,
§ 66, 04.06.2019).
61. La
Corte osserva di aver generalmente ritenuto che l'esistenza di una condanna
per un reato penale fosse solo uno dei criteri da prendere in considerazione
(vedi Saliba
c. Malta (dec.),
n. 4251/02,
23.11.2004, e Berland
c. Francia,
n. 42875/10,
§ 42, 03.09.2015), e che non potesse essere ritenuta decisiva
per stabilire la natura della misura (vedi Valico
Srl c. Italia (dec.),
n. 70074/01,
CEDU 2006 ‑ III, e Balsamo
c. San Marino,
nn. 20319/17 e 21414/17,
§ 60, 08.10.2019).
La Corte ha raramente considerato questo fattore come decisivo per
dichiarare l'inapplicabilità dell'articolo 7 (vedi Yildirim
c. Italia (dec.),
n. 38602/02,
CEDU 2003 ‑ IV, e Bowler
International Unit c. Francia,
n. 1946/06,
§ 67, 23.07.2009).
62. Passando
al caso di specie, la Corte rileva anzitutto che al ricorrente è stato
ordinato di demolire il suo magazzino ai sensi dell'articolo 7 (9)
della legge n. 47 del 1985 (recepito nell'articolo 31 § 9 del Testo Unico
sull'edilizia), che autorizza il giudice penale ad emettere tale ordine in
caso di condanna per il
reato di edilizia abusiva (vedere paragrafo 23 sopra).
Poiché la demolizione non può essere ordinata quando il reato è prescritto,
poiché richiede una “condanna” (vedere paragrafo 43 sopra), la Corte
ritiene che vi sia, in effetti, un nesso tra la misura in questione e la
commissione di un reato (vedere, nel contesto dell’articolo 6 § 1 della
Convenzione, Hamer,
sopra citato, § 54; vedere anche, mutatis
mutandis, Ulemek
c. Serbia (dec.),
n. 41680/13,
§ 48, 02.02.2021).
Allo stesso tempo, la Corte rileva che, secondo la pertinente giurisprudenza
interna (vedere paragrafo 43 sopra), nell'ambito della risposta complessiva
del sistema interno alle violazioni edilizie (vedere paragrafo 41
sopra), l'ordine di demolizione emesso a seguito di una condanna è identico
per oggetto e natura all'ordine di demolizione emesso dall'autorità
amministrativa, che ha il diritto di ordinare la demolizione di costruzioni
abusive, indipendentemente dal fatto che sia stato avviato o concluso un
procedimento penale (vedere paragrafi 22 e 43 sopra).
63. Poiché
l'irrogazione della misura impugnata a seguito di condanna per un reato non
è di per sé decisiva per stabilire la natura della misura (vedi GIEMSrl
e altri (merito),
§ 215, e Balsamo,
§ 60, entrambe citate sopra), la Corte esaminerà gli altri criteri rilevanti
(vedi paragrafo 61 sopra).
64. Per
quanto riguarda la qualificazione degli ordini di demolizione ai sensi del
diritto nazionale, la Corte riconosce che, diversamente dalla causa Hamer (citata
sopra) invocata dal ricorrente, la classificazione di tali ordini come
misura riparatoria è unanime tra i giudici nazionali, che sono giunti a tale
conclusione alla luce dei criteri elaborati nella giurisprudenza della Corte
(vedere paragrafi 46-50 sopra e confrontare il paragrafo 53 sopra;
confrontare e contrapporre Hamer,
§ 57, e GIEMSrl
e altri (merito),
§§ 121 e 223, entrambi citati sopra).
65 . Quanto
alla natura e allo scopo degli ordini di demolizione, la Corte ritiene che
la misura sia chiaramente volta a ripristinare un sito alle sue condizioni
originali, rendendo i lavori di costruzione conformi alle norme
edilizie, indipendentemente dal fatto che venga imposta una sanzione anche
nei confronti di coloro che sono accusati del reato di costruzione abusiva.
A questo proposito, essa attribuisce innanzitutto importanza al fatto che la
demolizione, essendo una misura in
rem,
è ordinata anche se l'edificio non appartiene all'autore del reato (ad
esempio a persone giuridiche, successori in proprietà o terzi, vedere
paragrafo 45 sopra).
In secondo luogo, essa rileva che, secondo la prassi nazionale, un ordine di
demolizione è mantenuto in caso di morte dell'autore o di estinzione del
reato dopo la condanna, per motivi diversi dalla concessione di un permesso
retroattivo o di un'amnistia (vedere paragrafo 49 sopra).
La Corte ritiene che tali circostanze siano sintomatiche della natura
riparatoria degli ordini di demolizione, che sembrano concepiti per
rimuovere le costruzioni abusive indipendentemente dalla punizione
dell'autore del reato, al fine di garantire il rispetto dell'interesse
pubblico all'uso ordinato del suolo violato da edifici abusivi o illegali
mediante il ripristino del suolo alle sue condizioni originarie (vedere Saliba e, mutatis
mutandis, Ulemek,
§ 53, entrambi citati sopra; confrontare The
J. Paul Getty Trust e altri contro Italia,
n. 35271/19,
§ 314, 02.05.2024; confrontare e contrapporre Valico
Srl e GIEMSrl
e altri (merito),
§ 224, entrambi citati sopra).
66. Quanto
alle procedure di adozione e di esecuzione degli ordini di demolizione, la
Corte ha già rilevato che l'ordine di demolizione contestato è stato emesso
dai giudici di giurisdizione penale. Tuttavia, ha ripetutamente affermato
che ciò non può essere di per sé decisivo, poiché è una caratteristica
comune di diversi ordinamenti giuridici nazionali che i giudici penali
adottino decisioni di natura non punitiva, come, ad esempio, misure di
riparazione civile per la vittima del fatto criminoso (vedi Balsamo,
cit., § 63).
A questo proposito, la Corte rileva ancora una volta il fatto che
l'amministrazione ha il diritto di emettere un ordine di demolizione di
identico contenuto, indipendentemente dal fatto che sia stato avviato o
concluso un procedimento penale (vedi paragrafi 22 e 43 sopra), cosicché il
giudice penale ordinerà la demolizione finché non sarà già stata eseguita
dall'amministrazione (vedi ordinanza della Corte costituzionale n. 33 del
18.01.1990, paragrafo 40 sopra; vedi anche paragrafo 45 sopra).
La
Corte osserva inoltre che, mentre i tribunali penali e il comune hanno in
abstracto il
diritto di agire indipendentemente l'uno dall'altro, la concessione di
un'amnistia o di un'autorizzazione retroattiva da parte dell'autorità
amministrativa è presa in considerazione dai tribunali penali, che agiscono
in qualità di tribunali esecutivi, i quali possono in tal caso, a condizione
che tali misure siano state adottate legalmente, revocare l'ordine di
demolizione o sospenderne l'esecuzione dopo che la condanna è divenuta
definitiva (vedere paragrafo 48 sopra).
67 . Quanto,
infine, alla severità degli ordini di demolizione, la Corte ribadisce che
tale fattore non è di per sé decisivo, poiché numerose misure non penali
possono avere un impatto sostanziale sulla persona interessata (cfr. Welch, §
32; Del Río
Prada,
§ 82;
e Balsamo,
§ 64, tutti citati sopra). La Corte ritiene che, sebbene un ordine di
demolizione sia una misura che può avere un impatto sulla persona
interessata (a seconda delle caratteristiche e della natura della
costruzione non autorizzata), la sua severità non è tale da suggerire che
debba essere caratterizzata come una sanzione.
L'oggetto di tale ordine è, infatti, limitato a lavori (o parte di essi) che
sono stati eretti senza o in violazione di un permesso di costruire
(vedere, mutatis
mutandis, Ulemek,
§ 56; confrontare e contrapporre GIEMSrl
e altri (meriti),
§ 227, entrambi citati sopra) e, come misura volta a garantire il rispetto
delle normative edilizie in modo da ristabilire lo stato di diritto e
consentire l'uso ordinato e sicuro del suolo (interessi a cui la Corte ha
ripetutamente attribuito un'importanza significativa; confrontare, inter
alia, Saliba
c. Malta,
n. 4251/02, § 44, 08.11.2005, e Ivanova
e Cherkezov c. Bulgaria,
n. 46577/15,
§ 51, 21.04.2016), la Corte ritiene che la rimozione degli edifici illegali
e abusivi rappresenti una risposta necessaria e appropriata (vedere, mutatis
mutandis, Balsamo,
citato sopra, § 64).
68. Alla
luce di quanto
precede, avendo preso atto e soppesato ciascuna delle
caratteristiche della misura contestata, la Corte ritiene che esse siano
sintomatiche della sua natura prevalentemente riparatoria; a questo
proposito, il presente caso differisce da Hamer (citato
sopra, §§ 54-60).
La Corte conclude pertanto che l'ordine di demolizione in questione non
costituiva una "sanzione" ai sensi dell'articolo 7 della Convenzione
(vedere, mutatis
mutandis, Saliba (dec.),
citato sopra; confrontare e contrapporre Hamer,
citato sopra, § 60). Tale disposizione non è pertanto applicabile nel
presente caso.
69. Ne
consegue che il presente ricorso è incompatibile ratione materiae con
le disposizioni della Convenzione ai sensi dell'articolo 35 § 3 e deve
essere respinto ai sensi dell'articolo 35 § 4.
-
Presunta violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione
70. Il
ricorrente lamentava che, alla luce della giurisprudenza della Corte che
stabilisce i criteri per valutare l'esistenza di un'accusa penale (in
particolare, Engel
e altri, citati
sopra), la qualificazione da parte del tribunale nazionale dell'ordine di
demolizione nel suo caso come misura riparatrice aveva comportato una
violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione. La parte rilevante di tale
disposizione recita come segue:
“Nella
determinazione di ... qualsiasi accusa penale rivolta contro di lui, ognuno
ha diritto a un'equa ... udienza ... da parte di [un] ... tribunale ...”.
71 . Occorre
osservare in via preliminare che il ricorrente ha contestato
l'interpretazione data dal tribunale nazionale dell'ordinanza di demolizione
come misura riparatoria in quanto tale, sostenendo che essa era
incompatibile con la giurisprudenza della Corte.
72. A
questo proposito, la Corte, riferendosi alle sue conclusioni di cui sopra ai
sensi dell'articolo 7 della Convenzione (vedere paragrafo 68 sopra),
ribadisce che non è suo compito occuparsi di presunti errori di diritto o di
fatto commessi dai giudici nazionali, a meno che e nella misura in cui
possano aver violato i diritti e le libertà tutelati dalla Convenzione
(vedere, tra molte altre autorità, Moreira
Ferreira c. Portogallo (n. 2) [GC],
n. 19867/12,
§ 83, 11.07.2017).
73. La
Corte ritiene pertanto che, anche supponendo che l'articolo 6 sia
applicabile al procedimento di cui al capo civile, il ricorrente non ha
dedotto alcuna privazione delle garanzie di un giusto processo sancite
dall'articolo 6 a seguito dell'interpretazione adottata dal tribunale
nazionale.
74. Ne
consegue che il ricorso ai sensi dell'articolo
6 § 1 della Convenzione è manifestamente infondato e deve essere respinto ai
sensi dell'articolo 35 § 4.
-
Presunta violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione
75. Il
ricorrente lamentava che la demolizione del magazzino avrebbe costituito
un'ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di proprietà ai sensi
dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, che recita come segue:
“Ogni
persona fisica o giuridica ha diritto al pacifico godimento dei suoi beni.
Nessuno può essere privato dei suoi beni se non per causa di pubblico
interesse e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali
del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non pregiudicano tuttavia in alcun modo il
diritto di uno Stato di applicare le leggi che ritiene necessarie per
disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per
garantire il pagamento delle imposte o di altri contributi o sanzioni".
76 . Egli
sosteneva che i tribunali nazionali non avevano considerato che l'ordine di
demolizione del suo magazzino era stato eseguito anni dopo la condanna su
cui si basava e che il comune gli aveva concesso l'amnistia (vedere
paragrafo 8 sopra) e un certificato di idoneità all'uso (vedere paragrafo 11
sopra). Questi fattori, a suo avviso, avevano dato origine a un'aspettativa
legittima che avrebbe dovuto essere soppesata rispetto a qualsiasi interesse
pubblico concorrente nell'eseguire la demolizione.
77. La
Corte rileva che il magazzino costruito dal ricorrente è stato dichiarato
costruzione abusiva dai tribunali nazionali (vedere paragrafo 10 sopra). La
Corte riconosce che è stato dibattuto a livello nazionale se gli edifici
abusivi potessero essere oggetto di diritti di proprietà e potessero quindi
essere validamente trasferiti e acquistati (vedere paragrafo 52 sopra).
78. Nel
caso di specie, tuttavia, la Corte ritiene che non sia necessario affrontare
specificamente la questione se il magazzino del ricorrente potesse essere
considerato un “bene” ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1
alla Convenzione (vedere, tra le altre, Beyeler c. Italia [GC],
n. 33202/96,
§ 100, CEDU 2000-I; Öneryıldız
c. Turchia [GC],
n. 48939/99,
§ 124, CEDU 2004-XII; e Hamer,
cit., § 75), dato che, anche supponendo che così fosse, il presente ricorso
è in ogni caso inammissibile per le seguenti ragioni.
79. La
Corte rileva innanzitutto che al momento della presentazione del presente
ricorso il magazzino del ricorrente non era ancora stato demolito e che, a
tutt'oggi, la Corte non è stata informata del contrario (vedere paragrafo 19
sopra). La demolizione pianificata, che mira a garantire il rispetto delle
norme edilizie, costituisce un controllo dell'uso dei beni (vedere Ivanova
e Cherkezov,
citata sopra, § 69).
Essa deve pertanto essere esaminata alla luce del
secondo paragrafo dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione
(vedere Saliba,
citata sopra, § 35; Zhidov
e altri contro Russia, nn. 54490/10 e altri
3, § 96, 16.10.2018; confrontare Depalle
contro Francia [GC],
n. 34044/02,
§ 79, CEDU 2010, e Hamer,
citata sopra, § 77).
80. La
Corte osserva che l'ordinanza di demolizione contestata è stata emessa ai
sensi dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23
sopra) e che, di conseguenza, il pubblico ministero ha agito in vista della
sua esecuzione, che non era soggetta a prescrizione (vedere paragrafi 13 e
46 sopra). L'ingerenza era quindi conforme alla legge.
81. La
Corte ribadisce che lo scopo di un ordine di demolizione è quello di
ripristinare il sito alle sue condizioni originali, garantendo così l'uso
ordinato e sicuro del terreno nel rispetto delle norme edilizie (vedere
paragrafo 65 sopra). Essa non ha quindi dubbi sulla legittimità dello scopo
perseguito dal provvedimento contestato, che è chiaramente "conforme
all'interesse generale" (vedere Saliba,
§ 44, e Ivanova
e Cherkezov,
§ 71, entrambi citati sopra).
82. Quanto
alla questione se
l'obiettivo perseguito possa essere considerato proporzionato all'ingerenza
causata dalla demolizione forzata pianificata del magazzino (vedere, tra
molte altre autorità, Depalle,
§ 83, e Beyeler,
§ 114, entrambe citate sopra), la Corte ribadisce che nel campo delle
normative edilizie e urbanistiche, lo Stato gode di un ampio margine di
apprezzamento, in particolare nella scelta dei mezzi di esecuzione e
nell'accertamento se le conseguenze dell'esecuzione sarebbero giustificate
(vedere Saliba,
§ 45; Hamer,
§ 78; e Ivanova e
Cherkezov,
§ 73; tutte citate sopra).
Ribadisce inoltre che l'articolo 1 del Protocollo n. 1 non presuppone in
tali casi la disponibilità di una procedura che richieda una valutazione
individualizzata della necessità di ciascuna misura di attuazione delle
norme di pianificazione pertinenti. Non è contrario a quest'ultimo che il
legislatore stabilisca categorie ampie e generali piuttosto che prevedere
uno schema in base al quale la proporzionalità di una misura di attuazione
debba essere esaminata caso per caso (vedi Ivanova
e Cherkezov,
cit., § 74).
83. La
Corte rileva anzitutto che il ricorrente non ha contestato che la
costruzione del magazzino, da lui consapevolmente realizzata senza permesso
di costruire, fosse abusiva.
84. A
questo proposito, la Corte rileva che subito dopo l'ispezione del terreno
del ricorrente che ha portato la polizia municipale a scoprire il magazzino,
è stato avviato un procedimento penale nei suoi confronti per il reato di
costruzione abusiva (vedere paragrafi 3 e 6 sopra; in contrasto con Hamer,
citato sopra, § 83).
Rileva inoltre che i tribunali di giurisdizione penale
hanno preso in considerazione le sue argomentazioni in merito al fatto che
il comune gli aveva concesso un'amnistia; tuttavia, hanno ordinato che il
magazzino fosse demolito dopo aver constatato che egli non poteva
beneficiarne (vedere paragrafo 6 sopra).
Quanto al rilascio di un
certificato di idoneità all'uso, che si riferisce alla questione separata
della sicurezza dell'edificio (vedere paragrafo 34 sopra), i tribunali
nazionali hanno ritenuto tale certificato irrilevante rispetto alle
normative edilizie (vedere paragrafo 16 sopra).
La
Corte ritiene pertanto che, a seguito della sua condanna, il ricorrente non
potesse ragionevolmente fare affidamento sulla legalità del magazzino
(vedere, mutatis
mutandis, Depalle,
§ 86; Hamer,
§ 85; e Zhidov
e altri,
§ 106, tutti citati sopra).
85. Infatti,
nonostante l'ordinanza di demolizione, il ricorrente stesso non ha adottato
alcuna iniziativa per ottemperarvi, continuando invece a trarre beneficio
per molti anni da una costruzione che avrebbe dovuto essere demolita (cfr. Vagnola
spa & Madat Srl c. Italia (dec.),
n. 7653/04,
12.01.2010).
86. In
tale contesto, la Corte ritiene quindi che l'iniziativa delle autorità di
far rispettare l'ordinanza di demolizione in questione fosse necessaria per
ripristinare la situazione a quella che sarebbe stata se non fossero stati
ignorati i requisiti di legge. In questo modo, le autorità garantiscono
l'efficacia delle normative edilizie e scoraggiano altri potenziali
trasgressori (vedi Saliba, cit.,
§ 46, e Tiryakioglu
c. Turchia (dec.),
n. 24404/02,
13.05.2008).
87. Secondo
la Corte, il fatto che sia trascorso un certo periodo di tempo prima
dell'esecuzione dell'ordine di demolizione da parte del pubblico ministero
non può portare a una conclusione diversa. Infatti, secondo il diritto
interno, gli ordini di demolizione non sono soggetti a prescrizione (vedere
paragrafo 46 sopra) e non vi è nulla nella condotta delle autorità
successiva alla condanna che suggerisca che l'ordine di demolizione emesso
dal giudice abbia perso la sua validità e che il magazzino del ricorrente
non sarebbe stato demolito (confronta Hamer,
citato sopra, § 85).
88. In
tali circostanze, la Corte conclude che il ricorrente non sopporterebbe un
onere eccessivo a seguito dell'esecuzione dell'ordine di demolizione del suo
magazzino (vedi Tiryakioglu, citato
sopra, e Galena
Vraniskoska c. "Ex Repubblica jugoslava di Macedonia "
(dec.), n. 30844/06,
12.04.2011).
89. Ne
consegue che il presente ricorso è manifestamente infondato e deve essere
respinto ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
Per
queste ragioni la Corte, all’unanimità,
Dichiara la
domanda inammissibile.
---------------
L'unica
modifica introdotta dal Testo Unico sull'edilizia è che l'autorità
preposta alla vigilanza sull'urbanistica e sull'edilizia non è più il
sindaco, ma il dirigente o il responsabile dell'ufficio comunale
competente.
L'articolo
31 del Testo Unico delle Costruzioni è stato poi modificato dal
decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (convertito dalla legge
11.11.2014, n. 164 ed entrato in vigore il 13.09.2014), che ha introdotto
i commi 4- bis,
4-ter e
4-quater,
prevedendo che in caso di inosservanza dell'ordine di demolizione è
irrogata anche una sanzione pecuniaria.
Ai
sensi dell'articolo 36 del Testo Unico sull'edilizia, l'autorizzazione
retroattiva può essere rilasciata se l'opera edilizia abusiva è conforme
non solo alle norme edilizie, ma anche a quelle urbanistiche.
La
terza sanatoria edilizia è stata introdotta dall'articolo 35 del
decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito con
modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326.
Abrogato
dall'art. 136 del Testo Unico delle Costruzioni con efficacia dal
30.06.2003. La disciplina legislativa del certificato di agibilità
(relativo agli edifici residenziali e non residenziali) è ora
integralmente prevista dall'art. 24 del Testo Unico delle Costruzioni (Agibilità ).
|
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Il dipendente può usare in giudizio la conversazione registrata.
Un dipendente può utilizzare le conversazioni di suoi colleghi, registrate a
loro insaputa e senza il loro consenso, se questo utilizzo è funzionale alla
tutela giudiziale di un proprio diritto.
Con questo principio, coerente con l'indirizzo maggioritario della
giurisprudenza, la Corte di Cassazione (Sez. I civile -
ordinanza 16.09.2024 n. 24797) riafferma
il primato della tutela dei mezzi di difesa rispetto alle esigenze di
riservatezza dei terzi.
La vicenda nasce quando dei lavoratori, nell'ambito di alcuni contenziosi
aventi a oggetto le rispettive posizioni lavorative, hanno depositato in
giudizio un file audio contenente la registrazione di una conversazione
intrattenuta da un altro dipendente con alcuni rappresentanti della società
datrice di lavoro, nel contesto di una riunione indetta dalla dirigenza
diversi anni prima.
I dirigenti coinvolti a loro insaputa nelle registrazioni avevano proposto
reclamo al Garante per la protezione dei dati personali, in base
all'articolo 77 del regolamento Ue 2016/679 (Gdpr), per la cancellazione o
la distruzione dei file.
L'Autorità aveva respinto la richiesta, rilevando che le operazioni di
trattamento erano state svolte per esclusive finalità di contestazione di
addebiti nell'ambito del rapporto di lavoro.
A questo punto i dirigenti hanno spostato la vicenda di fronte al Tribunale
ordinario che ha accolto la loro opposizione, dichiarando l'illegittimità
del provvedimento dell'Autorità e l'illiceità dei trattamenti dei dati
personali posti in essere dai tre lavoratori.
Una lettura non condivisa dalla Corte di cassazione che, aderendo alla prima
interpretazione fornita dal Garante, ha dichiarato lecita e immune da
censure la condotta dei tre dipendenti. La sentenza ricorda come, in linea
generale, l'utilizzo dei dati senza il consenso dell'interessato sia
ritenuto lecito quando si tratti di difendere un diritto fondamentale.
Secondo la Corte, quando i dati sono stati utilizzati in giudizio, spetta al
giudice di quel giudizio il compito di bilanciare gli interessi in gioco e
ammettere o meno le prove che comportano il trattamento di dati di terzi,
perché la titolarità del trattamento spetta in questo caso all'autorità
giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze,
rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del
processo (così, in passato, Cassazione 9314/2023).
La Corte aggiunge che non può essere negata la possibilità di difendersi in
giudizio, specie ove la controversia attenga a diritti della persona
strettamente connessi alla dignità umana, come nel caso della tutela dei
diritti dei lavoratori, secondo quanto dispone l'articolo 36 della
Costituzione.
Se la posta in gioco è la tutela di un diritto fondamentale, sulla base
degli articoli 17 e 21 del Gdpr, è possibile, conclude la Cassazione, che
nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in
giudizio possa prevalere sui diritti dell'interessato al trattamento dei
dati personali (articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2024). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI:
Composizione giunta - Nomina assessori esterni - Comune con più
di 15.000 abitanti.
Sintesi/Massima
La materia "organi di governo"
dei comuni è rimessa alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ed il
comune …, avendo una popolazione superiore a 15.000 abitanti, rientra
nell'ambito applicativo dalla normativa statale dettata per tale categoria
di comuni.
Testo
È stata formulata una richiesta di
parere in materia di composizione della giunta.
In particolare, è stato chiesto se, nel nominare la giunta, si debba fare
riferimento alla normativa recata dall'art. 47, comma 3, del d.lgs. n.
267/2000, che reca la disciplina in materia per i comuni con popolazione
superiore a 15.000 abitanti, in cui rientra attualmente l'ente, o si debba
applicare, nelle more della modifica dello statuto, la normativa statutaria,
adottata quando il comune aveva un numero di abitanti inferiore a 15.000,
che limita la nomina degli assessori cittadini non consiglieri in numero
massimo di due.
In proposito, si fa presente che, ai sensi del citato art. 47, comma 3, del
d.lgs. n. 267/2000, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti
gli assessori sono nominati dal sindaco anche al di fuori dei componenti del
consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità,
eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere. Tale disposizione
non prevede alcun limite numerico riferito agli assessori esterni al
consiglio.
Inoltre, si precisa che l'art. 64, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, prevede
che, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, qualora un
consigliere comunale assuma la carica di assessore nella rispettiva giunta,
"… cessa dalla carica di consigliere all'atto dell'accettazione della
nomina, ed al suo posto subentra il primo dei non eletti".
Pertanto, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, nessun
assessore può rivestire contemporaneamente la carica di consigliere.
Nel caso di specie, la sindaca dell'ente in parola deve fare riferimento
alla normativa dettata dal d.lgs. n. 267/2000 per le giunte dei comuni con
popolazione superiore a 15.000 abitanti. La materia "organi di governo"
dei comuni, infatti, è rimessa, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p),
della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ed il
comune in parola, avendo attualmente una popolazione superiore a 15.000
abitanti, rientra nell'ambito applicativo dalla normativa statale dettata
per tale categoria di comuni.
Tanto premesso, si prega di rappresentare quanto sopra al sindaco del comune
in oggetto e di invitare l'ente ad adeguare le norme statutarie sia in
relazione al numero dell'attuale popolazione, sia al numero degli assessori
in quanto l'art. 24, comma 1, dello statuto prevede, relativamente alla
composizione della giunta, 6 assessori. Tale previsione statutaria, come ha
già evidenziato il rappresentante dell'ente locale, non è in linea con la
normativa vigente (parere
26.09.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
APPALTI:
Questa città metropolitana ha in essere un appalto per la pulizia
degli immobili istituzionali che scadrà a fine 2024.
Risulta necessario, per ragioni imprevedibili, incrementare l'importo
contrattuale del quinto d'obbligo. L'importo del quinto, seppur previsto a
base di gara, non è stato incluso nel CIG ottenuto all'avvio della
procedura.
È possibile procedere ugualmente?
L'art. 120 del nuovo codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 31.03.2023, n.
36), ad oggetto "Modifica dei contratti in corso di esecuzione”,
prevede, al comma 9, che "Nei documenti di gara iniziali può essere
stabilito che, qualora in corso di esecuzione si renda necessario un aumento
o una diminuzione delle prestazioni fino a concorrenza del quinto
dell'importo del contratto, la stazione appaltante possa imporre
all'appaltatore l'esecuzione alle condizioni originariamente previste. In
tal caso l'appaltatore non può fare valere il diritto alla risoluzione del
contratto".
Tanto premesso, il valore del quinto d'obbligo deve essere necessariamente
previsto nei documenti di gara come giustamente effettuato dalla stazione
appaltante.
Tale disposizione è stata confermata anche recentemente dal Servizio
Contratti Pubblici del MIT che con il parere del 21.06.2024 n. 2455 ha
evidenziato quanto detto in precedenza ovvero che "l'art. 120, comma 9,
ricalibra la disciplina del c.d. quinto d'obbligo riconducendolo
definitivamente nell'ambito delle potenziali modifiche del contratto, con la
previsione di una sua doverosa (quindi a pena di illegittimità)
programmazione nella documentazione di gara".
Con riferimento alla specifica questione del CIG, riteniamo che la stessa
debba essere quindi affrontata secondariamente rispetto alla specifica
previsione o meno del quinto d'obbligo. Infatti, se ancora possibile, per
ciò che concerne il CIG è auspicabile chiedere ad ANAC l'attivazione per la
modifica dello stesso.
Qualora questo non fosse possibile per via della tempistica in cui il CIG è
stato richiesto (in vigenza del vecchio codice, su smartCIG, ecc.) si
verificherà uno "sforamento" dell'importo originario che alla luce
della vigente normativa non comporta particolari problematiche di gestione.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 31.03.2023, n. 36,
art. 120 - Parere 21.06.2024 n. 2455, Servizio Contratti Pubblici del MIT (25.09.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Patente a Crediti - Decreto Ministero e Circolare INL (ANCE
di Bergamo,
circolare 26.09.2024 n. 327).
---------------
Si leggano altresì:
●
allegato 1 - DM
18.09.2024 - Regolamento relativo all'individuazione delle modalità di
presentazione della domanda per il conseguimento della patente per le
imprese e i lavoratori autonomi operanti nei cantieri temporanei o mobili
●
allegato 2 - INL, circolare 23.09.2024 n. 4
●
allegato 3 - modulo
AUTOCERTIFICAZIONE/DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA PER IL RILASCIO DELLA PATENTE A
CREDITI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: RENTRI: manuali di istruzioni per utilizzare l’ambiente DEMO
(ANCE di Bergamo,
circolare 20.09.2024 n. 319).
---------------
Si leggano altresì:
●
allegato 1 - Manuale
per l’accesso e l’iscrizione da parte degli operatori al RENTRI
●
allegato 2 - Manuale per la
gestione del Formulario di identificazione del rifiuto (FIR) in formato
cartaceo (Ambiente DEMO)
●
allegato 3 - Manuale
per la gestione del Registro cronologico di carico e scarico tramite il
servizio di supporto (Ambiente DEMO) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Decreto End of Waste: nuove norme per il recupero di rifiuti
inerti (ANCE di Bergamo,
circolare 20.09.2024 n. 318). |
URBANISTICA:
Oggetto: Disciplina degli insediamenti logistici di rilevanza
sovracomunale (ANCE di Bergamo,
circolare 06.09.2024 n. 306).
---------------
Si legga altresì:
●
allegato 1 - L.R.
08.08.2024 n. 15 - Disciplina degli insediamenti logistici di rilevanza
sovracomunale |
APPALTI: Oggetto:
Articolo 18, comma 10, del decreto legislativo 31.03.2023, n. 36, recante il
Codice dei contratti pubblici – Imposta di bollo
(Agenzia delle Entrate,
circolare 28.07.2023 n. 22/E).
---------------
PREMESSA
Con il decreto legislativo 31.03.2023, n. 36, attuativo dell’articolo 1
della legge 21.06.2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di
contratti pubblici, è stato emanato il nuovo Codice dei contratti pubblici
(di seguito, “Codice”), in aderenza, tra l’altro, alle direttive 2014/24/UE
e 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014.
Il citato decreto legislativo prevede, tra le altre, disposizioni in materia
di imposta di bollo relativa alla stipulazione del contratto, contenute
nell’articolo 18, comma 10, nonché negli articoli e nella tabella di cui
all’allegato I.4 al Codice medesimo.
Con la presente circolare si forniscono chiarimenti in merito alle nuove
modalità di calcolo e versamento dell’imposta di bollo, con particolare
riferimento all’ambito applicativo e alla decorrenza temporale delle stesse.
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Articolo 10 del decreto-legge 16.07.2020, n. 76, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120. Chiarimenti interpretativi
(Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e Ministero della Pubblica
Amministrazione,
circolare 02.12.2020).
---------------
TESTO
Il recente
decreto-legge 16.07.2020, n. 76, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120 (“Misure urgenti per la
semplificazione e l’innovazione digitale”), ha introdotto, fra le misure
finalizzate alla semplificazione e all’accelerazione delle procedure
amministrative in vista del rilancio delle attività economiche e produttive,
numerose modifiche al testo unico dell’edilizia di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
Tali modifiche, contenute nell’articolo 10 del decreto-legge, investono
tutti i settori dell’attività edilizia e alcune di esse sono di immediato
impatto per le imprese che devono predisporre i progetti e avviare la
necessaria interlocuzione con le Amministrazioni competenti.
In particolare, si è intervenuto in modo sostanziale sia sull’articolo
2-bis, comma 1-ter, del testo unico, in tema di rispetto della
disciplina delle distanze tra edifici in caso di interventi di demolizione e
ricostruzione di edifici già esistenti (comma 1, lettera a), del citato
articolo 10), e sia sulla definizione degli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), del medesimo testo
unico, con specifico riguardo sempre agli interventi di demolizione e
ricostruzione di immobili preesistenti (comma 1, lettera b), dell’articolo
10).
La presente circolare è intesa a fornire primi chiarimenti
interpretativi sulle disposizioni dianzi citate.
1. Premessa: il diverso ambito di applicazione
dell’articolo 2-bis, comma 1-ter, e dell’articolo 3, comma 1, lettera d),
del d.P.R. n. 380/2001.
Le modifiche
apportare all’articolo
2-bis, comma 1-ter, e all’articolo
3, comma 1, lettera d) del d.P.R. n. 380/2001 rispondono a due
esigenze concorrenti, che hanno inciso profondamente anche sull’iter di
formazione delle norme medesime: da un lato, la volontà di introdurre
previsioni volte a rendere in via generale più semplice e rapido l’avvio
dell’attività edilizia; dall’altro, l’esigenza di assicurare in ogni
caso la salvaguardia e il rispetto di valori considerati preminenti
dall’ordinamento, segnatamente la tutela dei beni culturali e del paesaggio
latamente inteso.
Tali esigenze concorrenti, del resto, corrispondono alla più
generale ispirazione dell’intero decreto–legge n. 76/2020, quale espressa
nella sua premessa, laddove si enuncia l’intento del legislatore di “realizzare
un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la
semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e di
edilizia, operando senza pregiudizio per i presidi di legalità”.
Per questo, e per meglio cogliere l’incidenza delle predette
esigenze nella lettura e applicazione delle disposizioni sopra indicate,
occorre preliminarmente chiarirne i rispettivi ambiti di applicazione.
In particolare, è necessario considerare che, mentre l’articolo
3 del testo unico è norma intesa a dettare le definizioni degli
interventi edilizi in via generale ed ai fini dell’applicazione dell’intera
disciplina dell’edilizia, l’articolo
2-bis (a suo tempo introdotto nel d.P.R. n. 380/2001 dal decreto-legge
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n.
98) è finalizzato a regolare la specifica ipotesi nella quale, in occasione
di un intervento di demolizione e ricostruzione di edificio preesistente,
insorgano problemi inerenti al rispetto di norme in materia di distanze tra
edifici (siano esse contenute nell’articolo 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444,
o in qualsiasi altra normativa).
Pertanto, appare opportuno procedere in via preliminare alla
disamina delle modifiche apportate all’articolo
3, comma 1, lettera d), del testo unico, stante la sua più ampia portata
precettiva, e solo successivamente illustrare quelle che riguardano il comma
1-ter del citato articolo 2-bis.
2. Le modifiche alla definizione di ristrutturazione
edilizia.
2.1. La definizione
di “ristrutturazione edilizia” contenuta nella
lettera d) del comma 1 dell’articolo 3, quale risultante dalle modifiche
apportate dal d.l. n. 76/2020 e dalla legge di conversione, fa riferimento a
“gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il
ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio,
l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi
altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti
con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e
tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per
l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico.
L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti
dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali,
incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione
urbana. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti
al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o
demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne
la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili
sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio,
di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, nonché, fatte salve le
previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle
zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla
normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei
storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e
architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono
interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma,
prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche
dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
Le innovazioni significative apportate alla disposizione previgente
sono quindi:
a) la sostituzione del riferimento ai semplici
interventi di “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di
quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica” con la più articolata
previsione per cui rientrano nella ristrutturazione edilizia “gli
interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi
sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche,
con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica,
per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di
impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico”;
b) l’aggiunta di un ulteriore periodo per cui i
medesimi interventi di demolizione e ricostruzione possono prevedere, “nei
soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli
strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per
promuovere interventi di rigenerazione urbana”;
c) un maggior rigore della previsione relativa
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del d.lgs. n. 42/2004: mentre in
precedenza la demolizione e ricostruzione di detti immobili poteva
qualificarsi come ristrutturazione edilizia solo ove ne fosse rispettata la
sagoma originaria, oggi si richiede il mantenimento di “sagoma,
prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche” e
si precisa che non devono essere previsti incrementi di volumetria;
d) l’equiparazione agli edifici vincolati ai
sensi del d.lgs. n. 42/2004 di quelli ubicati nelle zone omogenee A e in
quelle ad esse assimilabili in base ai piani urbanistici comunali, nonché “nei
centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare
pregio storico e architettonico”, fatte salve “le previsioni
legislative e degli strumenti urbanistici”.
2.2. La modifica di cui sub a) amplia l’area degli interventi
ricadenti nella nozione di ristrutturazione edilizia, individuando i
parametri la cui modifica –a differenza di quanto previsto dalla previgente
disciplina– non risulta rilevante ai fini della qualificazione di un
intervento di demolizione e ricostruzione come ristrutturazione edilizia,
piuttosto che come nuova costruzione.
In particolare, la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV,
04.10.2019 n. 6666; Tar Napoli, sez. II,
10.06.2020 n. 2304; Tar Puglia-Lecce, sez. III,
03.02.2016 n. 233) aveva evidenziato come, dopo la novella
operata col già citato decreto-legge n. 69/2013, che aveva eliminato il
vincolo dell’identità di sagoma in precedenza previsto dalla norma,
dovessero considerarsi rientranti nella ristrutturazione edilizia anche gli
interventi di demolizione e ricostruzione comportanti modifiche della sagoma
e/o del sedime rispetto all’edificio preesistente.
Tuttavia, veniva precisato che, comunque, il nuovo edificio dovesse
porsi in sostanziale continuità con quello preesistente, conservandone le
caratteristiche planivolumetriche e architettoniche (Cons. Stato, sez. VI,
05.12.2016 n. 5106).
La novella apportata alla definizione dal decreto–legge n. 76/2020
determina, con tutta evidenza, il superamento di tali limitazioni, potendo
ormai rientrare nella nozione di ristrutturazione –salvo quanto si dirà in
ordine agli edifici vincolati- qualsiasi intervento di demolizione e
ricostruzione anche con caratteristiche molto differenti rispetto al
preesistente, salvi i limiti volumetrici che saranno appresso richiamati.
In effetti, al riferimento a sagoma, sedime, caratteristiche
planivolumetriche e tipologiche il legislatore aggiunge anche quello ai “prospetti”,
la cui modifica nel regime normativo anteriore comportava la qualificazione
dell’intervento in termini di ristrutturazione “pesante”, con
conseguente soggezione al regime del permesso di costruire.
Incidentalmente, si evidenzia che, con un’ulteriore innovazione
apportata alla
lettera b) del comma 1 del medesimo articolo 3 del testo unico dallo
stesso d.l. n. 76/2020, la modifica dei “soli prospetti” costituisce
oggi intervento di manutenzione straordinaria, sottoposto al regime della
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) ai sensi del successivo
articolo 22, laddove:
- la modifica sia necessaria per mantenere o
acquisire l’agibilità di un edificio legittimamente realizzato ovvero per
l’accesso allo stesso;
- l’intervento non abbia ad oggetto immobili
sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio
di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004, sia conforme alla vigente
disciplina urbanistica e non pregiudichi il “decoro architettonico”
dell’edificio.
Quanto alle modifiche apportate alla
lettera d) del comma 1 dell’articolo 3, occorre precisare che il
riferimento alle “caratteristiche tipologiche” dell’edificio
preesistente va letto in stretta correlazione col richiamo agli “elementi
tipologici” contenuto nella definizione di restauro e risanamento
conservativo di cui alla lettera c) del medesimo articolo 3 (che in parte
qua riproduce la nozione introdotta dall’art. 31, comma 1, lettera c),
della legge 05.08.1978, n. 457).
Pertanto, si tratta di una nozione da non sovrapporre a quella di
destinazione d’uso dell’edificio –la quale è stabilita dal titolo
abilitativo sulla base delle norme urbanistiche di riferimento– e che ha un
contenuto al tempo stesso architettonico e funzionale, individuando quei
caratteri essenziali dell’edificio che ne consentono la qualificazione in
base alla tipologia edilizia (p.es. costruzione rurale, capannone
industriale, edificio scolastico, edificio residenziale etc.).
Il richiamo ai parametri introdotti dal decreto–legge n. 76/2020
(sagoma, sedime, prospetti, caratteristiche planivolumetriche e tipologiche)
assume rilievo, a contrario, per quanto riguarda il regime degli edifici
sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 ovvero ubicati in zona A
e assimilate, laddove l’eventuale modifica di tali parametri comporta
l’impossibilità di ricondurre l’intervento alla categoria della
ristrutturazione edilizia e il suo assoggettamento al regime autorizzatorio
delle nuove costruzioni (fatte salve, per la seconda categoria di edifici
sopra indicati, le diverse previsioni di legge o degli strumenti
urbanistici, come meglio in appresso precisato).
2.3. Un’ulteriore novità attiene alla possibilità di incrementi di
volumetria non solo “per l’adeguamento alla normativa antisismica”,
ma anche “per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per
l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico”.
A tale riguardo, si evidenzia che, secondo l’orientamento della
giurisprudenza, la riconducibilità a ristrutturazione edilizia è da
escludere in presenza di qualsivoglia intervento di demolizione e
ricostruzione comportante incrementi volumetrici rispetto al preesistente,
anche laddove questi fossero determinati dall’inserimento di impianti o
servizi, salvi i casi, espressamente previsti, di aumenti imposti dalla
normativa antisismica (Tar Lazio-Latina, sez. I,
11.06.2015 n. 472).
Una parziale attenuazione di tale rigore si registra solo qualora
detti incrementi si rendano necessari al fine di assicurare il rispetto
della normativa in materia di eliminazione delle barriere architettoniche,
limitatamente alla previsione di volumi tecnici quali i vani ascensore (Tar
Abruzzo-Pescara, sez. I,
09.04.2018 n. 134; Tar Campania-Salerno, sez. I, 09.04.2018 n.
134).
La previsione odierna supera tali indirizzi, consentendo che gli
interventi di demolizione e ricostruzione soggiacciano al regime della
ristrutturazione edilizia anche qualora comportino incrementi volumetrici,
purché giustificati dal rispetto delle normative dianzi richiamate (e sempre
che, ovviamente, non si tratti di edifici vincolati ovvero ricadenti in zona
A o assimilate, fatte salve per questi ultimi le diverse previsioni
legislative o degli strumenti urbanistici).
Un’ulteriore possibilità di apportare incrementi alla volumetria
dell’edificio preesistente deriva dall’espressa salvezza delle previsioni
legislative e degli strumenti urbanistici che contemplino siffatti
incrementi per finalità di “rigenerazione urbana”.
Pertanto, la deroga non è estesa a qualsiasi disposizione che
consenta incrementi volumetrici (p.es. in funzione premiale o incentivante),
ma vale soltanto per le ipotesi in cui questi siano strumentali a obiettivi
di rigenerazione urbana, da intendersi –secondo l’accezione preferibile,
nella perdurante assenza di una definizione normativa a carattere generale–
come riferita a qualunque tipologia di interventi edilizi che, senza
prevedere nuove edificazioni, siano intesi al recupero e alla
riqualificazione di aree urbane e/o immobili in condizioni di dismissione o
degrado.
2.4. Quanto al regime degli edifici vincolati ai sensi del d.lgs.
n. 42/2004, si è già sottolineato che la soluzione adottata dal
decreto–legge n. 76/2020 per assicurare la loro tutela è stata quella di
escludere che possano qualificarsi come ristrutturazione edilizia gli
interventi comportanti una loro demolizione e ricostruzione non solo nei
casi in cui ne sia modificata la sagoma (come previsto nella disciplina
previgente), ma anche nei casi di mutamenti del sedime, dei prospetti e
delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche.
Sotto tale profilo, il regime degli edifici in questione si
atteggia in modo “speculare” rispetto a quello degli edifici non
vincolati, nel senso che ciò che per questi ultimi ricade nella definizione
di ristrutturazione comporta invece per i primi l’applicazione del regime
delle nuove costruzioni.
Altrettanto non può dirsi per gli edifici ubicati nelle zone
omogenee A di cui al d.m. n. 1444/1968 e in zone a queste assimilate dai
piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici ovvero nelle aree
comunque di particolare pregio storico o architettonico, atteso che in
questi casi l’equiparazione voluta dal legislatore al regime degli edifici
vincolati è solo tendenziale, essendo espressamente fatte salve le
previsioni legislative e degli strumenti urbanistici.
Tale inciso fa innanzitutto salva la validità di eventuali disposizioni di
leggi regionali, che consentano, anche per le aree in questione, interventi
di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione anche con
limiti meno stringenti di quelli individuati dall’art.
3 del testo unico per gli edifici vincolati ex d.lgs. n. 42/2004.
Inoltre, la clausola di “salvezza” in discorso consente di
ritenere ammissibili anche per gli edifici ubicati in dette zone le
variazioni imposte dalla normativa antisismica, energetica,
sull’accessibilità etc., ferme restando, come è ovvio, le valutazioni delle
Amministrazioni competenti in ordine alla compatibilità degli interventi con
il regime eventualmente previsto per i medesimi edifici.
La clausola conferma, altresì, la legittimità delle eventuali
previsioni degli strumenti urbanistici (sia generali che attuativi) con cui
si consentano, anche per le zone A e assimilate e per i centri storici,
interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione
entro limiti meno stringenti di quelli ordinariamente stabiliti dalla norma
primaria in esame (fermi restando in ogni caso gli ulteriori limiti
rivenienti da altre norme del testo unico).
3. Le nuove previsioni in materia di demolizione e ricostruzione e
rispetto delle distanze.
Come evidenziato in premessa, le previsioni contenute nel
comma 1-ter dell’articolo 2-bis del testo unico vanno lette nel contesto
della disposizione in questione, che è specificamente intesa a disciplinare
i casi in cui siano oggetto di demolizione e ricostruzione edifici
preesistenti che risultino “legittimamente” ubicati rispetto ad altri
immobili in posizione tale da non rispettare specifiche norme in materia di
distanze (ivi comprese quelle contenute nel d.m. n. 1444/1968), di guisa che
non ne sarebbe consentita l’edificazione ex novo.
In questi casi, il primo periodo del comma in esame ha
chiarito che la ricostruzione è possibile –in sostanza– in deroga alle norme
in questione, e quindi col mantenimento delle distanze preesistenti se non è
possibile la modifica dell’originaria area di sedime e purché l’edificio
originario fosse stato “legittimamente” realizzato.
Al fine di verificare la legittima realizzazione dell’immobile
preesistente, soccorre la previsione dell’articolo 9-bis del Testo unico,
anch’essa inserita dal decreto-legge n. 76/2020, laddove è indicata la
documentazione da cui ricavare lo “stato legittimo” di un edificio
(di regola consistente nel titolo edilizio sulla base del quale esso è stato
realizzato, ovvero da quello relativo all’ultimo intervento che ha subito).
È importante rilevare che la previsione è testualmente riferita ad
“ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di
edifici”, e quindi indipendentemente dalla ascrivibilità degli
interventi alla categoria della ristrutturazione edilizia o a quella della
nuova costruzione, nonché –a fortiori– nella prima ipotesi da quale
sia il regime autorizzatorio in concreto applicabile.
Il secondo periodo, poi, aggiunge che in questi casi sono
consentiti gli “incentivi volumetrici eventualmente riconosciuti per
l’intervento”, anche fuori sagoma e con il superamento dell’altezza
massima dell’edificio demolito, purché sia sempre rispettata la distanza
preesistente.
In considerazione del suo tenore letterale, questa previsione deve
intendersi come riferita non a qualsiasi incremento volumetrico, che possa
accompagnare l’intervento di demolizione e ricostruzione, ma solo a quelli
aventi carattere di “incentivo”, ad esempio perché attribuiti in
forza di norme di “piano casa” ovvero aventi natura premiale per
interventi di riqualificazione.
Tanto premesso, il terzo periodo del comma in esame –oggetto
della novella apportata con il decreto-legge n. 76/2020-, lungi dall’avere
un carattere di principio riferibile alla totalità degli interventi di
demolizione e ricostruzione, costituisce manifestamente una specificazione
delle previsioni precedenti in relazione all’ipotesi in cui gli interventi
qui considerati riguardino edifici siti nelle zone omogenee A o in zone
assimilate a queste dai piani urbanistici comunali, ovvero nei centri e
nuclei storici consolidati o in aree comunque di particolare pregio storico
o architettonico.
Per queste ipotesi, il legislatore ha posto un’ulteriore condizione
per l’applicabilità delle disposizioni dettate dal medesimo comma (e,
quindi, perché la ricostruzione dell’edificio possa avvenire nel rispetto
delle distanze legittimamente preesistenti e possa fruire degli eventuali
incentivi volumetrici nei limiti anzi detti): e cioè che l’intervento sia
contemplato “esclusivamente nell’ambito dei piani urbanistici di recupero
e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale”.
Ancora una volta, la ratio della previsione risiede
nell’esigenza di assicurare una maggior tutela al valore d’insieme delle
aree soggette allo specifico regime delle zone A e dei centri storici,
escludendo che all’interno di esse gli interventi di cui al medesimo
comma 1-ter dell’articolo 2-bis possano essere direttamente realizzati
dagli interessati e stabilendo invece che essi debbano inserirsi nella più
generale considerazione del contesto di riferimento che solo un piano
particolareggiato può assicurare.
Peraltro, anche in questo caso il legislatore si fa carico di far
salve “le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale,
paesaggistica e urbanistica vigenti”, e quindi la facoltà che le
Amministrazioni preposte alla pianificazione del territorio, nei rispettivi
ambiti di competenza, possano dettare prescrizioni diverse e anche meno
rigorose per l’effettuazione degli interventi in discorso, tenuto conto
dello specifico contesto preso in considerazione.
Nonostante il riferimento testuale agli strumenti di pianificazione
“vigenti”, la disposizione deve essere intesa non come una semplice
salvezza delle eventuali previsioni urbanistiche difformi in essere alla
data di entrata in vigore del decreto-legge n. 76/2020, ma come un rinvio
generale al potere di pianificazione esercitabile in ogni tempo dalle
amministrazioni competenti.
Infine, in relazione al richiamo conclusivo ai “pareri degli
enti preposti alla tutela” (anch’essi fatti salvi dalla disposizione in
esame), si osserva che, con tale inciso, il legislatore ha voluto
semplicemente ribadire la necessità, laddove risultino vincoli insistenti
sui singoli edifici o sulle aree interessate dagli interventi, di acquisire
il parere delle Autorità preposte e non già introdurre un nuovo vincolo
legale esteso a tutte le aree cui la previsione è riferita. |
VARI: Oggetto:
Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 03.11.2020. Ulteriori
disposizioni attuative del decreto-legge 25.03.2020, n. 19, convertito, con
modificazioni, dalla legge 25.05.2020, n. 35, recante «Misure urgenti per
fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19», e del decreto-legge
16.05.2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.07.2020, n.
74, recante «Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l'emergenza
epidemiologica da COVID-19» (Ministero dell'Interno,
nota 07.11.2020 n. 15350 di prot.). |
VARI: Oggetto:
Decreto-legge 07.10.2020, n. 125, recante “Misure urgenti connesse con la
proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da
COVID-19 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonché
per l'attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 03.06.2020”
(Ministero dell'Interno,
nota 10.10.2020 n. 62445 di prot.). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto:
Decreto-legge 16/07/2020 n. 76, come convertito dalla legge 11.09.2020 n.
120 – art. 37 – Disposizioni per favorire l’utilizzo della posta elettronica
certificata nei rapporti tra pubbliche amministrazioni, imprese e
professionisti - prime indicazioni (Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 30.09.2020 n. 615). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto:
Competenze professionali - sentenza TAR Lazio-Roma, 25.05.2020 n. 170 –
circolare CNAPPC n. 92 del 27.07.2020 - competenze degli Ingegneri e degli
Architetti in tema di progettazione delle opere di urbanizzazione primaria –
integrazione della circolare CNI 23/06/2020 n. 581 e comunicazione prossime
iniziative (Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 28.09.2020 n. 612). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Pubblicati i decreti di recepimento delle direttive UE
sull’economia circolare: modifiche alla gestione dei rifiuti (ANCE di
Bergamo,
circolare 21.09.2020 n. 362). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Regione Lombardia – Misure per la limitazione del traffico
veicolare e ulteriori disposizioni per il miglioramento della qualità
dell’aria (ANCE di Bergamo,
circolare 18.09.2020 n. 351). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto:
Richiesta di parere su articolo 37, comma 1, lett. e), del d.l. n. 76/2020
(Ministero della Giustizia,
nota 17.09.2020 n. 144610 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Decreto del MIT relativo alla attestazione del rischio sismico
per gli interventi che beneficiano del Sismabonus (ANCE di Bergamo,
circolare 11.09.2020 n. 350). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Lavoratori Fragili – Circolare congiunta Min. Salute e Min.
Lavoro (ANCE di Bergamo,
circolare 11.09.2020 n. 348). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: “Bonus facciate” – i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate
(ANCE di Bergamo,
circolare 11.09.2020 n. 347). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO:
Oggetto: Regione Lombardia – Disciplina degli interventi di manutenzione
degli alvei e gestione delle discariche. Legge regionale n. 18 del
07.08.2020 (ANCE di Bergamo,
circolare 11.09.2020 n. 346). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: Regione Lombardia – L.R. 18/2019: criteri per l’incremento
dell’indice di edificabilità e la riduzione del contributo di costruzione
(ANCE di Bergamo,
circolare 11.09.2020 n. 345). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: Regione Lombardia – Proroga dei termini in ambito edilizio ed
urbanistico a causa dell’emergenza Covid-19. Legge regionale n. 18 del
07.08.2020 (ANCE di Bergamo,
circolare 09.09.2020 n. 343). |
SICUREZZA LAVORO - VARI:
Oggetto: Emergenza Covid-19: aggiornamento sugli ultimi provvedimenti.
DPCM 07.09.2020 (ANCE di Bergamo,
circolare 09.09.2020 n. 342). |
VARI:
Oggetto: Decreto Legge 104/2020 (cd. “Decreto Agosto”) – primi commenti
(ANCE di Bergamo,
circolare 04.09.2020 n. 341). |
VARI:
Oggetto: COVID 19 – Ulteriori proroghe di validità delle patenti di guida
(ANCE di Bergamo,
circolare 04.09.2020 n. 340). |
CONDOMINIO -
ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI -
VARI:
Oggetto: Decreto Legge c.d. “Agosto”. Pubblicazione in Gazzetta Ufficiale
e nota di commento di ANCE (ANCE di Bergamo,
circolare 04.09.2020 n. 339). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto:
Misure statali e regionali in materia di contenimento e gestione
dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 nelle pubbliche amministrazioni.
Disposizioni in merito allo svolgimento delle conferenze di servizi ai sensi
dell’art. 14-ter della L. 241/1990 (Regione Lazio,
nota 13.03.2020 n. 221352 prot.).
---------------
Come noto, con diversi D.P.C.M. a partire dal 01.03.2020 sono state
introdotte misure urgenti per il contenimento del contagio da COVID-2019,
tra le quali la sospensione di eventi di svariata natura che comportino il
contatto tra le persone nonché la sollecitazione all’utilizzo di modalità
telematiche per l’assolvimento delle attività lavorative.
Al fine di assicurare la massima attuazione a quanto disposto dai
provvedimenti sopra indicati, si raccomanda ai Comuni, nel quadro delle
attività amministrative che svolgono per mezzo dell’istituto della
conferenza di servizi, di attenersi scrupolosamente alle disposizioni
statali e regionali fin qui adottate, e si forniscono specifiche indicazioni
in proposito. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Modalità applicative dell'art. 18-ter, comma 1, lett. b-ter), della l.r.
06.07.1998, n. 24 - Integrazione alla nota prot. 261120 del 03.04.2019 (Regione
Lazio,
nota 23.01.2020 n. 63818 di prot.).
---------------
Con la presente nota si forniscono ai Comuni indicazioni sulle modalità
applicative della disposizione in oggetto, rispondenti alle valutazioni
espresse in merito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il
Turismo.
L’art. 18-ter, comma 1, della l.r. 24/1998 (inserito dall’articolo 13, comma
1, della legge regionale 09.12.2004, n. 18), prevede diverse ipotesi di
deroga alle disposizioni poste a tutela dei beni e delle aree sottoposte a
vincolo paesaggistico.
In particolare, la lettera b-ter), introdotta dall’art. 3, comma 90, della
l.r., 31.12.2016, n. 17, dispone che “previo parere preventivo e vincolante
del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo sono
consentite la realizzazione di opere pubbliche o di pubblico interesse”.
Poiché la norma attribuisce la decisione sull’ammissibilità della deroga al
Ministero, questa Direzione regionale ha interpellato l’Ufficio legislativo
del MIBAC (nota 03.04.2019, prot. 261120), allo scopo di assicurarne la
corretta ed uniforme applicazione.
L’Ufficio legislativo ha risposto in data 19.07.2019, nota prot. 20351, con
cui ha richiamato i principi fissati dal Consiglio di Stato nel parere n.
1640 del 13.07.2016 in materia di silenzio-amministrativo tra pubbliche
amministrazioni e tra amministrazione e soggetto privato.
Inoltre, per quanto riguarda specificamente l’applicazione dell’art. 18-ter,
comma 1, lett. b-ter), della l.r. 24/1998, l’Ufficio legislativo ha
trasmesso la nota 17.07.2019, prot. 19803, della competente Direzione
Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio.
La richiesta di parere della scrivente Direzione regionale, la risposta
dell’Ufficio legislativo del Ministero e la nota della Direzione Generale
sopra specificate sono state pubblicate sul sito regionale ... (... continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31, recante:
"Individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata" (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota 11.04.2017 n. 11688 di prot.).
---------------
Sulla Gazzetta ufficiale n. 68 del 22.03.2017 è stato pubblicato il
decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31 entrato in vigore
il giorno 06.04.2017.
Al riguardo, si fornisce qui di seguito, con preghiera di diffusione, una
prima informativa di carattere generale delle nuove disposizioni,
riservandosi di trasmettere ulteriori approfondimenti analitici con
successivi atti, anche alla luce delle prime esperienze applicative e tenuto
conto del fatto che la competente Direzione generale Archeologia, belle arti
e paesaggio, anche su indicazione del Sottosegretario, Onorevole Ilaria
Borletti Buitoni, delegata per il paesaggio, intende a breve convocare,
entro la fine del corrente mese, un apposito incontro tematico, avente ad
oggetto una prima disamina più analitica del regolamento, con i titolari
degli uffici periferici competenti.
Una prima, ampia, informazione sul nuovo regolamento è contenuta nella
analitica relazione illustrativa che lo accompagna, che è pubblicata sul
sito del Ministero e che, comunque, per più agevole consultazione, si allega
alla presente nota. (...continua). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Cantieri
off limits alle imprese senza la patente a crediti.
Dall’1/10 il possesso è obbligatorio per le aziende di ogni tipo e per i
lavoratori autonomi.
Cantieri edili off limits. È vietato operarvi, infatti, se non si ha la
patente a crediti: imprese di ogni tipo e settore produttivo (non solo
quelle qualificabili come edili) e lavoratori autonomi. Non c’è divieto
invece, cioè non serve la patente a crediti, a chi deve effettuare attività
di mere forniture o prestazioni di natura intellettuale (a esempio
ingegneri, architetti, geometri) e alle imprese in possesso di attestazione
di qualificazione SOA, pari o superiore alla III.
La novità, prevista dall’art.
29 del decreto legge n. 19/2024 convertito in legge n. 56/2024, è
operativa dal 1° ottobre, ma in versione non definitiva per quanto attiene
alla procedura per la richiesta. Infatti, imprese e lavoratori autonomi
devono fare due domande in due tempi diversi: una per ricevere una patente
valida per il mese di ottobre; un’altra per ricevere la patente definitiva,
con validità a partire dal 1° novembre.
I soggetti interessati
A decorrere dal 1° ottobre, dunque, il possesso della patente a crediti è
indispensabile per le imprese e i lavoratori autonomi che operano nei
cantieri temporanei o mobili, fatta eccezione di coloro che effettuano mere
forniture o prestazioni di natura intellettuale.
L’Inl ha precisato, in merito, che i soggetti tenuti ad avere la patente
sono tutte le imprese, non necessariamente qualificabili come imprese edili,
e i lavoratori autonomi che operano “fisicamente” nei cantieri. La
precisazione sembra sottolineare che il divieto non opera ai fini
dell’accesso al cantiere, ma a operarvi.
L’obbligo riguarda anche le imprese e i lavoratori autonomi stabiliti in uno
stato Ue o extraue; tuttavia, il rilascio della patente avviene sulla base
di una procedura diversa. Invece, sono escluse dall’obbligo della patente a
crediti le imprese in possesso dell'attestazione di qualificazione SOA, in
classifica pari o superiore alla III.
I requisiti
Ai fini del rilascio della patente è richiesto il possesso dei seguenti
requisiti:
- iscrizione alla camera di commercio, industria, artigianato e
agricoltura;
- adempimento, da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei
preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro, degli obblighi
formativi previsti dal dlgs n. 81/2008 (Tu sicurezza sul lavoro);
- possesso del documento unico di regolarità contributiva (Durc) in
corso di validità;
- possesso del documento valutazione rischi (Dvr), nei casi
previsti dalla normativa vigente;
- possesso della certificazione di regolarità fiscale (Durf), nei
casi previsti dalla normativa vigente;
- avvenuta designazione del responsabile del servizio di
prevenzione e protezione (Rspp), nei casi previsti dalla normativa vigente.
Non tutti i requisiti sono vincolanti per tutte le categorie di soggetti
interessati; in alcuni casi, infatti, è precisato “nei casi previsti
dalla normativa vigente” (requisiti d, e, f). Un esempio: il Dvr non è
richiesto ai lavoratori autonomi e alle imprese prive di lavoratori (le
imprese individuali senza lavoratori sono considerate lavoratori autonomi
dal Tu sulla sicurezza).
Il possesso dei requisiti è oggetto di autocertificazione/dichiarazione
sostitutiva ai sensi del dpr n. 445/2000; pertanto, eventuali falsità sono
punite con la sanzione penale (ex art. 76). In particolare, l’iscrizione
alla Cciaa, il possesso del Durc e del Durf sono attestati con
autocertificazione (ex art. 46); gli adempimenti formativi, il possesso del
Dvr e la designazione del Rspp con le dichiarazioni sostitutive (ex art.
47).
Due domande, due tempistiche
La patente è rilasciata in formato digitale accedendo al portale dell’Inl,
attivo dal 1° ottobre, con Spid o Cie.
Possono presentare domanda di rilascio della patente il legale
rappresentante dell’impresa e il lavoratore autonomo, anche tramite soggetto
con apposita delega scritta, inclusi i soggetti della legge n. 12/1979
(consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati e Caf).
Qualora la richiesta della patente sia effettuata dai soggetti delegati,
questi ultimi dovranno munirsi delle dichiarazioni rilasciate dal legale
rappresentante dell’impresa o dal lavoratore autonomo relative al possesso
dei requisiti, da esibire in caso di eventuali accertamenti. All’esito della
richiesta, il portale genera un codice univoco associato alla patente che
sarà rilasciata in formato digitale.
Dopo la presentazione della domanda, nelle more del rilascio della patente è
consentito lo svolgimento delle attività, salva diversa comunicazione
notificata dall’Inl. Come accennato, sono previste due tempistiche e due
procedure per avere la patente.
Dal 23 settembre al 31 ottobre
In fase di prima applicazione è possibile presentare, utilizzando l'apposito
modello, un’autocertificazione/dichiarazione sostitutiva concernente il
possesso dei requisiti, tramite Pec all’indirizzo
“dichiarazionepatente@pec.ispettorato.gov.it”.
L’invio tramite Pec ha efficacia limitata fino al 31.10.2024 e vincola a
presentare la domanda per il rilascio della patente, mediante il portale
dell’Inl entro la stessa data (31.10.2024).
Dal 1° novembre
Dal 1° novembre non sarà più possibile operare in cantiere in forza della
trasmissione, via Pec, dell'autocertificazione/dichiarazione, ma è
indispensabile aver inviato la domanda di rilascio della patente tramite il
portale dell’Inl.
L’Inl non ha precisato se questa seconda domanda sarà una sorta di
regolarizzazione della prima o se costituirà una domanda ex novo. Il
problema si pone in ordine al possesso dei requisiti, perché, come precisato
dall’Inl stesso, il loro possesso va valutato al “momento della richiesta”.
Può succedere, allora, che la situazione dichiarata il 1° ottobre (rilascio
patente provvisoria) possa cambiare il 30 ottobre (seconda richiesta) per
l’assenza, ad esempio, del Durc (usando lo stesso esempio dell’Inl).
Come funziona il sistema dei crediti
La patente è dotata di un punteggio iniziale di 30 crediti, che possono
salire fino al massimo di 100, e per potere operare nei cantieri sono
sufficienti 15 crediti.
Il punteggio viene decurtato in relazione alle risultanze dei provvedimenti
definitivi, emanati nei confronti dei datori di lavoro, dirigenti e preposti
delle imprese o dei lavoratori autonomi, nei casi e nelle misure che sono
indicate nell'allegato I-bis al Tu sicurezza, con le penalità che vanno da 1
a 20 crediti (ad esempio, per l’omessa elaborazione del Dvr, nei casi dove è
dovuto, la decurtazione è di 5 crediti; per l’infortunio mortale di un
dipendente, causato dalla violazione delle norme sulla prevenzione, la
decurtazione è di 20 crediti).
Se nell'ambito di uno stesso accertamento ispettivo sono contestate più
violazioni, i crediti sono decurtati in misura non eccedente il doppio di
quella prevista per la violazione più grave.
La patente perde crediti solo a seguito di provvedimenti definitivi,
comunicati all’Inl, entro 30 giorni, anche con modalità informatiche,
dall'amministrazione che li ha emanati. Quali siano questi “provvedimenti
definitivi” è precisato dalla norma: una sentenza passata in giudicato o
un’ordinanza ingiunzione divenuta definitiva. Il primo caso si verifica
quando una sentenza non è impugnata.
Il secondo si può evitare, per esempio, pagando la sanzione del verbale,
poiché l’ordinanza-ingiunzione è emessa dopo il decorso del termine di
pagamento in misura ridotta delle sanzioni indicate nell’accertamento e
diventa definitiva se non c’è opposizione nei 30 giorni dalla notifica
(articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2024). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Infortuni,
colpa grave ai raggi X. Le istruzioni dell’Inl sulla
revoca e sospensione della patente e sui compiti degli ispettori.
La patente a crediti mette la toga indosso all'ispettore. Il quale, infatti,
deve inventarsi giudice e verificare se, in un infortunio sul lavoro, ci sia
stata “colpa grave” del datore di lavoro, del suo delegato o del dirigente
per poter sospendere la patente, principale sanzione legata alle nuove
regole per lavorare nei cantieri edili dal 1° ottobre.
Come fare, lo spiega la
circolare 23.09.2024 n. 4
dell'Ispettorato nazionale del lavoro (si veda ItaliaOggi del 24 settembre),
che illustra la nuova disciplina della patente a crediti.
Una volta ottenuta la patente, inoltre, faranno fede soltanto i crediti;
infatti, ha precisato ancora l'Inl, l'eventuale venir meno di un requisito
(ad esempio, il Durc) non ne pregiudicherà la validità (potrà continuare a
essere utilizzata).
Una licenza per lavorare.
La nuova disciplina obbliga imprese e lavoratori autonomi a possedere la
patente a crediti per poter operare nei cantieri temporanei o mobili edili
(si veda altro articolo in altra pagina). La patente è dotata di un
punteggio iniziale di 30 crediti, ma per potere operare nei cantieri sono
sufficienti 15 crediti. Sul versante sanzionatorio, la disciplina prevede
tre principali ipotesi: la revoca della patente; la sospensione cautelare
della patente; le sanzioni pecuniarie.
La revoca delle patente.
Il provvedimento di revoca della patente viene adottato dall'Inl sulla base
di un accertamento in ordine all'assenza di uno o più requisiti dichiarati “inizialmente”.
Buona notizia, questa, perché ne consegue, come ha precisato l'Inl, che il
venir meno di uno o più requisiti in un momento successivo al rilascio della
patente (per esempio, successiva assenza del Durc) non inciderà sulla sua
utilizzabilità.
Il controllo dei requisiti, a campione, potrà esserci sia d'ufficio, sia in
occasione di accessi ispettivi dell'Inl o da altri organi di vigilanza.
L'adozione del provvedimento di revoca, inoltre, sarà preceduto da un
confronto con l'impresa o il lavoratore autonomo titolare della patente e da
una valutazione in merito alla gravità dei fatti.
A tal proposito, con specifico riferimento al requisito relativo
all'assolvimento degli obblighi formativi, pur a fronte di una dichiarazione
sostituiva ritenuta non veritiera, andrà comunque valutata la gravità
dell'omissione (data, per esempio, dalla totale assenza di formazione
tenendo conto del numero dei lavoratori interessati in rapporto alla
consistenza aziendale), la circostanza secondo cui l'eventuale omissione
riguardi personale non destinato a operare in cantiere (il personale
amministrativo, per esempio) o che l'impresa abbia ottemperato o meno alle
prescrizioni impartite (ai sensi del dlgs n. 758/1994).
Decorsi 12 mesi dalla revoca l'impresa e il lavoratore autonomo possono
richiedere il rilascio di una nuova patente.
La sospensione della patente.
Il provvedimento di sospensione cautelare della patente è adottato dall'Inl
“se nei cantieri (…) si verificano infortuni da cui deriva la morte del
lavoratore o un'inabilità permanente, assoluta o parziale (…)”, al
massimo per 12 mesi.
Due le ipotesi di stop.
I presupposti per l'adozione del provvedimento di sospensione cautelare
della patente sono dati dal verificarsi di infortuni da cui deriva:
- la morte di uno o più lavoratori imputabile al datore di lavoro,
al suo delegato ovvero al dirigente, almeno a titolo di colpa grave;
- l'inabilità permanente di uno o più lavoratori o una
irreversibile menomazione suscettibile di essere accertata immediatamente,
imputabile al datore di lavoro, al suo delegato ovvero al dirigente, almeno
a titolo di colpa grave.
Stop in caso d'infortunio mortale.
Nel primo caso, la disciplina stabilisce che la sospensione “è
obbligatoria, fatta salva la diversa valutazione dell'Inl adeguatamente
motivata”. Pertanto, ha precisato l'Inl, ferma restando la sussistenza
dei presupposti, la sospensione è normalmente adottata, a meno che
dall'adozione e, quindi, dalla cessazione delle attività in corso, non
possano derivare situazioni di grave rischio per i lavoratori o per i terzi
o comunque per la pubblica incolumità.
Stop in caso d'inabilità permanente.
Nel secondo caso, ha spiegato l'Inl, la sospensione non può prescindere da
un provvedimento di riconoscimento dell'inabilità da parte dell'Inail, il
quale dovrà comunicare all'Inl (sede competente) le proprie determinazioni,
unitamente a ogni informazione utile a definire eventuali responsabilità in
capo al datore di lavoro, al delegato o al dirigente. La disciplina fa
richiamo anche all'ipotesi di una “irreversibile menomazione suscettibile
di essere accertata immediatamente”.
Secondo l'Inl, si tratta dei casi in cui non è indispensabile attendere il
riconoscimento dell'inabilità permanente (ad esempio in caso di perdita di
un arto). In tal caso, dunque, l'Inl non dovrà necessariamente attendere
l'adozione del provvedimento da parte dell'Inail ai fini della sospensione
della patente, a meno che non ritenga che lo stesso sia necessario a
consentire una più adeguata valutazione, unitamente alla responsabilità per
“colpa grave”, della durata della sospensione.
La discrezionalità dell'ispettore.
Il secondo caso, quello dell'adozione della sospensione per inabilità
permanente, ha spigato l'Inl, presenta maggiori caratteri di
discrezionalità. Infatti, la disciplina stabilisce che lo stop “può
essere adottato se le esigenze cautelari non sono soddisfatte mediante il
provvedimento di cui all'art. 14 del dlgs n. 81/2008 o all'art. 321 del
codice di procedura penale”.
In altri termini, non si provvederà a sospendere la patente ogniqualvolta il
cantiere interessato sia stato già oggetto di un provvedimento di
sospensione dell'attività d'impresa (ai sensi dell'art. 14 citato), adottata
per violazioni prevenzionistiche o in ragione dell'impiego di lavoratori in
nero e/o di un provvedimento di sequestro preventivo da parte della Autorità
giudiziaria (ai sensi del citato art. 321 c.p.p.), a meno che detti
provvedimenti, in relazione all'effettivo rischio che ha determinato
l'evento infortunistico, siano del tutto inadeguati a prevenire il ripetersi
di eventi infortunistici.
Ispettori in toga.
Uno dei presupposti per la sospensione della patente è l'imputabilità al
datore di lavoro, al suo delegato ovvero al dirigente, almeno a titolo di
colpa grave, dell'evento infortunistico (mortale o d'inabilità permanente),
operazione che spetterà fare agli ispettori.
Al riguardo, l'Inl ha spiegato che le indagini dovranno incentrarsi,
anzitutto, sul nesso causale tra l'evento infortunistico e il comportamento,
commissivo od omissivo, del datore di lavoro, del delegato o del dirigente.
«Pur tenendo conto che l'accertamento definitivo del reato è sempre
rimesso alla A.G.», ha aggiunto l'Inl, «l'organo accertatore dovrà
acquisire ogni elemento utile a individuare l'esistenza di una
responsabilità diretta “almeno a titolo di colpa grave" di uno o più dei
soggetti indicati, secondo il criterio del “più probabile che non”, fermo
restando che, laddove tali responsabilità non siano del tutto chiare e
richiedano approfondimenti che possono essere effettuati solo nell'ambito di
un procedimento giudiziario, la sospensione non potrà essere adottata».
Una precisazione che, ai fini pratici, sembra preludere ad uno scarso
utilizzo della sospensione cautelare della patente, nonché a un contenzioso
in merito alla ricorrenza del presupposto della “colpa grave” (che
cosa succede se, sospesa la patente, il giudice poi sentenzia che non c'era
colpa grave nell'infortunio?).
L'Inl ricorda, in linea generale, che la “colpa grave” è una forma di
responsabilità che va oltre la semplice colpa, caratterizzata da marcata
violazione dei doveri di diligenza, specificamente connessi alla prevenzione
dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori, a tal fine tenendo
conto delle condizioni indicate in tabella. E precisa che, solo laddove
siano state accertate tutte le condizioni indicate, ivi compreso il
requisito della gravità della condotta, il provvedimento potrà essere
adottato
(articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2024).
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I paletti per la «colpa grave»
Grado di negligenza
La colpa grave implica un
comportamento che si discosta notevolmente da ciò che è considerato
ragionevole e diligente
Violazione norme di sicurezza
La colpa grave si concretizza
nella violazione evidente e sostanziale di specifiche norme
prevenzionistiche da adottare e ciò può includere, ad esempio, il mancato
rispetto delle procedure obbligatorie, l’omissione di misure di protezione
necessarie o il non aver fornito istruzioni e formazione ai lavoratori
Consapevolezza del rischio
Un aspetto importante della colpa
grave è che il responsabile era, o avrebbe dovuto essere, pienamente
consapevole del rischio a cui esponeva i lavoratori e pertanto la colpa
grave si manifesta quando il soggetto agisce (o omette di agire) con una
coscienza chiara del pericolo ma senza adottare le specifiche misure volte a
prevenire il rischio che ha determinato l’evento infortunistico |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: I
rifiuti da costruzione diventano risorse utili.
Ieri è entrato in vigore il
decreto 28.06.2024 n. 127
del Ministero dell'ambiente e della sicurezza energetica che, abrogando il
dm 27.09.2022, n. 152, definisce i nuovi criteri per la qualificazione dei
rifiuti da costruzione quali End of waste. Le nuove disposizioni
regolamentari mirano a superare le criticità della precedente disciplina,
soprattutto per quanto attiene i profili di responsabilità del produttore.
Si tratta di un passo importante per il mercato della gestione dei rifiuti,
nella misura in cui favorisce la promozione di un approccio più efficiente e
sostenibile nonché coerente con il modello di economia circolare.
L'importanza e l'urgenza del decreto sono ancora più avvertite se si
considera che il settore delle costruzioni e delle demolizioni è quello con
la maggiore produzione totale di rifiuti speciali, con quasi 80,8 milioni di
tonnellate, stando ai dati pubblicati dall'Ispra nel 2022.
Il regolamento elabora una nozione di rifiuti inerti derivanti da attività
di costruzione e demolizione e di origine minerale (che costituiscono
l'ambito applicativo della disciplina) e definisce dettagliatamente le
condizioni e i criteri che permettono ai rifiuti inerti di cessare di essere
classificati come tali ai sensi dell'art. 184-ter dlgs n. 152/2006 dopo
specifiche operazioni di recupero.
Vengono altresì codificati in capo al produttore del rifiuto destinato alle
operazioni di recupero una serie di oneri, tra cui la responsabilità della
corretta attribuzione dei codici dei rifiuti e delle caratteristiche di
pericolo degli stessi, la compilazione del formulario di identificazione del
rifiuto (Fir) e il prelevamento di campioni da conservarsi presso l'impianto
di produzione.
Al Ministero spetta, in base ai dati acquisiti attraverso il Registro
nazionale delle autorizzazioni al recupero (ReCer) dall'attività di
monitoraggio, l'opportunità di procedere a una revisione dei criteri
previsti.
Le imprese che operano nel settore del recupero dei rifiuti inerti se, da
una parte, sono chiamate adeguarsi ai nuovi standard, da recepirsi
obbligatoriamente entro il 25.03.2025, dall'altra parte, godono in
prospettiva del beneficio di poter trasformare i rifiuti inerti in risorse
utili e di conseguenza ridurre la necessità di reperire nuovi materiali. Si
avverte, pertanto, anche uno stimolo all'iniziativa imprenditoriale,
soprattutto per quanto attiene agli investimenti nelle infrastrutture
necessarie per il trattamento e il recupero.
In conclusione, il nuovo quadro normativo, definendo linee guida precise per
garantire il rispetto degli standard di qualità e sicurezza, consente la
reintroduzione dei materiali nel ciclo produttivo e favorisce la transizione
del comparto edilizio verso modelli di circolarità
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2024). |
SEGRETARI COMUNALI: Extra
fondi ai segretari.
Spetta alla contrattazione integrativa la quantificazione degli extra per i
segretari che ricoprono ad interim incarichi dirigenziali.
È uno dei punti su cui si sofferma l'Anci nel proprio
quaderno operativo n. 51 (settembre 2024) riguardante "Le
principali novità del Ccnl Area Funzioni locali 2019-2021. Dirigenti e
Segretari Comunali e Provinciali".
Il contratto, sottoscritto lo scorso 16 luglio, è la conclusione di una
lunga e complessa attività negoziale iniziata con l'approvazione dell'Atto
di Indirizzo del Comitato di settore Autonomie Locali e impatta su circa
9.000 uomini e donne che hanno la responsabilità di gestire quotidianamente
processi complessi che attengono al soddisfacimento di bisogni delle
comunità che amministrano. Si compone di una parte comune e due sezioni:
dirigenti e segretari comunali e provinciali.
Tra le novità più significative per quanto riguarda i dirigenti, si segnala
in particolare la previsione del cd scavalco condiviso finora previsto per
il solo personale dipendente, colmando così una lacuna contrattuale; la
maggiorazione della retribuzione di risultato correlata a specifici
obiettivi di impatto; la disciplina del lavoro agile.
Nella sezione dei segretari comunali e provinciali le principali novità
contrattuali viene finalmente introdotta una disciplina specifica per
l'interim per la copertura delle posizioni dirigenziali temporaneamente
prive di titolare, che viene parzialmente uniformata a quella prevista per i
dirigenti.
In tali casi, al segretario è attribuita una percentuale della retribuzione
di posizione come definita dalla contrattazione integrativa per i dirigenti,
e corrisposta solo all'esito della valutazione collegata alla performance.
Il relativo importo è posto a carico del Fondo per la retribuzione di
posizione e risultato di cui all'art. 57 del Ccnl 17.12.2020
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2024). |
EDILIZIA PRIVATA: Su
lavori con 110% difformi non è detto aiuti il Salva casa. LAVORI CON
BONUS110% TERMINATI IN TEMPO SOLO SULLA CARTA.
Domanda
Nel mio condominio i lavori Superbonus sono terminati il 31.12.2023, in
tempo per fruire del 110%. I lavori sono stati oggetto di sconto in fattura
da parte del General Contractor che, credo, li abbia a sua volta
ceduti.
Abbiamo però incaricato un consulente per delle verifiche ed è emerso che
purtroppo la fine dei lavori è avvenuta solo sulla carta, e alcune opere non
risultano eseguite.
Dovremmo rivolgerci a un legale per contestare la situazione?
D.P.
Risposta
Per “bloccare” la percentuale del Superbonus (che è scesa dal 110% al
90% nel 2023, al 70% nel 2024 e che scenderà ancora al 65% del 2025), non
serve finire i lavori entro il rispettivo anno, ma aver pagato le spese al
31 dicembre. Ciò, però, vale solo in caso di detrazione diretta, mentre per
la cessione del credito e lo sconto in fattura serve aver ultimato i lavori
nell'anno.
Dunque, la preoccupazione del lettore è ragionevole, perché tale requisito
potrebbe venire a mancare nei fatti. Il caso è complesso, non essendo
prevista una procedura ufficiale, ed è anzitutto necessario verificare quali
opere non siano state realizzate. Bisognerà cioè valutare la loro incidenza
di costo, nonché la loro rilevanza ai fini del raggiungimento degli
obiettivi tecnici di efficientamento energetico o sismico richiesti per il
Superbonus.
Nell'ipotesi in cui i lavori mancanti risultino di entità e tipologia non
trascurabile, è allora consigliabile segnalarlo all'Amministratore di
condominio e all'Assemblea. Dopodiché, il lettore si troverà davanti a una
decisione difficile, perché a rischio vi è non solo la corretta spettanza
della detrazione, ma potrebbero configurarsi anche degli illeciti.
In simili casi non esiste una procedura ufficiale nemmeno nell'ipotesi
(remota) in cui il condominio voglia restituire i crediti indebitamente
fruiti all'erario, e applicando quali sanzioni, poiché in ogni caso
l'Agenzia delle Entrate, eventualmente informata dei fatti, dovrà avviare un
accertamento autonomo, volto a verificare il punto in questione ma anche
l'intera pratica, con le tempistiche e le incertezze del caso
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
PROBLEMI CON IL RILASCIO DELL'AGIBILITÀ' PER DUE VILLETTE REALIZZATE CON IL
SUPERBONUS.
Domanda
Ho acquistato nel 2020 un fabbricato allo stato collabente (categoria
catastale F/2) e, sfruttando il Superbonus, ho realizzato due villette a
schiera di circa 90 metri quadrati ciascuna che ho poi messo in vendita.
In fase di rilascio dell'agibilità, il tecnico del Comune ha contestato
l'altezza esterna che, a suo dire, sarebbe superiore di 30 cm rispetto a
quanto previsto in progetto.
Ciò mette a rischio il Superbonus? Il Salva Casa, inoltre, può venire in
aiuto?
E.T.
Risposta
Il Salva Casa (dl 69/2020) ha aumentato le tolleranze dell'art. 34-bis del
Testo unico dell'edilizia (Tue, dpr 380/2001) in riferimento alle difformità
dai titoli edilizi avvenute prima del 24.05.2024. Per quelle verificatesi
dopo, lo scostamento massimo consentito è pari al 2%, mentre per quelle
precedenti sono previste percentuali inversamente proporzionali alle
dimensioni delle unità immobiliari.
Nel caso presentato, l'unità ha dimensioni sotto i 100 mq, ma sopra i 60 mq,
e la franchigia al di sotto della quale non si verifica alcuna violazione è
dunque pari al 5%. Perciò, l'altezza può essere sforata fino a 45 cm, e uno
scostamento di 30 cm non costituisce violazione per effetto del Salva Casa.
Tuttavia, la situazione non è così semplice.
È normale, infatti, che il tecnico comunale abbia contestato la difformità,
non potendo sapere se è stata commessa prima o dopo il 24 maggio. Sarà bene
allora avviare un “dialogo” con l'Ufficio preposto, illustrando di
rientrare nel Salva Casa. Essendoci in gioco, poi, il Superbonus, i dubbi si
moltiplicano.
Infatti, il dl 34/2020, articolo 119, commi 13-ter, lett. b) prevede che
l'aver realizzato interventi difformi dalla cilas ne comporta la decadenza.
Tuttavia, il Salva Casa rende irrilevante una difformità come quella
descritta, ma non è certo che ciò sia sufficiente a “disinnescare” la
causa di decadenza, dato che le tolleranze implicano che le difformità
contenute nei loro limiti non costituiscono violazioni edilizie, ma la
difformità potrebbe rimanere tale.
In ogni caso, la situazione va seguita con attenzione, data la volontà di
vendere gli immobili.
Ciò perché il Superbonus non è fruibile da chi percepisca redditi d'impresa,
e la prassi fiscale ha spesso considerato imprenditoriale lo svolgimento di
un singolo affare “privato” (come la vendita di un immobile) che
risulti, tra le altre cose, economicamente voluminoso
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fondi contro le opere abusive. Contributi ai comuni per la
demolizione. Un’istanza a ente. I municipi avranno tempo fino al 16 ottobre
alle ore 12 per presentare le domande.
Fino a mercoledì 16.10.2024 alle ore 12 i comuni posso presentare domanda di
accesso al fondo per la demolizione delle opere abusive di cui alla legge
205/2017.
Lo ha stabilito il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti guidato da
Matteo Salvini che, a tale scopo, ha predisposto la piattaforma telematica
all’indirizzo
fondodemolizioni@mit.gov.it, utile alla predisposizione delle domande.
Entro la scadenza, le istanze devono essere compilate nella piattaforma,
scaricate e firmate digitalmente dal legale rappresentante dell’ente o dal
suo delegato, nonché inviate a:
fondodemolizioni@pec.mit.gov.it.
Contributi ai comuni
Possono presentare la domanda di concessione del contributo i comuni nel cui
territorio ricadono l’opera o l’immobile realizzati in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire. Ciascun comune può compilare e inviare
una sola istanza.
Ciascuna istanza può essere composta da più schede, una per ogni intervento
proposto, individuata da un identificativo. Gli abusi possono riguardare
edifici o ampliamenti edilizi insistenti su aree demaniali o di proprietà di
altri enti pubblici, aree a rischio idrogeologico, aree sismiche, aree
sottoposte tutela dei beni culturali e paesaggistici oppure aree sottoposte
a tutela delle aree naturali protette appartenenti alla rete natura 2000.
Contributo a fondo perduto
I contributi assegnati a valere sul fondo demolizioni riguardano interventi
ancora da eseguire identificati attraverso il codice cup. I contributi a
fondo perduto sono concessi a copertura del 50% del costo degli interventi
di rimozione o di demolizione delle opere o degli immobili realizzati in
assenza o totale difformità dal permesso di costruire, per i quali sia stato
adottato un provvedimento definitivo di rimozione o di demolizione non
eseguito nei termini stabiliti.
Sono incluse le spese tecniche e amministrative, nonché quelle connesse alla
rimozione, trasferimento e smaltimento dei rifiuti derivanti dalle
demolizioni. Non sono ammesse richieste di contributo per interventi già
assegnatari dei finanziamenti di cui ai decreti del ministro per le
infrastrutture e i trasporti di approvazione degli interventi di demolizione
delle opere abusive e dei relativi importi ammessi al contributo a valere
sulle risorse di cui alla legge 27.12.2017 e successivi rifinanziamenti.
Non sono inoltre ammesse richieste di contributo per interventi presentati
nelle precedenti campagne e non ammessi al contributo oppure interventi
ammessi al contributo per i quali il comune abbia successivamente presentato
richiesta di revoca o rinuncia.
Infine, non sono ammesse richieste di contributo per interventi già
integralmente finanziati attraverso altri programmi o fondi e non sono
ammessi al contributo interventi su immobili oggetto di un giudizio pendente
e per i quali alla data della presentazione dell’istanza sia stata accolta
l’istanza di sospensione del provvedimento di demolizione o rimozione.
Interventi finanziabili
Possono essere oggetto di contributo unicamente gli interventi ancora da
eseguire al momento della presentazione della domanda, pertanto non possono
essere rimborsate spese per lavori già eseguiti. I comuni provvedono
all’affidamento dei lavori e alla stipulazione del contratto con l’impresa
entro 12 mesi dall’assegnazione del contributo e concludono gli interventi
nel termine di 24 mesi dalla medesima data di assegnazione, pena la revoca
del contributo.
Con provvedimento motivato, i comuni possono chiedere alla competente
direzione generale del ministero delle infrastrutture e dei trasporti una
proroga della data di ultimazione dei lavori, di durata non superiore a
ulteriori 24 mesi, in considerazione della dimensione delle caratteristiche
tecnico-costruttive dell'opera da demolire
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Listino prezzi per sanare. Il Mit indicherà ai comuni quanto
chiedere. Salvini al convegno Confedilizia: in arrivo circolare sul dl Salva
Casa.
Arriva un listino prezzi per il Salva Casa. Per venire incontro agli uffici
comunali in difficoltà nella quantificazione dell'oblazione da chiedere ai
cittadini interessati a sanare le piccole difformità edilizie, il ministero
delle infrastrutture sta lavorando a una circolare esplicativa che entro gli
importi minimi e massimi previsti dal decreto legge n. 69/2024 chiarirà per
ciascun intervento l’importo da pagare.
Matteo Salvini ha scelto Piacenza e il tradizionale convegno del
coordinamento legali di Confedilizia (dove l’anno scorso fu per la prima
volta annunciato il piano del governo) per anticipare un altro tassello
attuativo del decreto che, ha rivendicato il ministro, “ha liberato
milioni di immobili, ostaggio della burocrazia, da piccole difformità
interne che li rendevano non vendibili sul mercato”.
Salvini ha ammesso che ad aver reso necessaria una circolare esplicativa sul
tariffario previsto dal dl (da 1.032 a 10.328 euro, ma nei casi in cui
l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda, l’oblazione da pagare andrà da un minimo
di 516 euro a un massimo di 5.164 euro) è la paura della firma che sta
frenando i funzionari degli uffici comunali a seguito delle inchieste della
procura di Milano sulle presunte irregolarità nei cantieri.
“Il dubbio dei dirigenti comunali in questa fase di attuazione è: quanto
chiedo? E per questo dovremo fare una sorta di listino prezzi”, ha
spiegato. “L’obiettivo è che gli uffici comunali si liberino di milioni
di pratiche, per di più incassando. Solo il comune di Roma stima in 200 mila
le pratiche edilizie risalenti a tre condoni. Senza il dl Salva casa non
sarebbe mai riuscito a smaltirle. Ora può farlo incassando soldi da mettere
a beneficio dei cittadini. E’ un meccanismo win-win”.
Salva Milano
E per sbloccare definitivamente i cantieri fermi non solo nel capoluogo
lombardo, ma in tutta Italia, alla Camera accelera la proposta unitaria
della maggioranza (Atto
Camera 1987 a firma Aldo Mattia, Gianpiero Zinzi, Piergiorgio
Cortellazzo e Martina Semenzato) che, sfumata la possibilità di intervenire
sulla materia con decreto legge, punta a salvare la pianificazione
urbanistica dei comuni e in particolare quella del capoluogo lombardo i cui
uffici negli anni hanno suffragato un’interpretazione troppo estensiva (al
punto da essere finita nel mirino della procura) sulla possibilità di
costruire nelle aree urbanizzate oltre i limiti dei 25 metri di altezza e
dei tre metri cubi per metro quadro di volume anche in assenza di piano
particolareggiato o lottizzazione convenzionata.
La proposta di legge dà sei mesi di tempo per realizzare “un riordino
organico della disciplina di settore” previo accordo in Conferenza
unificata. Governo, regioni, province, comuni e comunità montane dovranno
individuare i casi in cui è necessario adottare un piano particolareggiato o
una lottizzazione convenzionata.
Nel frattempo gli interventi realizzati o autorizzati fino alla data di
entrata in vigore della disciplina di riordino del settore (senza
approvazione preventiva di un piano particolareggiato o di lottizzazione
convenzionata) saranno considerati conformi alla disciplina urbanistica alle
seguenti condizioni:
a) edificazione di nuovi immobili su singoli lotti situati in
ambiti edificati e urbanizzati;
b) sostituzione di edifici esistenti in ambiti caratterizzati da
una struttura urbana definita e urbanizzata;
c) interventi su edifici esistenti in ambiti caratterizzati da una
struttura urbana.
Verranno considerati interventi di ristrutturazione edilizia, gli interventi
di totale o parziale demolizione e ricostruzione realizzati o autorizzati a
decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto Salva Casa.
L’obiettivo della maggioranza è portare il testo in aula “verso la
seconda metà di ottobre” (ha precisato a ItaliaOggi il relatore Tommaso
Foti di Fratelli d’Italia). Il testo, all’esame della commissione ambiente
di Montecitorio, non si annuncia blindato, ma i tempi di approvazione
dovranno essere celeri proprio per sbloccare gli oltre 150 cantieri fermi a
Milano ma anche in altre città d’Italia.
“Deve essere ancora fissato il termine per la presentazione degli
emendamenti. Quando lo avremo ricevuto, vedremo se vi e’ qualcosa di
migliorativo”, ha spiegato Foti
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2024). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
nel Ccnl il lavoro agile diventa strumento di welfare.
Clausole per una p.a. troppo anziana e configurazione del lavoro agile
sempre più come strumento di welfare invece che di innovazione
organizzativa.
La bozza di rinnovo del Ccnl del comparto Funzioni centrali, oggi all'esame
di Aran e parti sociali, conferma una tendenza già assodata, manifestata
qualche giorno addietro nell'ambito della contrattazione per il rinnovo
delle Funzioni locali.
Con risorse finanziarie limitate e comunque al di sotto dell'indice Ipca e
già, per altro, in gran parte utilizzare per effetto delle anticipazioni
previste dalla legge di bilancio 2023, i contenuti della contrattazione
collettiva hanno la strada obbligata dell'aumento di attenzione verso
istituti giuridici, più che economici.
L'attenzione maggiore è rivolta, quindi, alla necessità di affrontare il
problema dell'eccessivo invecchiamento dell'età media anche dei dipendenti
del comparto Funzioni centrali, “nobilitato” dall'aziendalistica
definizione di “age management”.
E' una previsione di alcune misure sostanzialmente di welfare nell'ambito
lavorativo. In primo luogo, cercando di non rassegnarsi al pericolo di una
perdita di aggiornamento e competenza, mediante la valorizzazione della
persona lungo l'intero percorso professionale; la bozza punta sulla garanzia
di opportunità adeguate per esprimere la professionalità acquisita e
favorire lo sviluppo continuo delle competenze.
Allo scopo, occorreranno ambienti di lavoro (non solo logistici, ma anche
organizzativi) favorevoli alla produttività individuale, promuovendo al
contempo le migliori condizioni di salute possibili e prevenzione di
malattie professionali e infortuni sul lavoro.
Uno dei metodi più di rilievo suggeriti dalla bozza per avvalersi al meglio
delle capacità del personale anziano è il “dialogo intergenerazionale”,
cioè l'impostazione di sistemi di affiancamento ai neoassunti, anche
attraverso attività individuali di formazione e scambio di competenze tra le
diverse generazioni. Il punto di forza è, comunque, la maggiore flessibilità
nella gestione del lavoro. Per il personale più avanti con l'età,
l'organizzazione dovrebbe prevedere l'adibizione a lavori ed attività “smart”,
così da favorire modalità di lavoro a distanza, ma anche la concessione del
part-time, e in generale, orari che facilitino la conciliazione tra vita
privata e professionale.
L'estensione dello smart working è uno dei punti forti. Ma, la bozza
non può uscire troppo oltre i binari di una normativa pubblicistica ancora
influenzata dalle linee guida del novembre 2021, secondo le quali il “lavoro
in presenza” deve risultare prevalente su quello agile.
A conferma indiretta di questo assunto, la bozza configura il lavoro agile
nella sostanza come un benefit di conciliazione delle esigenze di benessere
e flessibilità dei lavoratori con gli obiettivi di miglioramento del
servizio pubblico, sebbene siano da considerare le specifiche necessità
tecniche delle attività da svolgere in smart working.
Proprio questa implicita prevalenza della visione del lavoro agile come
welfare induce alla proposta di facilitare l'accesso a tale modalità
lavorativa ai dipendenti “in condizioni di particolare necessità, non
coperte da altre misure” (particolari esigenze di salute, assistenza a
familiari con disabilità in situazione di gravità ai sensi della legge
104/1992 o beneficiari delle misure previste dal d.lgs. 151/2001), nonché a
a sostegno della genitorialità e altre casistiche individuate in sede di
contrattazione integrativa.
Solo in questi casi, mediante l'accordo individuale, si consentirà di “estendere
il numero di giorni di attività resa in modalità agile rispetto a quelle
previste per il restante personale”, che invece resterà soggetto ai
vincoli di prevalenza della presenza.
Altro elemento di rilievo, le ferie. La bozza si rivolge principalmente alle
amministrazioni ed ai loro dirigenti, imponendo loro di agevolare la
programmazione dei dipendenti, così da presentare loro a inizio anno il “calendario”
delle giornate in cui sia possibile collocarsi in ferie: in tal modo si
vuole scongiurare il problema del cumulo delle ferie ed il rischio di
condanne alla monetizzazione, connesse, come noto, all'assenza di un
corretto presidio della programmazione e fruizione
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2024). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Tracciabilità rifiuti, si
cambia. Iscrizioni
al Rentri e geolocalizzazione dei mezzi trasporto. Scattano dal 15/12/2024 i nuovi obblighi
documentali per produttori e gestori di residui.
Conto alla rovescia per la transizione verso il nuovo regime di
tracciabilità dei rifiuti. Dal prossimo 15.12.2024 scatterà per il primo e
consistente contingente di imprese l'obbligo di iscriversi al nuovo Registro
elettronico per la tracciabilità dei rifiuti (c.d. "Rentri", erede
del noto "Sistri").
Dalla stessa data, i professionisti del trasporto di rifiuti pericolosi
dovranno inoltre fornire i propri veicoli di un sistema di geolocalizzazione.
Dal successivo 13.02.2025, invece, tutti gli operatori tenuti alla
tracciabilità dei rifiuti (e non solo, quindi, quelli obbligati a farlo
tramite Rentri) dovranno compilare una nuova tipologia di modulistica per
documentare le operazioni che coinvolgono i rifiuti.
L'esordiente sistema di tracciabilità dei rifiuti.
Il nuovo sistema il controllo pubblico sulle movimentazioni di rifiuti
manterrà l'architettura dell'uscente, continuando ad essere fondato
sull'obbligo degli operatori interessati di dare traccia delle attività che
coinvolgono i residui utilizzando tre tipologie di documenti, ossia: il
registro di carico e scarico, su cui annotare i rifiuti prodotti o gestiti
nel periodo immediatamente precedente; il formulario che deve accompagnarli
durante il loro trasporto; la denuncia annuale che deve essere presentata
alle pubbliche autorità a consuntivo di quanto fatto nel precedente anno.
Ciò che cambierà sarà la modalità di tenuta della suddetta documentazione,
poiché: molti degli operatori obbligati ad assicurare la tracciabilità dei
rifiuti dovranno adempiere ai confermati obblighi documentali attraverso una
piattaforma telematica (il Rentri), ed in alcuni casi anche munire di
sistemi di localizzazione i mezzi di trasporto dei residui; tutti gli
operatori obbligati alla tracciabilità dei rifiuti (con Rentri o meno)
dovranno da una certa data utilizzare nuovi modelli di registro di
carico/scarico e formulario trasporto rifiuti, che sostituiranno gli "storici"
degli anni '90.
Le norme che disciplinano l'esordiente sistema di tracciabilità sono recate
dal Dlgs 152/2006 ("Codice ambientale"), dal Dm Ambiente 04.04.2023
n. 59 (prime regole di dettaglio del nuovo sistema), dai decreti
direttoriali MinAmbiente pubblicati direttamente a mezzo del portale Rentri.
Il Rentri, in particolare.
Il "Registro elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti"
(Rentri), accessibile all'indirizzo
www.rentri.gov.it e gestito direttamente dal MinAmbiente, integra al suo
interno le tre componenti documentali per la tracciabilità dei rifiuti, ma
in versione digitale e interattiva.
Oltre alla tenuta on-line dei registri di carico/scarico e formulario
trasporto rifiuti, infatti, il portale Rentri a partire dal 2025 metterà
infatti a disposizione di tutti gli iscritti un modello precompilato da
utilizzabile per l'assolvimento dell'obbligo di denuncia annuale "Mud".
Tra i soggetti tenuti a garantire la tracciabilità dei rifiuti
prodotti/gestiti, Codice ambientale e connesso Dm 59/2023 individuano le
categorie di quelli che devono farlo obbligatoriamente tramite Rentri (con
pagamento del relativo contributo annuale e diritto di segreteria),
lasciando la facoltà agli altri operatori di utilizzarlo a titolo
volontario.
Obbligati all'iscrizione al Rentri sono: enti/imprese che effettuano
trattamento di rifiuti; produttori di rifiuti pericolosi; enti/imprese che
effettuano raccolta/trasporto di rifiuti pericolosi a titolo professionale;
commercianti ed intermediari di rifiuti pericolosi senza detenzione;
consorzi istituiti per il recupero di particolari tipologie di rifiuti;
enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali non pericolosi ex 184,
comma 3, lettere c), d) e g), del Dlgs 152/2006 (ossia provenienti da
lavorazioni industriali, artigianali o di trattamento rifiuti, oppure
coincidenti con fanghi da trattamenti acque, rifiuti da abbattimento fumi,
fosse settiche, reti fognarie) non assimilabili agli urbani.
Gli operatori obbligati dovranno iscriversi al Rentri secondo le seguenti
tempistiche (chiarite dal decreto direttoriale 22/9/2023): se in attività,
nelle finestre temporali previste per la propria categoria di appartenenza,
con calendario che va dal 15.12.2024 al 13.02.2026 (si veda la tabella in
questa stessa pagina); se con avvio attività dopo il febbraio 2026,
precedentemente all'effettuazione della prima annotazione documentale dovuta
per legge. Gli operatori ammessi all'iscrizione in via facoltativa potranno
invece farne istanza in ogni momento.
Tra i soggetti non obbligati (ma comunque ammessi) ad aderire
volontariamente al Rentri figurano: (ex articolo 188-bis, Dlgs 152/2006)
enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali non pericolosi diversi
da quelli ex 184, comma 3, lettere c), d) e g), e non assimilabili agli
urbani; enti/imprese produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che non
hanno più di 10 dipendenti; imprese che raccolgono e trasportano i propri
rifiuti non pericolosi ex articolo 212, comma 8; (ex articoli 9 e 12, Dm
59/2023) produttori di rifiuti non organizzati in forma di enti/imprese;
imprenditori agricoli ex articolo 2135 del Codice civile con volume annuo di
affari non superiore ad 8mila euro oppure che, indifferentemente dal volume
di affari, non producono rifiuti pericolosi; soggetti con particolari codici
Ateco ammessi alla tenuta del registro di carico/scarico mediante altra
documentazione; soggetti abilitati a raccolta/trasporto in forma ambulante
dei rifiuti oggetto del proprio commercio ex articolo 266, comma 5, Dlgs
152/2006.
Anche se non si iscriveranno a titolo facoltativo, tali soggetti potranno
comunque godere (come più avanti chiarito) di alcune utilità messe a
disposizione del portale Rentri.
La geolocalizzazione del trasporto.
I soggetti obbligati al Rentri che trasportano rifiuti speciali pericolosi
per conto terzi dovranno dal 15 dicembre 2024 garantire la presenza sui
mezzi di trasporto dei rifiuti di sistemi di geolocalizzazione basati sulle
tecnologie disponibili sul mercato. In difetto, non potranno più mantenere
(od ottenere in futuro) la necessaria iscrizione all'Albo gestori ambientali
per l'esercizio della corrispondente attività.
La nuova modulistica per tutti.
Per tutti i soggetti tenuti, in base a Dlgs 152/2006 e
provvedimenti-satellite, a garantire la tracciabilità dei rifiuti (mediante
Rentri o meno) cambierà dal 13.02.2025 la modulistica con la quale indicare
i dati quali/quantitativi dei residui in entrata/uscita ed accompagnarne il
trasporto. I nuovi due modelli da utilizzare (dentro e fuori ambiente Rentri)
sono quelli recati dal Dm 59/2023, ossia: il "modello di registro
cronologico di carico e scarico dei rifiuti" (che sostituirà il "modello
dei registri di carico e scarico" previsto dal Dm 148/1998); il "formulario
di identificazione del rifiuto" (in sostituzione del "formulario di
accompagnamento dei rifiuti" ex Dm 145/1998).
Per i soggetti iscritti al Rentri, il passaggio dai vecchi ai nuovi modelli
avverrà attraverso il portale. Tuttavia, come accennato, il portale Rentri
erogherà servizi anche a favore degli operatori non iscritti. Servizi che in
base al decreto direttoriale MinAmbiente 143/2023 riguarderanno pure i nuovi
modelli di registro di carico/scarico e formulario di identificazione.
In relazione al primo, i non iscritti potranno: indicare l'intervallo di
pagine da riprodurre e portare a vidimazione; inserire nel frontespizio i
dati identificativi dell'Ente/impresa; ottenere un file “pdf” del
registro conforme al modello legale, pronto per essere vidimato e compilato
manualmente; in caso di utilizzo di strumenti informatici per la tenuta,
potranno riprodurre il registro su fogli bianchi già vidimati dalla Ccia.
In relazione al formulario di identificazione, invece, i non iscritti al
Rentri potranno: creare sul portale un proprio profilo mediante il recupero
di informazioni da altre banche dati della P.a.; emettere il formulario
vidimato digitalmente; inserire mediante applicazione web i dati di soggetti
coinvolti e quantità rifiuti; produrre file “pdf” conformi e
compilabili; scaricare i documenti nella versione finale, accedendo con
strumenti digitali di autenticazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2024). |
ENTI LOCALI:
P.a., entro il 23/9 dichiarazione di accessibilità dei siti web. La comunicazione va inviata tramite l'applicazione on-line
presente sul sito di Agid.
Entro il prossimo 23 settembre le pubbliche amministrazioni sono
tenute ad inviare ad Agid (Agenzia per l'Italia digitale) la periodica
“dichiarazione di accessibilità” attraverso cui gli enti rendono pubblico lo
stato di accessibilità di ogni sito web e applicazione mobile di cui sono
titolari.
L'accessibilità web rappresenta la possibilità, da parte dei sistemi
informatici, di fornire i servizi anche a coloro che sono affetti da
disabilità, temporanee e non, che, quindi, possono utilizzare tecnologie
ausiliarie.
Come ricorda Agid, prima di compilare la dichiarazione, è necessario avere
nominato il Responsabile della transizione digitale (Rtd), avere indicato su
Indice P.a. (Ipa) la mail dell'Rtd della propria amministrazione (senza
questa mail pubblicata non è possibile accedere all'applicazione e quindi
non è possibile inviare la dichiarazione), effettuare le verifiche di
accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili adottando le
metodologie, i criteri di valutazione e le verifiche tecniche di conformità
ai requisiti di accessibilità.
Rispetto a quest'ultimo adempimento, Agid, per agevolare il lavoro delle p.a.,
mette a disposizione delle amministrazioni uno strumento “Modello di autovalutazione di accessibilità”, allegato 2 delle Linee guida
sull'accessibilità degli strumenti informatici, utile per determinare lo
stato di conformità del sito web e/o applicazione mobile, il cui esito può
essere conforme, parzialmente conforme o non conforme.
Inoltre, è necessario dotarsi e rendere disponibile un “meccanismo di
feedback”, che la p.a. dovrà indicare all'interno della dichiarazione, per
consentire agli utenti di segnalare eventuali casi di inaccessibilità. Dal
punto di vista prettamente operativo, l'amministrazione deve procedere alla
compilazione della dichiarazione su
https://form.agid.gov.it, al primo
accesso è necessario richiedere le credenziali che verranno inviate
all'indirizzo mail del Rtd.
La dichiarazione si compone di due macro-sezioni. La prima sezione presenta
i contenuti previsti dalla Decisione di esecuzione Ue 2018/1523, ossia stato
di conformità, dichiarazione di contenuti, sezioni e funzioni non
accessibili, in caso di non conformità parziale o totale, indicazione del
meccanismo di feedback e recapiti dell'amministrazione, procedura di
attuazione (Difensore civico digitale).
La seconda sezione, invece, è composta da informazioni sul sito o
applicazione mobile e da informazioni sull'amministrazione. Completata la
dichiarazione, la p.a riceve una e-mail con un link da esporre nel footer
del sito web o nell'apposita sezione dello store relativamente alle app
mobili.
Entro il 23 settembre di ogni anno la p.a. riesamina e, se necessario,
procede all'aggiornamento dei contenuti della dichiarazione. Ogni
dichiarazione ha validità annuale, dal 24 settembre dell'anno corrente al 23
settembre dell'anno successivo.
La mancata pubblicazione determina un inadempimento normativo, rilevante ai
fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei
dirigenti responsabili e comporta responsabilità dirigenziale e
responsabilità disciplinare, ferme restando le eventuali responsabilità
penali e civili
(articolo ItaliaOggi del 13.09.2024). |
ENTI LOCALI: Preventivi
2025-2027 ai nastri di partenza.
Preventivi 2025-2027 ai nastri di partenza. Scade il 15 settembre (che però
cade di domenica) il primo termine previsto dalla nuova tabella di marcia
che scandisce il percorso di predisposizione e approvazione dei bilanci di
previsione degli enti locali relativi al prossimo triennio.
La disciplina di riferimento è quella prevista dai punti 9.3.1. e seguenti
dell'allegato 4/1 al dlgs 118/2011, come modificato dal dm 25/07/2023. Tempi
più lunghi (fino al 30 settembre) sono previsti per i mini enti e per quelli
che hanno attribuito la gestione del servizio, compresa la predisposizione
dei documenti contabili, ad una unione di comuni. Peraltro, si tratta di una
scadenza non perentoria, come anche le successive, fatta eccezione per quella
del 31 dicembre, entro la quale si deve approvare definitivamente il
documento in consiglio.
L'obiettivo della riforma, in effetti, è stato
proprio quello di aumentare il numero di amministrazioni che tagliano il
traguardo nei tempi, riducendo il fenomeno (in passato endemico) del ricorso
all'esercizio provvisorio. Stando ai dati relativi allo scorso anno, il
target è stato centrato, considerato che il 54% degli enti ha approvato il
bilancio di previsione 2024-2026 nei tempi: si tratta di oltre 4000
amministrazioni, a fronte delle circa 1600 dell'anno prima, anche se la compliance è decisamente sopra la media al nord e sotto al centro sud.
Ricordiamo che il bilancio tecnico è costituito da:
a) i prospetti del bilancio riguardanti le previsioni delle entrate
e delle spese riferiti almeno al triennio successivo, il prospetto degli
equilibri e almeno gli allegati relativi al fondo pluriennale vincolato e al
fondo crediti di dubbia esigibilità, per la cui definitiva elaborazione è
richiesta la collaborazione dei responsabili dei servizi;
b) l'elenco dei capitoli distinti per centri di responsabilità
riferito ai medesimi esercizi considerati nel bilancio di previsione
destinato ad essere successivamente inserito, con gli obiettivi generali di
primo livello, nel piano esecutivo di gestione (PEG). Il responsabile del
servizio finanziario valuta se articolare l'elenco dei capitoli anche per
assessorati;
c) (eventualmente) i dati contabili della nota di aggiornamento
al Dup, se risulta la necessità di integrare o modificare il Dup.
Si tratta
evidentemente del contenuto minimo, che può essere opportunamente integrato
dal responsabile del servizio finanziario con tutti gli ulteriori dati
ritenuti necessari, come ad esempio una previsione circa altri eventuali
fondi da accantonare, come il fondo contenzioso o il fondo garanzia debiti
commerciali.
Il bilancio tecnico deve essere corredato dalle necessarie
informazioni contabili ovvero:
a) le previsioni iniziali e definitive e i
dati di consuntivo dei capitoli e degli articoli del primo esercizio del Peg
dell'esercizio precedente (dati di competenza e di cassa);
b) le previsioni
iniziali e assestate, e i dati relativi agli accertamenti/impegni e
incassi/pagamenti dei capitoli del primo esercizio del Peg in corso di
gestione (riferiti alla data del 31 luglio);
c) le previsioni assestate,
accertamenti e impegni dei capitoli relativi agli esercizi del Peg
successivi a quello corrente (riferiti almeno alla data del 31 luglio);
d)
gli impegni e gli accertamenti registrati nelle scritture contabili
dell'ente relativi all'esercizio successivo al bilancio in corso di
gestione. L'individuazione delle informazioni di natura contabile da
trasmettere ai responsabili degli uffici con il bilancio tecnico costituisce
una valutazione del responsabile del servizio finanziario
(articolo ItaliaOggi del 13.09.2024). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Amianto,
non bonificare il capannone è reato.
Compie reato, anzi ne commette due, l’imprenditore che non bonifica
dall’amianto il capannone industriale in disuso. Da una parte c’è
l’inosservanza del provvedimento dell’autorità perché non risulta adempiuto
nel termine l’ordine di provvedere impartito dal sindaco del Comune;
dall’altra scatta il getto pericoloso di cose laddove dal tetto esposto
alle intemperie le fibre si disperdono nell’aria con potenziali pericoli per
la salute delle persone.
No alle attenuanti generiche, ma sì all’ammenda al posto della pena
detentiva per l’amministratore della società che ha difficoltà a completare
i lavori: il tutto sia per la pandemia da Covid-19 sia per l’ampia zona
interessata dalla bonifica.
Così la Corte di Cassazione, Sez. I penale, nella
sentenza 24.09.2024 n. 35801.
Colpa sufficiente
Diventa definitiva la condanna per
i reati di cui agli articoli
650 e
674 Cp, riuniti dal vincolo della continuazione.
Una volta scaduto il termine perentorio indicato dall’ordine del sindaco, si
configura la situazione antigiuridica punita dalla norma incriminatrice. E
senza bonifica le coperture in eternit del capannone vanno in disfacimento
con l’emissione in atmosfera delle fibre di asbesto.
L’elemento soggettivo dei reati sussiste nonostante le difficoltà operative
create dall’emergenza Coronavirus e dalle dimensioni dell’area: nei reati
contravvenzionali, infatti, non è necessario che la condotta omissiva sia
motivata da una specifica volontà di sottrarsi agli adempimenti dovuti, ma è
sufficiente un atteggiamento negativo dovuto a colpa.
È l’imputato della contravvenzione, poi, a dover dimostrare di aver fatto
tutto il possibile per osservare la norma violata, senza che si configuri
alcuna inversione dell’onere della prova: spetta a lui provare il contenuto
dell’eccezione difensiva rispetto alla prova della colpa fornita
dall’accusa.
Misura massima
Scatta la pena pecuniaria e non
detentiva anche in considerazione delle ingenti spese necessarie per la
bonifica: la misura, però, è determinata nel massimo perché l’imprenditore
resta a lungo passivo senza intervenire nonostante le segnalazioni sulla
necessità di bonificare il capannone.
No alla condanna alle spese del giudizio della parte civile una volta
rigettata la domanda di condanna al risarcimento del danno
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2024).
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SENTENZA
1. Ca.Ma. ricorre avverso la sentenza dei Tribunale di Pesaro del
07.12.2023, con la quale è stato condannato alla pena di euro 412,00 di
ammenda, in ordine ai seguenti reati, commessi dal 26 gennaio al 18.03.2021
in Pesaro e riuniti tra loro dal vincolo della continuazione:
a) inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità, ai sensi dell'art.
650 cod. pen., perché, in qualità di amministratore unico della Ca.Gi.
s.r.L., non aveva osservato il provvedimento legalmente dato per ragioni di
sicurezza pubblica e igiene dal sindaco del Comune di Pesaro con ordinanza
dell'8 gennaio, notificatogli il 27.11.2020, con la quale gli era stato
ingiunto di provvedere entro 60 giorni alla bonifica della copertura del
capannone industriale contenente amianto e al relativo smaltimento tramite
ditta specializzata;
b) getto pericoloso di cose, ai sensi dell'art. 674 cod. pen.,
perché, avendo lasciato abbandonato agli agenti atmosferici il capannone
industriale, senza provvedere alla sua bonifica, aveva contribuito a che le
coperture in cemento amianto andassero in disfacimento, provocando emissioni
nell'atmosfera di fibre di amianto, potenzialmente pericolose per la salute.
2. Il ricorrente articola quattro motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo, denuncia inosservanza ed erronea
applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 650 cod. pen.,
192 e 530 cod. proc. pen., e vizio di motivazione della sentenza impugnata,
perché il Tribunale, pur avendo dato atto delle difficoltà riscontrate
dall'imputato nell'adempimento dell'ordinanza (vista la pandemia da Covid-19
e l'ampia zona interessata dalla bonifica), non ha poi accertato la carenza
dell'elemento soggettivo dei reati.
...
1. Il ricorso è fondato nei limiti che seguono.
1.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Il ricorrente, infatti, non si confronta con la sentenza impugnata, nella
parte in cui il Tribunale, mostrando di confrontarsi con le deduzioni
difensive, ed in particolare con la diversa ipotesi alternativa proposta,
relativa alle difficoltà incontrate nell'esecuzione delle opere, dovute
soprattutto ai problemi conseguenti alla pandemia, tali da non consentire di
ultimare i lavori di bonifica, ha evidenziato come l'imputato aveva
disatteso quanto ingiunto dall'ordinanza sindacale, lasciando il capannone
esposto agli eventi atmosferici con conseguente disfacimento delle coperture
in amianto dello stesso, così provocando emissioni nell'atmosfera di fibre
di amianto, potenzialmente pericolose per la salute delle persone.
Pertanto, al di là della valutazione operata dal Tribunale delle dedotte
difficoltà operative, risulta confermata la mancata esecuzione dei lavori
rispetto ad un ordine legalmente dato dall'Autorità, in cui era fissato un
termine perentorio per l'adempimento, scaduto il quale la situazione
antigiuridica prevista dalla norma incriminatrice può ritenersi verificata.
Quanto al profilo soggettivo, per la configurabilità dei reati accertati,
vertendosi in ipotesi contravvenzionale, non è necessario che la condotta
omissiva sia motivata da una specifica volontà di sottrarsi ai dovuti
adempimenti, essendo al contrario sufficiente all'uopo anche un
atteggiamento negativo dovuto a colpa.
Nel reato contravvenzionale, infatti, l'imputato deve dimostrare di aver
fatto tutto il possibile per osservare la norma violata, senza che ciò
integri alcuna inversione dell'onere della prova, a lui spettando provare il
contenuto dell'eccezione difensiva rispetto alla prova della colpa fornita
dall'accusa (Sez. 1, n. 13365 del 19/02/2013, Rochira, Rv. 255178),
circostanza non avvenuta nel caso in esame. |
VARI: Utente
contesta la bolletta: il test sul contatore ricade sul fornitore.
Quando l’utente del servizio contesta la bolletta lamentando un addebito
eccessivo, spetta al fornitore dell’energia elettrica dimostrare che il
contatore funziona in modo corretto. Il cliente è tenuto a provare l’entità
dei consumi effettuati nel periodo contestato, ma può farlo grazie al dato
statistico di quanto normalmente rilevato nelle fatture precedenti per gli
ordinari impieghi di energia.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, nell’ordinanza
24.09.2024 n. 25542 accoglie il ricorso proposto dalla srl utente:
sbaglia la Corte d’appello a riformare la sentenza del tribunale condannando
la società a restituire al fornitore gli oltre 2.100 euro ottenuti in
esecuzione della pronuncia di primo grado, che aveva dichiarato
insussistente il credito della compagnia elettrica e illegittimo il distacco
della fornitura dopo il mancato pagamento.
Le bollette sono in linea di
massima
idonee a fornire la prova dei consumi esposti in fattura, salva l’ipotesi di
contestazione dell’utente.
La rilevazione della somministrazione effettuata
tramite
il contatore, poi, risulta assistita da una mera presunzione semplice di
veridicità:
se dunque l’utente contesta il funzionamento, spetta al fornitore dimostrare
che il rilevamento è avvenuto a regola d’arte. E ciò anche quando è
convenuto
in giudizio con l’azione di accertamento negativo del credito.
Il cliente,
dal
canto suo, deve provare che i consumi eccessivi sono imputabili a terzi o
almeno
che l’impiego abusivo dell’energia non è stato agevolato da sue condotte
negligenti
nei necessari controlli per impedire gli illeciti altrui.
La srl, nella
specie,
contesta la fattura che mostra consumi dieci volte superiori a quelli della
lettura
precedente, praticamente impossibili per un semplice ufficio: allega i
documenti
annunciando il contenzioso e chiede al fornitore il controllo del contatore.
Pesa la media dei consumi dello storico delle fatturazioni, mentre anche
l’altra
sede vicina è su livelli molto più bassi rispetto alla bolletta
“incriminata”
(articolo ItaliaOggi del 26.09.2024). |
PUBBLICO IMPIEGO: I
dirigenti pubblici non hanno diritto a conservare incarichi.
I dirigenti pubblici non hanno un diritto alla conservazione degli incarichi
conferiti.
L’ordinanza
24.09.2024 n. 25517 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, torna
a ribadire un punto sul quale la giurisprudenza degli Ermellini è costante (Cass.,
n. 5546 del 2020; Cass. 22.12.2004; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass.
22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442): l’inapplicabilità
dell’articolo 2013 del codice civile implica che l’acquisizione della
qualifica dirigenziale attribuisca esclusivamente un diritto ad un incarico
dirigenziale, ma non ad uno specifico e particolare incarico.
Spiega la Cassazione che “nel lavoro alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto
l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di
qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ.,
risultando la regola del rispetto di determinate professionalità acquisite
non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico”.
L’articolo 19, comma 1, ultimo periodo, del d.lgs 165/2001 è il fondamento
sul quale poggia l’interpretazione della Corte, poiché dispone “Al
conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si
applica l'articolo 2103 del codice civile”.
Tale disposizione garantisce al lavoratore il diritto ad essere adibito alle
mansioni connesse all’inquadramento professionale e a non perdere la
professionalità acquisita nell’esercizio delle proprie funzioni: “Il
lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o
a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia
successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso
livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente
svolte”.
Nel caso della dirigenza pubblica, alla sottoscrizione del contratto di
lavoro subordinato dal quale discende l’inserimento del dirigente
nell’organico dell’ente, si accompagna un incarico di funzioni dirigenziali,
atto di difficile configurazione (da tempo è discusso se di natura
pubblicistica o privatistica) comunque latamente di organizzazione, col
quale l’organo di governo definisce non “mansioni” ma finalità
generali e specifici risultati connaturati allo svolgimento di tale
incarico.
Infatti, sempre ai sensi dell’articolo 19, comma 1, del d.lgs. 165/2001, per
conferire l’incarico dirigenziale “si tiene conto, in relazione alla
natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità
della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali
del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza
nell'amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle
specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di
direzione eventualmente maturate all'estero, presso il settore privato o
presso altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento
dell'incarico”.
La stretta connessione tra natura ed obiettivi dell’incarico dirigenziale e
la competenza professionale, dimostrata in particolare dalla valutazione dei
risultati, esclude di ragionare in termini di “mansioni”.
Per altro, acquisita la qualifica dirigenziale non è più nemmeno pensabile
di riferirsi all’istituto delle “mansioni superiori”, utile
eventualmente all’ascesa verso qualifiche più elevate. La dirigenza
costituisce l’approdo finale e di vertice della carriera, sul piano
dell’inquadramento.
Pertanto, non si discute più, appunto, di mansioni, ma di idoneità a
ricoprire ogni possibile incarico dirigenziale evidentemente collegato,
comunque, al bagaglio di ciascun dirigente.
Ecco perché la legge esclude l’applicazione della disciplina del codice
civile finalizzata al consolidamento della “specifica”
professionalità acquisita: la dirigenza pubblica deve poter garantire la
capacità di esprimere competenza e professionalità non legate a particolari,
individuate e ristrette funzioni e attività lavorative, ma riferibili ad una
gamma ampia di obiettivi connessi ai possibili incarichi dirigenziali
connessi all’organizzazione dell’ente.
Sulla base di queste considerazioni, la Cassazione con l’ordinanza in
commento ha escluso il diritto di un dirigente, incaricato come direttore di
un’agenzia di sanità pubblica, a transitare nei ruoli della regione
mantenendo la “qualifica”, anche in considerazione della circostanza
che l’incarico di direttore, nel caso di specie, non è stato oggetto di
revoca o di singola soppressione: infatti è spirato a causa della
soppressione dell’Asp, nell'ambito di una complessa riorganizzazione
ritenuta dal legislatore regionale.
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2024). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Contratto d’opera, l’appaltatore deve provare di aver adempiuto
l’obbligazione. Per la Corte di cassazione in caso di contestazione si
tratta di un adempimento costitutivo del diritto di credito oggetto della
pretesa.
“L’appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo
pattuito ha l’onere di provare di avere esattamente adempiuto la propria
obbligazione, cioè di avere eseguito l’opera conformemente al contratto ed
alle regole dell’arte, integrando tale adempimento il fatto costitutivo del
diritto di credito oggetto della sua pretesa”.
Lo ha affermato, con un principio di diritto, la II Sezione civile della
Corte di Cassazione,
ordinanza 23.09.2024 n. 25410, accogliendo parzialmente il
ricorso del committente condannato dalla Corte d’appello a pagare il saldo
dell’opera.
Il ricorrente inizialmente aveva proposto al Tribunale di Prato una domanda
per chiedere la restituzione di quasi 55mila euro corrisposti al convenuto
per la fornitura e messa in opera di piante ornamentali, lamentando che il
lavoro non era stato completato e che alcune piante non erano attecchite.
A sua volta, l’appaltatore aveva chiesto e poi ottenuto un decreto
ingiuntivo per il saldo. Dopo alterne vicende giudiziarie, la Corte
d’appello di Firenze ha condannato il committente al pagamento di altri
17mila euro a titolo di saldo affermando che il contratto non era chiaro e
che in difetto della prova di un comportamento colpevole dell’appaltatore,
il committente era tenuto a corrispondere il compenso per le opere eseguite
dall’appaltatore.
Per la Suprema corte però, per un verso, si tratta di conclusioni non
coerenti con l’affermazione dell’assenza di chiarezza delle prestazioni “perché,
solo dopo l’individuazione dell’obbligo contrattuale, è possibile accertare
se sussista o meno inadempimento”. Per l’altro, in contrasto con il
principio generale che governa il contratto con prestazioni corrispettive,
secondo cui la parte che chiede in giudizio l’esecuzione della prestazione a
lui dovuta non deve essere a sua volta inadempiente, ma deve offrire di
eseguire la propria prestazione, se le prestazioni debbono essere eseguite
contestualmente, ovvero deve dimostrare avere esattamente adempiuto la
propria obbligazione, se essa, come avviene per l’appaltatore, precede
l’adempimento di pagamento del corrispettivo cui la controparte è tenuta.
Dunque, nel contratto di appalto, l’appaltatore che agisca in giudizio per
il pagamento del corrispettivo convenuto ha l’onere di provare di avere
esattamente adempiuto la propria obbligazione, cioè di avere eseguito
l’opera conformemente al contratto ed alle regole dell’arte, integrando tale
adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito oggetto della sua
pretesa. Con l’effetto che la sua domanda non può essere accolta nel caso in
cui l’altra parte contesti il suo adempimento, come avvenuto nel caso di
specie.
La Corte d’appello, prosegue l’ordinanza, avrebbe infatti dovuto accertare
se la prestazione dell’appaltatore fosse stata “integralmente e
correttamente eseguita” e, solo in caso positivo, “avrebbe potuto
condannare il committente al pagamento del prezzo”. Invece, ha
trascurato che il ricorrente aveva eccepito l’inadempimento dell’appaltatore
per “inesattezza qualitativa e quantitativa della prestazione” e,
ribaltando l’onere della prova, “ha erroneamente condannato il
committente al pagamento del prezzo, senza accertare se la prestazione
dell’appaltatore fosse stata adempiuta” (articolo NT+Diritto del
23.09.2024).
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ORDINANZA
Il primo e terzo motivo, che per la loro connessione vanno
esaminati congiuntamente, sono fondati.
La Corte d’appello, con motivazione intrinsecamente contraddittoria, pur
avendo ritenuto che non fosse chiaro il contenuto delle obbligazioni
contrattuali assunte dalle parti, ha apoditticamente affermato che non vi
fosse la prova del comportamento colpevole dell’appaltatore, condannando il
committente al pagamento delle prestazioni eseguite dall’appaltatore.
Le conclusioni della Corte d’appello non sono coerenti con l’affermazione
dell’assenza di chiarezza delle prestazioni perché, solo dopo
l’individuazione dell’obbligo contrattuale, è possibile accertare se
sussista o meno inadempimento.
Dette conclusioni si pongono, inoltre, in contrasto con il
principio generale che governa il contratto con prestazioni corrispettive,
secondo cui la parte che chiede in giudizio l'esecuzione della prestazione a
lui dovuta non deve essere a sua volta inadempiente, ma deve offrire di
eseguire la propria prestazione, se le prestazioni debbono essere eseguite
contestualmente, ovvero deve dimostrare di avere esattamente adempiuto la
propria obbligazione, se essa, come avviene per l'appaltatore, precede
l'adempimento di pagamento del corrispettivo cui la controparte è tenuta.
Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, il creditore
che agisce in giudizio, sia per l'adempimento del contratto sia per la
risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte
negoziale o legale del suo diritto (ed eventualmente del termine di
scadenza), limitandosi ad allegare l'inadempimento della controparte, su cui
incombe l'onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito
dall'adempimento (Cass., Sez. Un.,
30/10/2001 n. 13533).
L'applicazione di tale principio al contratto di appalto -cui per
giurisprudenza costante si estende la disciplina generale dell'inadempimento
del contratto- comporta che l'appaltatore che agisca in
giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto ha l'onere di provare
di avere esattamente adempiuto la propria obbligazione, cioè di avere
eseguito l'opera conformemente al contratto ed alle regole dell'arte,
integrando tale adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito
oggetto della sua pretesa (Cass.,
Sez. II, 13/02/2008 n. 3472).
Con l'effetto che la sua domanda non può essere accolta nel
caso in cui l'altra parte contesti il suo adempimento, come avvenuto nel
caso di specie, in cui il committente ha contestato che la prestazione non
era stata integralmente eseguita e che alcune piante non erano attecchite.
A fronte di tale contestazione, la
Corte d’appello avrebbe dovuto accertare se la prestazione dell’appaltatore
fosse stata integralmente e correttamente eseguita e, solo in caso positivo,
avrebbe potuto condannare il committente al pagamento del prezzo.
La Corte d’appello ha omesso di considerare che Ro.Lu.Bo. aveva eccepito
l’inadempimento dell’appaltatore per inesattezza qualitativa e quantitativa
della prestazione e, ribaltando l’onere della prova, ha erroneamente
condannato il committente al pagamento del prezzo, senza accertare se la
prestazione dell’appaltatore fosse stata adempiuta.
Non è pertinente, ai fini dell’obbligo di pagamento del corrispettivo da
parte del committente, il richiamo all’art. 1181 c.c., secondo cui il
creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è
divisibile; nel caso di specie, nessuna delle parti ha chiesto la
risoluzione del contratto, sicché non è applicabile il principio statuito da
Cass., Sez. II, 17/02/2010 n. 3786, in forza del quale, nel contratto
d'appalto, il committente può rifiutare l'adempimento parziale oppure
accettarlo e, anche se la parziale esecuzione del contratto sia tale da
giustificarne la risoluzione, può trattenere la parte di manufatto
realizzata e provvedere direttamente al suo completamento, essendo, poi,
legittimato a chiedere in via giudiziale che il prezzo sia proporzionalmente
diminuito e, in caso di colpa dell'appaltatore, anche il risarcimento del
danno.
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto con assorbimento dei restanti
motivi. |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Criteri per il rilascio di concessioni temporanee di aree
pubbliche e dichiarazione di ripudio del fascismo.
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Comune e provincia – Giunta comunale – Atto di indirizzo
– Occupazioni di spazi e aree pubbliche - Concessione
temporanea – Ripudio del fascismo e del nazismo -
Dichiarazione.
È legittima la delibera comunale di
indirizzo per il rilascio di concessioni temporanee per
occupazioni di aree pubbliche con cui si preveda l’obbligo
per il richiedente di allegare una dichiarazione di impegno
a riconoscersi nei principi della Costituzione italiana e di
ripudiare il fascismo e il nazismo.
Difatti, nel definire le condizioni cui è subordinata la
concessione di questi spazi, l’amministrazione ben può
perseguire l’obiettivo di evitare che essi vengano
utilizzati per il perseguimento di finalità antidemocratiche
proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica
esaltazione di esponenti, fatti, metodi e finalità
antidemocratiche del fascismo –comprese le idee e i metodi
razzisti– o ancora per il compimento di manifestazioni
usuali del disciolto partito fascista, ovvero di
organizzazioni naziste, trattandosi di un obiettivo di
interesse pubblico alla luce della ispirazione antifascista
della nostra Costituzione. (1).
In motivazione la sezione ha rammentato che la matrice
antifascista della Costituzione repubblicana emerge tanto
dalla sua genesi, quanto dalla sua struttura e contenuto,
come la XII disposizione transitoria e finale della
Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi
forma, del disciolto partito fascista e la legge 20.06.1952,
n. 645 (“legge Scelba”) che, nel dare attuazione alla
predetta norma costituzionale, ha fornito una tutela
anticipata al bene giuridico definibile come “ordine
pubblico democratico e costituzionale” in relazione a
manifestazioni che, in connessione con la natura pubblica
delle stesse, possono essere tali da indurre alla
ricostituzione di un partito che, per la sua ideologia
antidemocratica e per espressa previsione, è contrario
all’assetto costituzionale.
---------------
Comune e provincia – Giunta comunale – Atto di indirizzo –
Occupazioni di spazi e aree pubbliche - Concessione
temporanea – Dichiarazione di ripudio del fascismo e del
nazismo – Tutela preventiva - Libertà di manifestazione del
pensiero - Libertà di associazione.
L’ente pubblico può legittimamente
escludere in via preventiva dall’uso esclusivo dei beni
pubblici i soggetti che si facciano portatori del pensiero
fascista che potrebbero avvalersi degli stessi beni
sottratti all’uso della collettività per il perseguimento di
finalità antidemocratiche.
Tale tutela preventiva si rende opportuna in quanto, in caso
contrario, il pregiudizio potrebbe non essere
necessariamente e interamente riparabile ex post mediante
l’applicazione di sanzioni o la decadenza della concessione.
In tal caso non viene in rilievo una restrizione
irragionevole delle libertà di manifestazione del pensiero e
di associazione, bensì una misura preventiva volta a evitare
che lo spazio pubblico di cui si chiede la concessione venga
utilizzato con modalità e per finalità incompatibili con
l’ordinamento costituzionale. (2).
---------------
(1) Conformi: Tar per il Piemonte, sez. II, 18.04.2019, n. 447.
Difformi: Tar per la Sicilia, sez. I,
15.04.2021, n. 1241; C.g.a., sez. giur., ordinanza
13.12.2019, n. 797 secondo cui è illegittimo imporre al
richiedente la concessione di suolo pubblico l'obbligo di
rendere dichiarazioni che appaiono, almeno in parte, lesive
del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero
sancita dall’articolo 21 della Costituzione, nella parte in
cui tutela anche il diritto al silenzio, cioè a non
manifestare le proprie convinzioni.
Secondo tale indirizzo, la previsione regolamentare che
imponga tale dichiarazione si pone in contrasto con il
principio di non aggravamento del procedimento
amministrativo e con il principio di proporzionalità laddove
conculca la libertà di pensiero in vista di obiettivi
pubblici che, pur legittimi, possono essere perseguiti con
più appropriati ed efficaci strumenti, tra cui la decadenza
dalla concessione.
(2) Conformi: Tar. per il Piemonte, sez. II, 18.04.2019, n. 447.
Difformi: Tar per la Sicilia, sez. I,
15.04.2021, n. 1241; C.g.a., sez. giur., ordinanza
13.12.2019, n. 797 (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 19.09.2024 n. 7687 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
... per la riforma della
sentenza 26.02.2020 n. 166 del Tribunale Amministrativo
Regionale per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia,
resa tra le parti;
...
10. L’appello è infondato.
10.1. In primo luogo, si deve ribadire il consolidato
orientamento secondo cui la concessione di spazi pubblici,
comportando un utilizzo a fini privati di aree o locali che
vengono così sottratti all’uso comune, è espressione di una
potestà ampiamente discrezionale, sia nell’an, sia
nella definizione di tempi, modi e condizioni
dell’occupazione (sul punto si v., tra le tante, Cons. St.,
sez. V, sentt. n. 4129 del 2024, n. 4660 del 2022, n. 5442
del 2015).
La definizione in via preventiva e generale di criteri e
indirizzi per l’esame delle relative istanze da parte del
Comune, proprietario e concedente, non è dunque illegittima,
anzi, comportando un vincolo che la stessa Amministrazione
pone rispetto all’esercizio dell’ampia discrezionalità che
le è riconosciuta in materia, costituisce attuazione del
principio d’imparzialità di cui all’art. 97 Cost..
10.2. Inoltre, la circostanza che il Comune possa approvare
o abbia invero emanato un regolamento in materia non esclude
l’adozione di atti d’indirizzo, con il solo limite che
questi siano rispettosi del primo (e, ovviamente, delle
altre fonti sovraordinate): da una lettura congiunta
dell’art. 107 (secondo cui ai dirigenti spettano i compiti
di gestione e agli organi di governo dell’Ente le funzioni
d’indirizzo e controllo) e dell’art. 48 del TUEL (secondo
cui la Giunta compie tutti gli atti rientranti nelle
funzioni degli organi di governo che non siano riservati al
Consiglio comunale o al Sindaco) emerge infatti una generale
competenza della Giunta all’adozione di atti d’indirizzo
rispetto alla concreta gestione amministrativa, finanziaria
e tecnica demandata ai dirigenti.
Nello specifico caso del Comune di Brescia, poi, questa
potestà è ribadita dall’art. 4, co. 5, del regolamento COSAP,
secondo cui il rilascio delle concessioni compete ai singoli
dirigenti «in osservanza degli eventuali indirizzi
disposti dalla Giunta comunale», e dall’art. 26, co. 1,
del regolamento di polizia urbana, secondo cui «l’occupazione
di spazi ed aree pubbliche o di uso pubblico nonché degli
spazi soprastanti o sottostanti è subordinata al preventivo
rilascio di apposita concessione osservando gli indirizzi
eventualmente disposti dalla giunta comunale e secondo le
norme contenute nel regolamento per l’applicazione del
canone occupazione spazi ed aree pubbliche».
Pertanto, non si può dubitare né del potere del Comune di
stabilire criteri per l’occupazione di spazi pubblici, né
della competenza della Giunta a emanare atti d’indirizzo in
merito, con conseguente infondatezza del terzo e del quarto
motivo di appello.
10.3. Nel definire le condizioni cui è subordinata la
concessione di questi spazi, l’Amministrazione ben può
perseguire l’obiettivo di evitare che essi vengano
utilizzati per il perseguimento delle finalità
antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la
pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e
finalità antidemocratiche del fascismo –comprese le idee e i
metodi razzisti– o ancora per il compimento di
manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero
di organizzazioni naziste.
Si tratta, infatti, di un obiettivo di sicuro interesse
pubblico, alla luce di quella che la Corte costituzionale ha
definito «l’ispirazione antifascista della nostra
Costituzione» (sent. n. 254 del 1974).
Infatti, come pone in luce la dottrina costituzionalistica a
larga maggioranza, la matrice antifascista della
Costituzione repubblicana emerge tanto dalla sua genesi –in
quanto essa è stata elaborata dalle forze che avevano
partecipato alla Resistenza, conclusasi con quella “cesura
ordinamentale” rappresentata dalla fondazione della
Repubblica e dall’avvento del nuovo ordine democratico–
quanto soprattutto dalla sua struttura e dal contenuto: le
norme e i principi costituzionali –in particolare, il
principio lavoristico, quelli di democrazia, solidarietà ed
eguaglianza, il riconoscimento dei diritti dell’uomo
(anteriori a ogni concessione da parte dello Stato) come
singolo e nelle formazioni sociali nonché delle autonomie,
pur nell’unità e indivisibilità della Repubblica, la pace e
l’apertura alla Comunità internazionale– si pongono
(consapevolmente, come emerge anche dai lavori preparatori
della Costituente) in chiara discontinuità rispetto a quelli
propri del regime precedente, riconoscendo espressamente
diritti e libertà che dal fascismo erano stati violati e
approntando gli istituti giuridici per garantire loro tutela
–non ultimo, prevedendo un controllo di costituzionalità
delle leggi.
In tale contesto, il primo comma della XII disposizione, che
vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del
disciolto partito fascista», non può ritenersi meramente
“transitoria”, ossia destinata a trovare applicazione
per un periodo di tempo determinato (com’è, per esempio, il
secondo comma), ma, come osservato anche in letteratura, è
norma “finale”, in quanto, legandosi all’art. 54, co.
1, Cost. secondo cui «tutti i cittadini hanno il dovere
di essere fedeli alla Repubblica» e all’art. 139 Cost.,
che sottrae alla revisione costituzionale «la forma
repubblicana» (secondo Corte cost., sent. n. 1146 del
1988, da intendersi comprensiva di tutti quei principi che «appartengono
all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la
Costituzione Italiana» e quindi innanzitutto dei “diritti
inviolabili”, su cui si v., tra le più recenti, Corte
cost., sent. n. 135 del 2024), rifinisce il disegno
costituzionale ponendo una clausola di salvaguardia che –in
deroga all’art. 49 Cost. che riconosce il diritto di tutti i
cittadini di associarsi liberamente in partiti, nonché agli
artt. 17 e 21 che sanciscono le libertà di riunione e di
manifestazione del pensiero (sul punto si v. Corte cost.,
sentt. n. 74 de 1958 e n. 15 del 1973)– è volta a
scongiurare un ritorno “sotto qualsiasi forma” del
fascismo, che segnerebbe la fine dell’esperienza democratica
con essa iniziata e il disconoscimento dei diritti e delle
libertà che le sono propri.
A tale disposizione ha dato attuazione legge 20.06.1952, n.
645 (c.d. “legge Scelba”), che fornisce a quel bene
giuridico definibile come “ordine pubblico democratico e
costituzionale” «una tutela anticipata in relazione a
manifestazioni che, in connessione con la natura pubblica
delle stesse, espressamente richiesta dalla norma, possano
essere tali da indurre alla ricostituzione di un partito
che, per la sua ideologia antidemocratica, e per espressa
previsione appena sopra richiamata, contenuta nella stessa
Carta del 1948 (XII, disp. trans. fin. Cost.), è contraria
all’assetto costituzionale» (Cass. pen., ss. uu., sent.
n. 16153 del 2024).
Inoltre, come il Consiglio di Stato ha già osservato, «detto
precetto costituzionale, fissando un’impossibilità giuridica
assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento
politico formatosi e operante in violazione di tale divieto
possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e
condizionare le libere e democratiche dinamiche. Va
soggiunto che l’attuazione di tale precetto, sul piano
letterale come sul versante teleologico, non può essere
limitata alla repressione penale delle condotte finalizzate
alla ricostituzione di un’associazione vietata» –la
quale, come puntualizzato nella giurisprudenza
costituzionale (Corte cost., sent. n. 15 del 1973) e in
quella penale (Cass. pen., ss. uu., sent. n. 16153 del 2024)
presuppone il “pericolo concreto” di ricostituzione
del partito fascista– «ma deve essere estesa ad ogni atto
o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito
fascista» (sez. V, sent. n. 1354 del 2013, che ha
ritenuto, anche richiamando il parere n. 173/1994 della sez.
I, che dalla XII disposizione discende direttamente –dunque
anche in assenza di un’espressa previsione di legge– il
potere della commissione elettorale circondariale di
ricusare ed estromettere dalla competizione liste o simboli
che si richiamino esplicitamente al partito fascista «bandito
irrevocabilmente dalla Costituzione»).
È dunque legittimo che il Comune, nel definire gli indirizzi
per la concessione degli spazi pubblici, adotti delle
cautele preventive volte a evitare che questi siano
utilizzati per il compimento di atti o fatti che possano
favorire la riorganizzazione “sotto qualsiasi forma”
del partito fascista come definita dall’art. 1 della legge
n. 645 del 1952 (secondo cui «si ha riorganizzazione del
disciolto partito fascista quando una associazione, un
movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a
cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del
partito fascista, esaltando, minacciando o usando la
violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la
soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o
denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori
della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero
rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti,
principi, fatti e metodi propri del predetto partito o
compie manifestazioni esteriori di carattere fascista»),
comprese dunque quelle manifestazioni che siano tali da «provocare
adesioni e consensi e concorrere alla diffusione di
concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni
fasciste» (Corte cost., sent. n. 74 del 1958, la quale
ha ritenuto legittimo punire le manifestazioni usuali del
partito fascista che siano tenute “pubblicamente” e
possano determinare tale pericolo).
10.4. Rispetto a tale finalità, l’obbligo posto dalla Giunta
del Comune di Brescia non può dirsi sproporzionato, come
conduce a ritenere una lettura integrale, e non
parcellizzata, della dichiarazione richiesta
dall’Amministrazione per la concessione di spazi pubblici,
la quale comprende i seguenti impegni: «di riconoscersi
nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di
ripudiare il fascismo e il nazismo; - di non professare e
non fare propaganda di ideologie neofasciste e neonaziste,
in contrasto con la Costituzione e la normativa nazionale di
attuazione della stessa; - di non perseguire finalità
antidemocratiche, esaltando, propagandando, minacciando o
usando la violenza quale metodo di lotta politica o
propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla
Costituzione o denigrando la Costituzione e i suoi valori
democratici fondanti; - di non compiere manifestazioni
esteriori inneggianti le ideologie fascista e/o nazista».
La riproduzione quasi integrale dell’art. 1 della “legge
Scelba”, il riferimento al “professare” e “fare
propaganda” nonché a “manifestazioni esteriori”
porta a ritenere che anche la parte di dichiarazione
contestata dall’associazione appellante –lungi dal
rappresentare una sorta di “professione di fede” o un
giuramento di fedeltà fini a se stessi– debba intendersi
come strettamente correlata all’uso dello spazio pubblico di
cui si chiede la concessione, fondandosi sulla presunzione
non irragionevole che chi si rifiuti di ripudiare il
fascismo, e quindi mantenga un legame con quell’esperienza,
possa poi utilizzare quello spazio per perseguire finalità
antidemocratiche.
La sentenza impugnata è dunque condivisibile laddove
considera che «se non può essere limitata la libertà di
pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti
contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può
limitarsi il potere dell’ente pubblico di perseguire
l’interesse collettivo alla cui tutela è preposto escludendo
da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si
facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua
tutela e diffusione potrebbero avvalersi degli stessi beni
sottratti all’uso della collettività».
10.5. Né si può ritenere che l’obbligo sia inefficace.
In primo luogo, come già osservato, la delibera implica che
chi si rifiuti di ripudiare il fascismo, mantenendo un
legame con un sistema di principi e valori rispetto al quale
quello costituzionale si pone in antitesi, non possa
ottenere in concessione spazi pubblici, in modo da evitare
che questi siano usati per il perseguimento di finalità
antidemocratiche, la cui concretizzazione potrebbe
comportare un pregiudizio -in quanto «la riorganizzazione
del partito fascista può anche essere stimolata da
manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle»
(Corte cost., sent. n. 74 del 1958, che ha ritenuto
legittimo punire tali manifestazioni, una volta tenutesi, «in
quanto idonee a costituire il pericolo di tale
ricostituzione»)– non necessariamente e interamente
riparabili mediante l’applicazione di sanzioni successive,
compresa la decadenza dalla concessione.
Nella diversa ipotesi in cui la dichiarazione venga resa e
poi lo spazio sia utilizzato con modalità incompatibili con
l’impegno assunto con essa, l’effettività della previsione è
comunque assicurata dal fatto che la sua violazione comporta
l’applicazione delle sanzioni amministrative previste dal
regolamento COSAP e dal regolamento della Polizia urbana,
oltre alle altre conseguenze previste dalla legge (a tal
proposito, non è superfluo ricordare che l’inosservanza di
un precetto non lo priva di effettività se sono previste e
applicate delle conseguenze a carico del trasgressore).
10.6. Non venendo dunque in rilievo una restrizione fine a
se stessa e irragionevole delle libertà di manifestazione
del pensiero e di associazione, quanto piuttosto una misura
preventiva volta a evitare che lo spazio pubblico di cui si
chiede la concessione venga utilizzato con modalità e per
finalità incompatibili con l’ordinamento costituzionale, i
primi due motivi di appello non meritano accoglimento.
10.7. Nemmeno è fondato il quinto motivo di appello, con cui
si reiterano contestazioni relative alla decisione di
dichiarare immediatamente esecutiva la delibera.
A prescindere dai seri dubbi sull’interesse a dedurre la
censura, correlati al fatto che l’eventuale carenza dei
presupposti per l’immediata esecutività non comporterebbe
l’illegittimità dell’atto censurato, ma solo degli eventuali
provvedimenti attuativi adottati prima del termine ordinario
di dieci giorni di cui all’art. 134, co. 3, del TUEL (in
questi termini si v. Cons. St., sez. V, sent. n. 1567 del
2019), la motivazione della decisione della Giunta sul punto
emerge da una lettura complessiva della deliberazione:
l’urgenza, in particolare, è stata correlata alla necessità
di procedere celermente all’applicazione dei principi da
essa stabiliti tenuto conto di «recenti episodi e
manifestazioni che hanno inneggiato o propagandato ideologie
naziste, fasciste e/o razziste».
Si tratta di una valutazione non irragionevole che rientra
nel margine di discrezionalità da riconoscere
all’Amministrazione in merito alla scelta di apporre la
clausola d’immediata esecutività e che si sottrae alle
censure dell’appellante.
11. L’appello è quindi meritevole di rigetto (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 19.09.2024 n. 7687 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comunicazione antimafia e l'annullamento in autotutela del
permesso di costruire.
---------------
L’annullamento in autotutela di un
permesso a costruire, per intervenuta comunicazione
antimafia, è un atto di ritiro vincolato ed accertativo
della temporanea incapacità giuridica del soggetto ad essere
destinatario di provvedimenti amministrativi ampliativi, che
prescinde, dunque, dall’operatività dei presupposti nonché
dei limiti applicativi dell’art. 21-novies della legge n.
241 del 1990.
A seguito della comunicazione antimafia, la pubblica
amministrazione non può, pertanto, rilasciare alcun titolo
legittimante lo svolgimento di una qualsiasi attività
economica o commerciale e, allorché già emesso, è
ineludibile il suo ritiro, stante la sua sostanziale
incompatibilità con lo status di destinatario di una
interdittiva antimafia.
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SENTENZA
... per l'annullamento del provvedimento a firma del
Responsabile del 6° Settore, Ufficio Tecnico, del Comune di
Pomigliano d'Arco prot. n. 0029673 del 04.10.2022 con il
quale si dispone l'annullamento d''ufficio del permesso di
costruire n. 223/2017 e della SCIA alternativa al PdC n.
209/2021, con riserva di promuovere motivi aggiunti, nonché
di qualsiasi atto e/o provvedimento allo stesso comunque
connesso, presupposto e conseguenziale che incida
negativamente sulla posizione giuridica della Società
ricorrente.
...
La società ricorrente impugna, con il presente ricorso, il
provvedimento prot. n. 0029673 del 04.10.2022 con cui il
Comune di Pomigliano d’Arco ha annullato in autotutela il
permesso di costruire n. 223/2017 e la SCIA alternativa al
PdC n. 209/2021.
Per una migliore comprensione della vicenda occorre partire
dalla esposizione dei fatti di causa, come ricostruiti dagli
atti del presente giudizio.
I signori Ru.Gi., Ru.Al., Ru.Lu. e Ru.Vi., unitamente ad
altro soggetto, in qualità di comproprietari di n. 7 unità
immobiliari site in Pomigliano d'Arco, via A.F.T.,
presentavano nel luglio 2017 istanza di permesso di
costruire per lavori di demolizione e ricostruzione, ai
sensi del Piano casa, di un complesso immobiliare di natura
residenziale.
Successivamente, i ricorrenti stipulavano con la ricorrente
Pi. s.r.l. contratto preliminare di permuta con il quale
promettevano la cessione degli immobili oggetto di
intervento in cambio della cessione in loro favore di n. 8
abitazioni e di n. 8 box auto da realizzare.
A seguito del contatto preliminare, con istanza del
04.06.2020, la società Pi. s.r.l. chiedeva il subentro nella
richiesta di permesso di costruire n. 223/2017 presentata
dai sig.ri Ru..
In data 28.07.2020, il Comune di Pomigliano d'Arco
rilasciava a favore di Pi. s.r.l. il permesso di costruire
n. 223/2017 con il quale l'intervento progettato veniva
integralmente assentito.
In virtù del permesso ottenuto, la società Pi. s.r.l.
avviava i lavori e provvedeva così nei mesi successivi alla
totale demolizione dei manufatti esistenti.
In data 16.01.2021, i ricorrenti e la società Pi. s.r.l.
stipulavano un contratto di compravendita con il quale
trasferivano la proprietà degli immobili in questione.
Con decreto del maggio 2021, la Procura della Repubblica del
Tribunale di Nola ordinava il sequestro preventivo del
cantiere. Il provvedimento veniva emesso a seguito di
segnalazione del Comando di Polizia Municipale del Comune di
Pomigliano d'Arco, il quale rappresentava l’illegittimità di
numerosi titoli edilizi, tra cui quello emesso a favore
della società Pi. s.r.l., per violazione della normativa del
cd. Piano Casa della Regione Campania e della legislazione
regionale e nazionale in generale.
La società Pi. s.r.l. in data 01.07.2021 presentava SCIA 2
n. 209/2021, contenente alcuni correttivi al progetto
iniziale, che comprendevano la riduzione del numero degli
appartamenti da costruire, che passavano dai 28 originari a
22.
Ciononostante, in data 27.10.2021 il Comune notificava
l’avviso di avvio del procedimento volto all'annullamento in
autotutela ai sensi degli artt. 7 e 21-nonies della L.
241/1990 del permesso di costruire n. 223/2017 e della
variante SCIA 2 n. 209/2021, invitando gli interessati a
presentare proprie osservazioni.
Sia i precedenti proprietari che la società Pi. s.r.l.
presentavano le proprie deduzioni.
In data 19.10.2022, il Comune di Pomigliano d'Arco adottava
il provvedimento di annullamento in autotutela del permesso
e degli effetti della SCIA 2 n. 209/2021 con una serie di
articolate motivazioni (lettere da A. a G.) di cui si
riportano i paragrafi:
“A. Violazione dell’art. 20 “Procedimento per il rilascio del
permesso di costruire” del DPR n. 380/2001 e dell’art. 1
“Procedure per il rilascio del permesso di costruire” della
L.R. n. 19/2001”.
“B. Violazione dell’art. 3 “Casi di esclusione” della L.R.
Campania 28/12/2009. Mancano i presupposti per
l’applicazione dell’art. 5 perché l’immobile oggetto di
intervento presenta una porzione illegittima e non è
dimostrato l’intervento di ristrutturazione avvenuto negli
ultimi 50 anni;”
“C. Violazione delle NTA del PUA per il centro storico in merito
all’intervento richiesto ed in merito al calcolo della
volumetria assentibile;”
“D. Limite di densità edilizia massimo di cui all’art. 7 del
D.M. n. 1444/1968 stabilito in 5 mc./mq.;”
“E. Violazione del punto 2.13 – Lotto d’intervento –
dell’allegato D al Regolamento edilizio vigente;”
“F. Violazione della distanza dai confini”.
“G. incapacità giuridica ex lege ad essere titolare di rapporti
giuridici con la pubblica amministrazione della società Pi.
per comunicazione di interdittiva antimafia”.
La ricorrente ha impugnato il provvedimento di annullamento,
deducendo i vari motivi di illegittimità per violazione di
legge ed eccesso di potere e ha depositato una relazione
tecnica per illustrare le illegittimità del provvedimento
impugnato.
Si è costituito il Comune di Pomigliano D’Arco, chiedendo il
rigetto del ricorso.
Si è inoltre costituto Ru.Gi., chiamato in giudizio come
controinteressato ma da qualificarsi come interventore ad
adiuvandum, il quale ha chiesto l’accoglimento del
ricorso.
Con ordinanza collegiale n. 1617 dell’11.03.2024, è stata
disposta, a carico del Comune, l’acquisizione
dell’informativa antimafia di conferma ostativa n. 60167 del
24.03.2017 e relativa nota di trasmissione della Prefettura
di Napoli (nota prot. 19161 del 05/07/2022).
In data 08.07.2024, il Comune depositava la nota del
05.07.2022, con la quale la Prefettura di Napoli comunicava
l’esistenza di un’informativa antimafia di conferma ostativa
n. 60167 del 24.03.2017, emessa a carico della società Pi..
La ricorrente e l’interventore ad adiuvandum
presentavano memorie per l’udienza, insistendo per
l’accoglimento del ricorso.
Ru. chiedeva, inoltre, con memoria non notificata, la
condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 30,
comma 5, c.p.a. per tutti i danni subiti e subendi, come
specificati nel corso del giudizio e che, comunque, ad oggi
ammonterebbero ad oltre 1,6 milioni di Euro, così come
dettagliato nella perizia di stima del valore immobiliare in
atti, derivanti dalla demolizione degli immobili di loro
proprietà e dal venir meno dei proventi derivanti dalla loro
locazione.
...
Il ricorso non è fondato e va pertanto respinto, resistendo
alle censure formulate da parte ricorrente la motivazione
del provvedimento di annullamento fondata sulla sussistenza
in capo alla società Pi. s.p.a., di un’informativa antimafia
ostativa, che, come noto, integra una causa di incapacità
giuridica del destinatario ad essere titolare di
provvedimenti amministrativi ampliativi.
Tale ratio deliberandi è sufficiente a sostenere il
provvedimento –avente natura plurimotivata– ed esonera il
Collegio dall’esame delle ulteriori censure.
Per costante insegnamento giurisprudenziale, infatti, è
sufficiente che anche soltanto una delle autonome ragioni
poste a sostegno del provvedimento resista alle censure
formulate, perché il provvedimento possa sostenersi e,
dunque, restare insuscettibile di annullamento (“Nel caso
in cui determinazioni amministrative negative siano
impugnate davanti all'autorità giudiziaria e si basino su
più motivi, ognuno dei quali potenzialmente valido per
sostenere il dispositivo del provvedimento, è sufficiente
che almeno uno di essi resista all'esame del giudice
affinché il provvedimento nel suo insieme rimanga immune
dalle censure proposte. In tale contesto, il ricorso può
essere dichiarato infondato o addirittura inammissibile per
mancanza di interesse a contestare ulteriori ragioni
ostative, poiché l'esito di queste ultime è assorbito dalla
pronuncia negativa riguardante la prima ragione.”
Consiglio di Stato sez. VI, 02/07/2024, n. 5816).
Le censure contenute nel gravame avverso il suddetto profilo
motivazionale, contenuto nella lettera G del provvedimento,
si incentrano sui differenti effetti delle comunicazioni
antimafia e delle informative antimafia. Infatti, secondo
parte ricorrente, solo le prime potrebbero incidere su
provvedimenti autorizzatori inerenti l’esercizio di attività
economiche, mentre le informative antimafia riguarderebbero
esclusivamente provvedimenti concessori, contratti e
sovvenzioni.
Tale prospettazione non è condivisibile.
Secondo recente giurisprudenza di questo Tribunale (cfr. TAR
Napoli, sez. I, 02.03.2021, n. 1355, TAR Napoli, sez. I,
13.07.2022, 13/07/2022, n. 4728), che il Collegio condivide:
“Le conseguenze decadenziali sulle autorizzazioni dei
provvedimenti interdittivi antimafia discendono
dall'esigenza di elevare il livello della tutela
dell'economia legale dall'aggressione criminale.
Ciò attraverso la sottoposizione a controllo non solo dei
rapporti amministrativi che danno accesso a risorse
pubbliche, ma anche di quelli che consentono l'esercizio di
attività economiche, subordinandole al controllo preventivo
della P.A. e stabilendo che anche in ipotesi di attività
private soggette a mera autorizzazione l'esistenza di
infiltrazioni mafiose inquina l'economia legale e, altera il
funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia
per l'ordine e la sicurezza pubbliche.
Tale orientamento si è poi consolidato nella giurisprudenza
successiva, secondo cui l'art. 89-bis, d.lgs. 06.09.2011 n.
159, si interpreta nel senso che l'informazione antimafia
produce i medesimi effetti della comunicazione antimafia
anche nelle ipotesi in cui manchi un rapporto contrattuale
con la P.A.
Sotto questo profilo, quindi, la revoca delle
autorizzazioni, anche se abilitanti l'esercizio
dell'attività imprenditoriale nei confronti dei privati,
discende direttamente, secondo il meccanismo vincolante di
cui all'art. 67, dall'adozione dell'informazione
interdittiva antimafia ed è legata alla perduranza di quest'ultima,
non trovando applicazione quindi il meccanismo della
riabilitazione, propriamente ricollegabile alle misure di
prevenzione aventi natura e finalità eterogenea.
Inoltre, l'informativa antimafia ostativa, emessa ai sensi
degli artt. 84 e 91 D.Lgs. 159/2011, ha effetto su tutte le
richieste di certificazione antimafia provenienti dai
soggetti di cui all'art. 83 D.Lgs. 159/2021.
A seguito dell'emanazione di una informativa antimafia, la
pubblica amministrazione non può rilasciare alcun atto
abilitativo per lo svolgimento di una qualsiasi attività
economica o commerciale e, se è stato già emanato un atto
abilitativo, deve esservi il suo ritiro, trattandosi di
tipologie di atti i cui effetti sono radicalmente
incompatibili con lo status di destinatario di una
interdittiva antimafia. In sostanza, in presenza di una
interdittiva antimafia, la revoca delle autorizzazioni
commerciali di cui sia titolare il soggetto attinto dalla
medesima costituisce per l'Amministrazione un atto dovuto
(ex multis TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 04.06.2021, n.
510; 07.07.2021, n. 634).”.
Alla stregua di tali condivise argomentazioni,
l’incontestata sussistenza a carico della società titolare
del permesso di costruire di un’informativa di conferma
ostativa, imponeva al Comune di privare di effetti il
permesso di costruire e la successiva S.C.I.A., trattandosi
di atti a contenuto abilitativo conseguiti dalla società
nell’ambito dell’esercizio della propria attività
imprenditoriale, atteso che, come gli stessi ricorrenti
ammettono, essi sono stati rilasciati per la realizzazione
di unità immobiliari da destinare alla vendita.
Va pertanto disattesa la tesi di parte ricorrente secondo la
quale il mero rilascio del permesso di costruire non
ricadrebbe in alcuna delle ipotesi per le quali sia
richiesta la comunicazione antimafia.
Infatti, come si è detto sopra, l’attività edificatoria in
esame attiene all’attività imprenditoriale della società
ricorrente e non è riconducibile a mera attività
privatistica rientrante nell’esercizio del diritto di
proprietà.
In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato, da
ultimo, in una fattispecie similare, con la sentenza della
Terza Sezione, 15.04.2022, n. 2751/2022, nella quale si
afferma: “nonostante il Tar Campania qualifichi
l'attività dell'appellante come «commerciale», è tuttavia
chiaro che il riferimento è, nei fatti, ad un'attività
imprenditoriale (di realizzazione e vendita di ventitré
unità immobiliari), sicché il provvedimento impugnato in
primo grado si fonda sull'art. 92, comma 3, del codice
antimafia, che impone il ritiro della autorizzazioni, delle
concessioni e dei contratti di cui all'art. 67, tra cui qui
rilevano le «altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto
autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo
svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati.”.
Infondato in fatto è il profilo di doglianza con cui la
ricorrente sostiene che erroneamente sarebbe stata definita
come “soggetto attuatore dell’intervento” essendo
essa unicamente la promittente acquirente degli immobili dei
sigri Ru. e Ma..
Risulta infatti che la ricorrente abbia realizzato i lavori
di demolizione per la realizzazione dell’intervento in
questione e può pertanto qualificarsi come “soggetto
attuatore”.
Infine, la circostanza che il Comune non detenga copia del
provvedimento di informativa richiesto dalla ricorrente non
significa che detto provvedimento sia inesistente né disvela
alcun intento persecutorio nei confronti della ricorrente.
3. Il provvedimento impugnato, dunque, nonostante il
nomen iuris, in parte qua, va qualificato come “un
atto di ritiro vincolato ed accertativo della temporanea
incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di
provvedimenti amministrativi ampliativi (Consiglio di Stato,
Adunanza plenaria, 06.04.2018, n. 3; Adunanza plenaria,
23.10.2020, n. 23; Adunanza plenaria, 06.08.2021, n. 14,
Sezione III, 22.11.2021, n. 7810).” (così Consiglio di
Stato, Sez. Terza, 15.04.2022, n. 2751/2022), che prescinde,
dunque, dai presupposti e limiti applicativi dell’art.
21-nonies, L. 241/1990.
Per tale ragione, il rigetto delle censure rivolte al motivo
di cui alla lettera G del provvedimento impugnato,
trattandosi come detto di provvedimento plurimotivato,
consente di pronunciare l’improcedibilità delle censure di
cui al primo, secondo e terzo motivo di
ricorso, volti a contestare la violazione dell’art.
21-nonies l. 241/1990, e il superamento del termine per
l’esercizio dell’autotutela nonché la violazione del
principio dell’affidamento e delle censure di cui al quinto
motivo di ricorso volte a contestare analiticamente, punto
per punto, le motivazioni poste a sostegno del provvedimento
impugnato (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 18.09.2024 n. 5036 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Secondo consolidato principio, l'onere di
prendere in considerazioni le osservazioni dei privati
dedotte nel procedimento amministrativo, ex art. 10-bis l.
241/1990, non comporta una confutazione analitica di
ciascuna argomentazione, ben potendo essere adempiuto in
modo unitario e sintetico in rapporto alle risultanze
istruttorie complessivamente acquisite, purché sia
consentito al destinatario del provvedimento di far valere
le proprie ragione ed al giudice di svolgere il controllo
giurisdizionale che ad esso è demandato
---------------
4. Il quarto motivo, concernente l’asserita
violazione dell’art. 10-bis della l. 241/1990 per la mancata
analitica confutazione delle osservazioni presentate da
parte ricorrente, va invece respinto.
Il Comune ha dettagliatamente riscontrato le osservazioni
della ricorrente, con un approfondimento compatibile con
l’onere motivazionale richiesto a tale scopo.
Secondo consolidato principio, l'onere di prendere in
considerazioni le osservazioni dei privati dedotte nel
procedimento amministrativo non comporta una confutazione
analitica di ciascuna argomentazione, ben potendo essere
adempiuto in modo unitario e sintetico in rapporto alle
risultanze istruttorie complessivamente acquisite, purché
sia consentito al destinatario del provvedimento di far
valere le proprie ragione ed al giudice di svolgere il
controllo giurisdizionale che ad esso è demandato (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 18.09.2024 n. 5036 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
L’esenzione Tari è condizionata. Diritto legato alla produzione
di rifiuti speciali continuativa. L’orientamento dei giudici di legittimità
e di merito: la prova resta a carico dei contribuenti.
Per avere diritto all'esenzione Tari delle superfici occupate un'impresa
deve provare che la produzione di rifiuti speciali sia continuativa.
Inoltre, la produzione di rifiuti speciali in una parte delle superfici,
seppur estesa, non esclude che nello stabilimento vengano prodotti rifiuti
urbani ordinari. Prova che deve essere fornita dal contribuente e non
dall'ente impositore, in quanto la presunzione di legge della produzione di
rifiuti è legata alla mera detenzione dei locali.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza 17.09.2024 n. 24896.
Per la Suprema corte, la società aveva provato in giudizio di produrre
rifiuti speciali (imballaggi terziari), “senza specificare e accertare
che la produzione fosse anche continuativa” e senza considerare che “la
comprovata produzione di rifiuti speciali in una porzione (per quanto
estesa) dell'insediamento produttivo non escludeva, né logicamente né
giuridicamente, la produzione nello stabilimento anche di rifiuti urbani
ordinari; produzione che non doveva essere dimostrata a onere dell'ente
impositore, in quanto ex lege ricollegata al solo e obiettivo fatto
materiale della detenzione dei locali”.
I limiti all'esenzione.
Anche il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia Romagna, II
sezione, con la
sentenza 50/2024, ha chiarito
che spetta al contribuente provare la produzione di rifiuti speciali e
l'esistenza dei presupposti per beneficiare della detassazione degli
imballaggi terziari.
La prova deve essere data dal contribuente con la presentazione di
un'apposita dichiarazione e di idonea documentazione. Per avere diritto alla
detassazione di parte delle superfici di vendita di un supermercato occorre
determinare l'entità effettiva di quelle in cui vengono prodotti gli
imballaggi terziari, trattandosi di rifiuti speciali esonerati dalla Tari.
Le superfici produttive di rifiuti speciali sono esonerate dal pagamento
solo se l'impresa dimostra all'amministrazione comunale, con idonea
documentazione, che li smaltisce autonomamente. La dichiarazione, per avere
diritto al beneficio, va presentata ogni anno se nel regolamento comunale è
richiesto espressamente questo adempimento. La norma del regolamento locale,
infatti, può imporre all'interessato di inoltrare ogni anno la richiesta.
La Cassazione, con l'ordinanza n. 33863/2022,
ha precisato che per beneficiare della riduzione della superficie tassabile
o dell'esenzione occorre rispettare le previsioni di legge e dei regolamenti
comunali.
Il regolamento, quindi, può imporre al contribuente di reiterare la
richiesta di esenzione, corredata dai documenti analiticamente indicati,
ogni anno, entro il 30 giugno dell'anno successivo a quello in cui l'azienda
ha effettuato l'attività di smaltimento dei rifiuti. Va dimostrato che le
superfici indicate nella dichiarazione producono in via continuativa e
prevalente rifiuti speciali.
Inoltre, deve essere comprovato che sussiste un collegamento funzionale
delle superfici con locali e aree produttive di rifiuti speciali per le
quali possa essere riconosciuta la detassazione.
Sono escluse dall'esenzione solo le superfici funzionalmente collegate alle
aree di produzione. Spetta all'impresa dimostrare anche il legame di
funzionalità con le aree adibite a deposito e magazzino. Deve anche essere
documentato che le aree sono utilizzate come deposito di materie prime e
merci. Del resto, depositi e i magazzini sono sempre stati ritenuti
assoggettabili al tributo, in quanto caratterizzati dalla presenza umana.
Tuttavia, per la Cassazione (sentenza 28017/2023),
la quota fissa della Tari è sempre dovuta a prescindere dalla produzione di
rifiuti urbani o speciali.
Le imprese che producono rifiuti speciali sono tenute a pagare la quota
fissa perché serve a finanziare i costi complessivi del servizio. L'esonero
dal pagamento è limitato solo alla quota variabile.
Lo ha precisato la Cassazione con la
sentenza
28017/2023.
La tariffa è articolata tra parte fissa e parte variabile e quella fissa è
riferita alle componenti essenziali del costo del servizio, nonché agli
investimenti per le opere e ai relativi ammortamenti. Quindi, ha la funzione
di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non
solo interni, cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto che può
avvalersi del servizio, ma anche esterni. In particolare, i rifiuti di
qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade e aree pubbliche e
soggette a uso pubblico.
La ratio è quella di coprire anche le spese afferenti a un servizio
indivisibile, reso a favore della collettività e non riconducibile a un
rapporto sinallagmatico con il singolo utente. La quota fissa, infatti,
prescinde dalla produzione di rifiuti urbani o speciali, assimilabili o
meno. L'agevolazione per le superfici produttive di rifiuti speciali spetta
solo per la quota variabile della tariffa. Mentre, gli altri utenti devono
pagare la tassa nel suo intero ammontare.
La tariffa è composta da una parte fissa, fondata sulle componenti
essenziali del costo del servizio, vale a dire sugli investimenti per le
opere e sui relativi ammortamenti, e da una parte variabile, rapportata alle
quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all'entità dei costi di
gestione, attraverso sistemi di misurazione delle quantità di rifiuti
effettivamente conferiti dalle singole utenze o facendo riferimento a un
sistema presuntivo
(articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2024). |
TRIBUTI:
Delibere subito impugnabili. La determinazione delle tariffe è
immediatamente lesiva. Il Consiglio di stato: decadenza di 60 giorni.
Irricevibili i ricorsi proposti tardivamente.
La delibera Tari che fissa le tariffe è immediatamente lesiva degli
interessi dei contribuenti e va impugnata entro il termine di decadenza di
60 giorni dalla pubblicazione. Il ricorso proposto tardivamente è
irricevibile.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, V Sez., con la
sentenza 16.09.2024 n. 7601.
Per i giudici di palazzo Spada, le delibere che annualmente fissano le
tariffe sono immediatamente lesive degli interessi dei contribuenti “senza
necessità di attendere alcun atto applicativo”. Il soggetto che si
assume leso può contestare la delibera entro il termine di decadenza
decorrente dalla sua pubblicazione. Pertanto, il ricorso tardivamente
proposto è stato “correttamente dichiarato irricevibile”.
Gli atti generali emanati dagli enti locali, quali delibere e regolamenti,
sono solo disapplicabili dai giudici tributari. Sono direttamente
impugnabili davanti al giudice amministrativo. E’ competente il tribunale
amministrativo regionale a giudicare sulla legittimità di delibere e
regolamenti. Il giudice tributario è competente a giudicare solo quando
vengono contestati specifici atti impositivi, applicativi delle regole
stabilite negli atti generali. Regolamenti e delibere, con le quali vengono
fissate anche le aliquote di imposte e tasse, sono immediatamente lesivi
degli interessi legittimi dei cittadini e possono essere impugnati sin dal
momento della loro emanazione.
In alternativa, gli interessati possono tutelare i loro diritti innanzi al
giudice tributario nel momento in cui vengono emanati gli atti di
accertamento e di riscossione. Anche se a questo giudice la legge
processuale attribuisce soltanto il potere di disapplicazione degli atti
amministrativi a contenuto generale.
E deve dichiarare il difetto di giurisdizione se il contribuente contesta,
direttamente, le scelte dell’ente. Sempre il Consiglio di Stato, con la
sentenza 5906/2024, ha chiarito che i contribuenti hanno un interesse
attuale e concreto a impugnare la delibera con la quale l'amministrazione
comunale aumenta le tariffe per la pubblicità, che incidono sul pagamento
del canone.
L'atto generale è immediatamente lesivo degli interessi delle società che
operano nel settore pubblicitario tramite numerosi impianti autorizzati.
Quindi, può essere contestato ancor prima del ricorso contro gli atti
applicativi. Le delibere hanno natura regolamentare, sono soggette a
pubblicità legale e il termine per la loro impugnazione decorre dalla
pubblicazione presso l'albo comunale.
L'interessato ha la facoltà di riservarsi di proporre ricorso in un momento
successivo, ma non oltre il termine per opporsi all'atto applicativo della
delibera. I giudici amministrativi, però, hanno sostenuto che i regolamenti
locali e i provvedimenti amministrativi a carattere generale non devono
essere impugnati quando non provocano una diretta e immediata lesione degli
interessi dei destinatari. Se la lesione deriva dagli atti successivi
esecutivi, che non costituiscono mera applicazione delle norme
regolamentari, il ricorso non va proposto.
Occorre, invece, ricorrere contro le norme regolamentari se dopo la loro
emanazione il funzionario non ha alcun potere discrezionale e non può che
applicarle. Al riguardo la Cassazione (ordinanza 18151/2023) ha precisato
che il giudice tributario ha il potere di disapplicare le delibere comunali
che ritiene illegittime, anche nel caso in cui il contribuente non le abbia
contestate, in presenza di un ricorso contro la pretesa fiscale.
Qualora l’interessato non abbia chiesto la disapplicazione della delibera,
ma si sia limitato a chiedere l’annullamento dell’atto impositivo che si
fonda su di essa, il giudice può esercitare il potere d’ufficio
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).
---------------
SENTENZA
4.2. Col secondo motivo di appello la società Mi. S.G. ribadisce che
il Piano finanziario relativo all’anno 2018 non sarebbe stato immediatamente
lesivo nei suoi confronti perché indicava “le sole categorie generali di
utenti ma non i possibili destinatari”.
Pertanto, secondo l’appellante, soltanto con l’avviso di pagamento si
sarebbe potuto constatare che nei suoi confronti sarebbe stata applicata “una
tariffa più alta di quanto dovuto per le utenze domestiche”.
4.3. Il motivo è infondato.
Il principio generale, affermato da costante giurisprudenza, da cui prendere
le mosse, è quello secondo cui i regolamenti e gli atti
amministrativi generali sono impugnabili in via diretta solo ove contengano
disposizioni in grado di ledere immediatamente le posizioni giuridiche
soggettive dei destinatari; negli altri casi, divengono impugnabili solo
quando sorge l’interesse a ricorrere, ovvero assieme all’atto applicativo
che produca una lesione effettiva, e non solo ipotetica o futura
(in tali termini, Cons. Stato, V, 07.10.2016, n. 4130 e 06.05.2015, n. 2260,
nonché id., VI, 29.03.1996, n. 512, richiamate da Cons. Stato, IV,
13.02.2020, n. 1159).
Per le delibere che annualmente fissano le tariffe inerenti
ai tributi locali, si è ritenuto inoltre che le stesse siano immediatamente
lesive dei soggetti contribuenti per la modalità esecutiva della
corrispondente imposizione, che comporta che, già con l’adozione delle
tariffe nelle diverse misure in relazione alle diverse categorie di utenti,
se ne possa constatare la lesività per gli appartenenti a tali categorie,
senza necessità di attendere alcun atto applicativo
(in tale senso, di recente Cons. Stato, V, 20.05.2024 n. 4478, in
riferimento alla delibera di approvazione di tariffe TARI).
In particolare, quando sia nota al contribuente la
categoria di appartenenza, secondo il regolamento comunale, e venga
contestata l’imposizione o la modifica tariffaria, pur generale ed astratta,
ma riferita alla categoria alla quale il contribuente risulta appartenere,
l’atto amministrativo generale che fissa le tariffe va considerato
immediatamente lesivo nei suoi confronti, perciò impugnabile nel termine di
decadenza decorrente dalla sua pubblicazione
(cfr., per l’affermazione dello stesso principio per il servizio comunale
cimiteriale, anche Cons. Stato, V, 19.09.2019, n. 6238).
Invero, in tale situazione gli atti applicativi, di
liquidazione o di accertamento dei tributi dovuti, hanno contenuto meramente
esecutivo delle disposizioni generali
(cfr. per l’approvazione del regolamento per l’applicazione della TARSU, già
Cons. Stato, V, 27.04.1990, n. 379 e id., V, 12.07.1996, n. 854, nonché
Cons. Stato, V, 17.03.2003, n. 1379 e, in tema di servizio idrico, Cons.
Stato, VI, 06.04.2010, n. 1918, nonché più recentemente, in tema di delibere
comunali riguardanti tariffe TARI nei confronti della categoria dei
professionisti ricorrenti, Cons. Stato, I, parere n. 1945/2019, del
02.07.2019).
Giova precisare che trattasi di questione che va decisa
caso per caso, dal momento che, al fine di valutare l’immediata lesività
della delibera tariffaria, sono da ritenere decisivi: per un verso,
il contenuto della delibera; per altro verso, il tenore delle
censure. Queste ultime vanno reputate immediatamente dirette avverso la
stessa delibera quando concernenti i criteri di quantificazione e gli
importi delle tariffe per una determinata categoria di utenti; categoria,
che la delibera medesima e gli atti preparatori (o connessi o allegati)
-valutati anche in relazione alle delibere tariffarie riguardanti precedenti
annualità- consente di individuare come quella di appartenenza del soggetto
che si assume leso dalle tariffe di nuova introduzione (anche eventualmente
contestando l’appartenenza alla categoria).
4.2. Nel caso di specie, è da ritenere che già al momento della
pubblicazione della delibera impugnata il contenuto della stessa e degli
allegati consentisse di percepirne la lesività nei confronti della società
ricorrente, quanto meno con riferimento alle ragioni di doglianza dalla
medesima poi formulate in giudizio (impregiudicata la loro fondatezza nel
merito: cfr. Cons. Stato, V, n. 4478/2024 su citata). |
|
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
La disciplina della Patente a crediti: le novità del decreto attuativo e le
ulteriori istruzioni operative (ANCE, 24.09.2024).
---------------
In merito, si veda anche la
registrazione del webinar ANCE del 24.09.2024. |
SICUREZZA LAVORO:
D.lgs. 09.04.2008, n. 81 - Testo coordinato con il D.Lgs. 03.08.2009, n. 106
- TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO (settembre 2024
- tratto da www.ispettorato.gov.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 30.09.2024, "Aggiornamento
della procedura per l’approvazione dei Piani Territoriali di Coordinamento (PTC)
dei Parchi regionali e delle relative valutazioni ambientali (VAS e VIncA)
in attuazione dell’art. 6 della legge regionale 23.07.2024, n. 12 (Legge di
semplificazione 2024)" (deliberazione
G.R. 23.09.2024 n. 3095). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
25.01.2023 n. 20 "Contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al
personale del comparto funzioni locali - Triennio 2019-2021" (Agenzia
per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni,
CCNL-CFL 16.11.2022).
---------------
Si legga anche il
testo dell'ARAN coi link ai vari articoli. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 25.02.2022, "Approvazione
dell’aggiornamento dei contenuti della relazione di dettaglio relativa
all’individuazione delle aree idonee e quelle non idonee alla localizzazione
degli impianti di recupero e smaltimento di rifiuti urbani e speciali della
provincia di Bergamo, approvata con d.g.r. 119/2018" (deliberazione
G.R. 21.02.2022 n. 5992). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: Appalti,
la p.a. deve agire con lealtà e correttezza.
In base al principio di buona fede e di tutela dell’affidamento la stazione
appaltante deve rispettare anche le norme dell’ordinamento civile e quindi
rispettare i principi di lealtà e correttezza la cui violazione può
comportare responsabilità anche precontrattuale ai sensi dell’articolo 1337
del codice civile.
Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 13.09.2024 n. 7574 che innanzitutto ricorda che “che
nei rapporti di diritto amministrativo è configurabile un affidamento del
privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato
dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte
per quest’ultima di responsabilità non solo in relazione a comportamenti
contrari ai canoni di origine civilistica, ma anche per il caso di
provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi”.
Nella sentenza si collega questo principio a quello di buona fede e di
tutela dell’affidamento di cui all’articolo 5 del dlgs n. 36 del 2023 per
ricavarne che il comportamento della stazione appaltante non solo deve
essere improntato al rispetto delle norme di diritto pubblico, la cui
violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale
responsabilità da lesione dell’interesse legittimo, ma anche le norme
generali dell’ordinamento civile ”che impongono di agire con lealtà e
correttezza, la violazione delle quali può fare nascere una responsabilità
da comportamento scorretto, incidente sul diritto soggettivo di
autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di
compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze derivanti
dall’altrui scorrettezza”.
La pronuncia richiama la giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria in base alla
quale la responsabilità precontrattuale richiede non solo la buona fede
soggettiva del privato, ma anche gli ulteriori seguenti presupposti:
"a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta
oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia
anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o
dolo;
c) che il privato provi sia il danno-evento, sia il nesso
eziologico tra il danno e il comportamento scorretto che si imputa
all’amministrazione”
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).
---------------
SENTENZA
1.- L’assunto dell’appellante, svolto con il primo motivo di gravame, è
concettualmente fondato, non apparendo condivisibile, nella sua assolutezza,
la statuizione (di primo grado) di inammissibilità basata sul convincimento
che la parte ricorrente sia incorsa in decadenza per omessa impugnazione
dell’atto dedotto come lesivo (id est, la revoca dell’aggiudicazione
in data 02.03.2018).
Tale tesi ha un senso con riguardo alla responsabilità civile da
provvedimento amministrativo, a norma dell’art. 30, comma 3, cod. proc. amm.,
ma non anche con riguardo alla responsabilità precontrattuale, che, secondo
il paradigma generale di cui all’art. 1337 cod. civ., impone alle parti di
comportarsi, nella fase che precede la stipulazione del contratto, secondo
buona fede in senso oggettivo.
La giurisprudenza ha posto in evidenza che nei rapporti di diritto
amministrativo è configurabile un affidamento del privato sul legittimo
esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai
principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di
responsabilità non solo in relazione a comportamenti contrari ai canoni di
origine civilistica suindicati, ma anche per il caso di provvedimento
favorevole annullato su ricorso di terzi (Cons. Stato, Ad. plen.,
29.11.2021, n. 21).
Il principio di buona fede e di tutela dell’affidamento (da ultimo, recepito
nell’art. 5 del nuovo codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. n. 36
del 2023), già secondo l’elaborazione compiuta da Cons. Stato, Ad. plen.,
04.05.2018, n. 5, comporta che nello svolgimento dell’attività autoritativa
l’amministrazione è tenuta a rispettare, oltre alle norme di diritto
pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del
provvedimento e l’eventuale responsabilità da lesione dell’interesse
legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile, che impongono
di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può fare
nascere una responsabilità da comportamento scorretto, incidente sul diritto
soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè
sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze
derivanti dall’altrui scorrettezza.
La sentenza dell’Adunanza plenaria ha altresì chiarito che la responsabilità
precontrattuale richiede non solo la buona fede soggettiva del privato, ma
anche gli ulteriori seguenti presupposti:
a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta
oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia
anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o
dolo;
c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della
libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (e cioè
le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente
condizionate), sia il nesso eziologico tra il danno e il comportamento
scorretto che si imputa all’amministrazione.
Emerge dunque da tale inquadramento generale che la responsabilità
precontrattuale è in funzione del comportamento scorretto (Cons. Stato, V,
10.08.2018, n. 4912; IV, 20.02.2014, n. 790), e non già dell’illegittimità
provvedimentale.
La statuizione di inammissibilità appare dunque non condivisibile con
riguardo alla responsabilità precontrattuale, che prescinde
dall’illegittimità provvedimentale e dunque dall’esigenza stessa di
impugnare il provvedimento (nel caso di specie, di revoca
dell’aggiudicazione). |
APPALTI: L’errore
non è sanabile
con un chiarimento.
Un errore materiale non può essere sanato dalla stazione
appaltante con un chiarimento.
E' quanto ha affermato
il TAR Basilicata con la
sentenza 10.09.2024 n. 438.
I giudici hanno ricordato
innanzitutto che il Consiglio di Stato ha affermato che
"i chiarimenti della stazione appaltante sono ammissibili
solo se contribuiscono, con un’operazione di interpretazione
del testo, a renderne chiaro e comprensibile
il significato, ma non quando, proprio mediante l’attività
interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione
della lex specialis, un significato e una portata
diversa o maggiore di quella che risulta dal testo
stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale
della lex specialis”.
Partendo da questo assunto il
collegio lucano ha evidenziato come la stazione appaltante
avesse sostituito tramite “chiarimenti” uno dei
requisiti di partecipazione (facendo riferimento alle
norme europee della serie Uni En 15358:2011 non citate
inizialmente), pervenendo a un "risultato che è scevro
da portata chiarificatrice di sorta", ma anzi ha determinato
una modifica non consentita delle regole alla
base della selezione pubblica anche perché in violazione
della par condicio, dei principi di buona fede e di
legittimo affidamento.
Né -si legge nella sentenza- si
può invocare la natura di mero errore materiale perché
"l’errore materiale non è emendabile con lo strumento
dei chiarimenti, in quanto, secondo la giurisprudenza,
l’errore materiale o l’omissione commessa nella
lex specialis richiede un’apposita rettifica del bando e
del disciplinare da parte della stazione appaltante fatta
con le stesse forme di detti atti e non già con un semplice
chiarimento del responsabile unico del procedimento".
La pretesa correzione dell’asserito errore materiale
nell’indicazione della certificazione di qualità si
sarebbe dovuta attuare tramite un’apposita rettifica
del disciplinare di gara da parte della stazione appaltante,
fatta con le stesse forme di adozione di tale atto,
e non già mediante un mero “chiarimento”, come invece
avvenuto in concreto.
Pertanto non si può “disapplicare
il regolamento imperativo della procedura di affidamento
da essa stessa predisposto, e al quale la stessa
deve comunque sottostare”
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2024).
---------------
SENTENZA
9.1. Coglie nel segno la censura di «violazione di legge (artt. 99, 100,
105 e 107 d.lgs. 36/2023 – punto 6.3. lett. h) del disciplinare di gara in
relazione al punto 6)».
9.1.1. L’art. 6.3. del disciplinare di gara, rubricato requisiti di capacità
tecnica e professionale, prescrive tra l’altro, alla lett. f), il: «possesso
di certificazione del proprio sistema di gestione ambientale riferito
all'oggetto della procedura conforme alle norme europee della serie UNI EN
15359:2011».
9.1.1.1. Tuttavia, la stazione appaltante, senza essere addivenuta ad alcuna
modificazione di tale disposizione, rendendo dei meri chiarimenti, ha
successivamente affermato che: «tra i requisiti di capacità tecnica e
professionale indicate nel disciplinare di gara ci si riferisce alle norme
europee della serie UNI EN 15358:2011 (Combustibili solidi secondari -
Sistemi di gestione per la qualità - Requisiti particolari per la loro
applicazione alla produzione di combustibili solidi secondari)».
9.1.1.2. In tal modo, quindi, l’intimata A. ha di fatto sostituito la
prescrizione della legge di gara relativa al possesso di certificazione UNI
EN 15359:2011 con altra concernente la diversa certificazione UNI EN
15358:2011. In altri termini, La A. s.r.l. ha in tal modo apportato una
sostanziale e surrettizia modifica dei requisiti di partecipazione in fase
di formulazione dei chiarimenti, dalla cui applicazione è derivato il
provvedimento di ammissione alla procedura comparativa della
controinteressata La.Ca. (in possesso, appunto, della sola certificazione
UNI EN 15358:2011), poi risultata aggiudicataria.
9.1.2. Si tratta di attività illegittima, incidendo la stessa
sull’individuazione di uno dei requisiti di capacità tecnica e
professionale. Invero, i chiarimenti resi dalla stazione appaltante nel
corso di una gara d'appalto non hanno contenuto provvedimentale, non potendo
costituire, per giurisprudenza consolidata, integrazione o rettifica della
lex specialis di gara.
Sul punto, in particolare, va richiamato quanto statuito da condivisibile
giurisprudenza del Giudice d’appello, secondo cui «i chiarimenti della
stazione appaltante, infatti, sono ammissibili solo se contribuiscono, con
un'operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e
comprensibile il significato, ma non quando, proprio mediante l'attività
interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione della lex
specialis, un significato e una portata diversa o maggiore di quella che
risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio
formale della lex specialis, posto a garanzia dei principi di cui all'art.
97 Cost. (in termini, Cons. Stato, sez. III, 07.01.2022, n. 64; id., sez.
III, 15.12.2020, n. 8031)».
9.1.2.1. Come si è già rilevato, la stazione appaltante ha sostituito
tramite “chiarimenti” uno dei requisiti di partecipazione, pervenendo
a un risultato che (anche avuto riguardo alla chiara portata letterale del
disciplinare di gara) e diversamente da quanto pretenderebbero parte
resistente e la controinteressata, è scevro da portata chiarificatrice di
sorta.
Nel contempo, si è dato luogo a una modifica non consentita delle regole
alla base della selezione pubblica, trattandosi di attività che si pone in
contrasto con la par condicio. Tale risultato, peraltro, contrasta
anche con i principi di buona fede e legittimo affidamento riposto dai
concorrenti sulla lex specialis di gara, di cui all’art. 5, commi 1 e
2, del d.lgs. n. 36 del 2023.
9.1.2.2. Nella relazione amministrativa resa a seguito del disposto
incombente istruttorio, A. s.r.l. ha pure sostenuto che il disciplinare di
gara recherebbe, per tale aspetto «un semplice refuso» in quanto per
la partecipazione alla gara sarebbe «richiesto il possesso della
certificazione serie UNI EN 15358:2011, attualmente in vigore», mentre «la
certificazione serie UNI EN 15359:2011, (sistema di classificazione per i
combustibili solidi secondari (CSS) ed uno schema per la definizione delle
loro proprietà), è stata ritirata in data 01/07/2021».
Del pari, la controinteressata ha sostenuto che il disciplinare di gara
sarebbe affetto, per tale aspetto, da un evidente refuso, non essendo più in
vigore la normativa UNI EN 15359:2011. Tale «mero errore materiale,
riconoscibile agli operatori perché conforme a legge», sarebbe stato «tempestivamente
chiarito con FAQ del 15.11.2023».
In senso opposto, osserva il Collegio come l’errore materiale non sia
emendabile con lo strumento dei chiarimenti, in quanto, secondo la
giurisprudenza, l’errore materiale o l’omissione commessa nella lex
specialis richieda un’apposita rettifica del bando e del disciplinare da
parte della stazione appaltante fatta con le stesse forme di detti atti e
non già con un semplice chiarimento del responsabile unico del procedimento
(in termini, Cons. Stato, , sez. III, 07.01.2022, n. 64; TAR Lazio, sez.
III-quater, 06.12.2018, n. 11828; Cons. Stato, sez. V, 08.11.2017, n. 5162).
La pretesa correzione dell'asserito errore materiale nell’indicazione della
certificazione di qualità si sarebbe dovuta attuare tramite un'apposita
rettifica del disciplinare di gara da parte della stazione appaltante, fatta
con le stesse forme di adozione di tale atto, e non già mediante un mero “chiarimento”,
come invece avvenuto in concreto.
In difetto di ciò non è consentito all'amministrazione aggiudicatrice di
disapplicare il regolamento imperativo della procedura di affidamento da
essa stessa predisposto, e al quale la stessa deve comunque sottostare (ex
multis, Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
È legittimo il conferimento di funzioni in materia di
verifica di assoggettabilità a V.I.A. dalle regioni ai
comuni.
---------------
Ambiente – V.I.A. – Verifica di assoggettabilità –
Competenza – Regioni – Conferimento enti locali –
Legittimità
È legittimo il conferimento da parte
delle regioni ai comuni di funzioni in materia di verifica
di assoggettabilità a V.I.A. (c.d. screening), ai sensi
dell’art. 7-bis, comma 8, del d.lgs. n. 152 del 03.04.2006
(codice dell’ambiente), che espressamente la prevede per le
funzioni in materia di V.I.A., in quanto lo screening
partecipa della medesima natura della V.I.A. ed è
disciplinato nell’ambito del titolo III della parte I del
codice dell’ambiente, complessivamente dedicato alla
“valutazione di impatto ambientale”.
In
motivazione, la Sezione ha altresì evidenziato che il
principio di cui in massima è confermato, sul piano
letterale, dal comma 5 dello stesso art. 7-bis del codice
dell’ambiente (“In sede regionale, l'autorità competente è
la pubblica amministrazione con compiti di tutela,
protezione e valorizzazione ambientale individuata secondo
le disposizioni delle leggi regionali o delle Province
autonome”), nonché dall’ultima parte del comma 8 (“In ogni
caso non sono derogabili i termini procedimentali massimi di
cui agli articoli 19 e 27-bis”), laddove l’art. 19 del
codice dell’ambiente riguarda, appunto, la disciplina della
fase di screening.
---------------
(1) Non risultano precedenti negli esatti termini. Sulla natura e
funzione dello screening cfr. Cons. Stato, sez. IV,
07.05.2021, n. 3597; Cons. Stato, sez. II, 07.09.2020, n.
5379 (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.08.2024 n. 7314 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
8. Nell’ordine logico delle questioni viene in rilievo
quella relativa alla qualificazione della delibera di Giunta
dell’11.08.2021.
Le censure tese a contestare, sotto vari profili, la
competenza della Giunta si fondano infatti sull’assunto che
si tratti di un provvedimento di verifica di
assoggettabilità a V.i.a. conclusosi con esito negativo.
Tuttavia tale provvedimento –come si evince dal dispositivo–
si è limitato:
- ad approvare il progetto “Revisione del Progetto Definitivo
della Variante Alternativa al Centro Storico (VACS) Secondo
Lotto (Viale Lavagnini – Piazza Libertà – Piazza San Marco)”:
- a dichiarare la pubblica utilità dell’opera “al fine di
intraprendere la procedura per la costituzione di servitù ai
sensi del D.P.R. 327/2001”.
Al riguardo, va precisato che il progetto definitivo
denominato “Variante alternativa al Centro storico –
Lotto 2” (“VACS 2” o “VACS Lotto 2” nel
prosieguo), è stato approvato con deliberazione della Giunta
comunale 11.08.2017, n. 398, non impugnata.
Il provvedimento in esame, inoltre, fa propria la
valutazione contenuta nella relazione del Rup nella parte in
cui si dà atto (par. 7) che “relativamente alla procedura
di Verifica di Assoggettabilità Ambientale di cui alla LR
10/2010 [...] con Delibera n. 488 del 8/11/2016 la Giunta in
qualità di Autorità Competente, ha ritenuto le modifiche
apportate dal PROGETTO DI REALIZZAZIONE DELLE LINEE
TRANVIARIE 2 E 3 (I Lotto) “VARIANTE ALTERNATIVA AL CENTRO
STORICO” non sostanziali e ha deciso di escludere il
progetto in parola dalla procedura di verifica di
assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale
confermando le precedenti procedure effettuate”; ed
inoltre che “le presenti modifiche non hanno rilevanza ai
fini della Verifica di Assoggettabilità Ambientale [...]”.
In sostanza, la Giunta, con il provvedimento impugnato, si è
limitata “ad un sintetico richiamo della precedente delib.
08.11.2016 n. 2016/G/00488 della Giunta comunale (doc. 6 e
22 del deposito dell’Amministrazione comunale) che ha già
disposto l’esclusione dalla procedura di valutazione di
impatto ambientale del progetto in discorso e che non
risulta essere stata mai impugnata da parte ricorrente”.
La delibera in esame non è quindi espressiva di un giudizio
ambientale ma di una valutazione preliminare circa la natura
non sostanziale delle modifiche apportate in sede di
revisione della variante.
In tale ottica è quindi del tutto conseguenziale l’ulteriore
rilievo del Tar secondo cui “non avendo mai parte
ricorrente impugnato la delib. G.C. 08.11.2016 n.
2016/G/00488 che ha definito il subprocedimento di
esclusione dalla sottoposizione a V.I.A. del progetto, le
censure proposte avverso l’approvazione del progetto
revisionato costituiscono [...] un modo surrettizio per
riaprire una questione ormai definita dall’omessa tempestiva
impugnazione dell’atto conclusivo del procedimento”
ambientale.
8.1. A fronte del descritto iter procedimentale, l’unica
censura scrutinabile era quindi solo quella relativa alla
correttezza della valutazione preliminare della Giunta circa
la natura non sostanziale delle modifiche apportate in sede
di revisione progettuale.
Il che spiega l’apparente contraddizione che gli appellanti
hanno preteso di rilevare nel fatto che il Tar, abbia, da un
lato, ritenuto inammissibili le censure con le quali veniva
dedotta l’incompetenza della Giunta in materia di
procedimento di screening, e, dall’altro, escluso che
le variazioni progettuali approvate fossero di tale
rilevanza ambientale tale da imporre, di per sé,
l’instaurazione del procedimento di screening.
8.2. Ad ogni buon conto, la tesi secondo cui l’art. 45-bis
della l.r. n. 10 del 2010 dovrebbe ritenersi tacitamente
abrogato per effetto dell’art. 7-bis del Codice
dell’ambiente (introdotto dalla d.lgs. n. 104 del 2017), è
infondata.
8.2.1. Secondo gli appellanti, in base alla disposizione
testé richiamata le Regioni potrebbero subdelegare agli enti
territoriali le competenze in materia di VIA ma non quelle
di verifica di assoggettabilità a VIA.
8.2.2. In contrario, le parti resistenti hanno fatto
osservare che la competenza comunale relativamente alla
procedura di VIA e di screening sui progetti elencati
nel paragrafo 7 dell’allegato IV alla parte seconda del d.lgs. 152/2006 – lett. “l” (che contempla le tramvie urbane)
è stata esplicitamente confermata, nel tenore attuale
dell’art. 45-bis della l.reg. 10/2010, dall’art. 16 della
legge regionale n. 25 del 2018, che è successiva al d.lgs.
104 del 2017 e reca appunto “Disposizioni in materia di
valutazioni ambientali in attuazione del decreto legislativo
16.06.2017, n. 104. Modifiche alla l.r. 10/2010 e alla
l.r. 46/2013”.
Pertanto nel caso in esame potrebbe solo porsi la questione
di costituzionalità del cit. art. 45-bis, ma non sostenersi
che esso sia stato tacitamente abrogato da tale decreto
legislativo.
8.2.3. Ad ogni modo, sul piano logico–sistematico, non vi è
alcun elemento idoneo a supportare la tesi secondo cui la
Regione non potrebbe riallocare anche le competenze in
materia di verifica di assoggettabilità a VIA come ritiene
più opportuno, sia pure rispettando i criteri di cui al
citato art. 7–bis, comma 8, del codice dell’ambiente (ovvero
conformità alla legislazione europea e alle norme dettate in
sede statale, fatto salvo il potere di stabilire regole
particolari ed ulteriori per la semplificazione dei
procedimenti, per le modalità della consultazione del
pubblico e di tutti i soggetti pubblici potenzialmente
interessati, per il coordinamento dei provvedimenti e delle
autorizzazioni di competenza regionale e locale).
Le funzioni in materia sono infatti del tutto omogenee,
inerenti alle medesime verifiche di compatibilità ambientale
da effettuare con riguardo a determinati interventi, alcuni
dei quali, in seguito all’esito dello screening,
sottoposti ad entrambi i procedimenti.
8.2.4. Con specifico riguardo alla fase di screening
è stato sottolineato (cfr. Cons. Stato, sez. II, 07.09.2020,
n. 5379; cfr. anche sez. IV, 07.05.2021, n. 3597), che essa
svolge “una funzione preliminare per così dire di
"carotaggio", nel senso che "sonda" la progettualità e solo
ove ravvisi effettivamente una significatività della stessa
in termini di incidenza negativa sull'ambiente, impone il
passaggio alla fase successiva della relativa procedura;
diversamente, consente di pretermetterla, con conseguente
intuibile risparmio, sia in termini di costi effettivi, che
di tempi di attuazione”.
Lo screening è dunque esso stesso una procedura di
valutazione di impatto ambientale, che viene realizzata
preventivamente con riguardo a determinate tipologie di
progetto rispetto alle quali alla valutazione vera e propria
si arriva solo in via eventuale, in base all’esito della
verifica di assoggettabilità.
In tal senso, l’art. 19, comma 7, del d.lgs. n. 152 del
2006, dispone che “Qualora l'autorità competente
stabilisca di non assoggettare il progetto al procedimento
di VIA, specifica i motivi principali alla base della
mancata richiesta di tale valutazione in relazione ai
criteri pertinenti elencati nell'allegato V alla parte
seconda, e, ove richiesto dal proponente, tenendo conto
delle eventuali osservazioni del Ministero per i beni e le
attività culturali e per il turismo, per i profili di
competenza, specifica le condizioni ambientali necessarie
per evitare o prevenire quelli che potrebbero altrimenti
rappresentare impatti ambientali significativi e negativi
[...]”.
Pertanto, incombe sull’Amministrazione titolare del potere
l’obbligo di adottare una deliberazione “adeguatamente
motivata in relazione a fattori di oggettiva pericolosità
rivenienti dagli indici di cui all’Allegato V al Codice
ambientale, stante che ciò implica solo il rinvio ad un più
approfondito scrutinio della progettualità proposta, che
dalle ragioni dello stesso non risulta comunque in alcun
modo condizionata” (cfr., Cons. Stato, Sez. II, sentenza
n. 5379 del 2020).
Questo approccio è il diretto precipitato del principio di
precauzione che “[…] presuppone l’esistenza di un rischio
specifico all’esito di una valutazione quanto più possibile
completa, condotta alla luce dei dati disponibili che
risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con
un giudizio di stretta necessità della misura” (cfr.,
Cons. St., sez. III, sentenza n. 6655 del 2019).
8.2.5. Da quanto precede deriva che l’espressione contenta
nel comma 8 dell’art. 7–bis secondo cui “Le Regioni e le
Province autonome di Trento e di Bolzano disciplinano con
proprie leggi o regolamenti l’organizzazione e le modalità
di esercizio delle funzioni amministrative ad esse
attribuite in materia di VIA, nonché l'eventuale
conferimento di tali funzioni o di compiti specifici agli
altri enti territoriali sub-regionali” non può che
essere riferita anche alla verifica di assoggettabilità a
VIA, la quale è peraltro disciplinata nell’ambito del titolo
III della parte I del Codice dell’ambiente, complessivamente
dedicato alla “valutazione di impatto ambientale”.
8.2.6. Nello stesso senso depongono sul piano letterale, il
comma 5 dello stesso art. 7-bis (“In sede regionale,
l'autorità competente è la pubblica amministrazione con
compiti di tutela, protezione e valorizzazione ambientale
individuata secondo le disposizioni delle leggi regionali o
delle Province autonome”) nonché l’ultima parte del
comma 8 (“In ogni caso non sono derogabili i termini
procedimentali massimi di cui agli articoli 19 e 27-bis”),
laddove l’art. 19, come in precedenza evidenziato, riguarda
appunto la disciplina della fase di screening (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.08.2024 n. 7314 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - VARI:
Incidenti stradali, filmati delle telecamere da far salvare
subito.
Chi incorre in un sinistro in prossimità di una telecamera stradale deve
richiedere al comune il salvataggio immediato del filmato esercitando il
diritto d'accesso ai sensi della legge 241/1990. Non basta rivolgersi alla
polizia locale chiedendo informazioni sull'incidente. E se il regolamento
comunale limita arbitrariamente i diritti dell'autista la questione potrà
essere regolata in giudizio perché un provvedimento comunale non può
interferire con una norma primaria.
Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la
sentenza
29.07.2024 n. 671.
Un cittadino incorso in un sinistro stradale senza feriti si è rivolto
tempestivamente alla polizia locale per avere informazioni sulla circostanza
dell'evento che era stato ripreso dalle telecamere di videosorveglianza
urbana. Purtroppo però solo a distanza di qualche mese l'autista ha
formalizzato, senza successo, la richiesta di accesso ai filmati ai sensi
dell'art. 22 della legge 241/1990.
Il regolamento locale sulla videosorveglianza, infatti, prevede una conservazione limitata a cinque
giorni dei filmati catturati dai sistemi di videosorveglianza comunale.
Questa limitazione temporale a parere del collegio risulta corretta perché
rispondente ai principi fondamentali sulla protezione dei dati personali.
Non risulta invece adeguata alla normativa la limitazione al diritto
d'accesso introdotta nel medesimo regolamento comunale per i filmati che
riprendono incidenti stradali. Non è possibile limitare un diritto
riconosciuto da una legge dello Stato con un regolamento municipale,
specifica il collegio. “La normativa locale, pertanto, non può costituire
circostanza impeditiva alla piena operatività di previsioni normative
primarie”.
Nel caso sottoposto all'esame del tribunale ormai le immagini
erano state cancellate quindi l'automobilista non ha comunque beneficiato
dalla censura del tribunale. La prima cosa da fare in caso di sinistro sotto
alle telecamere comunali è quella di formalizzare una richiesta di accesso
documentale al filmato della videosorveglianza.
Poi se il comune non
ottempera alla richiesta accampando motivazioni creative ci si potrà
rivolgere con successo ai giudici di merito per il ristoro
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2024).
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SENTENZA
Pur essendo tempestivo, il ricorso è tuttavia infondato.
Va preliminarmente evidenziato che il Collegio ritiene che le immagini
registrate e conservate in sistemi di videosorveglianza urbana rientrino
nella nozione di documento amministrativo ai fini del diritto di accesso.
A sostegno di tale conclusione, si rileva che l’art. 22, comma 1, lett. d),
fornisce una nozione di documento amministrativo molto ampia, prevedendo
che: “d) per "documento amministrativo", ogni rappresentazione grafica,
fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del
contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico
procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti
attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica
o privatistica della loro disciplina sostanziale;”.
Sul punto, la più autorevole giurisprudenza amministrativa ha confermato che
la nozione di documento amministrativo è molto “ampia e può riguardare
ogni documento detenuto dalla pubblica amministrazione o da un soggetto,
anche privato, alla stessa equiparato ai fini della specifica normativa
dell’accesso agli atti, e formato non solo da una pubblica amministrazione,
ma anche da soggetti privati, purché lo stesso concerna un’attività di
pubblico interesse o sia utilizzato o sia detenuto o risulti
significativamente collegato con lo svolgimento dell’attività
amministrativa, nel perseguimento di finalità di interesse generale” (cfr.
Cons. di Stato. Ad. Plen. n. 19 del 2020).
Con riferimento alla fattispecie concreta, va innanzitutto ribadito che
questo Tribunale ritiene che la richiesta rivolta dalla ricorrente alla
Polizia locale, il giorno successivo al sinistro (21/12/2021), non possa
essere qualificata istanza di accesso, ai sensi e per gli effetti di cui
all’art. 22 e ss. L. 241/1990. Difatti, nella “Relazione incidente
stradale” così si legge: “Mi sono quindi rivolta alla Polizia Locale
affinché acceda alle immagini della videosorveglianza al fine di accertare
la responsabilità della controparte che negava di essere transitata
sull’intersezione di L.go -OMISSIS B- malgrado il semaforo gli vietasse il
passaggio”.
La richiesta non risulta formalizzata ed esorta, perlopiù, un intervento
della Polizia Locale per ottenere l’accertamento della responsabilità del
sinistro, previa ricostruzione dello stesso attraverso le
videoregistrazioni. Rispetto ad un’istanza ostensiva mancherebbero i
requisiti formali idonei a porre la pubblica amministrazione nella formale
condizione di valutare la sussistenza dei presupposti di legge, con
conseguente accertamento del relativo obbligo di provvedere.
Precisato quanto sopra, tuttavia, diversa configurazione assume l’istanza di
accesso della ricorrente inoltrata in data 08 - 12/05/2022, quale
fattispecie di accesso avente natura “difensiva”, in applicazione
dell’art. 24, comma 7, L. 241/1990.
Rispetto a tale fattispecie ostensiva autonoma, l’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato così si esprime “l’ostensione del documento richiesto
passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità
necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che
l’istante intende curare o tutelare” (Cons. di Stato Adun. Plenaria n.
4/2021).
Le immagini oggetto dell’istanza di accesso consentirebbero, verosimilmente,
di ricostruire la dinamica del sinistro ed incidere, per tale via, nel
giudizio azionabile per l’accertamento della relativa responsabilità.
Sussisterebbe, pertanto, il necessario nesso di strumentalità tra la
documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende
tutelare, che avrebbe come fine ultimo quello di sottrarsi, nell’ipotesi
esclusiva responsabilità del controinteressato, da ogni obbligo risarcitorio
nei confronti del proprietario della vettura.
Rispetto a quanto appena rilevato, la richiamata autorevole giurisprudenza
del Consiglio di Stato così prosegue: “la pubblica amministrazione
detentrice del documento e il giudice amministrativo adito nel giudizio di
accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono invece svolgere ex ante
alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla
decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato,
poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità
giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica
amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel
giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di
collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi
di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la
radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del
1990”. (Cons. di Stato Adun. Plen. n. 4/2021).
Orbene, la circostanza che il Regolamento del Comune di Bergamo sul sistema
di videosorveglianza per la sicurezza cittadina e per la disciplina dei dati
personali, all’art. 4, non annoveri tra le finalità, alle quali rispondono
le telecamere installate, quella di ricostruire gli incidenti stradali e le
relative responsabilità (a parte le ipotesi fattispecie di reato e le
richieste provenienti dalla Polizia Giudiziaria), non risulta dirimente.
Come già correttamente rilevato da precedenti statuizioni giurisprudenziali:
“La fonte del diritto di accesso è, infatti, la legge dello Stato (art.
22 ss. l. n. 241/1990 e artt. 59 e 60 del d.lgs. n. 196 del 2003) da
ritenersi prevalente sulla disciplina del regolamento locale. Il diritto di
accesso agli atti costituisce, invero, “principio generale dell’attività
amministrativa” ed attiene ai “livelli essenziali” delle prestazioni
relative ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale, “di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), della
Costituzione”, come disposto dall’art. 29, comma 2-bis, della legge n.
241/1990” (Tar Puglia, Lecce, sent. n. 1579/2021, Tar Campania, Napoli,
Sent. 2608/2023).
La normativa locale, pertanto, non può costituire circostanza impeditiva
alla piena operatività di previsioni normative primarie.
Sulla base di quanto sopra esposto, se da un lato sussisterebbe in
capo alla ricorrente la pretesa ad ottenere le immagini della
videosorveglianza a fini difensivi, dall’altro, tuttavia, dal
provvedimento impugnato e dalle difese del Comune si evince che le stesse
sono state cancellate in applicazione dell’art. 10, comma 5, del richiamato
Regolamento comunale.
Tale previsione regolamentare, difatti, così prevede: “5. Le immagini
videoregistrate sono conservate, per un tempo non superiore a cinque giorni
successivi alla rilevazione, presso il server di sistema che consente di
aderire alle finalità indicate all’art.4 del presente regolamento nonché a
investigative dell’autorità giudiziaria o della polizia giudiziaria. Decorso
il suddetto termine di cinque giorni le immagini riprese in tempo reale
sovrascrivono quelle registrate”.
Il Collegio ritiene che sia legittima la previsione di un tempo limite alla
conservazione delle immagini. Una tale previsione appare manifestamente
diretta ad evitare che i dati personali siano conservati per un tempo
eccessivamente lungo. Ciò attraverso l’adozione di sistemi di
minimizzazione, cioè di conservazione non oltre il tempo necessario per il
raggiungimento del risultato per cui il trattamento è stato predisposto ed
atti a consentire la identificazione del dato non oltre quanto necessario
per il raggiungimento della finalità stessa.
Difatti, dalle registrazioni tramite il sistema di videosorveglianza
potrebbero venire in rilievo anche dati sensibili e comunque dati di
soggetti “terzi”, estranei alla vicenda di volta in volta oggetto di
contesa. La fattispecie, pertanto, va disciplinata alla luce del principio
di temporaneità della conservazione dei dati sensibili, come desumibile
dall’art. 5 del Regolamento Unione Europea 27.04.2016 n. 679/2016.
Pertanto, la pretesa all’acquisizione delle immagini pubbliche di video
sorveglianza è senz’altro legittima e possibile quando essa avviene
coordinando le esigenze difensive, poste a base di chi ne invochi
l’ostensione, con la necessità di salvaguardare il vincolo di temporaneità
che indefettibilmente dovrà connotare la conservazione dei dati personali.
In tal senso, assumerà un valore fondamentale la tempestività dell’istanza
formalmente diretta ad acquisire i filmati.
Nella fattispecie all’esame di questo Tribunale, l’istanza ostensiva risulta
ritualmente proposta a più di quattro mesi di distanza dal sinistro,
nonostante le divergenti ricostruzioni in merito alla dinamica quest’ultimo
fossero evidenti già nell’immediatezza dell’evento.
L’eccessivo lasso temporale intercorrente tra il sinistro e la richiesta di
accesso, pertanto, rende legittima la cancellazione delle immagini.
Ai sensi dell’art. 22, comma 6, L. 241/1990 “6. Il diritto di accesso è
esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha l'obbligo di
detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere”.
Alla luce di quanto sopra richiamato, la condotta dell’amministrazione
resistente non può essere qualificata illegittima. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul differimento del termine per l’esercizio del potere di
autotutela in caso di inerzia dell’amministrazione
nell’esaminare gli atti del procedimento.
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Edilizia e urbanistica – Dia – Scia – Atto amministrativo -
Autotutela – Presupposti – Falsa rappresentazione dei fatti
– Dichiarazioni sostitutive false – Decorrenza del termine
per l’esercizio del potere di autotutela.
Il superamento del limite temporale per
l’esercizio del potere di autotutela di una denuncia di
inizio attività è consentito nei casi in cui il soggetto
richiedente ha rappresentato uno stato preesistente diverso
da quello reale, con conseguente impossibilità per la P.A.
di conoscere fatti e circostanze rilevanti, imputabile al
soggetto che ha beneficiato del rilascio del titolo, non
potendo la negligenza dell’amministrazione procedente
tradursi in un vantaggio per la stessa. Il dies a quo di
decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela deve
essere quindi individuato nel momento della scoperta, da
parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze
posti a fondamento dell’atto di ritiro. (1).
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Edilizia e urbanistica – Dia – Scia – Atto amministrativo -
Autotutela – Presupposti – Inerzia dell’amministrazione -
Decorrenza del termine per l’esercizio del potere di
autotutela.
Il differimento del termine iniziale per
l’esercizio del potere di autotutela ai sensi dell’art.
21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 deve essere
determinato dalla impossibilità per l’amministrazione, a
causa del comportamento dell’istante, di svolgere un
compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita
nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo
grado.
Viceversa, allorquando l’amministrazione sia nelle
condizioni di conoscere dello stato dei luoghi e della
conformità o meno del corredo documentale, l’inerzia
nell’esaminare gli atti, frutto di un atto privato come la
d.i.a., si rivela del tutto ingiustificata. (2).
La fattispecie
posta al vaglio della sezione ha riguardato l’esercizio del
potere di autotutela dopo oltre sei anni dalla presentazione
della denuncia di inizio attività. In motivazione, la
sezione ha precisato che tale tempo si configura come non
ragionevole rispetto ai limiti posti all’esercizio dello ius
poenitendi tratteggiato dalla primigenia disciplina dell’autotutela
contenuta nella legge 07.08.1990, n. 241 e rispetto alla
posizione di affidamento del soggetto destinatario dell’atto
di ritiro, in ragione del lungo tempo trascorso
dall’adozione della d.i.a. annullata.
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(1) In senso conforme: Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2024, n. 1926 e
24.05.2024, n. 4665; sez. IV, 03.04.2024, n. 3064 e
14.08.2024, n. 7134; Tar per la Sicilia, Catania, sez. II,
09.03.2024, n. 1210.
(2) In senso conforme: Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2024, n. 1926 e
24.05.2024, n. 4665; sez. IV, 14.08.2024, n. 7134
(ConsIglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.07.2024 n. 6636 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
9.- In via prioritaria devono esaminarsi le censure
involgenti la dedotta incompatibilità del provvedimento di autotutela con i canoni delineati dall’art. 21-nonies l. n.
241 del 1990 vigente ratione temporis, in punto di congruità
della motivazione sottesa all’atto di ritiro. Ciò in
relazione al tempo nel quale esso è stato adottato rispetto
al momento di presentazione della DIA e al legittimo
affidamento che sarebbe stato ingenerato in capo al privato.
Tra i dedotti elementi deve, in via di ulteriore priorità,
scrutinarsi quello che preclude il legittimo esercizio del
potere di autotutela una volta superato il ‘termine ragionevole’ (il provvedimento nel caso di specie è stato
adottato il 07.10.2013) rispetto alla data di adozione
del provvedimento oggetto di ritiro (nel caso di specie,
rispetto alla presentazione della denunzia di inizio
attività, datata 28.06.2007).
9.1.- L’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, nel testo
vigente ratione temporis, stabiliva, al comma 1, che «Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
A
tale disposizione rinviava il testo dell’art. 19, comma 3,
della l. n. 241 del 1990 vigente al tempo della
presentazione della DIA, il quale stabiliva –per quanto qui
di interesse– che «L’amministrazione competente, in caso di
accertata carenza delle condizioni, modalità e fatti
legittimanti, nel termine di trenta giorni dal ricevimento
della comunicazione di cui al comma 2, adotta motivati
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di
rimozione dei suoi effetti, salvo che, ove ciò sia
possibile, l'interessato provveda a conformare alla
normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un
termine fissato dall'amministrazione, in ogni caso non
inferiore a trenta giorni. È fatto comunque salvo il potere
dell'amministrazione competente di assumere determinazioni
in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e
21-nonies».
9.2.- Il testo di tale disposizione vigente al momento del
successivo atto di autotutela era, nella sostanza, di
analogo tenore, al netto di una diversa modulazione dei
termini ivi contemplati («3. L'amministrazione competente,
in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti
di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal
ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma,
adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi
di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato
provveda a conformare alla normativa vigente detta attività
ed i suoi effetti entro un termine fissato
dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta
giorni. E' fatto comunque salvo il potere
dell'amministrazione competente di assumere determinazioni
in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e
21-nonies. In caso di dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci,
l'amministrazione, ferma restando l'applicazione delle
sanzioni penali di cui al comma 6, nonché di quelle di cui
al capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 28.12.2000, n. 445, può sempre e in
ogni tempo adottare i provvedimenti di cui al primo
periodo»).
9.3.- L’art. 22 d.P.R. n. 380 del 2001, sempre nel testo
vigente al momento della presentazione della DIA, ammetteva
la realizzabilità «mediante denuncia di inizio attività gli
interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo
10 e all'articolo 6».
Il seguente art. 23, comma 6,
prevedeva che «Il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1
sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni
stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non
effettuare il previsto intervento, e, in caso di falsa
attestazione del professionista abilitato, informa
l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di
appartenenza. È comunque salva la facoltà di ripresentare la
denuncia di inizio di attività, con le modifiche o le
integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa
urbanistica ed edilizia».
9.4.- L’evoluzione della disciplina –che ha visto, tra
l’altro, la DIA trasformarsi in SCIA– ha previsto che
«all’immediata intrapresa dell’attività oggetto di
segnalazione si accompagnino successivi poteri di controllo
dell’amministrazione, più volte rimodulati, da ultimo
dall’art. 6 della legge 07.08.2015, n. 124 (recante
«Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche»)».
9.5.- Ora, Roma Capitale ha ritenuto di «annullare» (gli
effetti del)la DIA trascorsi più di sei anni dalla
presentazione della denuncia di inizio attività: tale tempo
si configura come non ragionevole rispetto ai limiti posti
all’esercizio dello ius poenitendi tratteggiato dalla
primigenia disciplina dell’autotutela contenuta nella l. n.
241 del 1990 e rispetto alla posizione del soggetto
societario destinatario dell’atto di ritiro.
9.6.- L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza
n. 8 del 2017), con riferimento alla questione
dell’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in
sanatoria (le cui conclusioni valgono, in linea di
principio, anche per l’esercizio dei poteri di autotutela a
seguito di DIA o SCIA), ha chiarito che il relativo
provvedimento «deve essere motivato in relazione alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale
all’adozione dell'atto di ritiro, anche tenuto conto degli
interessi dei privati destinatari del provvedimento
sfavorevole».
Ha evidenziato che,
«ai fini dell’annullamento
d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad
una distanza temporale considerevole dal provvedimento
annullato, il mero decorso del tempo, di per sé solo, non
consuma il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e,
in ogni caso, il termine “ragionevole” per la sua adozione
decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte
dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a
fondamento dell'atto di ritiro; l'onere motivazionale
gravante sull'amministrazione risulta attenuato in ragione
della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici
tutelati; la non veritiera prospettazione da parte del
privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a
fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non
consente di configurare in capo a lui una posizione di
affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere
motivazionale gravante sull'amministrazione può dirsi
soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non
veritiera prospettazione di parte»;
«nella vigenza dell’art.
21-nonies l. 241 del 1990 –per come introdotto dalla l. n.
15 del 2005– l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio
in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale
considerevole dal provvedimento annullato, deve essere
motivato in relazione alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro
anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari
del provvedimento sfavorevole; in tali ipotesi, tuttavia,
deve ritenersi:
i) che il mero decorso del tempo, di per sé
solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento
d'ufficio e che, in ogni caso, il termine «ragionevole» per
la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta,
da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze
posti a fondamento dell'atto di ritiro;
ii) che l'onere
motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà
attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli
interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di
maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il
richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio
alle disposizioni di tutela che risultano in concreto
violate, che normalmente possano integrare, ove necessario,
le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso
dell’esercizio del ius poenitendi);
iii) che la non
veritiera prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento
dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di
configurare in capo a lui una posizione di affidamento
legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale
gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto
attraverso il documentato richiamo alla non veritiera
prospettazione di parte».
9.7.- Ciò premesso, nella specie, manca sia l’esternazione
delle ragioni di interesse pubblico (al di là del mero
ripristino della legalità violata) sia la valutazione
motivata della posizione dei soggetti destinatari del titolo
edilizio.
Nel caso in esame tale affidamento era, peraltro,
particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo
trascorso dall'adozione della d.i.a. annullata, risultando
decorsi oltre sei anni dal suo consolidamento, in presenza
di obblighi (cessione dell’area destinata a parcheggio) a
carico dell’appellante di non chiara evidenza.
9.8.- Va aggiunto sotto tale profilo che il d.l. n. 133 del
2014 («Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive»), convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, aveva posto uno sbarramento temporale
all'esercizio del potere di autotutela, rappresentato da
«diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti
di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in
ogni caso, come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo
di evidenziare, rileva ai fini interpretativi e
ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti (cfr.
Cons. Stato, sez. VI, n. 5625 del 2015).
9.9.- Ora, è nel principio di buon andamento espresso
nell’art. 97 Cost. che «si radica il vincolo per il
legislatore di tenere conto, nella disciplina
dell’annullamento d’ufficio, anche dell’interesse pubblico
alla stabilità dei rapporti giuridici già definiti
dall’amministrazione» (Corte cost. n. 181 del 2017) con la
conseguenza che, proprio nei casi in cui è mancato ab
origine un provvedimento ampliativo in senso stretto (vertendosi
nel caso di specie di un’attività posta in essere sulla base
di DIA), l’adozione dell’atto di autotutela avrebbe dovuto
avvenire, comunque, in un tempo accettabile –per l’appunto
«ragionevole»– idoneo a non determinare la violazione di
tale principio di rilevanza costituzionale e comunque tale
da non ledere il legittimo affidamento che giocoforza si è
determinato in capo al privato in mancanza di tempestivi
provvedimenti.
9.10.- Né, nel caso di specie, può parlarsi di carenza di
effetti ab origine della DIA poiché essa conteneva la
documentazione minima necessaria; quanto alle difformità di
ordine sostanziale –peraltro non del tutto nitide–
evidenziate in sede di autotutela, la relativa rilevanza ai
fini degli effetti dell’efficacia della DIA era esclusa
dalla previsione del potere di cui all’art. 23, comma 6,
d.P.R. n. 380 del 2001 e dal termine perentorio ivi
contemplato, non rispettato dall’Amministrazione.
9.11.- Inoltre, nel provvedimento di autotutela, sul
versante documentale, il Comune di Roma ha fatto riferimento
alla mancata sottoscrizione dell’atto di cessione gratuita
dell’area destinata a parcheggio –ciò che avrebbe privato
di efficacia la DIA– e alla (asserita) carenza della
documentazione grafica relativa allo stato «ante operam»
dell’edificio e alla mancata corrispondenza tra piante,
prospetti e sezioni del post operam.
Ove pure si volesse ragionare –con una evidente forzatura,
anche in fatto– secondo il parametro di legittimità offerto
dalla attuale formulazione dell’art. 21-nonies l. n. 241 del
1990, il quale pure dà rilevanza alle carenze e difformità
documentali, le evidenziate carenze non avrebbero
consentito, comunque, di superare l’ulteriore (rispetto a
quello ex d.l. n. 133 del 2014) termine di legge «secco»
introdotto dal legislatore per l’esercizio del potere di autotutela.
È stato condivisibilmente evidenziato che
l’articolo 21-nonies, in definitiva, contempla, oggi, «due
categorie di provvedimenti –differenziabili in ragione
dell'uso della disgiuntiva "o"– che consentono
all'Amministrazione di esercitare il potere di annullamento
d'ufficio oltre il termine di diciotto mesi dalla loro
adozione, a seconda che siano, appunto, conseguenti a false
rappresentazioni dei fatti o a dichiarazioni sostitutive
false.
La ratio dell’illustrato comma 2-bis, infatti, risiede
nell’esigenza che il dies a quo di decorrenza del termine
per l’esercizio dell’autotutela debba essere individuato nel
momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei
fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di
ritiro (cfr. Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, n. 8
del 17.10.2017, riferita peraltro al concetto di
termine “ragionevole”, in quanto involgente una fattispecie
concreta venuta in essere prima della riforma).
La “scoperta” sopravvenuta all’adozione del provvedimento di
primo grado deve tradursi in una impossibilità di conoscere
fatti e circostanze rilevanti imputabile al soggetto che ha
beneficiato del rilascio del titolo edilizio, non potendo la
negligenza dell’Amministrazione procedente tradursi in un
vantaggio per la stessa, che potrebbe continuamente
differire il termine di decorrenza dell’esercizio del
potere.
In sostanza, il differimento del termine iniziale per
l’esercizio dell’autotutela deve essere determinato
dall’impossibilità per l’Amministrazione, a causa del
comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto
accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito
della fase istruttoria del procedimento di primo grado» (Cons.
Stato, sez. VI, n. 1926 del 2024, cit.; più recentemente n.
4665 del 2024).
Ora, in una situazione quale quella per cui è causa, nella
quale il Comune era perfettamente nelle condizioni di
conoscere dello stato dei luoghi e della conformità o meno
dell’integrale corredo documentale versato agli atti del
procedimento dall’appellante, l’inerzia della civica
Amministrazione nell’esaminare gli atti, frutto di un atto
privato quale era la DIA, si rivelava del tutto
ingiustificata.
In tal senso, il provvedimento di ritiro si mostra
chiaramente lesivo del principio di affidamento del privato
nella «sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento
fondamentale dello Stato di diritto» (Corte cost. n. 216 del
2023), il quale non può essere leso da una decisione che
trasmodi in un nuovo regolamento di una situazione
sostanziale consolidata.
10.- Conclusivamente, previo assorbimento delle ulteriori
doglianze, irrilevanti ai fini della presente decisione,
l’appello va accolto nei sensi sopra specificati con
conseguente accoglimento del secondo ricorso per motivi
aggiunti, con riguardo al primo (e assorbente) motivo, e del
quarto ricorso per motivi aggiunti, con riguardo al primo
motivo in via derivata, e annullamento degli atti ivi
impugnati.
In relazione al terzo ricorso per motivi
aggiunti, il carattere non provvedimentale della relazione
ivi impugnata ne determinava l’inammissibilità per carenza
originaria di interesse (ConsIglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.07.2024 n. 6636 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Scale da utilizzare con diligenza. La condotta del danneggiato
limita il diritto al risarcimento. La Cassazione: condominio tenuto alla
manutenzione, sinistri da valutare caso per caso.
Il capitombolo sulle scale non sempre è responsabilità del condominio.
Seppure quest’ultimo sia tenuto a fare in modo che le parti comuni siano
conservate in un buono stato di manutenzione, la conoscenza dello stato dei
luoghi e il mancato utilizzo dell’ordinaria diligenza da parte del
danneggiato possono limitare o addirittura escludere il diritto al
risarcimento del danno. Volta per volta occorre quindi valutare le modalità
con le quali è avvenuto il sinistro e la condotta osservata dalla vittima
dell’incidente.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la recente
ordinanza 12.07.2024 n. 19204.
Il caso concreto.
Nel caso di specie la conduttrice di un appartamento sito in condominio era
caduta mentre scendeva le scale e si era fratturata il
polso. La stessa aveva quindi agito in giudizio contro il condominio e la
società proprietaria di uno degli appartamenti per il risarcimento del
danno, affermando che causa della caduta era stata l’assenza del corrimano e
la scivolosità dei gradini a causa della presenza di acqua e umidità dovute
alle avverse condizioni metereologiche.
Sia in primo che in secondo grado la domanda era stata disattesa, sia perché
era stata ravvisata una mancanza di prova in ordine al nesso di causalità
tra la caduta e il bene comune sia perché era stato ritenuto che la
danneggiata, abitando da molto tempo nell’edificio, ben avrebbe potuto e
dovuto sapere che in quel tratto di scale non vi era un corrimano.
La Suprema corte, nel confermare a sua volta la decisione di merito, ha
evidenziato che in materia di responsabilità civile per danni da cose in
custodia, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di
essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato
delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze,
tanto più rilevante deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento
imprudente del medesimo, fino a rendere possibile che lo stesso interrompa
il nesso di causalità tra il fatto e l’evento dannoso.
La condotta del danneggiato può quindi essere concausa o causa unica
determinante del danno, richiedendo una valutazione che tenga conto del
dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di
solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione. Qualora il comportamento
osservato dal danneggiato risulti essere stato oggettivamente in contrasto
con una certa regola di condotta, stabilita da una norma o dettata dalla
comune prudenza, lo stesso sarà quindi considerato corresponsabile o,
addirittura, responsabile unico dell’evento lesivo.
La responsabilità da beni in custodia.
Con riguardo ai beni comuni (cortile, androne, scale, corsello dei box,
ecc.) è il condominio, in persona del suo amministratore, a dover vigilare
sul relativo stato di manutenzione, essendone custode. Per tale motivo
l'amministratore è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché
detti beni non rechino pregiudizio ai condòmini e ai terzi.
In caso contrario, il condominio risponde dei
danni che ne siano derivati. Il fondamento giuridico di tali conclusioni si
rinviene nell'art. 2051 c.c., in base al quale ciascuno è responsabile del
danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso
fortuito.
Dunque l'origine di tale responsabilità è da individuarsi nel dovere di
custodia che grava sul soggetto che, a qualsiasi titolo, abbia un effettivo
e non occasionale potere fisico sulla cosa, in relazione all’obbligo di
vigilare affinché la stessa non arrechi danni a terzi.
La giurisprudenza di merito e di legittimità ha avuto modo a più riprese di
circoscrivere i contorni di tale forma di responsabilità. In primo luogo,
essa ha natura extracontrattuale e incombe sull'intera compagine
condominiale, anche se l’amministratore può incorrere a sua volta in
responsabilità contrattuale nei confronti del condominio.
In base all'art. 20151 c.c. grava quindi sul custode del bene una
presunzione di responsabilità che ammette una prova liberatoria limitata
alla dimostrazione del caso fortuito. Ai fini del riconoscimento della
responsabilità non è tuttavia necessario che il bene sia di per sé
pericoloso, ma è sufficiente, perché possa essere riscontrato il rapporto di
causalità fra la cosa e il danno, che esso abbia una concreta potenzialità
dannosa per sua connaturale forza dinamica o statica, ovvero, per effetto di
concause umane o naturali.
Vista la presunzione di responsabilità in capo al condominio prevista
dall'art. 2051 c.c., in casi del genere il soggetto danneggiato può ottenere
il risarcimento limitandosi a provare il pregiudizio subito, il nesso tra
quest'ultimo e il bene che lo ha prodotto, nonché il rapporto di custodia
tra detto bene e il condominio (ovvero la natura comune del bene).
La compagine condominiale, viceversa, andrà esente da responsabilità
soltanto ove riesca a provare che il danno non è stato causato da un bene
comune dell'edificio oppure che ricorra un caso fortuito, da individuarsi in
un evento assolutamente imprevisto o imprevedibile, che sia stato di per sé
idoneo a produrre l'evento lesivo. E' bene però evidenziare che tra i
fattori aventi efficacia scriminante, in quanto fanno venire meno la
responsabilità del condominio, rientrano anche il fatto del terzo o dello
stesso danneggiato, qualora si tratti di condotte che abbiano causato
direttamente l’evento dannoso.
La casistica.
In un altro caso recentemente portato alla sua attenzione la Cassazione ha
stabilito che il condòmino che scivola sulle scale a causa di una macchia di
olio non deve essere risarcito, trattandosi di un fatto che esula dalla
responsabilità del condominio e non può essere né previsto né evitato (ordinanza
27.04.2018 n. 10154).
Nel caso di specie i giudici di merito avevano infatti ritenuto che non si
potesse pretendere un differente comportamento da parte dell’amministratore
condominiale, il quale altro non poteva fare che disporre un servizio
continuativo di pulizia delle parti comuni, come di fatto avvenuto.
La Suprema corte, nel confermare la sentenza impugnata, aveva inoltre
evidenziato che l'evento lesivo era da ascrivere interamente al fatto del
terzo, ossia al soggetto che aveva fatto cadere la sostanza oleosa sui
gradini, essendo questa l’unica causa della caduta del condòmino sulle
scale.
La Cassazione aveva anche chiarito che in casi del genere non costituisce
ostacolo all'accertamento del caso fortuito il fatto che il terzo
responsabile non possa essere identificato, poiché la fattispecie rimane
comunque di per sé connotata dai caratteri di imprevedibilità e
inevitabilità che giustificano l'applicazione della scriminante in favore
del condominio custode.
Ad analoghe conclusioni è pervenuta la Suprema corte nel caso di un
condòmino che era caduto sulle scale per l’improvvisa interruzione del
funzionamento dell’impianto di illuminazione. Infatti avrebbe dovuto essere
la vittima dell’incidente a provare in giudizio sia il rapporto causale tra
il bene comune e la caduta sia la negligenza del condominio nella custodia
dell’impianto dal quale si sarebbe originato il danno (sentenza n. 22784 del
27.10.2014).
A questo proposito si evidenzia che nella giurisprudenza di legittimità si
ritiene generalmente che in presenza di un bene comune di per sé statico e
inerte e che richiede l’agire umano per la verificazione di un evento
lesivo, spetta al danneggiato provare che lo stato dei luoghi presentasse
peculiarità tali da renderne potenzialmente dannosa la normale
utilizzazione.
In precedenza la Cassazione ha invece ritenuto sussistente la responsabilità
del condominio nel caso in cui, per la scarsa illuminazione di una parte
comune, il danneggiato non si era avveduto della presenza di un muretto e
per questo motivo era precipitato lungo il vano scale.
Analoghe decisioni sono state assunte nel caso in cui la caduta era stata
originata dall’esistenza di un gancio inserito in uno dei gradini della
scala e relativo a un cancelletto normalmente chiuso o dalla presenza di
nuovi manufatti collocati sul pavimento del cortile che, per la posizione e
per la novità dell’installazione, presentavano i caratteri dell’insidia.
Anche in presenza di materiale distaccatosi dal soffitto o dalle pareti
della scala condominiale è stata inoltre ritenuta legittima la richiesta di
risarcimento dei danni da parte del condòmino infortunatosi, perché in casi
del genere la causa del danno è da individuarsi presuntivamente proprio
nella scarsa manutenzione delle parti comuni
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2024).
---------------
Il principio di diritto
La responsabilità ex art. 2051 c.c. può essere
esclusa o dal caso fortuito o dalla prova della rilevanza causale, esclusiva
o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di
un terzo, caratterizzate, rispettivamente, la prima dalla colpa ex art. 1227
c.c. o, indefettibilmente, la seconda dalle oggettive imprevedibilità e non
prevenibilità rispetto all’evento pregiudizievole. |
VARI: Reati, l’accordo fa la differenza.
Concorso di persone distinto da
associazione a delinquere. La
Suprema Corte: per inquadrare il delitto associativo non basta la semplice
reiterazione.
Occorre fare distinzione
tra il concorso di
persone nel reato e
l’associazione a delinquere.
Nel primo caso, l’accordo
criminoso si presenta come
occasionale e limitato, in quanto
volto esclusivamente alla
commissione di più reati ispirati
a un analogo disegno criminoso.
La fattispecie di associazione
a delinquere, invece, presuppone
la sussistenza di un’organizzazione
strutturale di uomini
e mezzi che sia stabile e funzionalmente
destinata alla realizzazione
di un numero indeterminato
di reati anche di natura
eterogenea tra loro.
Il tutto
deve essere accompagnato
dalla consapevolezza, da parte
dei singoli associati, di fare parte
del durevole sodalizio e, di
conseguenza, di essere disponibili
nel tempo a operare per l’attuazione
del programma criminoso
che hanno scelto di condividere.
Lo ha stabilito la Corte di
Cassazione (VI Sez. penale), con la
sentenza
03.07.2024 n.
26191, la quale, con
riferimento a una contestazione di un'associazione a delinquere finalizzata
alla commissione di plurimi delitti tributari (in particolare, di indebita
compensazione in favore di persone fisiche e giuridiche in cambio di
pagamenti illeciti, ex art. 10-quater, dlgs 74/2000), ha delineato, con
particolare precisione, la differenza tra il concorso di persone (art. 110,
cod. pen.) nel reato continuato e il reato associativo, ex
art. 416 cod. pen..
E ha precisato che la mera reiterazione di uno stesso reato in via
concorsuale non basta a integrare il delitto associativo, previsto e
disciplinato all'articolo 416 del codice penale, anche se questo viene
commesso secondo un preciso expertise.
Il caso. La vicenda giudiziaria trae origine dalla conferma, da parte del
Tribunale del Riesame di Brescia, dell'ordinanza di applicazione della
misura cautelare, in ordine alla contestazione, nei confronti dell'imputato,
di aver partecipato insieme ad altri soggetti a un'associazione a delinquere
finalizzata alla commissione di numerose indebite compensazioni a favore di
persone fisiche e giuridiche.
In particolare, il Tribunale avrebbe individuato un “…modus agendi
replicabile in favore di una serie indeterminata di soggetti”, precisando
che gli imputati intrattenevano rapporti con i loro interlocutori economici,
ai quali fornivano (dietro compenso) i loro servizi.
Per queste ragioni, il
giudice del Riesame ha valorizzato, ai fini della sussistenza del reato
associativo, l'esistenza e l'operatività di un “sistema organizzativo che,
seppure di scarsa consistenza nella dimensione fisico-strutturale, può
definirsi comunque tale, sommando e saldando esperienze, relazioni e
competenze professionali dispiegate per la commissione del programma
delittuoso”.
L'orientamento della Cassazione. L'imputato, con un unico motivo di ricorso,
ha impugnato l'ordinanza avanti la Suprema Corte, contestando proprio
l'effettiva sussistenza dei presupposti oggettivi del delitto di
associazione a delinquere.
I giudici di legittimità, in accoglimento dell'impostazione difensiva
offerta dal ricorrente, hanno evidenziato come il Tribunale del Riesame non
aveva considerato, come avrebbe dovuto, il costante orientamento della
giurisprudenza di legittimità che richiede, proprio ai fini
dell'accertamento della fattispecie associativa, “…che sia stata realizzata
una struttura stabile, funzionalmente destinata alla commissione di una
serie indeterminata di delitti (Sez. 6, n. 19783 del 16/04/2013, De Caro, Rv.
255471) e, dunque, vi sia un'organizzazione strutturale, sia pure minima, di
uomini e mezzi, nella consapevolezza, da parte di singoli associati, di far
parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili a operare nel tempo
per l'attuazione del programma criminoso comune (Sez. 2, n. 20451 del
03/04/2013, Ciaramitaro e aa., Rv. 256054)".
Inoltre, la Cassazione ha aggiunto che “…la predisposizione di un programma
criminoso ben può consistere nella commissione di una serie indeterminata di
delitti identici o di analoga natura, non costituendo il carattere
eterogeneo dei reati-fine un elemento strutturale della fattispecie (Sez. 3,
n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816-01), potendo peraltro
l'associazione essere progettata per operare per un tempo determinato (Sez.
6, n. 38524 dell'11/07/2018, P., Rv. 274099); neppure è di ostacolo alla
configurabilità del reato la diversità o la contrapposizione degli scopi
personali perseguiti dai componenti, i quali rilevano esclusivamente come
motivi a delinquere (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv.
274816-02)”.
Le caratteristiche del reato associativo. La Cassazione ha così precisato
che il delitto ex art. 416, cod. pen., presuppone il necessario accertamento
di tre elementi:
i) la sussistenza di un vincolo permanente, o comunque
stabile, destinato a durare anche oltre l'effettiva realizzazione dei reati
pianificati;
ii) l'indeterminatezza del programma criminoso (elemento
dirimente nella distinzione tra il reato associativo e il semplice accordo
che sorregge il concorso di persone nel reato)
iii) infine, l'esistenza di
una struttura organizzativa adeguata a perseguire gli obiettivi criminosi.
La distinzione tra il delitto di associazione a delinquere e il concorso di
persone nel reato continuato è data dal tipo di accordo criminoso. Nel
concorso, infatti, l'accordo è occasionale e limitato, in quanto volto alla
commissione di più reati ispirati da un medesimo disegno criminoso, commessi
i quali viene meno anche l'accordo stesso; nell'associazione a delinquere,
invece, questo è rivolto all'attuazione di un indeterminato programma
illecito che prende vita grazie alla stabile struttura organizzativa posta
in essere dagli associati.
Non può e non deve bastare, quindi, che un reato venga semplicemente
reiterato affinché venga integrato il delitto di associazione a delinquere,
neppure quando la reiterazione avviene, come nel caso preso in esame dalla
Suprema Corte, sfruttando un elaborato sistema di know-how e di competenze
tecniche.
Sulla base di questi principi, la Cassazione ha così stigmatizzato la
decisione del Tribunale del riesame di Brescia: “Nella valutazione del
Tribunale, dunque, l'elemento dell'organizzazione dell'associazione a
delinquere, deprivato di ogni connotazione materiale, si risolve nella mera
reiterazione del medesimo reato commesso in via concorsuale, secondo un
preciso expertise. Tale motivazione, tuttavia, viola il disposto dell'art.
416 cod. pen. in quanto, rendendo evanescente l'elemento
dell'organizzazione, annulla ogni distinzione tra concorso di persone nel
reato continuato e condotta di partecipazione e promozione dell'associazione
per delinquere” (articolo ItaliaOggi Sette del 16.09.2024).
---------------
SENTENZA
3. Il motivo è fondato.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità,
l'associazione per delinquere si caratterizza per tre
fondamentali elementi, costituiti da un vincolo associativo tendenzialmente
permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la
realizzazione dei delitti concretamente programmati, dall'indeterminatezza
del programma criminoso che distingue il reato associativo dall'accordo che
sorregge il concorso di persone nel reato, e dall'esistenza di una struttura
organizzativa, sia pur minima, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare
gli obiettivi criminosi presi di mira
(ex plurimis: Sez. 2, n. 16339 del 17/01/2013, Burgio, Rv. 255359 -
01).
La predisposizione di un programma criminoso ben può
consistere nella commissione di una serie indeterminata di delitti identici
o di analoga natura, non costituendo il carattere eterogeneo dei reati-fine
un elemento strutturale della fattispecie
(Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816-01),
potendo peraltro l'associazione essere progettata per operare per un
tempo determinato (Sez. 6, n.
38524 del 11/07/2018, P., Rv. 274099); neppure è di
ostacolo alla configurabilità del reato la diversità o la contrapposizione
degli scopi personali perseguiti dai componenti, i quali rilevano
esclusivamente come motivi a delinquere
(Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816-02).
Ciò che conta per l'integrazione della fattispecie
associativa è, tuttavia, che sia stata realizzata una struttura stabile,
funzionalmente destinata alla commissione di una serie indeterminata di
delitti (Sez. 6, n. 19783 del
16/04/2013, De Caro, Rv. 255471) e, dunque, vi sia
un'organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, nella
consapevolezza, da parte di singoli associati, di far parte di un sodalizio
durevole e di essere disponibili ad operare nel tempo per l'attuazione del
programma criminoso comune (Sez.
2, n. 20451 del 03/04/2013, Ciarannitaro e aa., Rv. 256054).
D'altra parte, nel concorso di persone nel reato
continuato l'accordo criminoso è occasionale e limitato, in quanto volto
alla sola commissione di più reati ispirati da un medesimo disegno
criminoso, mentre le condotte di partecipazione e promozione
dell'associazione per delinquere presentano i requisiti della stabilità del
vincolo associativo e dell'indeterminatezza del programma criminoso,
elementi che possono essere provati anche attraverso la valutazione dei
reati scopo, ove indicativi di un'organizzazione stabile e autonoma, nonché
di una capacità progettuale che si aggiunge e persiste oltre la consumazione
dei medesimi (Sez. 2, n. 22906 del
08/03/2023, Bronzellino, Rv. 284724 - 01, fattispecie relativa ad
associazione per delinquere finalizzata alla commissione di rapine, in cui
la Corte ha ritenuto carente la motivazione della decisione di condanna per
non aver individuato, con specificità, né gli indicatori dell'autonomia
dell'associazione rispetto al mero accordo criminoso funzionale alla
consumazione delle azioni predatorie, né il ruolo dei singoli partecipi al
sodalizio; Sez. 5, n. 1964 del 07/12/2018 (dep. 2019), Magnani, Rv. 274442 -
01; Sez. 6, n. 15573 del 28/02/2017, Di Guardo, Rv. 269952 - 01). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Porte
aperte ai condizionatori. Resta però il limite dell'immutabilità della parte
in comune. La Corte di Cassazioni stabilisce i requisiti per l'installazione
degli impianti nei condomini.
Il singolo condòmino può installare i condizionatori sulle parti comuni per
conto proprio e senza chiedere l'autorizzazione all'assemblea. Ciò purché
l'intervento non modifichi la destinazione di dette parti comuni o impedisca
agli altri proprietari di fare essi stessi un uso simile della zona
interessata.
A disporlo è la Corte di Cassazione, Sez. II civile, che con la
sentenza 01.07.2024 n. 17975 ha accolto il ricorso di un
condòmino negoziante avverso la deliberazione con cui l'assemblea gli
imponeva di rimuovere i 4 condizionatori installati nel cortile comune a
servizio del proprio immobile.
La compagine condominiale, nel dettaglio, aveva deciso di disporre l'obbligo
di richiedere un'autorizzazione in caso di installazione di condizionatori
al servizio dei locali commerciali interni allo stabile, e sulla base di
tale regola intimava al proprietario del negozio di rimuovere i propri
sistemi di climatizzazione dal cortile, nonostante egli li avesse installati
prima dell'esistenza di detto obbligo.
I motivi di tale intimazione, da parte del condominio, si basavano sul fatto
che la presenza dei condizionatori avrebbe alterato la destinazione di una
parte comune dello stabile, limitando il diritto d'uso del cortile degli
altri condòmini.
Il caso, cioè, ricadrebbe sotto l'ombrello normativo dell'art. 1120 cc., in
base al quale “sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio
alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro
architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili
all'uso o al godimento anche di un solo condomino”.
Tuttavia, secondo la Corte l'installazione di condizionatori non rende di
per sé inservibile la parte comune per gli altri membri della compagine, o
comunque una tale conseguenza andrebbe provata con dettagli tecnici.
Infatti, spiegano gli Ermellini richiamando un precedente, “nell'identificazione
del limite all'immutazione della cosa comune, disciplinato dall'art. 1120,
co. 2 c.c., il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel
semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione […] ma è
costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua
naturale fruibilità”.
In sostanza, la Corte di grado inferiore che aveva rigettato l'impugnazione
del negoziante avente ad oggetto la delibera condominiale “non è scesa
all'analisi degli aspetti tecnici della installazione, quali un apprezzabile
deterioramento del decoro architettonico ovvero una significativa
menomazione del godimento e dell'uso del bene comune”.
Non si tratta, dunque, di un “liberi tutti”, e il limite
dell'immutabilità della cosa comune resta in piedi, in generale, quando si
realizzano innovazioni su tali aree di uno stabile condominiale. Tuttavia,
il verificarsi di un mutamento tale da rendere l'intervento realizzato
illegittimo deve essere verificato in concreto. Un simile pronunciamento da
parte della Cassazione, peraltro, aiuta a comprendere i possibili rischi
dell'installazione di impianti di climatizzazione per coloro che hanno
fruito delle relative detrazioni edilizie, in particolare l'Ecobonus.
Un condòmino che autonomamente proceda a simili interventi fruendo del
bonus, cioè, dovrà verificare prima dell'installazione che non vengano nei
fatti intaccati i diritti della compagine sulle parti comuni, ad esempio
perché (come nel caso risolto dalla Cassazione) i lavori non impediscono
agli altri di installare propri condizionatori nella parte comune.
Altrimenti i membri del condominio potrebbero opporsi ai lavori, potendosi
venire a generare una irregolarità che potrebbe persino sfociare nel
recupero della detrazione fiscale fruita
(articolo ItaliaOggi del 27.09.2024).
---------------
SENTENZA
2. – L’esame delle questioni, così frammentate in undici motivi, è da
raggruppare e riordinare secondo un ordine logico ispirato da economia
processuale.
La questione centrale concerne la violazione del diritto di ciascun
condomino di utilizzare la cosa comune. La Corte di appello rigetta la
censura, poiché la condòmina non ha impugnato la delibera che prevede
l'autorizzazione assembleare per l'installazione di condizionatori da parte
degli esercizi commerciali.
Inoltre, la Corte ritiene irrilevante l’installazione precedente di
condizionatori da parte della banca, poiché essa è avvenuta prima della
delibera menzionata.
In via subordinata si collocano le censure relative all’attività istruttoria
relativa agli accadimenti in assemblea, ove la Corte di appello accerta che
al contrario di quanto mostra di ritenere la condòmina, alcuni condomini non
si sono allontanati, così come è infatti attestato nel verbale, per cui il
primo giudice non ha ritenuto di ammettere i mezzi istruttori dedotti. In
via ulteriormente subordinata si collocano le questioni relative alle spese
processuali.
Sono fondati il primo, il terzo, il quinto e il
sesto motivo, nei termini delineati complessivamente nel capoverso
successivo.
E’ pregiudiziale l’esame del quinto mezzo con il quale è denunciata la
mancanza di prova dell’esistenza di una delibera precedente a quella del
20.09.2000 di previsione della obbligatorietà di preventiva autorizzazione
dell’assemblea condominiale per l’installazione dei condizionatori d’aria,
peraltro necessaria per il solo titolare dei locali commerciali: la
circostanza dedotta trova riscontro nelle stesse difese del Condominio da
cui emerge palese che il vincolo era stato posto proprio dalla delibera qui
impugnata, in particolare a seguito di approvazione dei punti 1 e 3
dell’ordine del giorno (v. pp. 8 e 9 del controricorso), per cui se ne deve
dedurre che la stessa al più trova applicazione per le installazioni
realizzate in epoca successiva.
Nel merito, questa Corte ha più volte affermato che la naturale destinazione
all'uso della cosa comune, può tener conto di specificità -che possono
costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del
diritto del singolo condomino- solo se queste, costituiscano una inevitabile
e costante caratteristica di utilizzo (cfr. Cass. n. 15319 del 2011).
Ed è stato affermato il principio secondo il quale «nell'identificazione
del limite all'immutazione della cosa comune, disciplinato dall'art. 1120,
co. 2 c.c., il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel
semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione
-coessenziale al concetto di innovazione- ma è costituito dalla concreta
inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità, per
cui si può tener conto di specificità -che possono costituire ulteriore
limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo
condomino- solo se queste costituiscano una inevitabile e costante
caratteristica di utilizzo» (Cass. n. 24960 del 2016).
Nella fattispecie la Corte distrettuale non è scesa all'analisi degli
aspetti tecnici della installazione, quali un apprezzabile deterioramento
del decoro architettonico ovvero una significativa menomazione del godimento
e dell'uso del bene comune, omettendo anche di valutare che si tratta di
obbligo introdotto solo successivamente alla installazione di cui si
discute.
La delibazione dei dati istruttori da parte del giudice del gravame, a ben
vedere, parte da una non condivisibile interpretazione del limite alle
innovazioni consentite della cosa comune, là dove lo pone nella
trascurabilità del pregiudizio del singolo condomino o nella «corrispettività»
di un qualche vantaggio per lo stesso, non meglio definito.
In altri termini, ai sensi dell’art. 1120 c.c., l’installazione, sulle parti
comuni, di un impianto per il condizionamento d’aria a servizio di una unità
immobiliare, che non presupponga la modificazione di tali parti, può essere
compiuta dal singolo condòmino per conto proprio, in via di principio senza
richiedere al Condominio alcuna autorizzazione. Il rilascio o il diniego di
una siffatta autorizzazione può tutt’al più significare l’inesistenza o
l’esistenza di un interesse di altri condomini a fare uso delle cose comuni
in modo pari a quello del condomino determinatosi all’installazione.
Nel caso di specie non emerge dagli atti che sia stato accertato che
l’installazione su parti comuni di condizionatori al servizio di un’unità
immobiliare determini alterazione della destinazione delle cose comuni, né
impedisca ad altri condomini di farne parimenti uso (anzi ciò è anche
avvenuto, in precedenza). |
CONDOMINIO: Assemblee, bandito il fai-da-te.
Invio della convocazione secondo quanto prevede la legge.
Il Tribunale di Monza indica i modi consentiti:
raccomandata, Pec, fax, consegna a mani
Per l’invio dell’avviso di convocazione assembleare, attenzione alle
soluzioni fai-da-te. L’amministratore è tenuto a utilizzare le modalità
previste dalla legge: raccomandata, Pec, fax e consegna a mani. Non sono
consentite alternative, anche se richieste a gran voce dai condòmini. Quindi
al bando le e-mail, l’immissione nelle cassette postali, l’sms, il messaggio
whatsapp e così via. La conseguenza del mancato rispetto di quanto previsto
dall’art. 66 disp. att. c.c. è infatti l’annullabilità della deliberazione
assembleare.
Lo ha ribadito il TRIBUNALE di Monza nella
sentenza
12.06.2024 n.
1734.
A chi e come spetta dimostrare il corretto recapito
Nella specie un condòmino aveva
impugnato una deliberazione assembleare, tra le altre cose, per l’omesso
invio dell’avviso di convocazione. L’amministratore, costituitosi in
giudizio in rappresentanza del condominio, si era difeso sostenendo di avere
inviato il documento via e-mail e di averlo anche inserito nella cassetta
postale del condòmino impugnante.
Il Tribunale di Monza ha però accolto l’impugnazione e ha proceduto
all’annullamento della deliberazione assembleare.
Il giudice brianzolo,
premesso che il vizio di omessa convocazione o convocazione fuori termine
integra pacificamente un vizio di annullabilità (e richiamando a tal fine il
contenuto della nota sentenza delle sezioni unite della Cassazione n.
4806/2005), ha evidenziato che, nel caso in cui un condòmino eccepisca la
mancata convocazione, spetta al condominio provare di aver assolto al
relativo obbligo nel rispetto dei tempi e modi previsti dalla legge, non
potendosi addossare al condòmino che deduca l’invalidità dell’assemblea la
prova negativa di tale obbligo (si vedano a tal proposito Cass. civ., n.
5254/2011 e n. 10875/1998). L’avviso di convocazione, infatti, costituisce un
elemento costitutivo della validità della delibera (si veda Cass. civ., n.
22685/2014).
Con una serie di considerazione generali in merito all’onere della prova, il
Tribunale di Monza ha quindi ricordato che la presunzione di conoscenza
degli atti recettizi in forma scritta giunti all’indirizzo del destinatario
(art. 1335 c.c.) opera per il solo fatto oggettivo dell’arrivo dell’atto nel
luogo indicato.
L’onere di provare l’avvenuto recapito all’indirizzo del
destinatario spetta al mittente, salva la prova del destinatario medesimo
dell’impossibilità di acquisire in concreto l’anzidetta conoscenza per un
evento estraneo alla sua volontà. La raccomandata con avviso di ricevimento,
invece, costituisce prova certa della trasmissione del plico, fondata
sull’attestazione dell’ufficio postale di spedizione e di arrivo al
destinatario e, dunque, di conoscenza del medesimo sempre ex art. 1335 c.c..
Premesso ciò, è vero che, relativamente all’invio dell’avviso di
convocazione assembleare, come evidenziato dal giudice, l’originario testo
dell’art. 66 disp. att. c.c. non prescriveva particolari modalità per la
convocazione dei condòmini alla assemblea. La convocazione, pertanto, poteva
essere compiuta in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo
(affissione di avviso nell’atrio, inserimento nella cassetta postale
dell’avviso, avviso orale, ecc.): la prova che l’avviso di convocazione
fosse stato consegnato nei termini di legge poteva essere acquisito anche
tramite presunzioni.
La riforma del 2012, invece, ha modificato la
disposizione normativa, la quale richiede ora la comunicazione di detto
avviso a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o
tramite consegna a mano, prediligendo quindi la forma scritta. Ma, come pure
sottolineato dal Tribunale, con tale norma il legislatore ha inteso anche
tipizzare le forme della comunicazione dell’avviso, limitandole a quelle che
garantiscono l’effettiva conoscibilità della convocazione stessa, con la
conseguenza che l’amministratore di condominio deve utilizzare
esclusivamente le forme scritte imposte dalla disposizione già menzionata.
Nel caso di specie il condominio aveva allegato che il condòmino era stato
tempestivamente convocato tramite invio della convocazione a mezzo di posta
elettronica e con consegna della stessa nella sua cassetta postale. La
ricezione di tali comunicazioni era stata però negata dal condòmino
impugnante e ciò, secondo il giudice, escludeva qualsiasi valore del
presunto invio mediante e-mail, così come dell’immissione del documento
nella cassetta della posta.
La semplice e-mail, difatti, così come
l’immissione nella cassetta della posta, non fornisce le medesime garanzie
di sicurezza, in ordine alla ricezione della comunicazione, che vengono
garantite dagli altri mezzi indicati dall’art. 66 disp. att. c.c.. Inoltre,
sempre secondo il giudice, in casi siffatti non può prospettarsi neppure una
presunzione di conoscenza correlata al fatto che il messaggio sia giunto
all’indirizzo del destinatario. Infatti, a differenza del possessore di un
indirizzo Pec, il titolare di un indirizzo e-mail non ha alcun onere di
consultare la posta elettronica in arrivo (sempre ammesso che la stessa
giunga nella relativa cartella) e neanche l’avviso di avvenuta lettura
conferisce alla e-mail il valore legale preteso dalla disposizione di legge.
Analogamente, non può presumersi che il condòmino abbia tempestiva
conoscenza della data di convocazione dell’assemblea con l’immissione
dell’avviso nella cassetta postale, non avendo quest’ultimo alcun onere di
controllare quotidianamente la cassetta della posta. Nel caso in esame,
l’amministratore aveva inviato il messaggio a un indirizzo e-mail ordinario
attribuito al condòmino e aveva consegnato la convocazione nella sua
cassetta postale.
Di conseguenza, secondo il Tribunale di Monza, la
convocazione non poteva ritenersi valida a norma dell’art. 66 disp. att. c.c.,
con conseguente inefficacia delle comunicazioni inviate al condòmino nelle
predette forme alternative al disposto di legge. La delibera impugnata è
stata quindi annullata in conseguenza della mancata convocazione del
condòmino impugnante per mancato rispetto delle formalità prescritte per
legge.
Che scopo ha l’avviso di convocazione?
L’avviso di convocazione, che deve
essere predisposto dall’amministratore e inviato per tempo a tutti i
condomini presso la propria residenza o il proprio domicilio, come
risultante dall’anagrafe condominiale, è quindi finalizzato a consentire la
partecipazione dei medesimi all’assemblea.
Fino alla modifica della
normativa condominiale nel 2012, come detto, la legge non prevedeva forme
specifiche per l’invio di detto avviso. L’amministratore poteva quindi
scegliere liberamente le modalità di inoltro della convocazione assembleare,
con il solo limite del raggiungimento dello scopo (dovendo quindi provare,
in caso di contestazione, che il condomino fosse stato informato per tempo
della data e del luogo della riunione, nonché degli argomenti da discutere).
Con la riforma il legislatore è quindi intervenuto sull’art. 66 disp. att.
c.c., prevedendo in modo specifico le modalità per l’inoltro dell’avviso di
convocazione e richiedendo, alternativamente, l’utilizzo della posta
raccomandata, della posta elettronica certificata, del fax oppure la
consegna a mani (con consigliabile sottoscrizione per ricevuta da parte del
condomino).
La medesima disposizione ha inoltre chiarito come qualsivoglia
vizio relativo all’omissione, alla tardività o all’incompletezza della
convocazione legittimi il condomino a ottenere l’annullamento giudiziale
delle conseguenti delibere assembleari (da impugnare nei successivi 30
giorni decorrenti dalla riunione, per i presenti, e dal ricevimento del
verbale, per gli assenti).
A seguito della modifica dell’art. 66 disp. att.
c.c. e della sempre maggiore diffusione degli strumenti informatici, dopo la
pandemia si arrivati addirittura al battesimo per via legislativa
dell’assemblea telematica, ci si è chiesti ripetutamente se l’elencazione
degli strumenti con i quali inviare l’avviso di convocazione sia o meno
tassativa, vietando quindi il ricorso ad altri mezzi di spedizione.
Una
soluzione molto richiesta dai condomini è infatti quella dell’invio
dell’avviso di convocazione tramite e-mail, che abbina il vantaggio della
tempestività della ricezione a quello della tendenziale gratuità dello
strumento, soprattutto se confrontato con i costi della posta raccomandata.
Dal punto di vista degli amministratori, tuttavia, la scelta di venire
incontro alle richieste dei condomini deve essere attentamente soppesata,
poiché, come visto, il rischio è quello di invalidare il deliberato
assembleare (articolo ItaliaOggi Sette del 16.09.2024).
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Il principio
L’art. 66 disp. att. c.c. richiede la comunicazione
dell’avviso di convocazione a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica
certifi cata, fax o tramite consegna a mano. Con tale disposizione il
legislatore ha inteso tipizzare le forme della comunicazione dell’avviso,
limitandole a quelle che garantiscono l’effettiva conoscibilità della
convocazione stessa, con la conseguenza che l’amministratore di condominio
deve utilizzare esclusivamente le forme scritte imposte dalla norma, pena
l’annullabilità delle conseguenti deliberazioni assembleari. |
EDILIZIA PRIVATA: Volumetria,
contratto blindato. Ininfluente il mancato utilizzo per cambio di
pianificazione. Una sentenza della Corte di cassazione sulla cessione di
cubatura tra soggetti privati.
Il contratto di compravendita della volumetria rimane valido anche nei casi
in cui, a seguito della modifica dello strumento urbanistico locale,
l'acquirente non possa in concreto utilizzarla a causa del mancato rilascio
del titolo abilitativo. Ciò in quanto il contratto di cessione di cubatura
tra privati è un atto immediatamente traslativo del diritto edificatorio di
natura non reale a contenuto patrimoniale.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
sentenza 10.05.2024 n. 12881, che richiama altre pronunce in
materia (Cass. Civ., Sez. II, 06.06.2022, n. 18044; Cass. Civ., 18.01.2022,
n. 1476; Cass. Civ., Sezz. UU., 09.06.2021, n. 16080),
Per comprendere correttamente il contenuto della sentenza occorre richiamare
alla mente la figura dei c.d. diritti edificatori.
Essi non sono in realtà dei veri e propri diritti soggettivi ma degli
interessi legittimi pretensivi, sono cioè una chance edificatoria, un bene
immateriale ulteriore rispetto al diritto di proprietà ed il cui concreto
utilizzo dipende delle amministrazioni locali.
Occorre precisare che la circolazione dei diritti edificatori, oltre che
sotto forma di cessione di cubatura tra privati (ipotesi esaminata dalla
sentenza in commento) può avvenire anche nelle forme della perequazione,
della compensazione e delle premialità.
Nei casi di cessione di cubatura tra privati, come riconosciuto dalla
giurisprudenza amministrativa più recente (Cons. giust. amm. Sicilia,
24.04.2024, n. 319; Cons. di Stato, Sez. IV, 31.05.2022, n. 4417; Cons. di
Stato, Sez. VI, 23.11.2022, n. 10338), per ritenerla legittima, in assenza
di apposito divieto, è sufficiente che: (i) le aree su cui si trovano i
terreni di decollo e di atterraggio siano omogenee; (ii) i fondi di decollo
e di atterraggio siano contigui; (iii) non si alteri il carico urbanistico
della zona e (iv) si mantenga immutata la densità territoriale complessiva.
Tuttavia, come è avvenuto nella vicenda esaminata dalla Suprema Corte, può
accadere che una volta concluso il negozio della cessione di cubatura –nel
rispetto dei requisiti sopra indicati– sopravvenute scelte pianificatorie,
assunte discrezionalmente dalla pubblica amministrazione, rendano in
concreto inutilizzabili i diritti edificatori.
Ritornando pertanto al caso preso in esame dalla sentenza in commento, come
accertato anche nel corso dell'attività istruttoria mediante CTU, il
venditore non può di certo ritenersi inadempiente in quanto la volumetria da
lui ceduta –avuto riguardo al fondo di decollo e al momento della
conclusione del contratto– era legittimamente nella disponibilità
dell'alienante e dunque trasferibile.
La sopravvenuta inutilizzabilità della volumetria sul terreno di
atterraggio, specie se a distanza di molti anni rispetto all'acquisto (come
nel caso in esame) e in assenza di specifiche previsioni delle parti
all'interno dell'atto di trasferimento, non inficia la validità e
l'efficacia del contratto di compravendita, il cui effetto traslativo si
produce nell'ambito dell'autonomia negoziale delle parti e non già in seno
al procedimento amministrativo di rilascio del titolo edilizio.
Ecco perché la domanda di risoluzione per inadempimento colposo proposta
dall'acquirente è stata rigettata dai giudici, così come quella volta ad
ottenere la restituzione del prezzo corrisposto ed il risarcimento del danno
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2024).
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SENTENZA
1.– Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., la falsa applicazione degli artt. 1470 e
1453 c.c. nell’individuazione dell’oggetto del contratto di compravendita
del 26 marzo 2007, avente ad oggetto anche la cessione di volumetria di mc.
2.304, con la corrispondente costituzione di servitus non aedificandi
a carico del fondo rimasto in proprietà del venditore, quanto alla stessa
nozione di contratto di compravendita e alla integrazione dell’inadempimento
del venditore nella cessione della volumetria.
Obietta l’istante che, all’esito della qualificazione della cessione di
cubatura quale contratto ad efficacia meramente obbligatoria, e non già
traslativo o costitutivo di un diritto reale opponibile ai terzi, la mancata
approvazione, da parte del Comune, del progetto di costruzione, nonostante
il passaggio della volumetria del fondo rimasto in proprietà del Si. in
favore del fondo trasferito alla Ef., avrebbe dovuto indurre ad accogliere
la domanda di risoluzione per inadempimento del venditore.
E tanto perché avrebbe dovuto farsi riferimento non già all’effettiva
sussistenza della volumetria di mc. 2.304 nel fondo dell’alienante, bensì
alla trasferibilità di detta volumetria dal venditore all’acquirente.
1.1.– Il motivo è infondato.
E ciò, a monte, perché non può aderirsi alla ricostruzione della ricorrente,
secondo cui il trasferimento di cubatura –non soltanto nei confronti dei
terzi, ma anche tra le stesse parti– sarebbe determinato esclusivamente dal
provvedimento concessorio rilasciato dall’amministrazione comunale a favore
del cessionario e sulla base del programma edificatorio da questi proposto.
Peraltro, già secondo questa ormai superata ricostruzione, il mancato
rilascio del permesso di costruire, nonostante la conforme attivazione del
cedente presso la P.A., avrebbe determinato l’inefficacia del negozio e non
già la sua risoluzione per inadempimento del venditore (Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 20623 del 24/09/2009).
Per contro, il negozio di cessione di cubatura tra privati,
con cui il proprietario di un fondo distacca, in tutto o in parte, la
facoltà inerente al suo diritto dominicale di costruire nei limiti della
cubatura assentita dal piano regolatore e, formandone un diritto a sé
stante, lo trasferisce a titolo oneroso al proprietario di altro fondo
urbanisticamente omogeneo, è atto immediatamente traslativo di un diritto
edificatorio di natura non reale a contenuto patrimoniale, non richiedente
la forma scritta ad substantiam e trascrivibile ex art. 2643, n.
2-bis, c.c. (Cass. Sez. 2,
sentenza 06.06.2022 n. 18044; Sez. 2,
sentenza 18.01.2022 n. 1476; Sez. U,
sentenza 09.06.2021 n. 16080).
Detti diritti, proprio in ragione della loro origine, non
hanno alcuna inerenza con il fondo, sicché la realità fa certamente difetto,
trattandosi di diritti edificatori di origine compensativa, intrinsecamente
caratterizzati dal loro totale distacco dal fondo di origine e dalla
conseguente perfetta ed autonoma ambulatorietà.
Il che comporta la netta rivalutazione del sostrato privatistico della
cessione di cubatura, ricollocando l’effetto traslativo suo proprio
nell’ambito dell’autonomia negoziale delle parti, non già del procedimento
amministrativo.
Resta naturalmente, una volta che alla cessione di cubatura consegua la
presentazione da parte del cessionario di un progetto edificatorio su di
essa basato, il ruolo autorizzativo e regolatorio del permesso di costruire,
per il cui rilascio il cedente è tenuto ad operare secondo il dovere
generale di solidarietà, cooperazione, correttezza e buona fede. Si tratta
appunto di un elemento che concorre non al trasferimento in sé tra i
privati della cubatura, quanto alla sua fruibilità in conformità alle
prescrizioni urbanistiche ed edilizie, alle quali il cessionario dovrà
ispirarsi mediante la presentazione di un progetto edificatorio suscettibile
di assenso perché ad esse rispondente.
Ne discende che, in quanto elemento esterno di regolazione pubblicistica di
un diritto di origine privatistica, il permesso di costruire –seppure per
certi versi anomalo perché chiesto e rilasciato per una volumetria
aumentata– continua ad operare su un piano non dissimile da quello “normale”
dei provvedimenti genericamente ampliativi della sfera giuridica del privato
e, segnatamente, da quello che regola ordinariamente l’esercizio diretto
dello jus aedificandi da parte del proprietario.
1.2.– Nella fattispecie, la
sentenza impugnata ha escluso che il diniego del permesso di costruire fosse
dipeso dalla mancanza di volumetria utilizzabile e, quindi, da un
inadempimento imputabile al cedente, individuando, per contro, la causa di
tale diniego nella rilevata sopravvenuta mancata rispondenza del progetto
all’indice di utilizzazione fondiaria.
E ciò non già rispetto al momento in cui il contratto di vendita è stato
concluso (recte il 26.03.2007), bensì al momento in cui l’istanza di
rilascio del permesso è stata presentata (recte il 10.02.2011, con
diniego del 16.09.2011).
Senza che questa sopravvenienza fosse in alcun modo ascrivibile al
venditore.
Orbene, il factum principis, idoneo ad escludere l’imputabilità
dell’inadempimento, può individuarsi appunto in un provvedimento legislativo
od amministrativo, dettato da interessi generali, che renda in via
sopravvenuta impossibile la prestazione, indipendentemente dal comportamento
dell’obbligato (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 10683 del 20/04/2023; Sez. 2,
Ordinanza n. 32539 del 04/11/2022; Sez. 3, Sentenza n. 14915 del 08/06/2018;
Sez. 3, Sentenza n. 13142 del 25/05/2017; Sez. 2, Sentenza n. 6594 del
30/04/2012; Sez. 2, Sentenza n. 119 del 11/01/1982; Sez. 3, Sentenza n. 2688
del 22/10/1973), come acclarato nel caso di specie.
2.– Con il secondo motivo la ricorrente prospetta, in via
subordinata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione di norme di diritto, per avere la Corte territoriale affermato la
libera disponibilità della cessione della volumetria da un fondo all’altro,
così da configurare il rifiuto del rilascio del permesso di costruire, da
parte del Comune, come una sua libera scelta nella regolamentazione e
gestione della materia urbanistica, tale da escludere ogni addebito di
responsabilità al cedente.
Osserva l’istante che la circostanza dedotta dal consulente tecnico
d’ufficio –secondo cui la volumetria sarebbe stata utilizzabile all’epoca
della stipula del contratto e, per le norme allora vigenti (legislazione e
strumento urbanistico locale), nulla avrebbe ostacolato il passaggio di
volumetria da un lotto all’altro– non avrebbe considerato che sarebbe stato
onere del venditore assicurare che, in base agli strumenti di pianificazione
territoriale, fosse stato rilasciato il permesso di costruire e, dunque, il
cedente avrebbe dovuto rispondere della limitazione dell’indice di densità
fondiaria di cui all’art. 18 delle N.T.A. del P.R.G.
2.1.– Il motivo è inammissibile.
Infatti, a fronte della ricostruzione della vicenda (e delle correlate
argomentazioni esposte sulla carenza di alcun inadempimento imputabile al
cedente), la censura, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o
falsa applicazione di legge (peraltro, con riferimento a norme non meglio
precisate), mira, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata
dal giudice di merito, rivalutazione preclusa in questa sede (Cass. Sez. 2,
Ordinanza n. 8773 del 03/04/2024; Sez. 5, Ordinanza n. 32505 del 22/11/2023;
Sez. 1, Ordinanza n. 5987 del 04/03/2021; Sez. U, Sentenza n. 34476 del
27/12/2019; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
La sentenza impugnata ha adeguatamente argomentato in ordine alla non
imputabilità dell’inadempimento, sostenendo che, pur ricorrendo tutti i
presupposti richiesti per il passaggio di cubatura da un lotto all’altro,
per effetto dell’approvazione del P.G.T. (adottato il 21.10.2011 e approvato
l’11.04.2012), l’utilizzazione nel progetto della volumetria ceduta era
risultata impossibile, a causa dell’assenza nello strumento urbanistico
della previsione di concentrazioni planivolumetriche, sicché il mancato
rilascio del permesso di costruire era dipeso dalla scelta del Comune nella
regolamentazione e gestione della materia urbanistica.
3.– Con il terzo motivo –formulato in via ulteriormente subordinata–
la ricorrente contesta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
la violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, secondo comma, e 1325
c.c., per avere la Corte distrettuale escluso la nullità del contratto di
cessione di cubatura per mancanza della sua causa tipica o dell’oggetto, in
ragione del mancato trasferimento del diritto all’edificazione e del mancato
conseguimento dell’utilitas.
3.1.– Il motivo è infondato.
Infatti, il distacco, in parte, della facoltà inerente al diritto dominicale
del cedente di costruire nei limiti della cubatura assentita dal piano
regolatore è debitamente avvenuto con il trasferimento a titolo oneroso al
cessionario, in forza di un atto immediatamente traslativo di un diritto
edificatorio di natura non reale a contenuto patrimoniale.
Sicché il contratto ha determinato l’effettivo trasferimento della
volumetria secondo le prescrizioni ivi stabilite.
Solo in esito ad una previsione delle N.T.A. sopravvenuta l’asservimento
volumetrico è stato limitato e non già per ragioni intrinseche al programma
negoziale.
Orbene, nell’ordinamento giuridico positivo, il rilievo della causa, la cui
mancanza produce la nullità dell’atto di autonomia privata, a norma
dell’art. 1418, secondo comma, c.c., si manifesta esclusivamente nel momento
della nascita del negozio e non accompagna il suo successivo svolgimento. La
causa va infatti ricollegata allo scambio delle obbligazioni e non anche a
quello delle prestazioni che ne derivano.
Pertanto, l’esigenza causale deve ritenersi soddisfatta con lo scambio delle
obbligazioni. Il successivo inadempimento o la sopravvenuta impossibilità di
una delle prestazioni determinano l’estinzione del rapporto obbligatorio
alla stregua di principi diversi da quelli che disciplinano l’elemento
causale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 53 del 10/01/1964).
Al sinallagma genetico, che si ricollega all’elemento della causa, si
contrappone un sinallagma funzionale, con riguardo al legame di reciproca
dipendenza esistente tra le prestazioni del rapporto giuridico creato con il
contratto, il quale trova fondamento nel generale principio della
commutatività, inteso ad evitare un arricchimento senza contropartita.
Le due situazioni solo apparentemente si presentano simili, giacché mentre
la mancanza della causa concerne la creazione del vinculum iuris, le
successive vicende relative alla prestazione riguardano invece l’esecuzione
dell’obbligo, già sorto e operativo inter partes, con la conseguente
applicazione dei mezzi giuridici che l’ordinamento appresta per assicurare
obbedienza ai propri comandi, quali, ad esempio, la risoluzione per
inadempimento (art. 1453 c.c.) o per impossibilità sopravvenuta (artt. 1256
e 1463 c.c.).
In entrambe le ipotesi presenta decisiva importanza l’indagine sulla
imputabilità della mancata esecuzione del rapporto, in quanto, da un lato,
la risoluzione, per il suo carattere sanzionatorio, presuppone la colpa
dell’inadempimento e, dall’altro, l’impossibilità sopravvenuta deve
rispondere ai requisiti della obiettività e della assolutezza (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 10.05.2024 n. 12881). |
CONDOMINIO:
Intrusi in assemblea? Sì limitato.
Valida la delibera se il voto del non condòmino è irrilevante. Il Tribunale di Napoli: c’è vizio se il soggetto non legittimato
è determinante per il quorum.
La delibera è valida anche se alla votazione ha partecipato un
soggetto che non riveste la qualità di condòmino. Se, infatti, il voto in
questione non è risultato determinante ai fini della sua adozione, la
decisione assembleare non può essere annullata.
Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Napoli, Sez. VI civile, con la recente
sentenza (udienza) 19.03.2024 n. 3153.
Decisioni assembleari: vince la maggioranza
In ambito condominiale opera il metodo collegiale e vige il principio
maggioritario, la cui applicazione si rende necessaria per consentire al
condominio di funzionare correttamente. La realtà di tutti i giorni insegna
quanto sia difficile che una collettività, per quanto piccola, si trovi
interamente d’accordo su una determinata decisione.
Ancorare il funzionamento dell’assemblea al consenso unanime di tutti i
condòmini significherebbe infatti esporre a serio rischio di paralisi la
gestione dei beni e dei servizi comuni.
Nell’assemblea condominiale il sistema di calcolo dei voti procede inoltre
su una sorta di doppio binario. Infatti il legislatore, per evitare
situazioni di squilibrio nel governo dei beni comuni, ha inteso introdurre,
accanto al criterio della votazione per teste (per il quale ogni votante più
esprimere un solo voto) un secondo meccanismo legato al valore delle singole
unità immobiliari site nell’edificio condominiale, valore espresso in
millesimi. Ciascun voto corrisponde quindi a un determinato numero di
millesimi.
Il soggetto che sia proprietario e/o titolare di altro diritto reale su più
unità immobiliari avrà diritto a un solo voto, ma vanterà un numero di
millesimi pari al valore di tutti gli immobili che si trovano nella sua
disponibilità. Pertanto il proprietario dell’attico e il condomino che abbia
solo un piccolo box avranno entrambi diritto a un voto, ma la caratura
millesimale di essi avrà naturalmente un peso molto diverso.
Il sistema misto previsto dal legislatore per il conteggio dei voti si può
vedere all’opera in sede di determinazione delle maggioranze necessarie
all’adozione delle deliberazioni assembleari, che variano da materia a
materia e sono naturalmente fissate dalla legge. È possibile che nell’ambito
della stessa assemblea siano posti in discussione argomenti che necessitano
di quorum deliberativi diversi.
Per decidere validamente su ogni questione posta all’ordine del giorno sarà
quindi necessario raggiungere quel minimo di voti volta per volta indicato
dalla legge in considerazione sia del numero di condomini favorevoli sia del
prescritto valore millesimale. La sola maggioranza per teste non sarà
sufficiente ove la stessa non corrisponda anche alla maggioranza millesimale
(e viceversa). Tutto ciò, come evidenziato, al fine di trovare un giusto
equilibrio fra le diverse esigenze dei condomini. È quindi chiaro come la
gestione del condominio si fondi su un complesso sistema di pesi e
contrappesi.
Il diritto di voto spetta ovviamente soltanto ai condòmini, ovvero ai
proprietari e/o titolati di diritti reali sui beni e servizi in comunione.
Ma cosa succede se alla votazione partecipa anche un soggetto che non è
condòmino?
Cosa ha chiarito il Tribunale di Napoli
Il proprietario di alcune unità
immobiliari site in condominio aveva impugnato le delibere adottate
dall’assemblea per la revoca dell’amministratore in carica e la nomina di
uno nuovo. Con l’unico motivo di opposizione era stato contestato il fatto
che alla riunione condominiale aveva partecipato ed espresso il proprio voto
un soggetto che non rivestiva la qualità di condòmino.
A quanto pare l’amministratore non aveva informazioni aggiornate
sull’effettiva composizione della compagine condominiale e quindi aveva
invitato all’assemblea un soggetto che non rivestiva la qualità di condòmino.
Quest’ultimo aveva votato per entrambe le delibere impugnate, pur non
essendo più legittimato, proprio in virtù del fatto di non essere
proprietario e/o titolare di diritti reali su alcuna delle unità immobiliari
che costituivano l’edificio condominiale. Il Tribunale di Napoli, come
detto, ha tuttavia respinto l’impugnazione della delibera.
Vale il voto di chi non è condòmino?
Può sembrare paradossale che possa
considerarsi valida la decisione relativa alla gestione di un bene comune
che sia assunta anche sulla base del voto di un soggetto che non fa parte
della comunione. E su questo aspetto dovrebbero ovviamente sorvegliare
l’amministratore, in sede di invio degli avvisi di convocazione, e il
presidente dell’assemblea, al momento della verifica dei presenti alla
riunione.
Tuttavia, la questione del pur evidente difetto di legittimazione attiva del
soggetto che non riveste la qualità di condòmino deve essere letta alla luce
del più complesso sistema di regole che disciplina il funzionamento
dell’assemblea e il procedimento giudiziale volto ad accertare la validità
delle decisioni assunte in quella sede e a disporne l’annullamento.
Il Tribunale di Napoli, premessa la nota distinzione tra vizi e di nullità e
annullabilità delle deliberazioni assembleari, ha rimarcato il fatto che
l’amministratore non è mai esonerato dalla verifica dell’avvenuta
convocazione di coloro i quali rivestano effettivamente la qualità di
condòmini.
Quindi, indipendentemente dall’obbligo di tenuta dell’anagrafe
condominiale sulla base dei dati forniti dai condòmini ai sensi dell’art.
1130, n. 6), c.c., poiché nei rapporti interni alla compagine condominiale
non può mai essere data rilevanza a una situazione di apparenza del diritto,
l’amministratore al fine di assicurare una regolare convocazione
dell’assemblea è comunque tenuto a svolgere tutte le indagini suggerite
dalla diligenza dovuta per la natura dell’attività esercitata, onde poter
comunicare a tutti gli aventi diritto l’avviso della riunione.
Ciò posto, secondo il giudice partenopeo, i vizi di irregolare convocazione
dell’assemblea condominiale e di formazione della volontà assembleare
possono essere fatti valere e possono determinare l’annullabilità del
delibera in quanto il vizio di convocazione abbia inciso in concreto sulla
possibilità per il condòmino impugnante di partecipare al processo
deliberativo, comprimendo o impedendo la sua partecipazione e il suo
concorso alla formazione della decisione.
Così inteso il vizio di
annullamento della deliberazione, il condòmino non può dolersi della
partecipazione e del voto in assemblea di un soggetto non legittimato nel
caso in cui la stessa non abbia influito in concreto sul quorum costitutivo
e deliberativo dell’assemblea. Infatti se il portato della deliberazione
assembleare fosse rimasto lo stesso anche se non vi avesse preso parte il
soggetto non legittimato, ciò vuol dire che la decisione in questione
sarebbe stata in ogni caso adottata dalla maggioranza della compagine
condominiale.
Di qui l’irrilevanza del voto espresso da chi non è condòmino,
analogamente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza nel caso in cui il
diritto di voto sia esercitato dal condòmino in conflitto di interessi
rispetto alla questione oggetto di delibera.
Anche in quel caso, infatti, la giurisprudenza fa riferimento alla
cosiddetta prova di resistenza, secondo cui la validità della delibera può
essere conservata eliminando dal computo delle maggioranze i voti non validi
e verificando quindi se la stessa resiste alla sottrazione del voto
illegittimo.
Di conseguenza, come affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, la
partecipazione a un’assemblea di un soggetto estraneo ovvero privo di
legittimazione non si riflette sulla validità della costituzione
dell’assemblea e delle decisioni in tale sede assunte, qualora risulti che
quella partecipazione non ha influito sulla maggioranza richiesta e sul
quorum prescritto, né sullo svolgimento della discussione e sull’esito della
votazione (si veda, per esempio, Cass. civ., sentenza n. 11943 dell’08.08.2003).
A tal proposito il Tribunale di Napoli ha anche evidenziato come la Suprema
corte, con ordinanza n. 28763 del 30.11.2017, abbia deciso in modo
analogo anche un caso in cui il condòmino aveva dedotto che la
partecipazione del soggetto non legittimato, indipendentemente dall’avvenuto
superamento della cosiddetta prova di resistenza, non poteva ritenersi
neutro, avendo costui attivamente partecipato alla discussione e alla
votazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2024).
---------------
Il principio
La partecipazione all’assemblea condominiale di
un soggetto estraneo, ovvero privo di legittimazione, sulla validità della costituzione
della stessa e delle decisioni in tale sede
assunte, qualora risulti che quella partecipazione
non ha infl uito sulla maggioranza richiesta e
sul quorum prescritto, né sullo svolgimento della
discussione e sull’esito della votazione. |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza granitica ha statuito che: “... la questione della titolarità
del bene in ordine al quale viene chiesto un titolo abilitativo al Comune, è questione incidentale che non può
farsi coincidere con l’accertamento della titolarità reale,
la quale non compete funditus, né alla amministrazione
competente in materia edilizia, né al giudice amministrativo
in sede di controllo di legittimità, ma al giudice
ordinario.
Come evidenziato dalla giurisprudenza consolidata, ai fini del rilascio
del titolo, l’amministrazione è onerata del solo
accertamento della sussistenza del titolo astrattamente
idoneo alla disponibilità dell’area oggetto dell’intervento
edilizio, desunta dagli atti pubblici prodotti ed, in via
residuale, dalle risultanze catastali.
L’attività
istruttoria che l’amministrazione deve svolgere, essendo
finalizzata alla verifica dell’esistenza, in capo al
richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile
interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, non
è diretta a risolvere i conflitti di interesse tra le parti
in ordine all’assetto proprietario degli immobili
interessati e, pertanto, non deve effettuare complesse
indagini e ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di
proprietà.
In definitiva, se il Comune, e poi il giudice in
sede di controllo di legittimità, non può esimersi dal
verificare il rispetto dei limiti privatistici
sull’intervento proposto, condizione è che questi siano
realmente conosciuti o immediatamente conoscibili e non
contestati, così che il controllo da parte del Comune (e del
giudice amministrativo) si traduce in una mera presa d’atto,
senza necessità di procedere a un’accurata e approfondita
disamina dei rapporti tra privati.
D’altra parte, gli
effetti dei titoli edilizi sono confinati sul solo versante
pubblicistico, non interferendo sui rapporti di natura
privata connessi o implicati nelle vicende immobiliari che
riguardano l’attività urbanistico–edilizia, come è
stabilito in modo chiaro, dall’art. 11, comma 3, del testo
un. edil., in riferimento al permesso di costruire”.
Questo
Tribunale ha altresì precisato
che “...la disposizione dell’art. 81, comma 1, della l.p. n. 15/2015 vada interpretata (al pari
dell’analoga disposizione dell’art. 11, comma 1, del D.P.R.
n. 380/2001) alla luce dei generali principi di efficienza
ed economicità dell’azione amministrativa e, soprattutto, di
funzionalizzazione dell’esercizio del potere pubblicistico
al perseguimento dello specifico interesse pubblico
predeterminato dalla legge.
In particolare la disposizione
dell’art. 81, comma 1, della l.p. n. 15/2015
(come quella dell’art. 11, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001)
impone al Comune soltanto di accertare che il richiedente
sia in possesso di un titolo civilistico astrattamente
idoneo in relazione alla tipologia dell’intervento proposto.
Invece, diversamente opinando, si finirebbe per ammettere
che il potere pubblicistico sia stato attribuito anche al
fine di dirimere questioni di natura esclusivamente
privatistica”.
Ne consegue che, in applicazione dei limiti
di indagine posti all’Amministrazione medesima in sede di
rilascio del titolo edilizio, come sopra evidenziati, ed
anche a fronte di eventuali contestazioni dei controinteressati, il Comune deve limitarsi a “compiere le
necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza
delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni
squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza
dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il
richiedente non sia in grado di fornire elementi prima
facie attendibili”.
...
Assodato che non spetta al Comune, e neppure a questo
Giudice, dirimere le controversie civili tra i vicini, deve
poi rilevarsi che tutti i titoli edilizi sono emessi “fatti
salvi i diritti dei terzi” -clausola a sua volta
applicativa del principio espressamente previsto dall’art.
11, comma 3, del T.U. approvato con d.P.R. 06.06.2001, n.
380- e tanto assolve ulteriormente il Comune da ogni
aggiuntivo approfondimento circa gli aspetti civilistici del
rapporto, che spetta all’Autorità giudiziaria ordinaria
dirimere.
Si tratta di clausola imposta ex lege che
esplicitamente salvaguarda la concorrente sussistenza degli
eventuali diritti di terzi, e circoscrive l’ambito di
efficacia del provvedimento medesimo al rapporto
pubblicistico instauratosi tra il richiedente e
l’Amministrazione comunale senza incidere sui distinti
rapporti giuridici che contemporaneamente insistono tra
privati e che dal rapporto anzidetto non possono pertanto
ricevere pregiudizio.
---------------
XII. Il ricorrente riconduce il proprio interesse anche
sotto un altro profilo, ancorandolo alla dedotta, presunta
invasione della p.ed. 330 da parte della p.ed. 500,
integrante la volumetria regolarizzata: circostanza -questa- che escluderebbe la sussistenza del pieno titolo di
proprietà della particella edificiale di cui si discorre in
capo alla controinteressata.
XIII. Neppure tale argomento può essere condiviso.
Invero,
in disparte la circostanza che all’atto della presentazione
dell’istanza di sanatoria/regolarizzazione il Comune non era
a conoscenza della sussistenza di tale possibile
contestazione del confine tra le due predette porzioni edificiali, rappresentata solo in un secondo momento da
parte del ricorrente, tale situazione parimenti costituisce
una questione che -a ben vedere- si scontra con i limiti
in cui incorre l’Amministrazione nell’approfondimento del
titolo di legittimazione, ex art. 81, comma 1, della l.p. 04.08.2015, n. 15 -il quale dispone espressamente “Possono
chiedere il permesso di costruire i proprietari
dell’immobile e i soggetti in possesso di un altro titolo
idoneo” in senso omologo all’articolo 11 del T.U.
dell’edilizia n. 380 del 2001- e comunque contemplandosi
una legittimazione ampliata in caso di sanatoria fino ad
includere il responsabile dell’abuso ex art. 135 della l.p.
n. 1 del 2008.
La giurisprudenza granitica anche di questo
Tribunale (ex multis sentenze TRGA Trento 19.02.2020, n.
29 e 13.08.2020, n. 138) e che si rinviene, tra molte, anche
nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV 28.05.2019,
n. 3522, ha statuito che: “... la questione della titolarità
del bene in ordine al quale viene chiesto un titolo abilitativo al Comune, è questione incidentale che non può
farsi coincidere con l’accertamento della titolarità reale,
la quale non compete funditus, né alla amministrazione
competente in materia edilizia, né al giudice amministrativo
in sede di controllo di legittimità, ma al giudice
ordinario.
Come evidenziato dalla giurisprudenza consolidata
(ex multis Cons. Stato, sez. IV, n. 2397 del 2018 e n. 2116
del 2016; sez. V, n. 1990 del 2012), ai fini del rilascio
del titolo, l’amministrazione è onerata del solo
accertamento della sussistenza del titolo astrattamente
idoneo alla disponibilità dell’area oggetto dell’intervento
edilizio, desunta dagli atti pubblici prodotti ed, in via
residuale, dalle risultanze catastali.
L’attività
istruttoria che l’amministrazione deve svolgere, essendo
finalizzata alla verifica dell’esistenza, in capo al
richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile
interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, non
è diretta a risolvere i conflitti di interesse tra le parti
in ordine all’assetto proprietario degli immobili
interessati e, pertanto, non deve effettuare complesse
indagini e ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di
proprietà.
In definitiva, se il Comune, e poi il giudice in
sede di controllo di legittimità, non può esimersi dal
verificare il rispetto dei limiti privatistici
sull’intervento proposto, condizione è che questi siano
realmente conosciuti o immediatamente conoscibili e non
contestati, così che il controllo da parte del Comune (e del
giudice amministrativo) si traduce in una mera presa d’atto,
senza necessità di procedere a un’accurata e approfondita
disamina dei rapporti tra privati.
D’altra parte, gli
effetti dei titoli edilizi sono confinati sul solo versante
pubblicistico, non interferendo sui rapporti di natura
privata connessi o implicati nelle vicende immobiliari che
riguardano l’attività urbanistico–edilizia, come è
stabilito in modo chiaro, dall’art. 11, comma 3, del testo
un. edil., in riferimento al permesso di costruire”.
Questo
Tribunale nelle sentenze già richiamate ha altresì precisato
che “...la disposizione dell’art. 81, comma 1, della legge
provinciale n. 15/2015 vada interpretata (al pari
dell’analoga disposizione dell’art. 11, comma 1, del D.P.R.
n. 380/2001) alla luce dei generali principi di efficienza
ed economicità dell’azione amministrativa e, soprattutto, di
funzionalizzazione dell’esercizio del potere pubblicistico
al perseguimento dello specifico interesse pubblico
predeterminato dalla legge.
In particolare la disposizione
dell’art. 81, comma 1, della legge provinciale n. 15/2015
(come quella dell’art. 11, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001)
impone al Comune soltanto di accertare che il richiedente
sia in possesso di un titolo civilistico astrattamente
idoneo in relazione alla tipologia dell’intervento proposto.
Invece, diversamente opinando, si finirebbe per ammettere
che il potere pubblicistico sia stato attribuito anche al
fine di dirimere questioni di natura esclusivamente
privatistica”.
Ne consegue che, in applicazione dei limiti
di indagine posti all’Amministrazione medesima in sede di
rilascio del titolo edilizio, come sopra evidenziati, ed
anche a fronte di eventuali contestazioni dei controinteressati, il Comune deve limitarsi a “compiere le
necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza
delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni
squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza
dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il
richiedente non sia in grado di fornire elementi prima
facie attendibili” (ex multis Cons. Stato, sez. IV -
20/04/2018 n. 2397)”.
XIV. Assodato che non spetta al Comune, e neppure a questo
Giudice, dirimere le controversie civili tra i vicini, deve
poi rilevarsi che tutti i titoli edilizi sono emessi “fatti
salvi i diritti dei terzi” -clausola a sua volta
applicativa del principio espressamente previsto dall’art.
11, comma 3, del T.U. approvato con d.P.R. 06.06.2001, n.
380- e tanto assolve ulteriormente il Comune da ogni
aggiuntivo approfondimento circa gli aspetti civilistici del
rapporto, che spetta all’Autorità giudiziaria ordinaria
dirimere.
Si tratta di clausola imposta ex lege che
esplicitamente salvaguarda la concorrente sussistenza degli
eventuali diritti di terzi, e circoscrive l’ambito di
efficacia del provvedimento medesimo al rapporto
pubblicistico instauratosi tra il richiedente e
l’Amministrazione comunale senza incidere sui distinti
rapporti giuridici che contemporaneamente insistono tra
privati e che dal rapporto anzidetto non possono pertanto
ricevere pregiudizio.
XV. Nel caso di specie, all’evidenza la problematica
avanzata dalla parte ricorrente trascende i limiti della
necessaria verifica posta in capo al Comune.
Si tratta
infatti di problematica che non è idonea a inficiare il
“titolo astrattamente idoneo” di cui in parola nella sopra
illustrata giurisprudenza, ma concerne una difformità di mappale che non trova riscontro nella configurazione
catastale della p.ed. 500: discordanza che è per certo
sussistente da moltissimo tempo e in ordine alla quale la
medesima parte ricorrente non ha radicato alcun giudizio in
sede civile essendosi semplicemente sottratta ad una
mediazione della controparte.
Deve pertanto concludersi che
in tale situazione non è affatto illegittimo il
comportamento del Comune che non ha esteso le verifiche
oltre il rilievo tavolare dell’intestata proprietà della
p.ed. 500 in capo al soggetto richiedente, restringendosi la
questione, dal punto di vista dell’Amministrazione, ad una
diversa prospettazione delle parti circa la discordanza nel
mappale, questione che non può costituire ragione di
paralisi dell’attività pubblicistica, ferma restando l’impregiudicata
possibilità per il signor Bi. di conseguire il dedotto
approfondimento presso l’Autorità giudiziaria ordinaria
avente piena giurisdizione in materia, con esiti anche
ripristinatori in caso di accertamento della fondatezza
della pretesa.
In conclusione, se quanto sopra esposto non
vale a giustificare a priori la necessità di un
approfondimento di merito ulteriore da parte del Comune,
neppure può, in maniera evidente ad avviso del Collegio,
qualificare l’attualità dell’interesse come condizione
dell’azione in argomento.
XVI. Per tutte le ragioni sopra esposte, il ricorso in
definitiva deve essere dichiarato inammissibile e tale
pronuncia per ragioni di rito determina l’assorbimento dei
motivi di merito esposti nel ricorso (cfr. Ad. Pl. Cons.
Stato 27.04.2015, n. 5) (TRGA Trentno Alto Adige-Trento,
sentenza 31.10.2023 n. 169 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla
inconciliabilità, o meno, tra le funzioni del r.u.p. e
l'incarico di componente o di presidente della commissione.
L’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016 dispone che “I
commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra
funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente
al contratto del cui affidamento si tratta”. Il precetto è
stato poi integrato in sede di correttivo dall'art. 46,
comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 56/2017, secondo cui la “la
nomina del rup a membro delle commissioni di gara è valutata
con riferimento alla singola procedura”.
In argomento, condivisibile giurisprudenza sostiene -in
contrapposizione all’orientamento teso a configurare una
secca inconciliabilità tra le funzioni del r.u.p. e
l'incarico di componente o di presidente della commissione- che
l’incompatibilità prevista dall’art. 77, comma 4, D.Lgs. n.
50/2016, finalizzata ad evitare commistioni tra la fase di
predisposizione degli atti di gara e la fase di valutazione
delle offerte, debba sussistere in concreto, mediante la
definizione delle regole applicabili per la selezione del
contraente e delle attività di valutazione delle offerte.
---------------
La verifica di anomalia dell’offerta eseguita dal r.u.p., con
l’ausilio di un distinto organo collegiale nominato ad hoc,
postula un apprezzamento di diverso contenuto rispetto alla
valutazione delle offerte, cosicché in concreto non è
ravvisabile il prospettato conflitto di interessi.
In linea con il richiamato orientamento, l’art. 51 D.Lgs.
n. 36/2023, contenente il nuovo codice degli appalti,
prevede -per l’ipotesi di aggiudicazione di appalti con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per
contratti sottosoglia- che alla commissione giudicatrice
possa partecipare il r.u.p., anche in qualità di presidente.
---------------
5. Ciò chiarito, con il primo motivo di gravame At. denuncia la
violazione dell’art. 77, comma 4, D.Lgs. 50/2016,
integratasi dopo la sopravvenuta nomina a r.u.p., a seguito
delle dimissioni del precedente r.u.p. d.ssa Do., del
presidente della commissione giudicatrice ing. Gi.Vi., stante l’incompatibilità tra i due ruoli e il
potenziale conflitto derivante dal vaglio eseguito dal nuovo r.u.p., ex art. 97 D.Lgs. n. 50/2016, sulla congruità
dell’offerta economica della prima graduata, già esaminata
positivamente dallo stesso ing. Vi. in qualità di
presidente dell’organo tecnico.
Con motivo suscettibile di trattazione congiunta, la
deducente lamenta inoltre che il r.u.p., in contrasto con le
relative competenze, avrebbe omesso di fare proprie le
conclusioni di congruità dell’offerta cui è pervenuta
l’apposita commissione.
I rilievi vanno disattesi.
L’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016 dispone che “I
commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra
funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente
al contratto del cui affidamento si tratta”. Il precetto è
stato poi integrato in sede di correttivo dall'art. 46,
comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 56/2017, secondo cui la “la
nomina del rup a membro delle commissioni di gara è valutata
con riferimento alla singola procedura”.
In argomento, condivisibile giurisprudenza sostiene -in
contrapposizione all’orientamento teso a configurare una
secca inconciliabilità tra le funzioni del r.u.p. e
l'incarico di componente o di presidente della commissione (TAR
Roma, Latina, Sez. I, 23.05.2017, n. 325)- che
l’incompatibilità prevista dall’art. 77, comma 4, D.Lgs. n.
50/2016, finalizzata ad evitare commistioni tra la fase di
predisposizione degli atti di gara e la fase di valutazione
delle offerte, debba sussistere in concreto, mediante la
definizione delle regole applicabili per la selezione del
contraente e delle attività di valutazione delle offerte
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.11.2021, n. 7419).
Trasponendo le richiamate coordinate ermeneutiche al caso di
specie, dalle emergenze documentali, per un verso, non
risulta che l’ing. Vi. abbia partecipato alla
predisposizione degli atti della gara in esame, attività
riconducibile invece al precedente r.u.p. d.ssa Do..
Sotto concorrente profilo inoltre, in disparte il rilievo di
inammissibilità eccepito della controinteressata, la
verifica di anomalia dell’offerta eseguita dal r.u.p., con
l’ausilio di un distinto organo collegiale nominato ad hoc,
postula un apprezzamento di diverso contenuto rispetto alla
valutazione delle offerte, cosicché in concreto non è
ravvisabile il prospettato conflitto di interessi (Consiglio
di Stato, Sez. V, 10.01.2022, n. 167).
In linea con il richiamato orientamento, l’art. 51 D.Lgs.
n. 36/2023, contenente il nuovo codice degli appalti,
prevede -per l’ipotesi di aggiudicazione di appalti con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per
contratti sottosoglia- che alla commissione giudicatrice
possa partecipare il r.u.p., anche in qualità di presidente.
In riferimento, poi, alla deduzione difensiva secondo cui il
r.u.p. non avrebbe avallato le conclusioni di congruità
dell’offerta alle quali è pervenuta la commissione in sede
di verifica dell’anomalia, essa risulta superabile, poiché
l’ing. Vi., in qualità di r.u.p., in esito allo svolgimento
delle attività di propria competenza, tra cui appunto quelle
inerenti all’anomalia dell’offerta, con nota protocollo n.
4067 del 14.11.2022 ha operato, per come evincibile dal
provvedimento di aggiudicazione, una ratifica dell’intera
attività al medesimo ascrivibile (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 30.10.2023 n. 1353 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla illegittimità, o meno, della nomina della commissione
incaricata per la verifica dell’anomalia dell’offerta,
poiché i professionisti componenti della stessa sarebbero
risultati sprovvisti di un’esperienza specifica sui profili
oggetto della gara.
La giurisprudenza ha precisato che
l’art. 77, comma 1, D.Lgs. n. 50/2016, inerente alla commissione
giudicatrice, “non richiede una perfetta corrispondenza tra
la competenza dei membri della commissione, anche
cumulativamente considerata, ed i diversi ambiti materiali
che concorrono alla integrazione del complessivo oggetto del
contratto; ciò anche sul presupposto che all'esperienza nel
settore primario, cui si riferisce l'oggetto del contratto,
si accompagna una analoga esperienza nei settori secondari,
che con quell'oggetto interferiscono o si intersecano”.
Nella fattispecie la scelta dei componenti della commissione
di verifica di anomalia dell’offerta è ricaduta su
professionisti iscritti nell’ordine degli ingegneri, muniti pertanto di adeguata competenza tecnica,
posto che lo “specifico settore cui si riferisce l'oggetto
del contratto” -richiamato dal comma 1 dell’art. 77 in
riferimento alla competenza dei commissari- dev’essere
riferito ad aree tematiche omogenee, e non anche alle
singole e specifiche attività oggetto dell'appalto.
---------------
5.1. Con la seconda censura l’esponente si duole
dell’illegittimità della nomina della commissione incaricata
per la verifica dell’anomalia dell’offerta, poiché i
professionisti componenti della stessa sarebbero risultati
sprovvisti di un’esperienza specifica sui profili oggetto
della gara, in quanto individuati tramite sorteggio tra gli
ingegneri dell’ordine di Cosenza in assenza di adeguata
motivazione.
L’assunto è infondato, potendosi prescindere dal vaglio di
inammissibilità della censura.
Invero, ha precisato la giurisprudenza che l’art. 77, comma
1, D.Lgs. n. 50/2016, inerente alla commissione
giudicatrice, “non richiede una perfetta corrispondenza tra
la competenza dei membri della commissione, anche
cumulativamente considerata, ed i diversi ambiti materiali
che concorrono alla integrazione del complessivo oggetto del
contratto; ciò anche sul presupposto che all'esperienza nel
settore primario, cui si riferisce l'oggetto del contratto,
si accompagna una analoga esperienza nei settori secondari,
che con quell'oggetto interferiscono o si intersecano” (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III,
09.12.2020, n.
7832).
Nella fattispecie la scelta dei componenti della commissione
di verifica di anomalia dell’offerta è ricaduta su
professionisti iscritti nell’ordine degli ingegneri di
Cosenza, muniti pertanto di adeguata competenza tecnica,
posto che lo “specifico settore cui si riferisce l'oggetto
del contratto” -richiamato dal comma 1 dell’art. 77 in
riferimento alla competenza dei commissari- dev’essere
riferito ad aree tematiche omogenee, e non anche alle
singole e specifiche attività oggetto dell'appalto
(Consiglio di Stato, Sez. V, 01.10.2018, n. 5603).
In
particolare, dall’esame dei curricula dei componenti la
commissione risulta infatti che l’ing. An.Ga. è stato
“consulente per servizi di supporto ed assistenza ad enti
pubblici relativamente a bandi di gara, supporto tecnico
amministrativo RUP, commissione gara, perizie tecniche…”,
mentre l’ing. Ra.Ru.Ra. è stato componente in
precedenti di appalti pubblici e ciò al pari dell’ing.
Sa.Ri. (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 30.10.2023 n. 1353 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull’attività
della commissione di gara per la verifica d’anomalia
dell’offerta economica.
Secondo costante giurisprudenza “il
giudizio di anomalia dell'offerta è connotato da ampi
margini di discrezionalità e costituisce espressione
paradigmatica di discrezionalità tecnica, di esclusiva
pertinenza dell'amministrazione, esulando dalla competenza
del giudice amministrativo, il cui sindacato è limitato solo
al caso in cui le valutazioni della pubblica amministrazione
siano inficiate da macroscopiche illegittimità, quali gravi
e plateali errori di valutazione”.
---------------
5.2. Con la terza, la quarta e la quinta censura,
suscettibili di trattazione congiunta poiché connesse, la deducente lamenta che l’attività della commissione per la
verifica d’anomalia dell’offerta economica della prima
classificata risulterebbe, in base al contenuto del verbale
del 19.09.2022, lacunosa, illogica ed erronea, essendo stati
accolti in modo acritico gli assunti, anche privi di idoneo
supporto probatorio, espressi da La. nelle
giustificazioni, avuto riguardo al costo e alla
qualificazione della manodopera, alla disponibilità dei
macchinari, alla impropria sovrapposizione operata
dall’organo collegiale tra costi di manodopera e costi di
sicurezza aziendali, alle spese generali quantificate dalla
controinteressata nella misura del 6% e, da ultimo,
all’omessa indicazione della controinteressata di ricorrere
al subappalto.
L’erroneità della valutazione della commissione risulterebbe
inoltre evincibile dall’esiguo tempo di esame -pari ad
appena un’ora e trenta minuti- dell’offerta anomala.
Le deduzioni difensive vanno respinte.
Giova premettere che secondo costante giurisprudenza “il
giudizio di anomalia dell'offerta è connotato da ampi
margini di discrezionalità e costituisce espressione
paradigmatica di discrezionalità tecnica, di esclusiva
pertinenza dell'amministrazione, esulando dalla competenza
del giudice amministrativo, il cui sindacato è limitato solo
al caso in cui le valutazioni della pubblica amministrazione
siano inficiate da macroscopiche illegittimità, quali gravi
e plateali errori di valutazione” (ex plurimis, Consiglio di
Stato, Sez. V, 02.10.2020, n. 5777).
Applicando le richiamate coordinate ermeneutiche alla
fattispecie -in assenza di palese inattendibilità delle
valutazioni della competente commissione- vanno disattese,
poiché inammissibili:
- le censure inerenti agli apprezzamenti dell’organo
collegiale riguardanti la manodopera della prima graduata in
riferimento all’inidoneità e mancata formazione del
personale a svolgere tali prestazioni e a rispettare le
relative norme di sicurezza, al sottostimato costo e numero
di ore ipotizzato dall’aggiudicataria per il compimento di
tali attività, nonché all’omessa indicazione dei costi
relativi alle attività di manutenzione e di ripristino da
remoto;
- l’insieme di rilievi, contenuto nel quinto motivo di
gravame, teso a confutare con unilaterali stime economiche
le singole voci dei costi indicati da La..
Tali censure, invero, impingono nel merito delle scelte
operate dall’organo di valutazione, risolvendosi, in
sostanza, in una sovrapposizione del giudizio tecnico
dell’esponente rispetto a quello eseguito dal collegio di
gara.
In ogni caso, il primo dei due gruppi di censure appena
descritti e le ulteriori deduzioni difensive sono infondati
poiché:
- la controinteressata ha dato conto in sede di offerta
della comprovata esperienza del proprio personale; gli oneri
per le opere civili e impiantistiche sono stati quantificati
nelle giustificazioni sotto la voce “Costi di
installazione”; la proposta migliorativa di adeguare il
monte orario del personale distaccato integra un costo solo
eventuale;
- il costo della manodopera è stato calcolato in conformità
alle tabelle ministeriali di determinazione del costo medio
orario del lavoro per il contratto di categoria di
riferimento -c.c.n.l. dipendenti da aziende del terziario,
della distribuzione e dei servizi- attualizzato ai valori
della retribuzione corrente per livello di inquadramento;
- la congruità dei costi di sicurezza aziendale, indicati in
euro 3.335,00 e rimessi all’esclusiva sfera di valutazione
del singolo partecipante (Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.04.2022, n. 3169), non si palesa irragionevole, avuto
riguardo alla giustificazione, ritenuta coerente dalla
commissione, della natura prettamente intellettuale dei
servizi prestati ed al rilievo secondario dell’attività di
installazione su strada delle apparecchiature di rilevazione
della velocità, poiché strumentale allo svolgimento del
servizio primario e prevalente di gestione del ciclo sanzionatorio;
- l’asserita carenza di supporto documentale delle giustificazioni dell’anomalia dell’offerta fornite da
La. è smentita dalla circostanza che la prima
graduata ha prodotto a sostegno dei propri chiarimenti una
relazione dettagliata, per come richiesto dal r.u.p. con
p.e.c. del 30.06.2023, non prescrivendo sul punto né la lex
specialis né l’art. 97, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016, in tema
di anomalia dell’offerta, la necessità di specifici
documenti, ferma comunque la produzione in giudizio di
pertinente documentazione;
- la ritenuta esiguità del tempo impiegato dalla commissione
in sede vaglio dell’anomalia dell’offerta, pari ad un’ora e
mezza, non è di per sé sola indicativa dell’erroneità della
valutazione operata dall’organo collegiale (ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. V, 21.02.2020, n. 1323);
- il mancato ricorso al subappalto, in ragione dell’asserita
impossibilità di La. di eseguire in proprio la
“componente dei lavori” e le “attività relative al
contenzioso”, non assume rilievo, avendo dedotto la controinteressata, per un verso, di possedere i requisiti
richiesti dal bando e le attrezzature necessarie per
eseguire in proprio i lavori per l’installazione dei
dispositivi offerti, per come evincibile dai costi di
installazione dei dispositivi di rilevazione specificati in
sede di giustificativi e, sotto il distinto e concorrente
profilo, di avere affidato a terzi le attività relative al
contenzioso in base ad un precedente contratto continuativo
di cooperazione ex art. 105, comma 3, lett. c-bis), del
D.lgs. 50/2016;
- la licenza ai sensi del R.D. n. 773/1931 per lo
svolgimento delle attività extragiudiziali non è prescritta
dalla lex specialis e comunque la controinteressata risulta
iscritta all’albo dei gestori dell’accertamento e della
riscossione dei tributi locali istituito ex art. 53, comma
1, D.Lgs. 446/1997 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 30.10.2023 n. 1353 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' costante la giurisprudenza nello statuire che
“il sindacato del giudice amministrativo
sull'esercizio della propria attività valutativa da parte
della Commissione giudicatrice di gara non può sostituirsi a
quello della pubblica amministrazione, in quanto la
valutazione delle offerte nonché l'attribuzione dei punteggi
da parte della Commissione giudicatrice rientrano nell'ampia
discrezionalità tecnica riconosciuta a tale organo. ...
Le
censure che attingono il merito di tale valutazione
(opinabile) sono inammissibili, perché sollecitano il
giudice amministrativo ad esercitare un sindacato
sostitutivo, al di fuori dei tassativi casi sanciti
dall'art. 134 c.p.a., fatto salvo il limite della abnormità
della scelta tecnica ...
Ne deriva che, come da consolidato
indirizzo giurisprudenziale, per sconfessare il giudizio
della Commissione giudicatrice non è sufficiente
evidenziarne la mera non condivisibilità, dovendosi
piuttosto dimostrare la palese inattendibilità e l'evidente
insostenibilità del giudizio tecnico compiuto”.
---------------
5.3. Con la sesta censura è denunciata l’illegittimità
dell’offerta tecnica della prima graduata con riferimento
alle caratteristiche del sistema di rilevazione della
velocità media da essa proposto, T-Exspeed V. 2.0, di cui,
invece, il sistema stesso risulterebbe privo e che non può
compiere a causa dei limiti stabiliti dal decreto
ministeriale di approvazione.
La doglianza non coglie nel segno.
Giova premettere che è costante la giurisprudenza nello
statuire che “il sindacato del giudice amministrativo
sull'esercizio della propria attività valutativa da parte
della Commissione giudicatrice di gara non può sostituirsi a
quello della pubblica amministrazione, in quanto la
valutazione delle offerte nonché l'attribuzione dei punteggi
da parte della Commissione giudicatrice rientrano nell'ampia
discrezionalità tecnica riconosciuta a tale organo. ... Le
censure che attingono il merito di tale valutazione
(opinabile) sono inammissibili, perché sollecitano il
giudice amministrativo ad esercitare un sindacato
sostitutivo, al di fuori dei tassativi casi sanciti
dall'art. 134 c.p.a., fatto salvo il limite della abnormità
della scelta tecnica ... Ne deriva che, come da consolidato
indirizzo giurisprudenziale, per sconfessare il giudizio
della Commissione giudicatrice non è sufficiente
evidenziarne la mera non condivisibilità, dovendosi
piuttosto dimostrare la palese inattendibilità e l'evidente
insostenibilità del giudizio tecnico compiuto” (ex plurimis,
Consiglio di Stato, III, 02.09.2019, n. 6058).
In assenza di palese inattendibilità delle valutazioni del
seggio di gara vanno pertanto disattese, poiché
inammissibili, le censure inerenti agli apprezzamenti della
commissione riguardanti l’offerta tecnica della
controinteressata.
L’assunto è comunque infondato.
Le contestazioni della ricorrente investono, in particolare,
le funzionalità accessorie del sistema T-Exspeed V. 2.0,
cioè di verifica della regolarità degli adempimenti
assicurativi e di revisione dei veicoli, di lettura dei
codici per la rilevazione delle merci pericolose e delle
targhe straniere, di classificazione dei veicoli, di
rilevazione dei veicoli che appaiono adiacenti e su un’unica
corsia, di certificazione della velocità in ogni direzione e
fino a 600 km/h.
Tali funzionalità secondarie sono presenti
nel dispositivo in base alle attestazioni della casa
costruttrice Kr. e, sebbene non autorizzate, non ostano
all’impiego dello strumento per la funzione principale del
rilevamento della velocità media dei veicoli in transito,
necessitante invece dell’approvazione ministeriale.
Parimenti, sotto distinto profilo, l’asserita carenza di
linea di connessione internet nell’area interessata dal
servizio è meramente prospettata dall’esponente e comunque
superata dalla prassi operativa del settore con l’ausilio di
sistemi integrativi di connessione.
Con riguardo, poi, alla funzionalità delle telecamere
aggiuntive per effettuare il riconoscimento ottico dei
caratteri, essa è da intendersi, secondo un’interpretazione
ragionevole dell’offerta tecnica, come funzionalità
aggiuntiva rispetto alle attività necessarie prescritte dal
capitolato e cioè la rilevazione automatica delle infrazioni
ai limiti massimi di velocità media di percorrenza, fermo
restando che l’ipotetica inidoneità della miglioria indicata
dalla controinteressata non determinerebbe l’esclusione
dalla procedura selettiva ma al più impedirebbe una
valutazione della medesima miglioria da parte del collegio
esaminatore (Consiglio di Stato, Sez. V, 16.04.2014, n.
1923) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 30.10.2023 n. 1353 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Incidente stradale e diritto di accesso agli atti e
registrazioni di telefonate all'uopo intercorse.
Sussiste la legittimazione della società
ricorrente ad accedere alla documentazione richiesta essendo
la stessa correlata all’interesse concreto e attuale della
compagnia assicurativa a ricostruire l’esatta dinamica del
sinistro denunciato dal proprio assicurato al fine di
valutare la sussistenza dei presupposti per l’operatività
della copertura assicurativa e la liquidazione del danno al
terzo danneggiato, fermo restando che, in un'ottica di equo
contemperamento dei contrapposti interessi, in ossequio al
principio di proporzionalità e di minimizzazione, la
situazione giuridica cui l'accesso è funzionale deve essere
soddisfatta con l'esibizione dei documenti contenenti la
ricostruzione dei fatti, mentre detta strumentalità è da escludere per quanto
attiene a quelle parti della documentazione richiesta
contenenti dati sensibili o elementi estranei ai fatti in
questione e non necessari alla ricostruzione della dinamica
del sinistro.
La documentazione richiesta dalla ricorrente,
certamente detenuta dall’Azienda intimata, rientra tra
quella suscettibile di accesso di cui all’art. 22, comma 1, lett. d), della L. 241 del 1990, secondo cui costituisce
"documento amministrativo" ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra
specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi
ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica
amministrazione e concernenti attività di pubblico
interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o
privatistica della loro disciplina sostanziale.
---------------
... per l'annullamento
- del silenzio serbato dall'A.S.S.T. -OMISSIS 2- in ordine
all'istanza di accesso inoltrata a mezzo PEC da essa
ricorrente in data 23.06.2022 avente ad oggetto
“incidente datato 03/05/2022, alle ore 18,30 circa, nel
tenimento del Comune di -OMISSIS 4- alla Via -OMISSIS- –
Istanza accesso agli atti ex artt. 22 e ss. L. 241/1990
s.m.i.”, nonché l'acquisizione di “copia della trascrizione
delle telefonate effettuate a codesta centrale operativa in
data 03.05.2022 dalle ore 18:00 alle ore 19:00, con
richiesta di intervento e copia del file audio relativo alle
stesse telefonate, nonché copie delle schede di intervento
del Servizio 118”;
- del conseguente provvedimento implicito di rigetto, totale
o parziale, dell'istanza;
- nonché per la declaratoria del diritto della ricorrente ad
ottenere copia degli atti richiesti con la detta istanza e
per la conseguente condanna della resistente al rilascio
delle dette copie ovvero del file informatico.
...
7. Il ricorso è fondato.
7.1. Sussiste la legittimazione della società ricorrente ad
accedere alla documentazione richiesta all’A.S.S.T. del
-OMISSIS 2-, essendo la stessa correlata all’interesse
concreto e attuale della compagnia assicurativa a
ricostruire l’esatta dinamica del sinistro denunciato dal
proprio assicurato al fine di valutare la sussistenza dei
presupposti per l’operatività della copertura assicurativa e
la liquidazione del danno al terzo danneggiato, fermo
restando che, in un'ottica di equo contemperamento dei
contrapposti interessi, in ossequio al principio di
proporzionalità e di minimizzazione, la situazione giuridica
cui l'accesso è funzionale deve essere soddisfatta con
l'esibizione dei documenti contenenti la ricostruzione dei
fatti, mentre detta strumentalità è da escludere per quanto
attiene a quelle parti della documentazione richiesta
contenenti dati sensibili o elementi estranei ai fatti in
questione e non necessari alla ricostruzione della dinamica
del sinistro.
7.2. La documentazione richiesta dalla ricorrente,
certamente detenuta dall’Azienda intimata, rientra tra
quella suscettibile di accesso di cui all’art. 22, comma 1, lett. d), della L. 241 del 1990, secondo cui costituisce
"documento amministrativo" ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra
specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi
ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica
amministrazione e concernenti attività di pubblico
interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o
privatistica della loro disciplina sostanziale.
7.3. In senso conforme, in relazione a fattispecie analoghe,
cfr. TAR Napoli, sez. VI, 14/05/2021, n. 3219; TAR
Milano, sez. III, 06/03/2020, n. 446; TAR Cagliari, I,
16.7.2021 n. 545; TAR Bari I, 13.11.2020 n. 1442.
7.4. Il ricorso va pertanto accolto, con la conseguente
condanna dell’A.S.S.T. del -OMISSIS 2- a consegnare o a
trasmettere via pec alla parte ricorrente, entro giorni
trenta dalla comunicazione della presente sentenza, copia
della documentazione richiesta con l’istanza di accesso del
23.06.2022, con facoltà peraltro di procedere, con
adeguata motivazione, all’oscuramento mediante appositi
“omissis” di parti specifiche della documentazione ostesa
non direttamente pertinenti alla ricostruzione del sinistro
o contenenti dati identificativi o sensibili non pertinenti,
ovvero afferenti a soggetti estranei alla vicenda (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 30.10.2023 n. 802 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Accettazione della proposta di acquisto di un immobile tramite
PEC e sorti del contratto.
E’ da considerarsi nulla la conferma di accettazione della proposta via PEC
che non contiene -in allegato- il contratto in formato .pdf sottoscritto con
firma qualificata o digitale.
Con l’ordinanza
24.07.2023 n. 22012, la Corte di Cassazione, Sez. II civile, si è
occupata di firme elettroniche nell’ambito della conclusione di contratti
aventi ad oggetto diritti reali immobiliari.
Nel caso di specie, una persona aveva concluso una proposta irrevocabile
d’acquisto relativa ad un immobile, tramite agenzia immobiliare.
Il termine di efficacia della proposta irrevocabile era fissato al 27 aprile
successivo.
In data 22 aprile, il venditore destinatario della proposta inviava sia una
e-mail sia un telegramma al potenziale acquirente, comunicando che la
proposta di acquisto era stata accettata, senza tuttavia inviare il testo
del contratto debitamente sottoscritto.
Scaduto il termine del 27 aprile senza aver ricevuto il contratto
controfirmato, il proponente acquirente si riteneva libero e svincolato
dalla proposta, e rifiutava di corrispondere la provvigione al mediatore
immobiliare, ritenendo che nessun affare potesse dirsi concluso.
L’agenzia immobiliare agiva allora per il pagamento della propria
provvigione, e su tale domanda si innesta la valutazione dei giudici circa
il perfezionamento del contratto.
L’agenzia immobiliare sosteneva che il contratto dovesse dirsi regolarmente
perfezionato con l’invio della e-mail e del telegramma comunicanti
l’accettazione, sebbene la firma sul contratto fosse stata apposta per
accettazione dal venditore dopo la scadenza del convenuto termine di
efficacia della proposta.
Nel dichiarare inammissibile il ricorso, la Cassazione ha comprensibilmente
confermato la sentenza della Corte di Appello, e cioè che, avendo ad oggetto
diritti reali immobiliari, il contratto avrebbe dovuto avere la forma
scritta a pena di nullità ai sensi dell’art. 1350 del Codice Civile.
Nel caso di specie, l’accettazione (o la conferma dell’accettazione)
trasmessa via e-mail o via telegramma non hanno integrato il requisito della
forma scritta.
L’e-mail di posta elettronica certificata, infatti, non conteneva in
allegato il contratto in formato .pdf sottoscritto con firma qualificata o
digitale, sottoscrizione richiesta dall’art. 20 del Codice
dell’Amministrazione Digitale ai fini della validità dei contratti aventi ad
oggetto diritti reali immobiliari.
Il semplice testo contenuto nel messaggio di PEC, infatti, non può dirsi
sottoscritto con firma digitale o qualificata.
Anche il telegramma, pur costituendo un documento scritto, è privo della
sottoscrizione del mittente, e dunque è inidoneo a integrare una valida
accettazione di un contratto avente ad oggetto un bene immobile.
Di conseguenza, le accettazioni trasmesse via e-mail e telegramma devono
considerarsi nulle, mentre l’eventuale accettazione intervenuta dopo la
scadenza del termine di efficacia della proposta dovrà considerarsi
inefficace.
L’inefficacia dell’accettazione si ripercuote sul diritto dell’agente
immobiliare di ottenere la provvigione per l’intermediazione svolta.
Secondo la Cassazione richiamata, quindi, in mancanza di valido contratto
concluso tra le parti intermediate, l’affare non può dirsi concluso, e
nessuna provvigione sarà dovuta al mediatore (articolo NT+Diritto del 20.09.2024).
---------------
ORDINANZA
4. Il primo motivo del ricorso di Ma.Ga. deduce la “violazione –
falsa applicazione dell’art. 21, comma 1, d.lgs. n. 82/2005, dell’art. 1,
comma 1-bis, del d.lgs. n. 82/2005, con l’art. 3, numero 10), dell’art. 20,
comma 1-bis, d.lgs. n. 82/2005 così come introdotto dal d.lgs. n. 217/2017,
dell’art. 3, n. 10, regolamento UE n. 910/2014, dell’art. 2702 c.c.,
dell’art. 1351 c.c. in relazione all’art. 1350 c.c.”.
Si critica nella censura il ragionamento compiuto dalla Corte d’appello di
Genova quanto al valore attribuibile al messaggio di posta elettronica
inviato da Al.Gi. all’indirizzo di posta elettronica ...@fiaip.it il
22.04.2008, alle ore 15.53.
La ricorrente principale espone che:
a) “l’accettazione della proposta contrattuale formulata tramite
messaggio di posta elettronica privo di firma qualificata assolve il
requisito della forma scritta, deve essere riconosciuto come scrittura
privata ai sensi dell’art. 2702 c.c. ed è quindi idoneo a determinare la
valida conclusione del contratto”;
b) “l’e-mail è da considerare, a tutti gli effetti, un documento
informatico sottoscritto con firma elettronica semplice, soddisfa la forma
scritta, ed è liberamente valutabile dal giudice per ciò che concerne il suo
valore probatorio, ai sensi degli artt. 20, comma 1-bis e 21, comma 1,
d.lgs. 82/2005”;
c) “dell’intervenuta accettazione Ma.Ga. diede notizia al
proponente Ro.Co. con telegramma del 23.04.2008 … il profilo relativo alla
sufficienza della comunicazione dell’accettazione della proposta da parte
del nuncius non è stato neppure esaminato dalla Corte d’Appello in quanto
ritenuto assorbito dal profilo presupposto dell’invalidità dell’accettazione
della proposta”;
d) “dunque, poiché, per le ragioni sopra esposte, l’accettazione
formulata con il messaggio di posta elettronica del 22.04.2008 soddisfa il
requisito della forma scritta ed è da considerare quale scrittura privata ai
sensi dell’art. 2702 c.c. e la conoscenza dell’accettazione da parte del
proponente è stata acquisita il 23.04.2008 in virtù del telegramma inviato
da Ma.Ga. a Ro.Co. in tale data, pacificamente l’affare (idoneo a
determinare il sorgere del diritto alla provvigione di mediazione ex artt.
1754 e 1755 c.c.) si è tempestivamente concluso”.
...
5.1. Il primo motivo, in particolare, è complessivamente carente di
specifica riferibilità alla integrale ratio decidendi della sentenza
impugnata e perciò risulta inidoneo a poterne giustificare la cassazione,
agli effetti dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c.
Ciò assorbe l’eccezione dei controricorrenti di inammissibilità del ricorso
per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., con riguardo, cioè,
alla specifica indicazione degli atti e dei documenti su cui si fondano le
censure della ricorrente principale.
5.2. Deve aversi riguardo alla parte della sentenza d’appello che ha
statuito: “il messaggio di posta elettronica (nel caso concreto inviato
da Gi.Al. il 22.04.2008, alle ore 15.53, all'indirizzo di posta elettronica
dell'Agenzia Immobiliare ... [...@fiaip.it], recante il seguente testo:
Gent.ma Sig.ra Ma., accettiamo la proposta del sig. Co.. Resto in attesa di
un suo cenno. Cordiali saluti. Al.Gi.), non costituisce valida
manifestazione di accettazione della proposta d'acquisto formulata da Ro.Co.,
datata 19.04.2008”.
La ricorrente principale si sofferma esclusivamente sulla idoneità
dell’accettazione della proposta contrattuale formulata tramite messaggio di
posta elettronica privo di firma qualificata ad assolvere il requisito della
forma scritta, ex artt. 1350 e 1351 c.c.
Già questa conclusione è resistita dalla considerazione che, a norma
dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice
dell'amministrazione digitale), vigente all’epoca dei fatti di causa, “[i]l
documento informatico sottoscritto con firma elettronica qualificata o con
firma digitale, formato nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai
sensi dell'articolo 71, che garantiscano l'identificabilità dell'autore,
l'integrità e l'immodificabilità del documento, si presume riconducibile al
titolare del dispositivo di firma ai sensi dell'articolo 21, comma 2, e
soddisfa comunque il requisito della forma scritta, anche nei casi previsti,
sotto pena di nullità, dall'articolo 1350, primo comma, numeri da 1 a 12 del
codice civile”; mentre poi l’art. 21, comma 2-bis (come sostituito dal
d.lgs. n. 235 del 2010, e successivamente modificato dal d.l. n. 179 del
2012, dal d.lgs. n. 179 del 2016 e dal d.lgs. n. 217 del 2017) ha disposto
che “[s]alvo il caso di sottoscrizione autenticata, le scritture private
di cui all'articolo 1350, primo comma, numeri da 1 a 12, del codice civile,
se fatte con documento informatico, sono sottoscritte, a pena di nullità,
con firma elettronica qualificata o con firma digitale. Gli atti di cui
all’articolo 1350, numero 13) del codice civile redatti su documento
informatico o formati attraverso procedimenti informatici sono sottoscritti,
a pena di nullità, con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale
ovvero sono formati con le ulteriori modalità di cui all'articolo 20, comma
1-bis, primo periodo”.
Viceversa, il messaggio di posta elettronica (cd. e-mail) privo di firma
elettronica non ha l'efficacia della scrittura privata prevista dall'art.
2702 c.c. quanto alla riferibilità al suo autore apparente, attribuita dal
Codice dell'amministrazione digitale solo al documento informatico
sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale (Cass.
Sez. 6 - 2, n. 11606 del 2018; Sez. lav., n. 5523 del 2018).
E la sottoscrizione costituita dalla firma del dichiarante, cioè dal nome e
cognome scritti di suo pugno o quantomeno da una sigla caratteristica ed
identificabile, ovvero, in caso di documento informatico, dalla firma
elettronica avanzata, qualificata o digitale, rappresenta l'espressione
grafica della paternità ed impegnatività della dichiarazione che la precede,
la quale in mancanza non comporta la conclusione definitiva di un negozio
giuridico allorché la forma scritta sia richiesta ad substantiam.
Pertanto, una e-mail che contenga espressioni generiche di consenso (nella
specie: accettiamo la proposta del sig. Co.. Resto in attesa di un suo
cenno), ma sia priva della firma elettronica avanzata, qualificata o
digitale dei promittenti, non integra l'atto scritto richiesto dagli artt.
1350 e 1351 c.c.
5.3. Ciò detto sulla forma del contratto, i rilievi della ricorrente
principale neppure affrontano i problemi di contenuto essenziale dello
stesso.
5.3.1. E’ infatti noto che il diritto del mediatore alla provvigione sorge
allorché la conclusione dell'affare abbia avuto luogo per effetto
dell'intervento del mediatore stesso, e cioè quando tale conclusione possa
comunque ricollegarsi con rapporto di causalità adeguata all'attività
mediatrice.
A tal fine, non basta allegare per prospettare la conclusione dell’affare
tra Ro.Co. e i promittenti l’accettazione da parte di questi ultimi della
proposta di acquisto sottoscritta dal promissario compratore.
Infatti, per poter ravvisare la conclusione dell'affare, quale fonte del
diritto della mediatrice alla provvigione, non basta accertare la
sottoscrizione della proposta irrevocabile d’acquisto da parte
dell'aspirante acquirente, che offre un certo corrispettivo per l'acquisto
del bene, e nemmeno riscontrare che vi sia stata la conforme accettazione
del proprietario, che pur abbia dato luogo ad una puntuazione vincolante sui
profili in ordine ai quali l'accordo è irrevocabilmente raggiunto, e valga
perciò a configurare un “preliminare di preliminare”, secondo quanto
spiegato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 4628 del 2015.
Questa Corte ha piuttosto già chiarito che, al fine di riconoscere al
mediatore il diritto alla provvigione, l'affare può ritenersi concluso
soltanto quando tra le parti poste in relazione dal mediatore medesimo si
sia costituito un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire
per l’esecuzione specifica del negozio, nelle forme di cui all'art. 2932 c.c.,
ovvero per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del
risultato utile del negozio programmato (Cass. Sez. 2, n. 30083 del 2019;
Sez. 2, n. 39377 del 2021; Sez. 2, n. 15559 del 2022; Sez. 2, n. 15577 del
2022; Sez. 2, n. 17396 del 2022; Sez. 2, n. 20132 del 2022; Sez. 2, n. 24533
del 2022; Sez. 6-2, n. 28879 del 2022; Sez. 2, n. 7628 del 2023).
Non risulta quindi nemmeno prospettata dalla ricorrente principale una “conclusione
dell’affare” agli effetti dell’art. 1755 c.c., ovvero l'incontro della
volontà delle parti diretto a creare il vincolo giuridico costituito
dall'assunzione dell'impegno alla futura stipula del contratto definitivo in
base agli elementi essenziali individuati. |
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